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Autore Discussione: MARIO TOZZI.  (Letto 54669 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 28, 2012, 06:23:03 pm »

28/1/2012

Imparare a vivere con il rischio naturale

MARIO TOZZI

Non è facile per nessuno restare calmi mentre la terra trema sotto i piedi e i lampadari oscillano.

E a maggior ragione non lo deve essere per gli abitanti della grande conurbazione padana, da Torino a Venezia, scarsamente abituati ad avere a che fare con i terremoti e convinti, anzi, di essere esenti dal rischio sismico.

Vale la pena subito di ricordare che in Italia nessun posto è immune dal rischio sismico. E comunque la Terra non smetterà di ricordarcelo. Certo, sappiamo che ragionevolmente la Sardegna e la parte meridionale della Puglia non subiranno eventi sismici troppo gravi, ma nessuno è in grado di escludere che i risentimenti delle regioni geologicamente più attive si percepiscano a Roma e Napoli piuttosto che a Milano, Torino o Genova. È già successo in passato, soprattutto per i terremoti parmensi e reggiani che interessano l’Italia settentrionale fino dalla notte dei tempi. Sappiamo poi quali sono le energie attese in quelle zone, che difficilmente superano magnitudo 6 Richter, e sappiamo che tipo di danni potrebbero eventualmente causare.

Quello che non sappiamo è quando avverrà il prossimo terremoto o se ci sarà una seconda scossa più forte della prima. Sappiamo infine che le scosse potrebbero continuare per qualche tempo e che questo andamento è del tutto normale.

Per questa ragione, anche se riconosciamo che è difficile, bisognerebbe rimanere calmi e non precipitarsi in strada al primo ondeggiare di suppellettili. In genere, in quelle zone, si è costruito bene e i danni non dovrebbero essere così gravi. Le statistiche ci dicono poi che molte più persone restano ferite per essersi precipitate lungo le scale, o, appena all’uscita delle proprie abitazioni, a causa della caduta di comignoli o cornicioni. Per questo sarebbe più utile immaginare una mappa mentale della propria casa e individuare i punti più sicuri: le architravi dei muri portanti, un tavolo pesante, un letto.

E porsi sotto quegli scudi evitando così di restare offesi da lampadari che cadono e pezzi d’intonaco. Se riuscissimo poi ad avere sempre l’abitudine di assicurare alle pareti mobili e televisori o altri oggetti pesanti potremmo dire di aver fatto un passo avanti significativo nella sicurezza domestica. Una libreria che cade con i suoi volumi è molto più pericolosa dell’oscillazione delle scosse. Non uccide il terremoto, ma la casa mal costruita o mal posta: sarebbe bene ricordarlo sempre.

Detto questo, l’unico problema può derivare dal fatto di sentirsi troppo al sicuro: gli abitanti di New York si ritengono al sicuro da terremoti distruttivi, ma sono oltre 40 anni che nel bacino di Newark si carica energia nel sottosuolo, e non è passato poi molto tempo dal forte sisma del 1884, valutato attorno a magnitudo 5 Richter. Un terremoto simile forse non farebbe troppi danni a Los Angeles, ma cosa potrebbe accadere dove l’edilizia non ha tenuto conto di parametri antisismici?

Dovremmo infine farla finita di parlare di ipotetiche catastrofi naturali, che in realtà non esistono: esiste solo la nostra incapacità, ignoranza o malafede nel rapportarci con il rischio naturale e una delittuosa propensione a perdere la memoria degli eventi passati.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9701
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« Risposta #46 inserito:: Febbraio 11, 2012, 10:04:42 am »

11/2/2012

La prevenzione possibile contro le emergenze

MARIO TOZZI

Che in fatto di eventi meteorologici noi uomini contemporanei siamo vulnerabili come nel Medioevo dovrebbe essere evidente anche al più miope dei cittadini italiani

Soprattutto i romani, sommersi in questi giorni non solo dalla neve, ma anche da messaggi contraddittori e provvedimenti inefficaci o cervellotici. Anzi, le civiltà moderne metropolitane affidano il loro funzionamento a una tecnologia sofisticata ma delicata, che non riesce a difendersi dai freddi siderali o dalle acque torrenziali. Il gelo spezza i cavi dell’alta tensione e spegne la luce nel terzo millennio come nei secoli bui impediva di accendere le fiaccole. E i nostri amministratori locali sono, con le dovute eccezioni, assolutamente impreparati a fronteggiare i rischi naturali.

A Roma si obbligano le catene montate sulle auto e non si fanno circolare le moto quando non c’è neve a terra, dopo di che non si riescono a riaprire importanti arterie cittadine per giorni dopo la nevicata. E sia a Roma che a Genova (durante la scorsa alluvione) non si sanno interpretare correttamente i bollettini dell’Aeronautica militare o i dispacci della Protezione Civile che, per definizione, non possono recare la scritta rossa: catastrofe!

Nel prossimo futuro questi eventi rischiano di diventare più numerosi, più violenti e più duraturi, se è vero come è vero, che i ricercatori addossano la responsabilità delle punte di estremo freddo in Europa (già frequenti negli ultimi anni, l’ultima nell’inverno 2009-2010) al grande caldo estivo che sta fondendo i ghiacci artici. Mancano oggi all’appello 3 milioni di kmq di banchisa polare (rispetto al 1978): per questa ragione il calore del Sole non viene disperso dal riflesso di quei ghiacci ma riscalda l’Oceano e l’atmosfera, innescando situazioni anomale (ma non più eccezionali) come quella che stiamo registrando oggi. I venti occidentali indeboliti non riescono a spazzare via quelli freddi siberiani che arrivano senza più barriere a investire il Mediterraneo centrale. Come a dire che il grande freddo dipende dal grande caldo e che l’estremizzazione del clima è diventata la regola.

