MONDO DONNA N° 1

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Arlecchino:
Il Festival di Cannes L’orrore di un aborto.

Scene choc al festival Paura e clandestinità nella Romania di Ceausescu.

Il dramma della povertà e le maternità forzate imposte dall'ex leader comunista

Una scena di «4 mesi, 3 settimane, 2 giorni» di Cristian Mungiu (Emmevi)


CANNES (Francia) — Cronaca di un aborto a porte chiuse. Otto ore di ordinaria paura, clandestinità, violenza, sangue, soldi, infezioni e morte nella Romania di vent’anni fa, Ceausescu ancora al potere. In una stanza d’albergo una ragazza aspetta l’uomo che ha promesso di liberarla da una gravidanza indesiderata. Con lei un’amica, Ottilia, pronta a darle una mano.

E anche di più, visto che l’atteso non è uno che si fa scrupoli: il denaro pattuito non basta più quando scopre che Gabita è incinta ben oltre quello che aveva confessato. Facendo bene i conti, sono 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, che è anche il titolo scelto da Cristian Mungiu per il suo film di agghiacciante realismo. Perché, visto che l’intervento si complica e i rischi sanitari e giudiziari crescono, l’uomo, un professionista di questi affari, capito che le due non hanno più una lira, chiede un surplus in natura. Con entrambe.

Quel che accade dopo è ordinario orrore paraginecologico. Dalla sua valigetta di commesso viaggiatore dell’utero, Monsieur Bebè, così si fa grottescamente chiamare (ma del resto da noi le sue colleghe non si chiamavano «fabbricanti di angeli»?) estrae alcol, cotone e la lunga cannula che servirà all’uopo. L’intervento per fortuna non si vede. Ma Mungiu non ci risparmia il peggio: il feto abbandonato sul pavimento del bagno. Che essendo di quasi cinque mesi, è formato e somiglia in tutto a un neonato. Una scena choc, come gli spicci consigli dati dall’uomo a Ottilia, che quel grumo di carne e sangue ha raccolto e infilato in borsa: «Non buttarlo nel gabinetto perché lo ostruirebbe, non lasciarlo in strada perché lo mangerebbero i cani...». Su come va eliminato, meglio sorvolare. Come dice Ottilia a Gabita: «Non ne voglio parlare. Né ora né mai più, per il resto della vita».

«Questa storia nasce da un ricordo privato. Quando avevo vent’anni qualcosa di simile accadde a una persona molto vicina a me», racconta Mungiu, 37 anni, considerato uno dei talenti del nuovo cinema rumeno, fucina di film di alta qualità e basso costo (590mila euro, il budget di questo) capaci di valicare i loro confini. Film che cercano di fare i conti con una storia recente e dolorosa. Accade anche qui, pur senza mai tirar direttamente in causa il regime. Il piccolo dramma che si consuma in quella stanza d’albergo dà un’idea precisa del contesto storico: le code davanti ai negozi, il baratto dei prodotti di prima necessità, i pacchetti di sigarette estere allungati per ottenere quello che altrimenti non si poteva comprare.

Una Romania povera, disperata, impaurita. Dove proprio Ceausescu, il comunista più mangiabambini dell’immaginario occidentale, nel 1966 aveva stilato una legge che proibiva l’aborto. «L’obiettivo era l’incremento demografico: tanti nuovi virgulti per andare a ingrossare le fila del Partito — spiega amaro Mungiu —. In pochi anni le nascite si quadruplicarono. Di quella generazione baby boom faccio parte anch’io: nella mia classe, affollatissima, eravamo sette a chiamarci Cristian. Ma le donne cominciarono a ribellarsi a quelle maternità coatte. Gli aborti illegali dilagarono, quasi una forma di resistenza al regime. Chi se lo poteva permettere ricorreva a medici compiacenti, chi non aveva mezzi finiva nelle mani di praticoni. Circa 500 mila si calcolano le donne morte in quel modo durante gli anni di Ceausescu. Dopo la sua caduta, nell’89, l’aborto è tornato legale. E ancora oggi è praticatissimo, usato come anticoncezionale».

