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« Risposta #105 inserito:: Gennaio 15, 2009, 06:44:49 pm » |
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La strage delle donne
di Elena Doni
Provate a immaginare quanto spazio occupano 150 corpi stesi a terra. Se ci fosse l’obbiettivo di un tg sarebbe una carrellata a perdita d’occhio sulle bare allineate. Ma non c’è, non ci sarà mai lo shock di un telegiornale a documentare la strage delle donne in Italia: perché le morti, se non avvengono tutte insieme, «non fanno notizia», televisivamente parlando. E invece questa strage viene perpetrata goccia a goccia: una donna morta ammazzata ogni due giorni.
Nel 2006 le donne uccise da mano maschile erano state 112, nel 2007 sono salite a 149, per il 2008 l’elaborazione dei dati non è ancora ultimata ma siamo in grado di darvi l’anticipazione di quanto è avvenuto fino al mese di settembre: gli omicidi sono stati già 110, quasi quanti due anni fa in un intero anno. Il dato finale, probabilmente, non sarà diverso da quello del 2007. A questo vanno aggiunti i tentati «femminicidi». Tra gennaio e settembre sono stati 212.
Elaborando i dati dell’anno che è appena concluso, si può dire che più di quattrocento uomini hanno desiderato uccidere una donna e in molti casi ci sono riusciti. Donne che in genere conoscevano bene: ex-mogli, ex-fidanzate, ex-amanti. E a queste cifre che registrano gli atti di violenza estrema, vanno aggiunti quelli che riassumono episodi che ne sono il preludio: le violenze e i maltrattamenti. Cioè le botte, le lesioni, le ustioni, gli stupri, la costrizione a fare sesso con terzi, le minacce, e le ingiurie. Quelli che vengono denunciati. Le denunce sono in aumento, anche se si sa che non sempre le donne le presentano, specie se le violenze avvengono in famiglia. Cosa fanno le forze di polizia per aiutare le donne che hanno denunciato? Lo apprendiamo dal sito del Ministero dell’Interno. Nei casi di violenza domestica il 42,6% delle donne dichiara che hanno preso la denuncia, il 26,9% che hanno ammonito il colpevole, il 5,3% che il colpevole è stato arrestato. Ma poi solo nell’uno per cento dei casi è stato condannato dal magistrato.
Chi in pratica viene in aiuto alle donne che hanno subito violenze sono quei servizi specializzati ai quali viene avviato dalle forze dell’ordine lo 0,3% delle vittime. In Italia ce ne sono un centinaio, concentrati nel centro-nord. Il governo Prodi aveva destinato loro 20 milioni di euro, spariti nella nuova finanziaria: inevitabile quindi fare ricorso al volontariato, che ovviamente non consente di fornire continuità di assistenza. Tutti i centri antiviolenza denunciano un aumento delle violenze, quasi sempre domestiche, segnalando tuttavia che potrebbe trattarsi di un aumento delle denunce, dovuto ad una crescente consapevolezza delle donne: cioè del fatto che molte si sono ormai convinte che le violenze in famiglia sono un reato e non un destino crudele. L’associazione Solidea che gestisce centri a Roma e provincia ha registrato un aumento dell’utenza del 51% negli ultimi quattro anni.
L’avvocata Luigia Baroni, responsabile del centro antiviolenza del Comune di Roma, ha registrato 398 nuovi contatti nel 2006, 612 nel 2007, 648 nel 2008. Di donne italiane per il 65%, il restante di donne straniere: vittime al 45% di uomini italiani, per il resto di uomini dei quali non vogliono denunciare nome e origine..
Nel 2007, secondo i dati raccolti in tutto il territorio nazionale dalle forze di polizia 5.492 donne hanno subito maltrattamenti e fra queste c’erano 1321 straniere. Nei primi tre trimestri del 2008 le donne che hanno subìto percosse sono state 5721, quelle che sono state minacciate 28.709. Abbiamo visitato uno dei centri antiviolenza di Roma, in via di Villa Pamphili. Una grande casa luminosa e accogliente dove in questo momento abitano solo donne straniere. Non che manchino le italiane bisognose di aiuto, ma nell’ultimo periodo hanno tutte trovato alloggio presso famigliari o amici e al Centro vengono solo per ricevere assistenza legale e psicologica. «Le donne straniere sono molto più esposte alle violenze dei loro compagni, che siano immigrati o italiani conviventi», dice Emanuela Moroli, presidente di Differenza Donna che gestisce quattro centri antiviolenza a Roma e uno a Guidonia. «Sia gli uomini italiani che gli stranieri “dimenticano” infatti di mettere in regola le loro donne. Provvedono con attenzione a regolarizzare i propri figli, ma non si curano del permesso di soggiorno delle loro compagne, che sono così continuamente esposte al rischio di essere rimpatriate, senza i bambini naturalmente».
La punta dell’iceberg delle violenze compiute in Italia contro le donne è emersa nel febbraio 2007 quando l’Istat pubblicò una ricerca sconvolgente, durata quasi cinque anni, condotta su un campione di 25mila donne. «In particolare quella delle violenze in famiglia», dice Linda Laura Sabbadini, direttore centrale dell’Istat che ha coordinato quella ricerca, «è una realtà amara, che si scontra anche con la difficoltà da parte delle donne di riconoscere la violenza e considerarla un reato». E, a titolo personale, aggiunge: «le donne di tutte le estrazioni politiche dovrebbero unirsi, come già è avvenuto in passato quando la violenza passò da reato contro la morale a reato contro la persona, perché siano sviluppate campagne sistematiche e approvati provvedimenti di tutela. E si deve chiedere anche che ci sia una formazione adeguata del personale nei pronto soccorsi e nei commissariati. Se tutto questo non lo faranno le donne perché dovrebbero farlo altri al nostro posto?».
15 gennaio 2009 da unita.it
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« Risposta #106 inserito:: Gennaio 16, 2009, 11:26:00 pm » |
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16 Gen 2009
Le donne di Gaza
Notizie da Gaza. Aidos, l’associazione italiana delle donne per lo sviluppo, è riuscita dopo tanti giorni di inutili tentativi a sapere cosa succede laggiù, nel suo Centro per la salute delle donne di Bureij. Intanto, ha saputo che sono tutti vivi: Naima, la field worker, ha perso un familiare; la ginecologa, che è di di nazionalità russa, è riuscita a lasciare la città e a tornare al suo paese con i figli; Murad, l’addetta alle pulizie e Salwa, la contabile hanno cambiato casa, in cerca di un posto più sicuro. Il Centro è chiuso, ma è ancora in piedi; lì accanto l’ambulatorio dell’UNRWA è stato colpito e così il centro nascite. Racconta Murad: “Se poteste venire ora, a Gaza, non la riconoscereste più. Perfino mio padre non ha mai visto niente di simile”. E Feryal, la direttrice del Centro: “I bambini di notte dormono vestiti, così se devono scappare fanno prima”. Altre voci: Finalmente stanotte sono riuscito a dormire, ma solo perché sono crollato dopo una settimana. La vita è sospesa: non c’è più nessun ritmo a scandirla, è difficile organizzare qualsiasi cosa se hai luce e acqua per tre ore ogni tre, quattro giorni. I negozi sono chiusi, in quelli aperti il cibo comincia a scarseggiare, il latte, ad esempio, non si trova più. Gli aiuti dell’ UNRWA non bastano, solo pochi carichi riescono a entrare a Gaza durante le tre ore giornaliere di apertura e decine di camion aspettano al di là del confine. Stanno utilizzando armi chimiche che avranno effetti devastatnti sulle persone e sulla nostra terra. Queste le ultime parole di Murad: “Che futuro attende i miei figli? Li guardo e non so cosa sarà di loro”.