Ma mentre sappiamo che per difenderci dal terremoto dobbiamo costruire meglio e che per sfuggire all’alluvione o al vulcano ci dobbiamo spostare altrove, per reggere all’impatto meteorologico non sappiamo fare altro che ritirarci in casa chiudendo scuole e uffici. Come nel Medioevo. Invece qualcosa di più si può fare già ora, nonostante i cordoni della borsa statale siano più stretti e le amministrazioni locali sembrino impotenti. Per prima cosa si deve ribadire che quello in sicurezza non è un investimento a fondo perduto o un lusso, tutt’altro. Consente in realtà di risparmiare da 5 a 7 volte rispetto a quanto si spenderà in emergenza. E, siccome l’emergenza ci sarà certamente, semplicemente conviene non tagliare quei fondi e chiedere che vengano ripristinati a gran voce. In secondo luogo, grandi comuni, regioni e province dovrebbero dotarsi di almeno una unità di crisi permanente per fronteggiare i rischi naturali, coordinata da un disaster manager appositamente formato. Il costo di questa figura professionale, sconosciuta in Italia ma presente da anni all’estero, non è poi maggiore di una di quelle consulenze che gli amministratori continuano a foraggiare attualmente, anche in tempi di crisi. E una ragionevole decurtazione degli stipendi di consiglieri e assessori (almeno regionali) basterebbe e avanzerebbe. È poi ovvio che Roma non può avere gli spazzaneve di Stoccolma, né Genova l’Autorità di bacino del Po. Ma i mezzi possono essere resi disponibili da comuni vicini in cui quei rischi siano più frequenti o presi in affitto con opportune locazioni. E si può sempre imparare dalla marineria: le scialuppe di salvataggio delle grandi navi hanno equipaggi composti da figure che normalmente recitano altri ruoli, cuochi che diventano timonieri e camerieri che manovrano i comandi. Basterebbe formare chi ha altre competenze a muoversi nell’emergenza secondo compiti precisi ben assegnati: chi si occupa normalmente di cartellonistica può spalare la neve e chi sta negli uffici del servizio giardini spostarsi sulle strade quando serve.

A questo dobbiamo a aggiungere che i cittadini saranno meglio preparati se con regolarità partecipano a esercitazioni nelle scuole e negli uffici pubblici e se sanno dove andare. Inoltre una Protezione civile volontaria già assolve quasi tutte le funzioni emergenziali in tanti piccoli centri d’Italia. Con il rischio naturale dobbiamo convivere e non tutto si può prevedere, ma c’è bisogno di un atteggiamento culturale nuovo, che va costruito con pazienza da subito. Non arrangiato nell’emergenza confidando nella buona sorte.

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9760
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« Risposta #47 inserito:: Maggio 22, 2012, 03:41:44 pm »

21/5/2012

L'Italia del mattone va ripensata

MARIO TOZZI

Quando furono impiccati, ai patrioti risorgimentali di quella che sarebbe diventata l’EmiliaRomagna veniva anche imputata la colpa di aver scatenato i terremoti che nel 1831-1832 sconvolgevano la regione. A salvare Ciro Menotti sarebbe bastata un po’ di memoria o di lettura di cronache: già nel 1831 a Parma e Reggio Emilia vennero giù comignoli, muri, tegole e calcinacci.

Erano terremoti del VII-VIII grado della scala Mercalli, ma potevano arrivare al X, come furono intensi quelli del 1811, del 1810, del 1806 e quello del 1732, quando di moti non se ne parlava nemmeno. E non erano certo i primi terremoti di cui si conservasse memoria storica: molti morti avvennero nel Forlivese già nel 1279 e ancora vittime e distruzione nel 1688. Altro che inaspettati.

Oggi dovremmo essere consapevoli che quella fetta di pianura padana è a rischio sismico, anche se il pericolo non è eccessivo, se paragonato a quello di Messina o di Catania. Dal 1600 a oggi nella zona si sono registrati oltre 22 terremoti di rilievo. Il Ferrarese era considerata pericoloso già da tempo, tanto che Francesco IV d’Este concesse diversi finanziamenti straordinari, ma impose che i proprietari di case dovessero cavarsela da soli. Non solo: avevano anche l'incombenza di abbattere i comignoli pericolanti e ripulire le strade dalle macerie; ai meno abbienti avrebbe pensato, invece, un fondo di beneficenza. Eppure non pensiamo a questo come un territorio sismico e magari vogliamo imparentare questo sisma con quello de L’Aquila (comunque più distruttivo in quanto a forza). In realtà è un terremoto piuttosto simile a quello umbro-marchigiano del 1997: magnitudo simili (5,9 in quel caso), scosse di replica forti, praticamente lo stesso numero di vittime, identica situazione rurale fatta di piccoli centri abitati e importante patrimonio storico-monumentale in pericolo. La geologia è diversa e qui saremmo in pianura, ma bisogna abituarsi a pensare che nel sottosuolo padano c'è sempre una dorsale montuosa (quella ferrarese) che cerca il suo assestamento in tempi lunghissimi.

È però forse ora di stabilire una differenza che in Italia si sta imponendo rispetto ai terremoti e al rischio naturale in generale. C’è un’Italia chiaramente identificata come sismica che tutti conoscono bene: la dorsale appenninica, la Sicilia, la Calabria e la Campania, vengono giustamente considerate le zone di massima allerta. Poi c’è un’Italia di seconda fascia del rischio che, siccome densamente abitata e spesso dotata di un patrimonio costruttivo di rilievo, ma spesso non manutenuto, può subire vittime e danni anche per terremoti di entità media. Questo vale anche per le alluvioni: chi ci mette in salvo da tutti quei piccoli fiumi soggetti alle bombe d’acqua? Questa Italia di seconda fascia è più pericolosa della prima, soprattutto perché non te lo aspetti e perché bastano eventi di piccola entità per fare danni rilevanti. Insomma il rischio si accresce non per colpa della natura o della geologia, ma solo ed esclusivamente per colpa nostra, che non vogliamo fare i conti con il rischio naturale quotidiano, accresciuto dal nostro moltiplicarci e dall’accrescersi delle nostre esigenze.