Certo che proprio ora, con la Chiesa che tuona a colpi di scomunica, con movimenti e partiti che premono per una revisione della legge, l’aborto è tema quanto mai scottante. Oggi peraltro di nuovo alla ribalta in un altro film del concorso, Izignanie, del russo Andrei Zviaguintsev. In questo clima, mostrare immagini crude e di alto impatto emotivo come quelle di un feto «avanzato» può sembrare una presa di posizione, o forse una provocazione. «Né l’una né l’altra — assicura Mungiu —. Intanto non sono cattolicoma ortodosso. Poi, quello che pongo non è un problema religioso ma una riflessione morale. Su scelte difficili che è giusto vengano compiute in piena libertà da parte della donna, ma anche con piena consapevolezza delle loro conseguenze. L’aborto viene spesso presentato come un’astrazione. Ma un feto non è solo un mucchio di cellule. Ho voluto mostrarlo perché la gente veda quello che è».

Giuseppina Manin
22 maggio 2007
 
da corriere.it

Arlecchino:
«Zoo» alla Quinzaine, «ImportExport» e «Paranoid Park» in concorso

Nel giorno degli scandali, l’orrore umano Cannes, tra sesso e zoofilia svetta il film di Van Sant sull'animo di un ragazzino

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI


CANNES—Il giorno degli scandali sessuali (annunciati) si è trasformato in quello degli orrori umani.

E i film sui rapporti sessuali tra uomini e cavalli («Zoo» di Robinson Devor) e quello sulla mercificazione del corpo umano («ImportExport» di Ulrich Seidl) lasciano deluso chi sperava in immagini morbose o eccitanti per guidare invece lo spettatore in un viaggio davvero al limiti della notte umana. Presentato alla Quinzaine, la sezione parallela che spesso ha rivelato autori e anticipato tendenze, «Zoo» prende spunto da un fatto di cronaca: la morte nel luglio del 2005, per sfondamento del colon, di un uomo abbandonato davanti a un ospedale.

L'inchiesta della polizia porto a scoprire l’esistenza di un gruppo di persone che frequentavano una fattoria dello Stato di Washington per avere rapporti sessuali con dei cavalli. Dopo aver incontrato alcuni membri di quel gruppo, il regista Robinson Devor ha costruito un film dove i personaggi sono interpretati da attori, ma i lunghi dialoghi fuori campo sono quelli autentici dei protagonisti. E proprio il flusso di confessioni in prima persona finisce per guidare le immagini, sprovviste di qualsiasi tentazione voyeuristica ma cariche di una tensione angosciantissima.

Perché nonostante certe ammissioni, le ragioni che spingono una persona a sentirsi «maggiormente attratta da esseri non umani» restano di fatto inspiegate.

E di fronte a questa insondabilità, Devor non chiede aiuto né alla psicoanalisi né alla sociologia: mette gli spettatori di fronte al mistero di quelle azioni e costruisce il film come un horror dell'animo, dove non esistono spiegazioni plausibili ma solo la scoperta di qualche cosa di inimmaginabile. Una specie di «male assoluto» che chi pratica neppure considera tale. Ma che lascia nello spettatore un senso d'angoscia che non se ne va facilmente.

Anche i due film in concorso di ieri, «ImportExport» dell'austriaco Ulrich Seidl e «Paranoid Park» dell'americano Gus Van Sant cercano di scavare nelle contraddizioni dell’animo umano, e con la stessa radicalità stilistica di Zoo, ma con punti di vista differenti. Che portano anche a risultati molto diversi tra loro. Dopo Canicola (premiato nel 2001 a Venezia), Seidl continua il suo viaggio nella disperazione umana, ma la pietas che riscattava le vite desolate di quel film lascia il posto in «ImportExport» a un ambiguo compiacimento. L’infermiera ucraina (Ekaterina Rak) che cerca lavoro in Austria e lo trova in un ospizio per anziani e il giovane disoccupato (Paul Hofmann) che accompagna il padre (Michael Thomas) in un lungo viaggio europeo (che finisce proprio in Ucraina) per piazzare videogiochi e distributori di caramelle diventano testimoni, alla fine insensibili, di una sofferenza — quella degli anziani —e di una sopraffazione — quella sulle prostitute ucraine — che trovano spiegazione nell’egoismo e nella cattiveria umana, ma che sono raccontate con una insistenza troppo ambigua. E la lettura «politica » che in Canicola rimandava alla lezione di Bernhard qui diventa facile (e compiaciuta) «rassegnazione » metafisica sulla stupidità umana.