-------------------------------------------------------------------------------- 14 Gen 2009
Usciamo dal silenzio
Il 14 gennaio del 2006 Milano si preparava ad essere invasa dalle donne. Le cronache del giorno dopo diranno che erano duecentomila, quelle del giorno prima raccontavano di treni speciali, centinaia di pullman, delegazioni in volo dalle isole; e il colpo d’occhio sulla piazza del Duomo era davvero impressionante. Mamme e nonne che avevano fatto il femminismo insieme a ragazzine; professioniste, commesse, operaie e studentesse; donne di destra accanto a donne di sinistra. C’erano anche molti uomini, per la verità: graditi e discreti ospiti. Era stata, dopo tanti anni, la prima manifestazione nazionale delle donne con quel nome un po’ così - usciamo dal silenzio - che mi piace usare come slogan e come auspicio. Ed era stata una manifestazione bellissima: allegra, sentita, e aveva acceso la speranza che i temi che riguardano le donne potessero tornare in cima alla lista delle agende politiche, spinte da questo nuovo movimento. Tutto era partito con una e.mail, scritta da una giornalista ad un’amica. E tutto era partito per rispondere alle manovre per mettere e mani sulla legge 194, quella sull’aborto. Ma dopo è successo il miracolo che talvolta accade: tutto si è gonfiato, i numeri delle persone coinvolte e i temi. Ventimila contatti su Internet, 4.000 firme sotto un appello; la salute e i diritti, il lavoro e la parità. Rileggere le cronache di quei giorni ridà una sferzata di entusiamo. Però, tre anni dopo, rieccoci qua. A zero. Legge 40; RU486; Pacs, Dico, Di-Do.Re, o chiamateli come volete; sicurezza del lavoro; percentuali delle donne nei posti di potere, dal Parlamento ai cda delle aziende; perfino il numero di ore che le donne impiegano nei lavori di cura non è cambiato. Tutto è rimasto drammaticamente fermo. E allora, per inaugurare questo nuovo spazio, ho voluto scegliere quel ricordo e questo titolo. Perché sia un invito a cominciare da qui: facciamoci sentire, usciamo di nuovo dal silenzio.
da sasso.blogautore.repubblica.it
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« Risposta #107 inserito:: Gennaio 18, 2009, 11:47:39 am » |
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18/1/2009 (7:21) - IL PERSONAGGIO
Tutti i segreti di Rachida la donna che voleva il potere Rachida Dati è nata nel 1965. Dal 2 gennaio è mamma
La carriera da brivido della ministra
L’inseminazione per diventare mamma?
DOMENICO QUIRICO PARIGI
E’ successo pochi mesi fa. Nel suo ufficio di ministro della Giustizia. Il televisore va in panne. Catastrofe. Urla, strilli. Vengono convocati capigabinetto, alti funzionari; ahi, è una delle famose, terribili collere della signora ministro. Bisogna riparare il televisore e subito in pochi secondi, nel palazzo ce ne sono a decine ma che importa, lei, Rachida, vuole quello. Difficile da farsi, attorno a Place Vendôme c’è un quartiere dove è più facile trovare dei gioiellieri. Il capo gabinetto fa il miracolo: arriva in un baleno un tecnico.
Aposto, ci siamo, un minuto e il televisore della Guardasigilli è pronto. Ma... il poveretto deve fare anticamera due ore. Lei è fatta così, ha i suoi capricci. È allo stesso tempo disarmante e capricciosa, simpatica, non sgradevole». Gilles Gaetner, redattore capo al settimanale «L’Express» ha il talento del narratore e dispone di archivi di aneddoti, quelli che un tempo rendevano deliziose le ore con i vecchi cremlinologi. Specie scomparsa. Il suo soggetto è molto più glamour, è la Dati, la femme de pouvoir più famosa di Francia. Su di lei ha scritto un libro di successo, «Rachida Dati: et si on parlait de vous?», di grande successo. Le sue fonti sono i magistrati, i grandi nemici di madame, gli stessi che ogni tanto fanno scivolare ai giornali trappole avvelenate contro quella che considerano con livore in fondo soltanto una piccola sostituto di provincia.
Allora quali sono le ultime sulla Dati, grande mare di voci che ondeggia tra le redazioni dei settimanali, palazzi della politica e salotti della Rive Gauche? Allatta, garantisce la sua amica Bernadette Chirac che ha reso visita a Zohra, attualmente parcheggiata dalla sorella. La polemica sul troppo rapido ritorno al lavoro ministeriale è meno viscida ma non è scomparsa. Corrono stupefatte indiscrezioni sulle cadenze della sua giornata in ufficio alle sette e di ritorno a casa alle nove... ma come fa? Dopo le femministe, mugugnano le mamme: quella bimba crescerà trascurata! Sul fronte del padre si attende la annunciata «sorpresa» di gennaio: e se fosse, dopo tanti nomi e cognomi, una fecondazione in vitro? Attenzione, sui giornali impazza la polemica sul fatto che troppe donne in Francia ancora esitano a servirsene… Gaetner sorride: «La comunicazione è la sua forza, ha l’investitura del popolo, gioca la carta dell’opinione pubblica contro i suoi nemici i magistrati e lo stesso Sarkozy. Quando arriva in una città per le sue visite la gente si affolla per scandire: Dati, Dati. Come avevo annunciato non lascerà il governo per un seggio all’europarlamento, dice no, adesso si parla delle regionali: su una cosa state certi: non lascerà la politica tanto presto». E racconta come il simbolo della diversità ha scalato il potere, la storia di un moderno Rastignac: «Dati, nata povera, vuole riuscire, c’è in lei una fantastica volontà di rivincita sociale, è nata in provincia e vuole salire a Parigi per incontrare gente importante e famosa, sa che il successo passa di lì. Allora viene a sapere che c’è un ricevimento molto chic della ambasciata di Algeria in un hotel di Rue Castiglione, curioso destino è a trenta metri dal ministero della Giustizia. Riesce a imbucarsi e si fionda su Albin Chalondon, bell’uomo anche se non giovanissimo e soprattutto ministro della Giustizia del governo Chirac. Per combinazione si è appena documentata leggendo la sua biografia su Le Figaro. Lo incanta e ottiene un invito a pranzo. È l’uomo che l’ha guidata al ministero. Sa farsi notare, pranzo dopo pranzo. E la lista è lunga: altro party ed è la volta del miliardario Lagardère che le trova un lavoro, poi Simone Weil, poi Kouchner poi Sarkozy. Sì, è davvero Rastignac in gonnella che conquista la capitale. È una donna che non ha una grande cultura nel senso lato del termine ma che sente le cose, sente che quel tipo lì può avere un destino. Con Sarkozy ha fatto così».
Balzac dunque, anche se dichiara che il suo libro preferito è «Au bonheur des dames» di Zola perché, dice, lei si immedesima. E adesso eccola al potere. È tutto per lei, basta vedere come dice «l’Ufficio». «Sapete, ministro guardasigilli vuol dire tanto in Francia: è Napoleone, è l’Ottocento e Cambacérès. Lei sta lì se lo guarda con i suoi ori le dorature la pompa...». Quando il Presidente le annunciò che sarebbe diventata ministro guardasigilli si mise a piangere e lui le disse: «Piantala, non devi piangere, devi riuscire». «Il Presidente è suo mentore e padre, c’è una ammirazione reciproca anche se da parte di lui c’è dell’altro, le serve come simbolo della diversità al governo. Si è infuriato con lei ma c’è ancora tenerezza e riconosce a questa donna che ha fatto delle cretinate il merito di aver fatto passare le riforme. Dati è il suo clone». Con le donne di Sarkozy è più complicato: «Le relazioni con Cécilia erano come si sa molto buone. Lei è stata una seconda scelta, Sarkozy aveva deciso di affidare il ministero a Hubert Védrine che ha rifiutato e Cécilia gli ha soffiato il nome di lei. Con Carla? Le relazioni non sono buone anche se si sono evolute. Il fatto è che lei è cinica, ha gettato via Cécilia quando era uscita di scena.
E poi c’è la vicenda del settimo Arrondissement: elezioni per la capitale, lei annuncia che punta al consiglio comunale, al ruolo di braccio destro del possibile sindaco di destra. Per il quartiere strada aperta al sindaco uscente, tale Dumont, politico sperimentato e poco ambizioso. Vince la sinistra: addio sogni di vicesindaco, annuncia: sarò sindaco del Settimo! E il povero Dumont? Può farmi da vice!». E poi c’è la ostinazione, di essere ricevuta dal Papa in udienza privata. Perché? «Mai spiegato. Forse solo perché è un uomo che conta, che fa immagine. Rachida organizza un programma infernale: partenza da Parigi, pranzo con le donne ministro italiane, udienza in Vaticano. Alle cinque di nuovo a Parigi per una cerimonia ministeriale: l’ha fermata Sarkozy». Già la bimba, lo shopping da Dior (oggi un po’ in sordina) il ministero.