Ora speriamo che il parallelismo con il terremoto umbro-marchigiano del 1997 finisca qui e non ci siano scosse di replica forti come la prima (o addirittura più violente, come avvenne in quel caso). Magnitudo 6 Richter dovrebbe essere la massima possibile per quella regione. Ci aspettiamo, comunque, settimane di repliche e notti insonni prima di tornare a prendere possesso delle case e iniziare a ricostruire. Sarebbe bene però mantenere viva la memoria, e muoversi di conseguenza: perché questa è la situazione tipica di gran parte del territorio nazionale, quella che conferisce un’identità paesaggistica all’Italia. Solo tre città superano il milione di abitanti, tutto il resto è fatto di Comuni piccoli e frazioni sparse per le campagne ormai antropizzate. In questa Italia ci sono i centri storici medievali, rinascimentali e barocchi insieme con i capannoni industriali. Mettere mano ai primi con limitati interventi può bastare, mentre i secondi vanno progettati con criteri antisismici, altrimenti farli d’acciaio non basterà. Il resto è un problema di cultura del rischio naturale. Ma non sembra in cima alle preoccupazioni della politica.


da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10129
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« Risposta #48 inserito:: Maggio 31, 2012, 04:26:04 pm »

30/5/2012

Quegli infiniti secondi di terrore

MARIO TOZZI

Esplode con la forza di cento ordigni nucleari, si nasconde nelle profondità della crosta terrestre spezzando le rocce più dure e frantumando case, strade e palazzi. Ci fa mancare la terra sotto i piedi e mina alla base la fiducia stessa nel pianeta che ci ha generati. A differenza degli altri eventi non si preannuncia in alcun modo, si approssima silenzioso e poi risuona con un rombo cupo che spaventa solo a ricordarlo. Dilata il tempo fino all'inverosimile: trenta secondi di scosse equivalgono a trenta minuti di terrore ancestrale. Finisce quando decide lui e poi riprende quando hai appena fatto in tempo a calmarti. E' contrario al senso comune, che ti spinge a precipitarti fuori casa, quando dovresti, invece, restare lì, e accoccolarti sotto un tavolo o un'architrave. Massacra le consuetudini quotidiane, sconcia i ricordi e di notte fa perfino tremare i sogni. Avevano ragione gli antichi, il terremoto è la catastrofe per antonomasia nel senso etimologico del termine, cioè l'evento che stravolge, che rovescia l'ordine costituito, che rovina per sempre.

E' molto probabile che la stessa grande struttura geologica sepolta sotto la Pianura Padana che ha scatenato il terremoto del 20 maggio, sia ancora la responsabile ultima di queste scosse micidiali. Si tratta di un frammento di Appennino nascosto che rimane intrappolato nella spinta del continente europeo contro quello africano. E che per questo si spacca lungo una faglia lunga almeno quaranta chilometri. Solo che non si frattura tutto insieme (e forse non è un male), ma a strattoni, e ogni volta che si aggiusta fa tremare come una gelatina i sedimenti sabbiosi poco compatti della Pianura Padana. Sono sismi superficiali e per questo più dannosi, che possono risentirsi fino a Milano e in tutto il Nord.
E sono destinati a presentare scosse di replica per settimane se non per mesi.

E' vero che nessuna spiegazione può bastare a chi ha perduto parenti o amici o ha visto sbriciolarsi sotto gli occhi la propria casa, ma forse è venuto il momento di renderci conto che il nostro è un territorio a elevato rischio naturale. E non importa se si tratta di eruzioni vulcaniche, alluvioni, frane o terremoti: comunque non riusciamo a trovare una via di convivenza che altre nazioni hanno intrapreso con successo. Certo, il nostro patrimonio costruttivo è antichissimo e non abbiamo uno skyline di grattacieli, ma di palazzi e chiese. Preoccuparsi dell'infragilimento di questo patrimonio non è solo questione di sicurezza, ma anche occasione di rilancio e di sviluppo ragionato. Invece in nessun programma politico locale o nazionale compaiono questi temi, nemmeno quando si ricorda che la nazione più grande del mondo ripartì proprio dalla messa in sicurezza del proprio territorio dopo la crisi del 1929, attraverso un New Deal incentrato sulla mitigazione del rischio idrogeologico (anche se fatto a colpi di acciaio e cemento).

E' vero, il terremoto mette addosso una paura atavica, primordiale che sa di polvere e di battaglia, quella ancestrale degli uomini contro la terra che diventa inospitale. E invece il terremoto è solo una testimonianza sfacciata della forza dinamica di un pianeta che è vivo e che muta costantemente i suoi equilibri. E l'Italia è uno dei paesi più giovani e geologicamente attivi del Mediterraneo: sarebbe bene adattarsi a questa condizione che non dipende in alcun modo da noi. Mentre da noi dipende la possibilità di convivere armonicamente con la natura di questo paese, se non trascuriamo la memoria e se a ricordarcelo non fossero sempre e solo le vittime.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10163
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« Risposta #49 inserito:: Giugno 02, 2012, 10:25:08 am »

Cronache

01/06/2012 - IL CASO

Se il cane abbaia prima della scossa

Le leggende (da sfatare) sul sisma

Le «verità» rivelate sul sisma e amplificate soprattutto dal web

Tutte, o quasi, false: eccole

MARIO TOZZI


Animali
Si sente spesso dire che c'è aria di terremoto, come una cappa afosa, anche in inverno, che preluderebbe al sisma. Come l'agitazione di cani, gatti, galline e maiali. A parte il fatto che i poveri maiali restano sotto le macerie come gli uomini, il boato del terremoto si risente anche nel campo degli ultrasuoni non percepiti dagli umani, ma dagli animali. Solo però qualche decimo di secondo prima della scossa. E i fenomeni meteorologici avvengono migliaia di metri sopra le nostre teste, quelli sismici decine di migliaia sotto i nostri piedi: nessuna relazione è possibile.

Cratere
Si continua a utilizzare la similitudine nata in Irpinia con il terremoto del 1980 che interessò una vallata simile a un cratere. Il paragone deriva anche dal fatto che i paesi distrutti si presentavano con quella forma. Ma i crateri sulla Terra li fanno solo i vulcani e le bombe.