Al centro del film di Gus Van Sant c’è invece un romanzo di Blake Nelson sul delitto irrisolto di una guardia ferroviaria, travolta da un treno non per un incidente ma perché qualcuno l’ha colpito in testa con uno skateboard. Per questo il detective Lu (Dan Liu) decide di indagare tra i frequentatori di una pista conosciuta come Paranoid Park. Lo spettatore scopre ben presto che il responsabile dell’assassinio, del tutto involontario, è il sedicenne Alex (Gabe Nevins) ma Gus Van Sant racconta solo marginalmente l’inchiesta poliziesca, senza peraltro svelarcene la fine: piuttosto cerca di entrare nella testa di Alex, nelle sue paure e nei suoi silenzi, nelle sue frasi smozzicate e nelle sue azioni quotidiane per costruire il quadro di una «normalità» inquietante e insoddisfatta.

Qui il regista porta all’estremo il metodo messo in atto per «Elephant »e, con maggior radicalità, per «Last Days», smontando la linearità cronologica ma anche mescolando riprese con tecniche diverse (il Super8 per le immagini «in soggettiva» degli skater e il 35mm, con un mascherino da vecchia inquadratura televisiva, per il resto) e affidando a una elaboratissima colonna audio, fatta di rumori, musiche, parole e suoni, (compresa una citazione da Nino Rota) il compito di offrire allo spettatore una specie di riflesso sonoro delle contraddizioni psicologiche e comportamentali di Alex. In questo modo lo spettatore si trova davanti una specie di puzzle incompleto ma stimolante di un universo mentale che sfugge a ogni definizione, com’è quello appunto degli adolescenti, «ribelli » senza cause ma anche «assassini» per caso. E che Van Sant filma con empatia e curiosità insieme, senza mai lasciarsi andare a prese di posizione moralistiche, ma anche senza compiacimenti o facili giustificazioni.

Paolo Mereghetti
22 maggio 2007
 
da corriere.it

Admin:
Se il Nord riparte dal Sud
Barbara Pollastrini


Si parla molto del Nord, e non per caso. Se ritorniamo col pensiero a un mese fa la sensazione era di una valanga. Dalla difficoltà del governo a trasmettere il senso di un progetto all’esito negativo del voto amministrativo. Non era solo la protesta per gli studi di settore o il malumore degli amministratori per le scarse risorse. Era l’insieme a dare l’impressione di un’Italia sempre più propensa a «fare da sé». E a «produrre» sull’onda di un livore diffuso, come già in altri momenti - penso ai fenomeni della Lega o allo stesso berlusconismo - nuovi riferimenti politici.

Ma questa crisi - è giusto ricordarlo - non nasce ora. Incubava da prima. Lo stesso risultato delle elezioni, un anno fa, aveva anticipato la tendenza. Con una sola differenza, e cioè che l’Ulivo nel lombardo-veneto portava un valore aggiunto. Poi, nelle ultime settimane, molto è cambiato. Penso all’impatto della candidatura di Veltroni e al consenso raccolto dal suo discorso di Torino. Le due cose, insieme, hanno confermato che il Partito Democratico rimane la sola e forse l’ultima chance a nostra disposizione. Insomma, non possiamo fallire se non vogliamo rinviare nel tempo un recupero di credibilità della politica soprattutto nelle aree più dinamiche del Paese. Veltroni ha avuto la capacità di cogliere con intelligenza questa necessità. Il punto - e su questo nei giorni scorsi Gianni Cuperlo ha scritto cose che condivido - è che la scommessa del nuovo partito sarà vinta a due condizioni.