Come è possibile? «Sapete, un po’ scherzando si può dire che il vero ministro della Giustizia non è a Place Vendôme ma in rue du Faubourg Saint-Honoré 55 e si chiama Patrick Ouart: chi è? Mai sentito? Un magistrato, vera stoffa di grande funzionario dello Stato, vicino a Sarkozy: è lui che gestisce i dossier le nomine gli affari sensibili. A lei interessa solo la sicurezza e la politica penale».
da lastampa.it
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« Risposta #108 inserito:: Gennaio 18, 2009, 07:47:04 pm » |
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Unioncamere, le donne imprenditrici fanno meglio degli uomini
di Paola Toscani
ROMA (16 gennaio) - La crisi non ha fatto paura, almeno a loro: creative, disposte al sacrificio e competenti. È questo il ritratto delle donne imprenditrici tratteggiato da Unioncamere in occasione dell’Osservatorio semestrale sull’imprenditoria femminile.
Sono state oltre 5mila le nuove attività avviate da donne in un anno (giugno 2007-giugno 2008), si legge nel rapporto, cifra che sommata alle imprese già esistenti porta il numero di aziende in rosa a quota 1.243.824.
Il numero di ditte neonate è all’apparenza poco significativo (appena lo 0,45% del totale delle aziende esistente in Italia). Ma se messo a confronto con l’andamento pari a zero del tessuto imprenditoriale complessivo fotografato nello stesso periodo, il dato appare sotto un’altra luce.
Nel dettaglio, il saldo tra le imprese in rosa che aprono e chiudono i battenti è risultato positivo grazie alle quasi 12mila nuove ditte di capitali e alle mille società di persone che hanno compensato le 8mila iniziative individuali abbandonate. E il Lazio è in testa nella graduatoria delle regioni che hanno maggiormente contribuito al saldo positivo, con un’altissima concentrazione di attività avviate, pari al 46,6% di tutto il saldo nazionale, seguita da Lombardia e Campania.
Quest’ultima rappresenta tuttavia un’eccezione al quadro generale: dalla mappatura delle imprese neonate e in controtendenza rispetto al resto dello stivale, resta infatti escluso il Mezzogiorno d’Italia, con una contrazione delle attività in rosa dello 0,25%.
Ma dove scelgono di avventurarsi le donne imprenditrici? C’è chi abbandona le attività agricole (e sono 6mila le attività in meno in questo settore), e chi (in altrettanta misura) si orienta verso i servizi alle imprese, ad esempio in campo immobiliare o nell’informatica.
Determinante per il successo dell’imprenditoria in rosa è stato il contributo delle donne immigrate: delle nuove attività, due su tre sono state avviate da extracomunitarie. Quasi 4000 su un totale di 5.523.
Le nazionalità più rappresentate nell’universo imprenditoriale femminile in Italia sono quella cinese (12.152), marocchina (3.725) e nigeriana (2.947).
Per numero di presenze di capitane di impresa immigrate, il Lazio, con il 9,6%, è terza dopo la Toscana (10,8%) e la Lombardia (15,6%).
da ilmessaggero.it
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« Risposta #109 inserito:: Gennaio 22, 2009, 03:28:18 pm » |
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Walchiria, Marisa e le altre: la Resistenza delle donne
di Gabriella Gallozzi
Persino Al Jazeera l’ha raccontata. Un bel documentario sulla resistenza italiana dando voce alle donne, trasmesso per il mondo arabo qualche anno fa. E da noi? Ci si ricorda giusto per le feste comandate. E il punto è sempre quello, ieri come oggi: «Il maschilismo... Altroché se c’era. Seppure noi rischiavamo la vita come i nostri compagni, dovevamo sempre dimostrare di essere più capaci degli uomini». Oggi Walchiria Terradura, medaglia d’argento al valor militare, ha 85 anni e ancora il piglio della combattente. Gli occhi verdi si accendono di una luce ancora più viva quando segue il filo della memoria. Ricordi di partigiana, di «ragazza col fucile» che durante la resistenza sui monti del Burano ha comandato una squadra di sette uomini (Il Settebello) che faceva parte della brigata Garibaldi-Pesaro. «Quando mi hanno scelto a capo della squadra - racconta - Gildo, uno dei compagni, per solennizzare l’avvenimento, mi regalò una pistola dicendo: “Ti avrei dovuto offrire dei fiori, ma vista la situazione... A primavera coglierò per te i più belli”».
Walchiria non è che una delle protagoniste, come tante altre partigiane, staffette e contadine, di questa pagina di storia, la resistenza, che, nonostante la «sordina» della storiografia ufficiale, oggi è noto: non si sarebbe potuta compiere senza l’intervento delle donne. E i numeri parlano chiaro: 35.000 partigiane nelle formazioni combattenti, 20.000 staffette, 70.000 organizzate in gruppi di difesa. 638 le donne fucilate o cadute in combattimento, 1750 le ferite, 4633 arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti, 1890 le deportate in Germania. Cifre che «raccontano» per difetto. Perché come spiega la stessa Terradura, «quella delle donne è stata una partecipazione diffusa, spontanea. La contadina che ci dava un piatto di minestra, o ci faceva nascondere in casa rischiava la vita proprio come noi».
Eppure questa è stata una memoria taciuta a lungo. «E quante sono ancora oggi le donne della resistenza rimaste nell’ombra?», commenta Teresa Vergalli, classe 1927, della provincia di Reggio Emilia e autrice del libro Storie di una staffetta partigiana «A parte i nomi celebri di coloro che dopo la guerra hanno incrociato la strada della politica, tante partigiane sono state zitte. In certi casi sono stati gli stessi mariti che non avevano piacere se ne parlasse. C’era addirittura una sorta di vergogna, soprattutto per quelle poverette che sono state torturate....». Invece dell’indignazione contro i torturatori la «vergogna». Alle donne, infatti, scrive Teresa, nome di battaglia Annuska, «venivano riservate cose terribili. Di cui i particolari li abbiamo saputi a guerra finita». Tanto che lei teneva sempre con sè una piccola pistola «con la quale mi illudevo mi sarei potuta tirare un colpo alla testa nel momento mi avessero catturata o torturata». La paura di essere prese era costante. Eppure per molte la scelta di stare contro il nazifascismo era «naturale». Come racconta Luciana Baglioni Romoli, partigiana romana «bambina». Il suo primo atto di «ribellione» fu alle elementari quando la sua maestra, «ligia alle leggi razziali», legò per le treccine ad una finestra della classe una ragazzina ebrea. Per Luciana fui istintivo «scagliarsi contro l’insegnante» e guidare la «rivolta». Il risultato fu l’espulsione da scuola e da lì, negli anni successivi, il suo sostegno alla resistenza romana: «in bicicletta - racconta - a portare messaggi o a buttare i chiodi a tre punte per le strade per far scoppiare le ruote dei nazisti».
Un po’ come è accaduto alla più «nota» Marisa Rodano, che scelse la strada del Pci: «Non sono discesa da una tradizione familiare - racconta -, anzi mio padre aveva fatto la marcia su Roma. Ho cominciato all’università, dopo aver visto cacciare due studenti colpevoli di essere ebrei. Con alcuni compagni abbiamo costituito un piccolo gruppo, nel 1943 sono stata arrestata per la pubblicazione di un foglio comunista, si chiamava Pugno Chiuso, era il primo numero e sarebbe rimasto l’unico. Il 25 luglio sono uscita dal carcere e di lì a poco sono entrata nella Resistenza». Sono tanti i ricordi delle donne. E pieni di coraggio. «Nell’aprile 1945 ero incinta, il mio compagno era appena stato ammazzato dai fascisti - racconta Lina Fibbi, tra le fondatrici dei Gruppi di Difesa delle donne, sindacalista e poi parlamentare del Pci. «Longo mi incaricò di smistare a Milano l’ordine di insurrezione generale del Cln. Io andai: in bicicletta, con il pancione e con una grande paura». Ma erano scelte. Come conclude Teresa Vergalli: «Ora si guarda con una certa comprensione ai ragazzi di Salò, perché anche loro sarebbero stati in buona fede. Ma anche noi partigiani eravamo ragazzi, e stavamo dalla parte giusta! Quella della pace. Ed è una differenza che non bisogna mai dimenticare».