Perforazioni & estrazioni
I terremoti emiliani dipendono dall'estrazione di gas dal sottosuolo padano? Trivellazioni e pozzi, indagini di prospezione, o la tecnica dell'allargamento delle fratture nel terreno per sfruttare i giacimenti (fraking) provocherebbero crolli sotterranei e dunque voragini e sismi. In questo caso dovremmo registrare molti terremoti in Arabia Saudita, Texas e Mare del Nord. E, al contrario, basterebbe fermare quei progetti per ottenere una nuova calma tettonica. Non ci sono cavità sotterranee che contengono idrocarburi o acqua, ma la roccia funziona come una spugna imbibita. L'estrazione provoca un locale costipamento dei serbatoi rocciosi che possono portare a un lento sprofondamento del suolo che si chiama subsidenza e che è ben noto in Pianura Padana. Ma che è proprio il contrario di un terremoto, che avviene molto rapidamente e più in profondità. Nessun pozzo scavato dagli uomini supera i 14 km di profondità, mentre i terremoti arrivano fino a 700 km.

Previsione
Sarebbe la scoperta scientifica del secolo, se fosse vera. Andrebbe però verificata in un contesto internazionale permettendo di riprodurla in altri laboratori, cosa che, curiosamente, non mai stata fatta. Sostenere che «tra marzo e novembre ci sarà un terremoto di magnitudo superiore a 5 fra Modena e Ferrara» non è nemmeno una previsione, visto che la distanza è di 59 km e 270 giorni sono tanti. E poi, cosa si dovrebbe fare, evacuare le due province per nove mesi? Anche a L'Aquila si fece una «previsione», che, in realtà, riguardava Sulmona e un lasso di tempo di mesi. Purtroppo i terremoti non si possono prevedere e solo una volta, in Cina nel 1975, è stato possibile farlo, ma in quell'occasione succedeva qualsiasi cosa: il terreno si alzava e si abbassava, c'erano continue scosse sensibili, si seccavano sorgenti, si liberava gas. Il regime cinese evacuò la regione di Haicheng e il terremoto fece «solo» mille vittime. Ma l'anno successivo il Tangshan fu scosso dal più disastroso terremoto di sempre, con oltre mezzo milione di morti. Liberazioni di gas radon dal sottosuolo possono essere utilizzate a questo scopo, ma è ancora presto per trarne schemi scientifici oggettivi.

Armi micidiali
Terremoti indotti dagli uomini e programma Haarp (High Frequency Active Auroral Research Program). In Alaska si sta sperimentando un sistema (Haarp) per provocare onde radio di debole intensità nella ionosfera per motivi civili e militari. E', invece, un tentativo di creare un'arma micidiale, una specie di cannone elettromagnetico che possa indurre terremoti? Nessuna forza controllata dall'uomo è in grado di generare terremoti di magnitudo elevata a distanza: la crosta terrestre ne modifica talmente il tracciato da non poter assolutamente indirizzare le onde sismiche eventualmente generate. Negli Anni 60 e 70 gli esperimenti atomici sotterranei di russi, cinesi e statunitensi hanno creato terremoti, ma deboli e ben riconoscibili su un sismogramma. L'aspetto assurdo è che i test cinesi avrebbero scatenato terremoti in Alaska e quelli statunitensi in Iran, scatenandosi due o tre giorni dopo l'esplosione. Un terremoto come quello emiliano sprigiona l'energia di decine di ordigni atomici che esplodono tutti insieme lungo una faglia in profondità.

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/456527/
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« Risposta #50 inserito:: Giugno 04, 2012, 09:43:03 am »

Mario Tozzi: “Non esistono catastrofi naturali, esiste l’incuria umana”


Il noto geologo, ricercatore del Cnr, denuncia: l’Italia è un paese dove si ha come unica priorità il guadagno e in cui si usa la presunta emergenza abitativa come scusa per cementificare ogni lembo del territorio. Così aumenta il rischio sismico e anche idrogeologico.


Intervista a Mario Tozzi di Mariagloria Fontana

Il nostro è uno dei Paesi a maggiore rischio sismico del Mediterraneo. Che tipo di prevenzione si può fare?
È un Paese che ha costruito troppo e non ha saputo manutenere nulla. In questo senso, va ripensato il territorio. La questione del recente sisma in Emilia è molto più grave di quanto non appaia. Guardando le immagini in onda in questi giorni in televisione, si vedono molti casali distrutti in mezzo alla campagna. Erano edifici vuoti, disabitati, non li hanno manutenuti e sono caduti, ma perché qualcuno non ha pensato a eliminarli o a ristrutturarli? Continuiamo a costruire senza criterio. Così facendo esponiamo le case al rischio. Questa è la filosofia del nostro Paese.

Come potrebbe intervenire la politica?
La politica dovrebbe invertire questa tendenza. Basta con le concessione edilizie date a chiunque. Basta con il consumo di suolo e di territorio che non fanno altro che aumentare il rischio sismico e anche idrogeologico, soprattutto quando ci sono eventi come terremoti e alluvioni. Al contrario, la politica dovrebbe impiegarsi nel fare programmi di ristrutturazione e di riconversione ecologica e di sicurezza delle abitazioni e delle opere pubbliche.

Ci sono degli aspetti dei terremoti che possono essere prevedibili?
No. Ci sono segni che sono così poco evidenti che non riusciamo ancora a individuare il come e il quando avverrà il terremoto. Ricordo solo un caso in cui prevedemmo un sisma catastrofico. Era il 1975 in Cina, ma fu possibile soltanto perché i segnali erano talmente tanti e tali che a quel punto si diede l’allarme generale e si fecero evacuare tutte le zone interessate. Morirono ‘solo’ mille persone, se ne salvarono ben 150.000. Mentre nel terremoto contiguo persero la vita in 500.000. Anche la storia del gas radon che esce dal sottosuolo e che a seconda della sua diminuzione o del suo aumento sarebbe sintomatico di un prossimo terremoto ancora non permette di sistemare è soltanto ancora un’idea. Non siamo in grado di prevedere il terremoto, possiamo dire quali sono le zone pericolose. Inoltre, ritengo fuorviante ciò che si dice sulla previsione, perché se ci si occupa della previsione si diventa disattenti verso la prevenzione, che è l’unico strumento che si possiede per evitare catastrofi. Io dico sempre: cercate di costruire meglio e non fate i veggenti.