La prima è uno scatto del governo, e su questo qualche segnale c’è. L’altra è che il profilo del nuovo partito poggi su valori e discriminanti ideali e politiche chiare. Perché solo una limpidezza della politica può riannodare il filo di un’etica pubblica slabbrata e bloccare una crisi democratica tanto più insidiosa in un Paese dove il populismo non è stato mai espunto del tutto. Anche per questo, credo giusto affrontare i nodi del partito che verrà. Ora, un articolo non consente di scendere nel dettaglio. Ma alcuni titoli è possibile accennare. E allora, cosa dovrà dire un partito a vocazione maggioritaria per recuperare, a partire dal Nord, una funzione di guida? Direi che in primo luogo dovrà restituire un’anima alle parole. Penso a tre termini. Il primo è “sicurezza”. Anzi, per quanto mi riguarda direi “sicurezza e diritti umani”. Perché questa relazione è oggi la condizione per una convivenza fondata sul rispetto delle regole e della legalità.

Ecco perché al nuovo partito serve uno sguardo ampio. Che sappia misurarsi con l’Europa e col mondo. Perché i problemi di casa nostra, a partire dalla sicurezza, non si risolvono alzando steccati. Solo una visione d’insieme dei processi globali offre chiavi di senso e strumenti adeguati al tempo. È questa la ragione che mi spinge da mesi - fuori e dentro il governo - a porre il tema dei diritti umani in cima alle priorità. Non è per testimoniare un’etica dei principi. È uno snodo della modernità. Non vederlo equivale a non capire chi siamo e soprattutto cosa saremo. Prendiamo l’attentato sventato a Londra la settimana scorsa. L’autobomba doveva uccidere centinaia di donne riunite quella sera in un pub lì vicino. Donne, dunque. Da tempo vittime di quel fondamentalismo di nuova matrice che vede nel loro corpo il simbolo di uno scontro che ha come posta il potere e il dominio sulla libertà femminile. Sbaglia chi pensa che la questione ci sfiora soltanto. E non solo perché di violenza continuano a soffrire e morire moltissime donne italiane. Questo dramma irrompe nelle nostre società e sollecita gesti e politiche coerenti coi valori di una civiltà democratica e liberale. Ecco perché l’omicidio di Hina per mano del padre e il processo che si è aperto una settimana fa, fino all’aggressione alla leader delle donne musulmane consumata nel cuore di Milano, interrogano una interpretazione della sicurezza. Perché dietro gli episodi di Londra o di Brescia c’è la questione di come si contrasta il fondamentalismo abbinando sicurezza e libertà.

È da qui che acquista significato la seconda parola da porre al centro di un confronto politico e culturale, “laicità”. Che non è solo l’appello giusto a far prevalere le ragioni del dialogo sulle trincee contrapposte. È la coerenza di classi dirigenti capaci di difendere l’autonomia della politica per costruire virtù civiche condivise. Dal capitolo della convivenza globale fino alle coppie di fatto, alla fecondazione o alla sfera intima della sofferenza, quel che una cultura democratica deve sfuggire è il primato di una Verità sulle altre. È la rinuncia a esercitare la critica e la decisione, sedando la prima e appaltando la seconda. Perché così, semplicemente, non si governano capitoli fondamentali della modernità a partire dai nuovi flussi migratori, dal dialogo tra culture e religioni, fino ai capitoli della scienza, della ricerca, dell’autonomia dell’individuo. Quell’autonomia che introduce l’ultimo termine, l’idea di Progresso e di “Crescita”.