La storia delle partigiane l’ha raccontata da cineasta anche Liliana Cavani, classe 1933: il suo viaggio nella liberazione al femminile l’ha comppiuto nel ‘64 con Le donne della resistenza, straordinario documentario realizzato per la Rai. «Le donne nella resistenza hanno avuto un ruolo fondamentale - racconta Cavani -, erano contadine, operaie, borghesi che sceglievano la lotta in piena coscienza: non solo contro il fascismo e gli occupanti nazisti, ma anche per rivendicare il diritto alla loro partecipazione attiva nella società che si sarebbe costruita».
22 gennaio 2009 da unita.it
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« Risposta #110 inserito:: Gennaio 22, 2009, 03:36:22 pm » |
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LE SCELTE DI MICHELLE OBAMA
Una meringa crollata all'ora X
È arrivata in Campidoglio in un tailleurone luccicante.
Ed è affondata la sera con un terrificante abito disneyano
Maria Laura Rodotà
WASHINGTON — Ma perché una poveretta deve fare una vita da mediano (seppur di successo) per 45 anni, deve studiare-lavorare-affrontare il residuo razzismo americano, fare sacrifici, aiutare un marito ad arrivare alla Casa Bianca, perché deve fare tutto questo per diventare, nelle discussioni di mezzo pianeta, la tizia che ha sbagliato vestito? Va bene; Michelle Obama di vestiti ne ha sbagliati due, quello del giuramento e quello dei balli.
Va benissimo, la vita di Michelle Obama; in giro ci sono donne con afflizioni più serie. Però un po' dispiace, per lei. Invece di criticarla vale la pena di ammettere/ ammettersi che non è un gran traguardo fare la first lady, di questi tempi. E c'è poco da dire e da tentare di riconfigurare il ruolo; spiegando che Michelle O. sarà un modello per le ragazze, che si occuperà molto delle mamme lavoratrici, che eccetera.
Michelle è già un modello: è molto nera e molto grande ed è la prima dama del paese. La percezione di sé stesse di tante afroamericane e ispaniche, si prevede, cambierà. Per il resto, ahimè, tutto quello che ci si aspettava in queste giornate era che portasse con grazia svariati vestiti.
Lei è andata benissimo all'inizio, è rimasta la Michelle preelettorale; alternando cappotto di cammello da distinta professionista e jeans e cardigan avvitato da ragazza quarantenne. Ma è crollata all'ora X, arrivando in Campidoglio in un tailleurone luccicante. Ed è affondata la sera in cui era la bella del ballo, di dieci balli, scegliendo un terrificante abito disneyano con tulle-ruches-balze; che raddoppiavano il volume (della first lady) e le davano un'aria da meringa. A dir poco, un errore. Sui cui i comici si sono buttati subito. E' difficile fare satira su una coppia nera e fiera; però i vestiti delle femmine non sono argomento politicamente scorretto e spesso fanno ridere.
Così le hanno dato del pacco regalo, hanno detto che in Campidoglio portava «tappezzeria inaugurale» e così via. Giornali amici e tv hanno fatto finta di niente; hanno intervistato i due stilisti poco noti e ora felici, Isabel Toledo autrice del tailleur catarifrangente e Jason Wu responsabile dello scellerato abito da sera, esaltando il gusto di Michelle e la sua bravura nello scegliere dei giovani e nel promuovere l'abbigliamento americano.
C'è anche qualcuna (più qualcuna di qualcuno) a cui sono piaciuti veramente.
Poi c'era Michelle, che palesemente non si è goduta il vestito da meringa, era troppo stanca, l'altra sera.
22 gennaio 2009 da corriere.it
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« Risposta #111 inserito:: Gennaio 25, 2009, 04:46:58 pm » |
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25/1/2009 (8:39)
La carica delle quarantenni: una nuova mafia si prende la tv
Ieri "tardone", oggi protagoniste
ADRIANA MARMIROLI MILANO
Tardone. Così le cantava con bonaria ironia il «signore di mezza età» Marcello Marchesi nei primi anni 60. Da allora molto è cambiato nel «comune sentire» verso chi ha passato la boa strategica degli anta. I quaranta, una volta debacle della femminilità, sono ora anni di massimo fulgore: estetico, intellettuale, esistenziale. Una donna a quell'età ha consapevolezza, potere e fascino. La moda l'aiuta. I ritocchi chirurgici l'aiutano. L'allungarsi della vita l'aiuta. Aiutano i modelli del momento: Rachida Dati, Carla Bruni, Michelle Obama, nate intorno alla metà degli anni 60. Come loro tante signore della tv, che, ancora una volta molto più del cinema è testimone di questa mutazione.
Solo una decine di anni fa, le protagoniste belle e spigliate, rampanti e aggressive, erano le trentenni. Come quelle di Sex & the City: Carrie, Charlotte e Miranda e le loro interpreti Sarah Jessica Parker, Kristin Davies e Cinthia Nixon avevano all'inizio della loro avventura circa trent'anni. Solo Samantha/Kim Cattrall aveva una decina di anni in più: che fosse la più sexy e scatenata voleva forse già dire qualcosa? Dieci anni dopo, i telefilm che dalla loro serie hanno in qualche modo preso le mosse mettono in scena non più le loro coetanee di allora, ma quelle attuali: delle splendide quarantenni. Magari sull'orlo di una crisi di nervi, ma sempre invidiabili. Prendiamo le due serie che assomigliano di più a Sex and the City, i «cloni» che i network Usa hanno generato per riempire il vuoto creato dal prototipo Lipstick Jungle e Cashmere Mafia (in onda la prima dal 5 febbraio su Foxlife, la seconda dal 25 febbraio su Mya): entrambe ambientate a New York in un mondo glamour, scintillante, modaiolo, entrambe hanno per protagoniste donne di successo, unite da forti rapporti di amicizia e solidarietà, magari con problemi in famiglia e nel lavoro, ma comunque dotate di una solida sicurezza in se stesse e nella propria bellezza. In Lipstick Jungle le interpretano Brooke Shields, Kim Raver e Lindsay Price; in Cashmere Mafia Lucy Liu, Frances O'Connor, Miranda Otto e Bonnie Somerville. Con l'eccezione di Lindsay Price e Bonnie Somerville, tutte saldamente iscritte alla «mafia» televisiva delle quarantenni.
Anche quell'altra saga femminile di gran successo che è Desperate Housewives mette in scena questa generazione: lo sono Teri Hatcher, Marcia Cross, Felicity Huffman e Nicollette Sheridan. Con la sola eccezione di Eva Longoria, la bomba sexy che l'ideatore della serie Marc Cherry si è divertito a imbruttire e ingrassare nella quinta stagione (attualmente in onda su Foxlife). Sono un po' più mamme e meno business-woman, conoscono qualche cedimento nella loro amicizia, ma non per questo sono meno toste e «vincenti» nei confronti di uomini anche loro quarantenni, ma al di sotto delle aspettative femminili, giuggioloni o bamboccioni che dir si voglia. Se queste fanno blocco, poi si sono altre lady quarantenni che in ordine sparso hanno colonizzato la serialità americana: la mamma per amica Lauren Graham, tanto spesso più giovane della figlia; la mamma-vedovella spacciatrice d'erba Mary-Louise Parker; la lesbo-mamma Jennifer Beals; la divorziata alla riscossa Debra Messing di The Starter Wife; la tetragona Mariska Hargitay di Law & Order-SVU, la volitiva Lisa Edelstein di House, la Joely Richardson moglie-amante dei chirughi plastici di Nip/Tuck, sola donna a «sopravvivere» senza ritocchi e senza fulgore dei 20 anni nelle vite dei due protagonisti. E 40 anni li compie il 28 gennaio anche l'eterea Kathryn Morris, alias detective Lilly Rush di Cold Case. Vero, in qualche caso si tratta di attrici «invecchiate» con serie quasi decennali, ma resta il fatto che spesso hanno sopportato meglio le «ingiurie del tempo» delle figlie telefilmiche o dei loro partner maschi. Una generazione d'attrici compatta, con una lunga carriera alle spalle, un nome noto e, spesso, qualche stop & go proprio nei dintorni dei difficili trenta. Per loro, come per molte donne nella vita vera, i quaranta sono stati ruggenti, una età di leggerezza, il momento di seconda imperdibile occasione. Che alle loro mamme «tardone» non era concessa.
da lastampa.it
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« Risposta #112 inserito:: Gennaio 26, 2009, 10:01:44 am » |
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26/1/2009 Donne GIOVANNA ZUCCONI
Proprio mentre un uomo anziano fa battute stantie sugli stupri, una giovane donna conversa con uguale brillantezza di questioni di Stato e di cappellini. Nello stesso preciso momento, ecco al centro della scena mediatica il potere maschile più calcinato e provinciale, e il vero glamour internazionale. Dicono: le donne fanno notizia (Carla, Michelle, Hillary, Rachida, Maria, Veronica, Tzipi). E ci mancherebbe altro, sarebbe l’unico commento da fare. Ma forse non è come sembra, non è questione di maschi e di femmine, di ribalta conquistata, di rivalsa. Forse è piuttosto questione di nuovo e di vecchio, di giovani e di vecchi. D’improvviso il vecchio (il vecchio politico e la vecchia politica) sembra vecchissimo. E il nuovo ha una fluidità, una souplesse direbbe Carla Bruni, tutta femminile.