Cosa ne pensa dell’inchiesta che il procuratore capo di Modena Vito Zincani ha aperto in seguito alle morti causate dai crolli dei capannoni durante il sisma?
Credo che faccia bene ad aprire un’inchiesta, perché ci può essere sempre qualcuno che ha barato, per esempio sui capannoni costruiti dopo il 2003, vale a dire quando c’era già in vigore una legge sulle costruzioni antisismiche. Se non hanno costruito con i giusti criteri, devono pagarne le conseguenze. Però se, al contrario, si tratta di capannoni più vecchi del 2003, cioè quando non si aveva l’obbligo antisismico, si costruiva al meglio che si poteva, come se quella zona non fosse sismica. Naturalmente questo tipo di prassi si è rivelata un grosso errore. Certo, ci può essere stata qualche perizia geologica non completa nel sottosuolo perciò si potrebbe non aver tenuto conto di effetti locali di amplificazione di alcune onde, ma mi pare non più di questo. Non so a che cosa porterà questa inchiesta. Tuttavia, se servisse di monito per il resto d’Italia, un senso ce l’ha.

Zincani, parla di ‘politica industriale suicida’.
Bisogna vedere se queste parole sono giustificate dal fatto che lui sa qualche cosa. Se qualcuno ha spostato un pilone per far passare meglio le macchine, se ha alleggerito la struttura facendo qualche intervento successivo. Oppure se si tratta di progetti leggeri, nessuno era obbligato a fare progetti pesanti prima del 2003. Quindi mi sembra difficile imputare una responsabilità a qualcuno che ha costruito qualcosa secondo le regole vigenti allora. Vedremo di che cosa si tratta.

Lei sta affermando che nessuno di noi è al sicuro dentro le proprie abitazioni se sono state edificate prima del 2003?
Nessuno può essere al sicuro nel caso di un sisma, perché molto dipende da come è stato costruito l’edificio. Persino di fronte a terremoti non particolarmente energetici, se non si controlla l’edificio, se non sono stati fatti dei piccoli interventi, non si è sicuri. Questo lo dobbiamo sempre tenere presente. Anche quando dicono che Roma è sicura perché è vuota, non è del tutto vero. Nella capitale ci sono edifici vetusti che appoggiano su una struttura geologica che amplifica le onde. Roma non ha terremoti suoi, ma quando ne arriva uno forte dagli Appennini ne risente. Ripeto: è un paese che va ripensato da un punto di vista delle costruzioni.

Quanto entra in gioco la responsabilità umana durante avvenimenti come il sisma che ha colpito l’Emilia o l’alluvione a Genova nell’ottobre scorso?
Le catastrofi naturali non esistono. Ci sono eventi naturali che diventano catastrofici per colpa dell’incuria umana.

In Giappone e in California si è fatto molto in relazione alla prevenzioni antisismica. L’Italia può prendere esempio da questi Paesi?
Il nostro patrimonio costruttivo è molto diverso. Il patrimonio della California non è più vecchio di duecento anni. Il Giappone è più antico, ma sono abituati da sempre a convivere con il sisma. Infatti il loro modello deriva dalla pagoda birmana che oscilla, è costruita attorno a un asse, che è un palo centrale, ed è sferica. Però loro non possiedono il patrimonio medioevale, rinascimentale, barocco che invece caratterizza noi. Sulle costruzioni moderne, i giapponesi sono stati bravi, efficienti, noi invece abbiamo costruito approssimativamente pensando solo al guadagno.

Sovente si parla di materiali antisismici. L’acciaio è molto utilizzato. Lei cosa può dirci a riguardo?
L’acciaio è un materiale ottimo per i terremoti perché è molto elastico. Però se non c’è un progetto antisismico alla base della costruzione anche l’acciaio, come il cemento armato, non funziona, perché non li hai assemblati in maniera da poter resistere al terremoto. Il problema non è il materiale, ma il fatto che accanto ai materiali non si sia affiancato un progetto antisismico.

La tutela e l’etica del paesaggio che ruolo giocano?
Rilevantissimo. La tutela è di tre gradi. Il primo livello è la tutela dei cittadini. Oltre il 50% del territorio italiano è a rischio sismico, poi ci sono alluvioni e vulcani. In alcuni luoghi non si può costruire, ci si deve spostare. Il secondo grado riguarda il fatto che si debba costruire in maniera più efficiente e con tutti i parametri, perché sprechiamo moltissima energia nelle case e abbiamo solo un terzo dei consumi. Infine, si deve edificare rispettando il paesaggio naturale, il contesto e l’ambiente circostante.

Quali sono i parametri per poter rispettare il paesaggio?
Il primo precetto è che non si deve consentire l’abuso edilizio. Mai. Non solo, non si deve consentire di consumare più suolo. Alcune provincie stanno provando a metterlo in atto, ad esempio Torino. Nei nuovi piani regolatori non ci deve essere più il consumo di suolo, perché è già consumato. Negli ultimi 40-50 anni, oltre tre milioni di ettari, stiamo parlando di un pezzo grosso di nazione, sono diventati: case, strade e cemento, senza alcuna necessità, visto che la popolazione italiana è cresciuta molto poco. Dunque, la priorità sarebbe ristrutturare il patrimonio esistente, cambiare completamente i piani e le cubature che invece prevedono ancora consumo di suolo. Ogni anno in Italia si consumano 150 mila ettari di suolo, non ce lo possiamo permettere. In Inghilterra ne consumano 30.000, in Francia e Germania 40.000. Se si pensa al piano casa della Regione Lazio: è assurdo, una sciagura. Addirittura vogliono costruire nelle aree protette. I politici promotori del piano casa del Lazio lo giustificano secondo criteri di sviluppo, come se in un paese moderno lo sviluppo dovesse essere ancora legato all’edilizia! Non siamo in tempi di guerra. Nessuno gliel’ha detto? È una politica propria di un paese del Terzo Mondo.