Le possibilità di una crescita effettiva e di una reale competitività per il Paese sono legate a filo doppio con un’espansione della democrazia e della cittadinanza, delle opportunità individuali, dei diritti e doveri delle persone. È la scelta della politica di non permettere che l’ordine sociale divenga un ordine naturale. Non vorrei banalizzare ma la questione è di una semplicità disarmante. Ed è questa. La sinistra - le Democratiche e i Democratici - non possono accettare che si vale per dove si nasce, per la casa dove si cresce, per il reddito dei genitori. Questa è una regressione feudale prima che sociologica. L’anno scorso, parlando al congresso laburista, l’ex presidente Clinton ha detto che «le pari opportunità sono la grande sfida della democrazia nel XXI secolo». Parole da scolpire. Ma se le si condivide ne discendono alcune coerenze. A partire da un accesso al mercato e al reddito per quanti, e quante, oggi sono esclusi. Giro l’Italia a raccontare i dati sull’occupazione femminile. Siamo quindici punti sotto la media europea e in alcune aree del Sud più di trenta punti sotto l’obiettivo di Lisbona. Sono cifre spesso sconosciute in alcuni circoli della politica o tra le forze sociali. Ma se lavorano poche donne i consumi si bloccano e nascono meno bambini. La mobilità frena. La realtà è che le élite del Paese continuano a essere in prevalenza conservatrici e chiuse. Classi dirigenti contro le quali non a caso si sta manifestando l’insofferenza di tante donne e di tante persone perbene legate a un’etica del lavoro e dell’intraprendere e che sono stanche di non essere riconosciute per i loro meriti, anche sotto il profilo economico e delle carriere.

Penso che anche le polemiche sulla pressione fiscale e sul ritardo di un federalismo che finalmente il governo ha incardinato, potranno trarre beneficio da una politica autorevole e capace di segnare una rotta. In questa ricerca le tre parole che ho indicato si riassumono in un primato fondamentale. Che è la Persona. La scelta mai compiuta fino in fondo dalla politica di investire sulla libertà e responsabilità del singolo. Rivedendo la logica che ha dominato fin qui e che ha sempre premiato gli interessi e gli istituti più consolidati rispetto ai diritti, ai bisogni e alle responsabilità di chi oggi è meno rappresentato e che invece esprime la maggiore vitalità e voglia di farcela. Si tratti delle donne, dei giovani precari o del piccolo e piccolissimo imprenditore. Ed è qui la parte più affascinante nella costruzione del nuovo Partito. Sapere che le Democratiche e i Democratici dovranno anticipare scelte e contenuti di un tempo a venire. Questo nuovo partito, insomma, dovrà trovare la forza e le idee per essere un passo avanti alla politica che c’è. Ecco perché è stato giusto scegliere questa via. Perché davvero «nessuno basta a se stesso».

Ma allora la mescolanza di volti e sensibilità, nelle liste del 14 ottobre, sarà decisiva. E se ci saranno altre candidature, agganciate a piattaforme politiche e culturali, ciò sarà una ricchezza in più. Lo stesso vale per la scelta delle leadership a livello regionale. E aggiungo, certo che il Partito Democratico deve riconquistare il Nord. Il punto è come le leadership del Nord sanno avanzare una visione che, muovendo da quelle realtà, si misuri coll’interesse generale del Paese, a partire dalla scelta strategica di un’Europa allargata. Lo dico innanzitutto da donna, da donna milanese e di sinistra, che non ha mai smesso però di sentire come propri potenzialità e ritardi del Sud e del suo popolo. Perché se una bambina calabrese o campana nasce con molte possibilità in meno di laurearsi rispetto alle sue coetanee venete o piemontesi il problema non è del Mezzogiorno, ma dell’Italia e dell’idea che un grande partito nazionale e federativo deve coltivare di sé. Penso che solo così noi potremo ricollocare nella storia del Paese la tradizione migliore della sinistra italiana. Non è facile, lo so. Ma continuo a pensare che sia la strada giusta. E la sola che può restituire senso alla partecipazione di tanti. A partire dalle donne, e dalle giovani donne, che esigono dalla politica una diversa etica del potere, delle regole, dello stile. Perché sanno che quella è la condizione vera - oltre ogni paternalismo - per affermare la propria autonomia a tutti i livelli e in tutte le sedi. Piaccia o meno il Partito Democratico sarà giudicato anche per questo.