Ai vecchi tempi, nel vecchio mondo che oggi appare vecchissimo, i ruoli erano ben separati. Di qua il potere, di là l’estetica e l’eros. Le donne delle quali i giornali parlavano erano star del cinema, mogli mute, imperatrici ripudiate, vallette: la bellezza senza il potere, tutt’al più al suo fianco come Jackie con Kennedy. Poche le eccezioni, e di nicchia: qualche intellettuale, ma gli intellettuali non contano (figuriamoci le intellettuali). Le rare donne che agivano sul terreno del potere vero e visibile si maschilizzavano, erano «donni». Diciamolo brutalmente: erano brutte o dovevano fingere di esserlo, toste fino al parossismo. Margaret Thatcher, Golda Meir, Tina Anselmi eccetera.
Anche i giornali, nel vecchio mondo, avevano ruoli separati. I femminili parlavano del femminile, moda, bellezza, glamour, gossip. Tutti gli altri, viceversa. Oggi invece trovi l’impegno politico nei cosiddetti femminili, e non c’è virile telegiornale o quotidiano che non sfarfalli nel privato, nel fru-fru, nel pettegolezzo, nella gastronomia, nel patinato; che non rincorra la leggerezza. Si sente ripetere che la politica, o almeno la sua rappresentazione sui media, si è femminilizzata, provando a sconfinare nella vita personale e nel dettaglio modaiolo. E (causa o effetto) anche l’informazione si è femminilizzata. La nuova informazione, per dirla con parole anch’esse nuove, è transgender. Scavalca i generi, le proprie sedi tradizionali, i linguaggi consolidati.
Ebbene. A fare cose femminili, le donne sono più brave degli uomini. Se percepiamo come nuovo e giovane ciò che è capace di scivolare con naturalezza fra pubblico e privato, di mescolare e includere, di ricoprire ruoli diversi in contemporanea, questa è una fatica che le donne sono da qualche millennio allenate a fare. Forse per questo sembrano dominare la scena mediatica. Se l’ultima zampata della vecchia informazione e della vecchia politica morenti sono state le fotografie di Hillary Clinton rugosa (mai avrebbero tentato di demolire un maschio di potere per la sua bruttezza), oggi gli schermi e le prime pagine ci informano che il nuovo sono il flessuoso Obama e Michelle, non solo moglie ma coprotagonista, che può sfoggiare vezzosi guanti verdi senza perdere statura. E la modella e cantautrice italiana che è diventata première dame presidenziale, e sa parlare di terrorismo proprio come dell’incertezza sul berrettino da indossare in visita dalla regina d’Inghilterra. E l’israeliana Tzipi Livni, belligerante senza imbarazzi femminei. E la ministra francese Rachida Dati, anche lei campionessa di doppie vite, maternità e potere, che tornando a lavorare a pochissimi giorni dal parto ha riaperto la discussione appunto sul corretto gravame di ruoli e fatiche. E mettiamoci anche Maria De Filippi, che era la giovane moglie del vecchio potente conduttore e adesso è talmente «nuova» da riuscire a demolire l’ultima barriera, quella fra reti televisive in (presunta) concorrenza. (A proposito di uomini e donne: ricordate com’era imbarazzante Fassino che tentava di fare lo sciolto proprio da Maria De Filippi).
Un’ultima cosa. Dicono: le donne fanno notizia, nel bene e nel male. Accanto al giovane potere glamour, in prima pagina ci sono anche gli stupri. Ma quello è il delitto più maschile che c’è. Quanto di più vecchio, e pesante, e da rottamare, in un uomo. Soltanto un vecchio politico può invocare, su questo, una leggerezza che non fa sorridere nessuno, e nessuna. da lastampa.it
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« Risposta #113 inserito:: Gennaio 28, 2009, 03:02:29 pm » |
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La storia «Quando mi vedono per strada mi chiamano la pentita»
La «maestra di Saviano»: per le mie accuse ai boss ho perso lavoro e amici
La donna che ha scelto di testimoniare denunciando un killer ora si dice delusa: mi hanno abbandonata
«Quei cinque spari li ricordo come se fossero esplosi nella mia testa. Dopo il primo mi voltai, vidi la pistola che fiammeggiava, la faccia del ragazzo armato e quell'altro nell'ombra. "Hai fatto?", gli chiese. "Sì, sì tutto a posto. Vai, vai». Una sgasata, lo scooterone T-max filò via lasciando a terra un uomo di mezz'età, il sangue ovunque, una maschera di terrore stampata in faccia. Nei luoghi di mafia si cerca di dimenticare episodi di questo tipo. Eppure Carmelina ricorda ogni singolo dettaglio di quella notte. Erano da poco trascorse le 2 del 14 agosto 2003. Nel patio di un bar di Mondragone (Caserta), si consumò l'omicidio di Giuseppe Mancone, spacciatore in rotta coi boss. Lei era lì ma per i killer contava quanto una sagoma grigia al poligono di tiro. E di solito le sagome non parlano. Carmelina, invece, ha visto e non ha voluto dimenticare.
Dopo qualche giorno la donna delle pulizie con il diploma da maestra ha riconosciuto l'assassino. E quando lo hanno arrestato lei ha riempito con furia un borsone ed è volata via tra quattro agenti su un un'auto civetta. Di Carmelina non si è saputo più nulla per cinque anni. Poi, lo scorso settembre, «la maestra di Mondragone» è riapparsa in un articolo di Roberto Saviano per la Repubblica. Quindi è stato il pm Raffaele Cantone a parlare di lei nel suo libro Solo per giustizia. Ilmagistrato che ha indagato sul delitto Mancone l'ha definita «una rosa nel deserto».
Perché pur conoscendo i rischi della denuncia, ha confermato le accuse in primo grado e poi in Appello, contribuendo alla condanna di Salvatore Cefariello, malavitoso di 24 anni. Da quando ha assunto una nuova identità ed ha lasciato il paese, Carmela vive in silenzio. Ma oggi, senza soldi e senza lavoro perché nessuno assume chi si è messo contro il clan, ha deciso di raccontare la sua storia e la sua decisione di abbandonare il programma di protezione per le delusioni avute dai rappresentanti dello Stato. A casa di una delle rare amiche che le sono rimaste, non casualmente la figlia di un carabiniere, rigira tra le mani una foto in bianco e nero. È lei, più magra, bionda, sorridente: «La scattarono soltanto qualche giorno prima di quella notte. Com'ero bella...».
Testimoniando ha dovuto abbandonare casa, lavoro, famiglia e gli amici che le hanno subito voltato le spalle. Dentro di sé portava il figlio dell'uomo che l'aveva lasciata. E si è dovuta privare anche di quello: «Pensai che non avrei potuto portarlo in fuga con me», sospira ora. Da allora quella forma di latitanza che è la vita sotto protezione è diventata un calvario: «Chiesi di incontrare uno psicologo, ma fu possibile solo dopo mesi». All'inizio la fecero rimbalzare da un albergo dove le servivano minestre con i vermi a minuscoli paesini dimenticati da Dio. Come se non bastasse, il ministero le pagava lo stipendio da pentito, 800 euro circa, e non quello da testimone, che è quasi il doppio. In provincia di Cesena, dove le avevano trovato una casa, cercò un lavoro. Ma dal Nop, l'ufficio interforze che segue testimoni e collaboratori, secondo il suo racconto invece che aiuti arrivavano insulti: «Un giorno un funzionario, sbattendo i pugni sul tavolo mi disse: "sei un peso per la società". E un'altra volta: "Se non hai i soldi vai a mangiare alla Caritas".