E l’emergenza abitativa?
Non esiste l’emergenza abitativa, ci sono 30 milioni di vani sfitti. L’Italia è un paese che si duplica continuamente con seconde e terze case. Mettiamo un freno a questo nonsense edilizio. Nel nostro Paese quasi l’80% delle persone è proprietaria dell’immobile. Per non parlare della tutela del bello, del valore estetico delle costruzioni. C’è uno schifo generale. L’unica esigenza a cui si risponde è quella di fare mattoni e cemento, perché si pensava e si pensa ancora che quella sia l’unica fonte di guadagno. Soltanto per questo scopo si continua a costruire. Investiamo tutto nelle case. Siamo un paese arretrato che vive nell’approssimazione, non sopporta le regole e gestisce male le emergenze. In più, riusciamo a muoverci male persino nell’ordinario.

(1 giugno 2012)

da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/mario-tozzi-non-esistono-catastrofi-naturali-esiste-l%E2%80%99incuria-umana/
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« Risposta #51 inserito:: Giugno 10, 2012, 11:19:25 pm »

9/6/2012

Cosa c'è sotto l'Italia

MARIO TOZZI

Sotto la Pianura Padana, il luogo anche simbolicamente più tranquillo e produttivo del paese, non c’è un mostro e nemmeno un killer silenzioso e infido. Però là sotto si annida una realtà geologica che non rassicura e che, anzi, allarma cittadini e istituzioni. Successioni di rocce stratificate che giacciono piegate e spezzate al di sotto dei sedimenti sabbiosi del Po, un frammento avanzato del continente africano che si scontra con quello europeo da milioni di anni.

Da questa collisione sono nati Alpi e Appennini, e da questa collisione derivano i fenomeni vulcanici del Sud Italia e, più o meno direttamente, i sismi dell’intero Paese. Conosciamo bene questa grande piega sotterranea allungata per decine di km in direzione Est-Ovest da Modena a Ravenna. È ben rappresentata nelle mappe e nelle sezioni geologiche e sappiamo che si trova attualmente in uno stato di stress attivo che ha già generato almeno tre rotture di rocce in punti diversi: Finale Emilia, Mirandola e Ravenna per semplificare. Purtroppo l’osservazione diretta di queste strutture geologiche non è possibile: non basterebbe un solo pozzo e il più profondo che gli uomini abbiano mai scavato arriva appena a 14 km, contro una fascia sismica terrestre che può toccare i 700 km di profondità.

Per questo è possibile fare una previsione del tempo e non una del terremoto: non riusciamo a guardare in faccia gli elementi che si scontrano in profondità e possiamo solo condurre deduzioni indirette, fondate su pochi dati del sottosuolo e sulla geologia di superficie. Non sappiamo perciò, e non possiamo sapere, quando la struttura accumulerà abbastanza tensione per rompersi ancora, ma sappiamo che lo farà prima o poi, perché quella tensione è in accumulo ed è quell’accumulo che ha generato la struttura stessa.

Sono i dati geologici a dircelo più che quelli sismologici: non si sono riscontrati, per intenderci, fenomeni eclatanti che potrebbero portare a una previsione o a un allarme: non si intorbidano le acque, non si sprigionano gas dal sottosuolo. Un dato che abbiamo (del Cnr) è che, dopo la scossa del 29 maggio, il suolo nell’area si è sollevato di 12 cm, anche se questo non vuol dire che si approssimi un sisma.

Non possiamo prevedere i terremoti, ripetono gli esperti come in un mantra, ed è vero; ma possiamo prestare attenzione al quadro geologico complessivo quando questo si è improvvisamente attivato dopo cinquecento anni, come è accaduto nel Ferrarese. Sappiamo che le scosse di replica si susseguiranno per settimane, che ce ne possono essere di magnitudo comparabile a quella iniziale e non possiamo escludere che un altro segmento di quella struttura sepolta si possa riattivare.

Quello che però meglio sappiamo è che una scossa che dovesse colpire ancora le zone in cui le strutture sono state così indebolite sarebbe estremamente più distruttiva della magnitudo che potrebbe sviluppare. E sappiamo che scosse che dovessero colpire il settore orientale dell’Emilia troverebbero quegli abitanti e quelle case impreparati come i cittadini di Finale o di Mirandola. Molte volte l’energia del sottosuolo si è accumulata per mesi e poi si è liberata asismicamente oppure si è cristallizzata: questa è la speranza.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10210
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« Risposta #52 inserito:: Giugno 25, 2012, 10:16:06 am »

23/6/2012

Rio+20, è finito il tempo dei summit

MARIO TOZZI

Davvero non vale la pena interrogarsi su quale straordinaria occasione si sia sprecata a Rio, vent’anni dopo il primo summit sulla Terra.

Già in quell’occasione abbiamo sentito gli stessi allarmi e le stesse identiche lamentele. Oggi c’è un solo punto di novità: la crisi economica gravissima che ci attanaglia. E che relega ancora di più l’ambiente in fondo alle preoccupazioni degli uomini del pianeta Terra. Poteva essere il momento giusto per comprendere la connessione fra la crisi economico finanziaria e il deficit ecologico che abbiamo scatenato in quegli ecosistemi che sono alla base del nostro benessere. Si sarebbe potuto discutere in modo meno ridicolo sugli aggiustamenti sintattici di protocolli sempre meno impegnativi e un po’ di più di cose concrete da fare. Si poteva proporre un modello nuovo di sviluppo che non fosse basato solo sulla crescita quantitativa, ma su efficienza e equilibrio, anche a favore di chi verrà dopo di noi. La riconversione ecologica del pianeta è inevitabile e non si può produrre una crescita infinta da sistemi naturali che sono, per definizione, finiti.

Ma quello che a Rio nel 1992 era un dubbio oggi è diventato una certezza: sono pochissimi gli uomini e i governi che si impegnano a cambiare rotta se gli eventi non diventano davvero drammatici. Si può opporre al cambiamento climatico l’abitante degli atolli oceanici minacciati direttamente dall’innalzamento del livello dei mari, non il cittadino statunitense del Midwest o il cinese di Shanghai che non si avvedono di alcun problema. I danni ambientali non vengono scaricati tutti insieme su una nazione progredita come un’alluvione, ma si distribuiscono giorno per giorno accumulandosi in maniera per ora impercettibile. Come si può pensare a una reazione significativa se il danno non è percepibile immediatamente?