Pubblicato il: 08.07.07
Modificato il: 08.07.07 alle ore 6.28   
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24/7/2007 (12:51)

Le ragazze sognano la trasgressione: "Il 21% tradirà il proprio compagno"

Le donne tra i 18 e i 45 anni ambiscono a veri e propri trofei da riportare a casa


ROMA
Quest’estate la trasgressione è donna, anzi cattiva ragazza. Sarà infatti il segno distintivo con cui vorrebbe trascorrere l’estate il 21% degli intervistati secondo uno studio condotto dall’Associazione Donne e Qualità della Vita, coordinato dalla sessuologa Serenella Salomoni, su un campione di 800 donne accoppiate (fidanzate o sposate) di età compresa tra i 18 e i 45 anni e pubblicato sul numero in edicola domani dal settimanale Diva e Donna.

Una trasgressione da perseguire attraverso una ricetta ben precisa. Ad esempio, con una vera e propria avventura extra coppia, confessa il 24% del panel; facendo a gara con le amiche per avere il maggior numero di foto con altri uomini sedotti, (23%), adottando un look seducente che il suo lui, ma non solo, vuole (21%), prendendo apposta un secondo numero di cellulare per flirtare con altri (19%), andando per l’unico periodo di vacanza con le amiche invece che con il fidanzato (16%), dormendo fuori dopo una notte di divertimenti pazzi senza il proprio lui (15%).

Fino a piccoli gesti, certo minori, ma che danno il segno di questo cambiamento di mood tra le donne italiane: ad esempio, il 14% dichiara che terrà spento il cellulare per far ingelosire il proprio compagno, l’11% che, in assenza del proprio uomo, si metterà in topless in spiaggia per attirare lo sguardo di altri uomini. Infine il 9% promette di farsi un tatuaggio su una parte del corpo intima. Secondo quanto riporta il settimanale diretto da Silvana Giacobini, la maggioranza delle cattive ragazze, in partenza per le vacanze più calienti del secolo, ambiscono a veri e propri trofei, da riportare a casa dalle località balneari di mezza Italia.

Bottino più gettonato, la collezione di foto dei ragazzi sedotti, 23%, sulla scia del tormentone in arrivo direttamente dalle spiagge di Copacabana. Cioè il ficar (in italiano rimanere, restare), che significa collezionare il numero più grande possibile di baci in discoteca in una sola notte. Una moda che sta sbarcando anche in Italia, sulla riviera romagnola, come in Versilia e in Sardegna, dove sempre più donne dichiarano di voler essere protagoniste, almeno per una volta, nell’arco dell’estate, di questo nuovo gioco.

Al secondo posto, un altro scalpo ambitissimo: la copia della tessera magnetica della sua camera di albergo (21%), boxer o altri indumenti intimi sfilatigli (18%), il numero record di sms ricevuti in un solo giorno dalla persona con cui ha flirtato (15%) oppure una gara tra amiche per portare a casa collana o braccialetto dell’ ’avventura estivà(11%). Insomma seduzione, trasgressione e, soprattutto, tentazione. Eccolo il trittico delle cattive ragazze 2007. Sulla falsariga di alcune vip da emulare in questo grande gioco della tentazione da spiaggia. A cominciare dalla conturbante Eva Longoria, casalinga disperata per eccellenza, una delle donne più sexy del mondo, fresca sposa del campione di basket Tony Parker che, nello spot tv internazionale per il MagnuM Temptation, guarda caso, invita a cadere in tentazione.

Proseguendo con l’altrettanto splendida Angelina Jolie, per essere riuscita a far capitolare l’adone Brad Pitt. Poi Elisabetta Canalis, che ha sottratto Valentino Rossi all’eterna fidanzata; Victoria Cabello, cioè la cattiva ragazza per eccellenza; Kate Middleton, che sta facendo impazzire persino il principino William, facendolo piegare alla sua volontà, Gabriella Pession, per essersi mostrata senza veli a tutta l’Italia, Paola Ferrari, per aver sedotto tutti gli uomini italiani, come grande esperta di calcio, sfondando in un settore a forte trazione maschile.

da lastampa.it

Admin:
3/8/2007 (8:2) - IL CASO

"Riabilitate Anna l'ultima strega"

Bestseller sulle ingiustizie di un antico processo porta il caso davanti al parlamento svizzero