Eppure chiedevo soltanto un'auto, indispensabile per lavorare. Bastava un anticipo sulla capitalizzazione, ma si guardarono bene dal dirmelo». La situazione a casa intanto precipitava: i nonni morti, il padre ammalato di tumore ai polmoni, la madre epilettica e iper-obesa. E l'unico che avrebbe potuto contribuire economicamente, il fratello imbianchino, non trovava lavoro: «Sei il fratello dell'infame, non ti vogliamo» gli dicevano. Tormentata dal ricordo di quel bimbo perduto e in angoscia per la famiglia, tentò anche il suicidio. Toccato il fondo, Carmelina non ha più voluto saperne del programma di protezione: ha incassato 200mila euro di liquidazione e si è riavvicinata a casa senza tornare in Campania. I soldi li ha dilapidati in pessimi investimenti e il resto se n'è andato con le spese mediche dei genitori. Ora non ha più un centesimo. Non le è rimasta che la famiglia. Lei, la sorella, il fratello e i genitori malati, vivono tutti con la pensione di 440 euro del padre. Quelle rare volte che si fa vedere a spasso per Mondragone, la gente si dà di gomito puntando il dito: «La vedi? Quella è la pentita».
Antonio Castaldo 27 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #114 inserito:: Gennaio 30, 2009, 02:53:01 pm » |
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30/1/2009 Le Lilly italiane aspettano PIETRO GARIBALDI Barack Obama, con un atto di grande valenza simbolica, ha dedicato alla parità salariale tra uomini e donne la prima legge della sua presidenza. La nuova legge, firmata davanti alla tv, è dedicata a Lilly Ledbetter, una lavoratrice della Goodyear che ha scoperto dopo anni di servizio di ricevere una paga inferiore a quella dei colleghi maschi per il solo fatto di essere donna. Per ovvie ragioni storiche, la legislazione sul lavoro negli Stati Uniti è particolarmente attenta contro ogni forma di discriminazione. In aggiunta, la legge sulla parità salariale era stata una delle questioni più dibattute durante la campagna elettorale ed è particolarmente cara ai sindacati e alle elettrici che hanno appoggiato in massa Barack Obama. Quando poi si guardano i dati, si scopre che effettivamente le donne negli Stati Uniti sono pagate circa il 25% in meno degli uomini. Questa grandissima differenza non è però di per sé sufficiente a dimostrare che esista davvero discriminazione sul posto di lavoro. La differenza potrebbe essere dovuta ad altri fattori, quali un diverso grado di istruzione, diversi livelli di esperienza e diverse mansioni. Sarebbe un grave errore pensare di poter ignorare questi fattori imponendo lo stesso salario a donne e uomini per via legislativa. Tuttavia, il rischio di discriminazione è serio ed è giusto garantire alle donne ogni possibilità di ricorrere al giudice, come cerca di fare la legge firmata ieri dal presidente Usa. In Italia si potrebbe supporre che le donne non siano in realtà così discriminate. Mentre sappiamo che l’occupazione delle donne è particolarmente bassa, il loro reddito, quando lavorano, non è molto diverso da quello degli uomini. Se negli Stati Uniti e nel Regno Unito le donne in media guadagnano il 25% in meno degli uomini, in Italia la differenza nel salario medio di uomini e donne è invece solo del 10 %. Si potrebbe quindi ritenere che il nostro mercato del lavoro renda sì difficile alle donne lavorare, ma tratti in modo relativamente uniforme in termini di retribuzione i lavoratori e le lavoratrici. In un recente studio Barbara Petrongolo e Claudia Olivetti hanno mostrato che le cose non stanno affatto così. Le poche donne occupate in Italia sono in realtà quelle che sono riuscite a superare una grandissima barriera all’entrata. Sono mediamente molto più istruite e molto più qualificate degli uomini. Le donne poco istruite o con potenzialmente bassi salari semplicemente non lavorano del tutto. Una volta che si tenga conto di queste caratteristiche di uomini e donne occupate, il differenziale salariale in Italia diventa tra i più elevati in assoluto. A parità di istruzione ed età, il differenziale salariale fra uomini e donne è circa del 26 %: gli uomini guadagnano oltre un quarto di più delle donne. Anche in Italia bisogna quindi tenere la barra alta per cercare di evitare ogni forma di discriminazione sul lavoro tra uomo e donna. Alla luce dei bassi tassi di occupazione femminile, si deve innanzitutto facilitare l’entrata delle donne nel mercato del lavoro. Oggi sappiamo benissimo che l’entrata nel mondo del lavoro delle donne, come quella dei giovani, avviene quasi sempre in condizioni precarie, generando un ulteriore elemento di discriminazione. Questi gravi problemi non si risolveranno con un semplice intervento legislativo, ma richiederanno innanzitutto un’economia e un mercato del lavoro in crescita. Anche con un’economia in recessione e la disoccupazione che rischia di aumentare, non possiamo permetterci di far finta che questi fenomeni non esistano. Sarebbe interessante sapere che cosa ne pensa in proposito il ministro per le Pari Opportunità. pietro.garibaldi@unito.it da lastampa.it
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« Risposta #115 inserito:: Gennaio 30, 2009, 10:46:47 pm » |
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Una nuova Rosa Parker?
di Silvia Ballestra
Lilly Ledbetter finirà sui libri di storia. Certo, anche il nome di Rosa Parker non era famoso finché un giorno di dicembre del 1955, in Alabama, si sedette in autobus in un posto riservato ai bianchi. Da lì si partì, e non è male pensarlo quando si guarda Obama in tivù. Lilly è un’altra storia, ma se ci pensate è la stessa storia, e bella pure questa. Lilly Ledbetter ieri era alla Casa Bianca, dove il nuovo presidente Usa ha firmato la sua prima legge. E la prima legge del primo presidente nero non poteva che essere una legge contro la discriminazione. Non razziale, questa volta, ma l’odiosa discriminazione di genere, che ancora resiste e persiste, ovunque nel mondo. E da ieri, un po’ meno.
La prima legge Obama facilita le cause di lavoro per chi denunci discriminazioni: non più 180 giorni di tempo per fare denuncia, ma un periodo più lungo. Come dire, aumentare la difesa dei discriminati contro i discriminatori. E lei, Lilly, manager alla Goodyear, ci aveva messo vent’anni a scoprire di essere pagata meno dei suoi collegi maschi, pagati di più solo perché, appunto, maschi. Una bella rivincita, assistere alla firma di questa legge dopo che la corte Costituzionale, nel 2007, le aveva sbattuto la porta in faccia.
E una bella rivincita le parole di Obama: «Ho firmato questa legge per le mie figlie e per chi verrà dopo di noi. La parità salariale non è solo una questione economica per milioni di americani e le loro famiglie, è una questione di chi siamo, se viviamo veramente secondo i nostri ideali». Se era un segnale, è arrivato forte e chiaro, e tutte le donne d’America lo hanno sentito. Lo si sentisse anche qui, dove le disparità salariali di genere resistono, persistono e continuano ad umiliare, sarebbe davvero una buonissima notizia.
30 gennaio 2009 da unita.it
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« Risposta #116 inserito:: Febbraio 02, 2009, 11:13:58 am » |
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Iran, le donne chiedono diritti e finiscono in cella
di Cesare Buquicchio
Chiedeva una firma Nafiseh Azad. Nient'altro che una firma per una petizione volta a cambiare le leggi islamiche che, in Iran, limitano i diritti delle donne come lei. Ma Nafiseh Azad è stata bloccata dagli agenti dei servizi di sicurezza ed arrestata mentre con la sua petizione raccoglieva firme fra i gitanti a Darrakeh, sulle montagne a nord di Teheran, meta di escursioni di giovani e famiglie durante i fine settimana. Con lei sono state arrestate altre due attiviste.
Sono decine, nel paese che ieri festeggiava i 30 anni dalla rivoluzione islamica guidata dall'ayatollah Ruhollah Khomeini, le attiviste femministe imprigionate e condannate negli ultimi due anni per aver preso parte a questa campagna, denominata «Un milione di firme» dal numero di adesioni che intendono raccogliere per la loro iniziativa. Sono soprattutto le leggi in materia di divorzio e di custodia dei figli che questa campagna mira a modificare. «Su questi temi siamo considerate delle cittadine di seconda categoria» spiega Sussan Tahmasebi, una delle leader del movimento nato dopo che una manifestazione, il 12 giugno 2006, fu soffocata dalla violenta reazione della polizia di Teheran.