Per questo forse il tempo dei grandi summit sulla Terra è finito: non solo non bastano più, ma rischiano anche di produrre un effetto indesiderato, quello di un rumore di fondo da cui è difficile estrapolare le emergenze reali. Se tutto è emergenza come si fa ad allarmarci ancora? Ciò non significa che le emergenze ambientali non siano gravi, tutt’altro, ma gli uomini quasi non vogliono più sentire che la temperatura media dell’atmosfera si innalzerà di 4°-5°C, perché fino a che lo sconvolgimento climatico non precipita sembra quasi inutile agitarsi. Ormai lo sappiamo benissimo: la sovrappopolazione e la crisi ecologica porteranno alla fine delle risorse e delle fonti energetiche tradizionali, all’inquinamento generalizzato e alla perdita di benessere del genere umano. Ma, siccome ancora non succede, possiamo sempre sperare che avvenga il più tardi possibile.

Se non se ne può più di conferenze sulla Terra, però non sarebbe giusto gettare l’acqua con tutto il bambino e si potrebbe recuperare una delle parole d’ordine del movimento ecologista mondiale: pensa globalmente e agisci localmente. Forse così si potrebbe avere una qualche possibilità di successo: è difficile difendere l’integrità della foresta amazzonica, anche se vale la pena farlo, se si abita a New York o a Milano. Lo dovrebbero fare in prima persona coloro che da quella foresta traggono ragione di vita sostenibile, cioè le popolazioni locali verso cui dovrebbero essere indirizzati, direttamente sul posto, gli aiuti internazionali. Soldi e energie agli autoctoni, non ai governi. Insomma, impedire che il bosco sotto casa venga ingoiato dal cemento è più facile che non difendere astrattamente la foresta globale della Terra.

Se si agisce localmente senza dimenticare la dinamica globale terrestre, ecco che anche la traduzione politica di quanto viene detto a Rio può diventare efficace. E in più si supererebbe l’effetto frustrante di agitarsi per grandi battaglie che non arrivano quasi mai al successo pieno. Difendiamo l’albero per difendere la foresta, l’individuo per la specie, il fiume per il mare e allora forse avremmo fatto un passo in avanti. A meno di non sperare nella risposta ultraliberista: niente più protocolli vincolanti ma solo la libera iniziativa degli stati. Ma se il libero mercato fosse in grado di risolvere quella che è la più grande sfida che l’umanità si sia mai trovata di fronte lo avrebbe già fatto, senza attardarsi così pericolosamente vicino al punto di non ritorno.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10257
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« Risposta #53 inserito:: Agosto 04, 2012, 09:42:36 am »

2/8/2012

Quanto costa l'indipendenza energetica

MARIO TOZZI

Mario Tozzi risponde al commento di Joseph S. Nye pubblicato martedì che sosteneva che la strada dell’indipendenza energetica sarà decisiva per la ripresa Usa.

Il fatto che in pochi anni gli Stati Uniti diventeranno pressoché autonomi da un punto di vista energetico è senz’altro un’ottima notizia per quel Paese. Ma lo è altrettanto per il resto del mondo e per l’ambiente del pianeta Terra? La risposta è no, per una serie di motivi. L’autonomia energetica si realizzerà attraverso coltivazioni petrolifere più spinte e un miglioramento tecnologico nello sfruttamento dei serbatoi di gas naturale che terrà anche conto dei problemi ambientali prodotti. Se ne terrà conto, però, solo da un punto di vista economico, cioè dell’incremento di spesa da calcolare perché lo sfruttamento sia ancora conveniente. E le conseguenze ambientali e sulla salute degli uomini che bruciare idrocarburi inevitabilmente provoca, quando vengono calcolate? Considerare questi solo costi esterni, come si è fatto finora, produce un danno gravissimo e induce a considerare le fonti energetiche tradizionali come competitive quando in realtà non lo sono affatto. Un chilovattora prodotto attraverso gli idrocarburi, il carbone o l’uranio, non ha un costo che è possibile fissare a priori, come invece si fa per le energie rinnovabili, perché dipende da quanti morti e inquinamenti produrrà, parametro difficile da considerare in anticipo. Un costo sociale che verrà comunque addossato alla comunità e non accollato a chi lo ha prodotto.

Insomma, si tratta di un scelta dannosa dal punto di vista ambientale e sociale che, oltretutto, rimanda di pochi anni il problema più grave di tutti, quello dell’esaurimento inevitabile delle riserve. In ogni caso oltre il 40 per cento degli idrocarburi resta nelle rocce, anche utilizzando le tecnologie più spinte che, comunque, danneggiano l’ambiente e sono dispendiose dal punto di vista energetico. Si arriva al paradosso degli scisti bituminosi, che abbisognano di più energia per estrarli di quella che se ne ricava bruciandoli, provocando, nel contempo, disastri ecologici senza fine. Ci si illude di tirare a campare per qualche altro anno e nel contempo si spingono anche le altre nazioni potenti o emergenti a comportarsi nello stesso modo: se riduco i costi dei combustibili fossili, allora perché cercare altre vie ancora incerte e ancora più care (solo in apparenza, per le ragioni sopra citate a proposito di esternalità)? Di più: perché allora non riaprire le esplorazioni nelle regioni ancora interdette? Si può trivellare in Artico, con buona pace degli orsi bianchi in estinzione, anche se da qui non si ricaverà un incremento maggiore del 2-4 per cento sulla produzione nazionale degli Usa. E in Antartide, dove un trattato internazionale del 1959 impedisce le perforazioni - ancora non si sa per quanto tempo.

La cosa può avere un riflesso anche da noi: concessioni per esplorazioni petrolifere vengono richieste e promulgate in regioni sensibili da un punto di vista ambientale come le coste tirreniche campane o siciliane. Non si tratta di siti particolarmente prospettivi da un punto di vista geologico, ma se un domani si potessero inseguire gli idrocarburi a profondità oggi impensabili (non si superano i 7000-8000 metri) si scatenerebbe una guerra per i target profondi dalle conseguenze ambientali inimmaginabili. Pensiamo per un attimo a quanto accaduto solo due anni fa nel Golfo del Messico con l’incidente alla piattaforma Deepwater Horizons. Per non parlare dell’impatto paesaggistico, come viene giustamente fatto notare a gran voce dalle associazioni ambientaliste che chiedono la cessazione delle attività prospettive off-shore.