FABIO GALVANO


Non finì al rogo, l'ultima strega d'Europa, ma fu decapitata con un colpo di spada. Nella civilissima ma tutt'altro che illuminata Svizzera - era l'anno di grazia 1782 - Anna Göldi fu probabilmente vittima non tanto di un errore giudiziario, quando di una congiura ordita ai suoi danni per salvare la reputazione del suo datore di lavoro, un influente politico locale che prima l'aveva sedotta e poi ne aveva temuto le scottanti rivelazioni. Ora la Göldi è tornata all'onore delle cronache, 225 anni dopo quel giorno all'ombra di un oscurantismo di stampo medievale. Da una parte è un fenomeno letterario, per un libro che Walter Hauser, noto avvocato svizzero, ha scritto in sua difesa forse senza pensare che in breve tempo sarebbe balzato al vertice delle classifiche librarie della Confederazione. Dall'altra è al centro, proprio sulla spinta di quel libro, di un'azione senza precedenti da parte di un gruppo di deputati dei maggiori partiti, volta a una riabilitazione - ovviamente postuma - di quell'«ultima strega».

E' probabile che l'iniziativa vada a buon fine, anche se oggi non tutti sono d'accordo che sia il caso di disturbare prima il parlamento cantonale e poi quello nazionale per rimettere a posto una questione di due secoli fa. «Tiriamoci una riga sopra e andiamo avanti», ha suggerito un portavoce del governo locale. Ma a Glarus, la cittadina della Svizzera orientale dove i giudici e la protestante Chiesa Evangelica (che oggi riconosce l'errore) montarono quel caso straordinario, quel precedente storico brucia ancora: i suoi abitanti hanno raccolto robuste adesioni per la loro campagna.

Anna Göldi, 42 anni, faceva la serva in casa di un ricco e influente politico - nonché giudice - dell'epoca, tale Johann Jakob Tschudi. Il quale, evidentemente, non sapeva tenere le mani a posto. Per paura forse che la moglie scoprisse la relazione, l'uomo decise di porre fine alla tresca ancillare. Oggi è difficile stabilire se la Göldi fosse rimasta incinta: certo è, secondo la ricostruzione fatta da Walter Hauser, che la donna minacciò di rivelare l'accaduto. Apriti cielo. Nella Svizzera bacchettona gli adulteri rischiavano l'esclusione da tutti i pubblici uffici. Tschudi sentì l'ombra della rovina piombargli addosso, se solo quella donna avesse parlato.

L'uomo seppe sfruttare al meglio le sue conoscenze, oltre a quelle di parenti e amici. L'accusa fu presto costruita: la Göldi, si disse, aveva cercato di uccidere la figlia del suo datore di lavoro facendo comparire aghi di ferro, con inspiegabile magia, nella tazza di latte di una figlia di Tschudi, una bambina di otto anni. La donna fuggì, ma le autorità di Glarus non demorsero: offrirono una taglia dalle pagine del Zürcher Zeitung e il denaro, si sa, fa miracoli. Arrestata pochi giorni dopo, come qualsiasi strega che si rispetti anche questa fu torturata e alla fine i suoi accusatori riuscirono a estrarle la tanto attesa confessione: «Sì, ho fatto un patto con il Malvagio». Il 18 giugno 1782 la condanna; anche se formalmente, e forse proprio per evitare di esporsi all'inevitabile ridicolo, l'accusa al processo non fu di stregoneria - se ne parlò, ma solo in sottordine - bensì di tentato infanticidio. La spada del boia le mozzò la testa e la reputazione di Johann Jakob Tschudi fu salva.

Negli anni seguenti tutti i riferimenti alla «strega» furono sistematicamente cancellati dagli atti processuali. Ma rimase, racchiusa fra le scartoffie del tribunale di Glarus, una copia dell'interrogatorio. E' il documento su cui Hauser ha basato il suo best-seller, intitolato «L'assassinio giudiziario di Anna Göldi». «Questa sarebbe la prima volta - ha detto l'avvocato - in cui un Parlamento riabilita una strega. In realtà non c'è dubbio che si trattò di mala giustizia. Fin dall'inizio il processo fu un tentativo di farla stare zitta. E’ stato un caso palese di assassinio giudiziario».

da lastampa.it

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