L'ondata di arresti delle ultime settimane, secondo le organizzatrici della campagna, è una forma di pressione che le autorità stanno intensificando in vista delle manifestazioni programmate per l'8 marzo, Giornata Internazionale delle Donne. Ma, fa anche parte della repressione di voci critiche alla presidenza Ahmadinejad, già sotto accusa dalla comunità internazionale per il suo programma nucleare. Lo scorso autunno anche una femminista iraniana-americana, Asha Momeni, era stata incarcerata per quattro settimane per avere realizzato un documentario sulla campagna. E, pur essendo stata rilasciata, non le è stato ancora consentito di fare ritorno negli Usa.
01 febbraio 2009 da unita.it
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« Risposta #117 inserito:: Febbraio 02, 2009, 11:27:04 am » |
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2/2/2009 Anatomia di un crimine
GUIDO CERONETTI
Ho inteso, dalla sua stessa voce, il Presidente del Consiglio associare ipoteticamente stupro a «bella ragazza», e faccio questa nota per inquadrare con meno imprecisione il fenomeno in questione, psicologicamente e criminologicamente tra i più complessi e inafferrabili.
Quando leggiamo, nella storia delle origini di Roma, del ratto delle Sabine, sarà bene toglierci la benda del pulito ricordo scolastico e degli svolazzi neoclassici. Fu un fattaccio turpe. Bande di bruti raccogliticci, chiamati da un Caino del Latium, sfuggiti ai castighi o scacciati dalle più antiche e civili città meridionali, tutti maschi esasperati dal bisogno di femmina (tentigine rupti), decidono di compiere spedizioni notturne nelle campagne abitate dai Sabini, a Sud delle loro tane da lupe (dove cuocevano all’aperto, per sé soli, polente di farro e pezzi di pecora), e seminano il terrore nei villaggi, stuprando bestialmente, prima che i loro uomini si radunassero, povere donne mal nutrite e mal lavate, una parte delle quali, per la vergogna e per sottomissione alla forza, li seguirono. Ne venne fuori un popolo che aveva nel sangue la violenza e la guerra, e la madre dei Gracchi, e il divino Cesare...
La storia dello stupro è infinita, e solo modernamente è entrato nelle legislazioni, che lo puniscono recalcitrando, quando non sia seguito da assassinio. In Italia è «reato contro la persona» solo da pochissimo tempo. Ma in nessun caso la bellezza della vittima ne è il movente, vorrebbe dire che lo stupratore, solitario o in branco, ci vede e fa una scelta. Lo stupratore è accecato dal sesso, non dal volto, di cui gli interessa esclusivamente quanto esprima terrore, ribrezzo, impotenza, sgomento, umiliazione. Fortissima sempre in questi inconsci di guazzabuglio è la volontà di umiliare, di insozzare un santuario, di sfogare odio etnico, di far nascere figli di quest’odio (molto chiaro nelle guerre balcaniche di fine XX). La donna del nemico militare è sempre, nonostante i divieti (ma spesso con comandi complici) da umiliare sessualmente. Nelle giungle urbane d’oggi la legge primitiva della giungla coabita con le nostre regole etiche e politiche frantumate, e di notte negli spazi incustoditi, periferici, ferroviari, sotterranei, strappa un infame diritto di sopravvento. Là, qualsiasi donna diventa, per ogni anonimo passante, foemina simplex, una bambola fessurata, la connotazione individuale scompare nell’indistinzione della tenebra.
E una gran parte ha, posso dire sempre più avrà, la componente sadistica. L’aroma che più risveglia l’istinto di violenza è la debolezza, l’inermità, l’avere a tiro, da sbattere sull’asfalto o in un cesso, una creatura del tutto digiuna di karatè, anoressica, bruttina, con braccia esili, perduta. E tutto questo è al cento per cento sadismo - da manuale o, alla lettera, da Malheurs de la Vertu. Una ventina di anni fa seguivo a Parigi un corso della scuola teatrale di Grotowsky, che si teneva in un posto orripilante sul Quai de la Gare, al Tredicesimo, immenso ex deposito dei macelli del grande Ventre. Al piano di sotto della nostra sala, tutta ben rifatta, c’era una batteria di decenza con decine di porte che stridevano sinistre e il vento sbatacchiava. Per scendere là sotto negli intervalli, tutte le ragazze chiedevano di essere accompagnate da qualcuno degli stagisti maschi. Non c’era ombra di maniaco sadico dietro quelle porte, ma il timore ancestrale dell’uomo in agguato in un luogo propizio, lugubre come un Dachau, spingeva le donne (non mi pare ce ne fosse qualcuna di distinta bellezza) a farsi proteggere da un altro uomo, fosse pure di muscolatura schiappona e di natura da straccio bianco. Era bello e ci inorgogliva quel ruolo... La virilità è forza in sé, anche se non ci sono forze. Ancestrale anche quel ruolo di custodes. Contro l’uomo che offende, che non vede il volto ma è eccitato dal corpo indifeso, l’uomo che difende: due sicuri archetipi, due forme simboliche del pensiero - preistoria nel cuore sfinito della civiltà.
I marocchini hanno una risoluta fama di stupratori (pericolosissimi in guerra, nel ricordo storico le truppe coloniali al seguito di Franco, i marocchini della campagna d’Italia dei francesi di De Gaulle-Leclerc), ma nelle cronache recenti e nelle statistiche sono stati abbondantemente superati dai romeni, spesso in branco, talvolta omicidi. Il loro numero è misurabile dalla quantità esorbitante di presenze fuori controllo, dall’oziosità abbrutente, tra bevute di birra senza cibo negli ondeggiamenti senza confini delle grandi periferie. Va ricordato che si tratta di figli dei ventri forzati a partorire da Ceausescu sotto stretta sorveglianza antiabortista della Securitate, cresciuti in condizioni prossime al randagismo canino. Il dono all’Italia di questi campioni di umanità degradata è stato fatto dai frenetici allargamenti a Est dell’Unione e dalla follia di Schengen. da lastampa.it
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« Risposta #118 inserito:: Febbraio 03, 2009, 04:58:09 pm » |
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Gli Uomini Perbene di Federica Fantozzi Stieg Larsson li chiamerebbe “Uomini che rispettano le donne”. Sono i promotori di un appello contro la violenza lanciato nella tragica estate 2006 di Hina, la giovane pakistana uccisa dal padre a Brescia, e rimodulato sulla cronaca recente. Tra le firme Goffredo Fofi e Gad Lerner, Giacomo Marramao e Nanni Balestrini, Piero Fassino e Franco Giordano. La segretaria generale della Cgil Tessile Valeria Fedeli ha chiesto al sindacato nazionale di sottoscriverlo. Il sindaco e la giunta di Sesto San Giovanni lo hanno fatto proprio e proposto a tutti i cittadini maschili. Dietro c’è l’associazione Maschile Plurale, nata un anno fa per «reinventare l’identità maschile e la mascolinità» sforzandosi di avvicinare Marte a Venere. Una mosca bianca, nel mare magnum delle organizzazioni anti-violenza, che senza dubbio piacerebbe allo scrittore svedese, autore del best seller «Uomini che odiano le donne». Singoli e gruppi al maschile che nel tempo hanno costruito una rete a livello locale, tra amicizia e idee comuni, e poi hanno giudicato i tempi maturi per emergere con un «progetto sociale». Significativo il testo: è «giunto il momento di una presa di parola pubblica e assunzione di responsabilità da parte maschile». Di qui sedute di autocoscienza collettive, iniziative politiche, presentazioni culturali, un appuntamento nazionale a Pinerolo il 21-22 marzo. Non sono numeri enormi: un centinaio gli iscritti, un migliaio le firme, molti più simpatizzanti e internauti. Racconta Alberto, da Genova: «L’appello ci ha fatto vedere una realtà più grande di quanto immaginassimo di uomini su questa posizione». Ora hanno uno strumento per condividerla. Conferma Gianguido Palumbo, uno dei fondatori: «C’è stato un tam tam. Il sollievo di poter confrontare dubbi, riflessioni, modi di vita». Capita, come racconta Alberto, di uomini che «usufruendo di questa piccola comunità siano riusciti a incanalare una tendenza alla violenza che sentivano dentro di sé, senza venire condannati». Ma se è ben accetta la curiosità (che soprattutto è femminile), Palumbo mette in guardia dal «voyeurismo»: «Una trasmissione televisiva ci ha chiesto di filmare un incontro di autocoscienza maschile. Li abbiamo mandati al diavolo». Palumbo fornisce un identikit degli aderenti. Età: dai 40 ai 60, maggioranza over 50. «Siamo non dico reduci ma militanti di una sensibilità sociale che ha fatto gli Anni ‘70». Generazioni toccate dal femminismo: non pervenuti ragazzi di oggi. Professioni varie: insegnanti, professionisti, impiegati, pensionati, qualche operaio. Credenti e non, etero e omosessuali. Pochi militanti o iscritti a partiti, tutti di sinistra. Dal Pd agli attuali extraparlamentari: «Nessuno di destra e c’è un motivo. La politica è anzitutto cultura. Il rapporto con il mondo attraverso l’identità sessuale fa parte integrante di te e conduce a una certa militanza. Un associato di An mi farebbe piacere, ma sarebbe in crisi con la sua tradizione». Omogeneità territoriale: da Nord a Sud. A Torino c’è «Il cerchio degli uomini», con attività teatrali e «lavoro sul corpo». A Pinerolo «Uomini in cammino», comunità di cattolici di base gestita da Beppe Pavan, ex prete poi sposatosi, ex operaio. A Roma e Bologna le presenze più strutturate. A Ragusa è nato il nucleo «Non più sole». Orazio Leggiero fa parte di «Uomini in gioco»: da 7 anni si incontrano tra Bari e Monopoli, a casa dell’uno o dell’altro. «Ci vediamo 4 volte al mese - racconta - E scegliamo il tema da affrontare a livello emozionale, perché è lì che noi siamo carenti. Parliamo del rapporto con i genitori, i figli, la violenza in generale». Perché un gruppo maschile si incontra per dibattere un problema non suo? «Non vogliamo scimmiottare le femministe, ma si deve partire dal proprio vissuto di genere». Gli amici vi prendono per matti o vi invidiano? «Avvertiamo un certo disagio, interesse inconfessato. Ma spesso si uniscono a noi. C’è sofferenza diffusa». Per un fenomeno in riemersione, che sia «quantitativa o culturale»: «Ormai - si legge nell’appello - opinione pubblica e senso comune non tollerano più la prevaricazione maschile». Tantomeno se l’”allarme straniero” serve a rimuovere gli stessi comportamenti «di noi maschi occidentali». Massimo Greco, caposala al Policlinico di Tor Vergata, ha gestito un corso di formazione per infermieri che si relazionino con vittime di abusi. 60 iscritti. Il punto: «Le ricerche mostrano che gli operatori sanitari a volte non capiscono il problema della donna, o scattano stereotipi del tipo “guarda come era vestita”». Si impara a individuare una vittima che ha paura di denunciare: lesioni da difesa, come il livido della presa di mani o tagli sulle braccia, i movimenti, il silenzio. Visti dalle ambulanze, i maltrattamenti crescono? «Cresce il coraggio di andare in ospedale. Tante donne non sanno che anche nel matrimonio può esserci stupro che richiede il medico». L’interrogativo finale è perché uomini rispettosi delle donne sentano il bisogno di impegnarsi in prima linea: «Noi non abbiamo mai alzato le mani - dice Leggiero - Ma questo non ci assolve del tutto». È il senso di colpa maschile? «Direi introiettato nel profondo. C’è una colpa collettiva di cui dobbiamo farci in parte carico». ffantozzi@unita.it03 febbraio 2009 da unita.it
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« Risposta #119 inserito:: Febbraio 03, 2009, 04:59:03 pm » |
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Combattiamo l’idea della donna-preda
di Abdon Alinovi
La sequenza degli stupri che affligge il bel Paese registra un picco alto, dal Capodanno e nella stessa Capitale. Si è aggiunto il caso clamoroso di Guidonia ed ora quello nel piacentino, dove gli autori dell'odioso delitto sono stati due branchi di giovani di nazionalità romena. A Guidonia la giusta indignazione popolare rischiava di finire in un linciaggio senza la robusta tenuta dei carabinieri. È legittimo il dubbio che allo sdegno si sia mescolata l'ostilità xenofoba. Resta la necessità di riflettere sopra un delitto che si è diffuso senza confronto con il passato per numero e frequenza. Certo, il delitto si inscrive nel grosso capitolo della violenza contro la donna. L'allarme della stampa è giustificato. Si deve insistere non solo con l'informazione ma con l'impegno volto alla formazione di un'opinione pubblica che sappia valutare i rischi gravi di regressione culturale e morale.
Considero tuttora emblematica la vicenda complessa e sconcertante della ragazza di Montalto di Castro. Nel marzo 2007, una sedicenne uscita dalla discoteca del paese per rincasare fu assalita e violentata sulla strada da otto giovanotti, sortiti dallo stesso locale. Le cronache registrarono marginalmente il caso. Ma il clamore fu suscitato dall'incredibile deliberazione del Comune che elargiva trenta mila euro, su richiesta delle otto mamme, per la difesa degli imputati in una "faccenda più grande di loro" (parole del Sindaco). La protesta si levò alta, ma tutta al femminile, ed alcune parlamentari chiesero le dimissioni di quel Sindaco. Questi, nel riferirsi ad Anna Finocchiaro, la apostrofò pubblicamente con le parole: "...talebana del...". Il pressing di un personaggio altolocato del suo partito lo indusse alla revoca e ad un'untuosa, ipocrita autocritica che, invece, si rivelò un'autoaccusa. Si ricompose, comunque, il coro del consenso paesano. Fu archiviata "l'imprudenza", la "scivolata".
Quella rozza reazione aveva rivelato una precisa mentalità: la Finocchiaro si era "impicciata di una ragazzotta di poco conto" solo per fanatismo femministico, senza tener conto, per dirlo con le parole dei predatori, che "...aveva provocato con la sua minigonna nera e poi era ubriaca...", aggiungendo così alla selvaggia violenza altre turpi offese. Solitaria, al maschile, si levò su questo giornale la mia protesta: la vittima era stata trascurata. Immaginai che la sventurata ragazza fosse figlia di uno dei miei figli e questo mi aiutò a capire. Evocai anche il nome di Luigi Petroselli che era stato animatore di lotte civili ed aveva portato in alto il nome di Montalto, prima di ascendere in Campidoglio. In suo nome chiesi a vari enti misure riparatrici. Invano. Ecco perché sui casi recenti di Roma e del Lazio non mi sembra che l'accento vada posto sulla pubblica sicurezza. Ad Alemanno occorre chiedere un atto di coraggio civile; il Comune assuma la difesa delle cittadine colpite, anche in nome della dignità e civiltà della Capitale. Sarebbe un segnale forte. Lo spirito pubblico sarebbe chiamato a proteggere le vittime, a condannare la concezione della donna-oggetto, la donna- preda.
Questo è il punto dolente. La frivolezza del Grande Deviatore nei confronti dell'universo femminile fa tutt'uno con la sua rozza ironia: "...un soldato per ogni bella ragazza...?". Parole che rivelano la mentalità partecipe della subcultura comune: " l'uomo cacciatore per natura...e per natura la donna bella provoca, deve dunque sapersi guardare da sé...". Cioè, deve rinunciare alla rischiosa minigonna, all'allegria in discoteca....
In Parlamento, finalmente, pare ci si muova. Non si tratta tanto di inasprire le pene, quanto piuttosto di restringere le maglie sulle attenuanti. Inoltre, occorrerebbe migliorare la normativa, determinando l'obbligatorietà della cura e dell'assistenza alla vittima da parte degli enti pubblici competenti. La delibera revocata nel Comune di Montalto di Castro non deve essere neppure ipotizzabile perché antigiuridica; al contrario, occorre obbligare l'ente locale ad attuare i provvedimenti necessari per la possibile riparazione del danno materiale e morale. Persone esperte, per il patimento subito o per competenza scientifica, affermano che il trauma agisce in tutto il corso della vita della donna, anche con possibilità di disabilità in alcune funzioni. Più in generale, occorrerebbe una svolta culturale in tutta la società, per suscitare una concezione universale di gioiosa limpidezza e naturalità nel rapporto uomo-donna.
03 febbraio 2009 da unita.it
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