Il gas naturale è senza meno l’affare commerciale del XXI secolo: conviene economicamente rispetto al petrolio e al carbone, e ci sono riserve ancora sufficienti per oltre 50 anni. Possiede anche qualche vantaggio ambientale: non produce ceneri o particolato, rilascia meno anidride carbonica nell’atmosfera e brucia in modo più efficiente rispetto a carbone e petrolio. L’anidride carbonica che si produce dalla combustione del gas è fino al 30% inferiore rispetto a quella prodotta con il petrolio, e fino al 50% in meno di quella che emette il carbone. Questo vale anche per gli altri inquinanti: in un Paese come l’Italia - usando il gas invece di altre fonti - in un anno si emettono in meno 84 milioni di tonnellate di CO2, 660.000 tonnellate di ossidi di zolfo e 114.000 di ossidi di azoto e, non meno importante, 47.000 tonnellate in meno di polveri. Dunque non si producono ceneri, né particolato e molta meno anidride carbonica rispetto alle altre fonti tradizionali. Ma, come gli altri, il gas inquina e incrementa il surriscaldamento atmosferico e, come gli altri, costa e non è inesauribile, anche se durerà un po’ più a lungo. Siamo sicuri che occorrerà aspettare la fine di tutti gli idrocarburi per dichiarare conclusa la nefasta età del petrolio?

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10396
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« Risposta #54 inserito:: Agosto 09, 2012, 05:45:35 pm »

9/8/2012

Berremo vino norvegese?

MARIO TOZZI

Iniziare la vendemmia nostrana nel giorno più caldo dell’anno, ancora all’inizio di agosto, colpisce il nostro immaginario più del calo della produzione che pure giustamente preoccupa gli agricoltori. Ma già da qualche anno non è più settembre il mese dedicato alla raccolta dei grappoli e la fascia climatica della vite si sta spostando con rapidità verso nord in tutta Europa.

Fra qualche anno anche gli ulivi potrebbero iniziare a migrare più a settentrione e stessa sorte potrebbe toccare a molte coltivazioni tipiche del Mediterraneo meridionale come le palme. Spostamenti del genere non ci dovrebbero sorprendere, basti pensare che, tra l’XI e il XIII secolo, si vendemmiava allegramente perfino in Cornovaglia e lungo il Tamigi, mentre, ai tempi di Erik il Rosso, l’orzo veniva mietuto in Islanda e perfino in Groenlandia.

Fino al 1500 a.C. la temperatura media dell’emisfero boreale era più elevata di circa 3°C (in media) rispetto a quella attuale. Oscillazioni caldo-freddo si susseguirono poi fino alla fine dell’epoca romana (V secolo), quando iniziò un brusco raffreddamento fino all’800 e poi un riscaldamento fino al 1250. Ma già nel 1315 freddo, ghiaccio e carestie diedero un segno di come il clima influiva sulla vita degli uomini: precipitazioni intense riducevano tutto a pantani fangosi, il grano non maturava più e, nel ciclo più freddo (fra il 1680 e il 1730), non si riusciva neppure a riscaldare le abitazioni delle isole britanniche, al cui interno si arrivava a malapena ai 3°C. Dal 1300 al 1850 circa l’Europa e l’emisfero settentrionale furono investiti da un peggioramento climatico senza precedenti. Il Tamigi ghiacciò diverse volte in quei secoli, tanto che poteva esser ridisceso in slitta; nel 1440 la viticoltura scomparve dalla Gran Bretagna. E tutto questo in ragione di solo mezzo grado centigrado in meno nelle temperature medie invernali rispetto al XX secolo: sono sufficienti centesimi di grado per mettere in pericolo intere popolazioni e cambiare la storia, figuriamoci per stravolgere l’agricoltura.

Il clima cambia da sempre, anche se il mutamento attuale ha qualcosa di diverso. Intanto è molto veloce e molto robusto, tanto da risentirsi in poche stagioni su coltivazioni tradizionalmente stabili. Poi è a scala globale, cioè riguarda tutto il pianeta. Infine porta come corollario uno sconvolgimento meteorologico che è ancora più pesante: tempeste fuori stagione e fuori dalle regioni tradizionalmente interessate, bombe d’acqua vere e proprie, trombe d’aria e dissesti generalizzati. Siccome insieme alle fasce climatiche si sposta il mondo vegetale nel suo complesso, tutto ciò ha un impatto micidiale per l’agricoltura, che ancora più ne risentirà nei prossimi anni. Oltretutto le piante, per definizione, non si spostano velocemente, dunque potrebbe accadere che si traslino le tradizionali zone di produzione di vini per portarle più a nord; ma si sa che, oltre al clima, contano il vitigno e soprattutto il suolo: si potrà produrre il Nero d’Avola in Friuli? O l’Aglianico in Piemonte? Per non parlare della possibilità che i vini italiani si ritrovino domani a competere con rinomati rossi magari della penisola scandinava.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10416
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« Risposta #55 inserito:: Ottobre 15, 2012, 06:04:01 pm »

Editoriali

15/10/2012

Nell’attesa del diluvio come nel Medioevo

L’allerta meteo di Roma ci scopre indifesi e senza alcuna cultura del rischio naturale

Mario Tozzi

Vi scrivo mentre fa notte nell’attesa del diluvio su Roma. Come gli uomini del Medioevo, che si asserragliavano nelle case mentre le guardie spegnevano le ultime fiaccole e si chiudevano i cancelli delle città, così i romani aspettano le ultime ore di quiete prima della tempesta. 

 

Fa un caldo ancora esagerato, e questa è una delle ragioni dell’acuirsi dei fenomeni meteorologici violenti: c’è troppo calore atmosferico in giro, come a dire molto alimento per le tempeste. La Protezione Civile ha diramato messaggi inquietanti e ha suggerito di non mettersi in movimento per 72 ore. Forse è rimasta scottata dalle ultime polemiche con gli amministratori locali, che hanno sempre sostenuto di non essere stati avvertiti in modo soddisfacente, e allora solleva allarmi pure quando non è indispensabile.

 

Ma forse si è semplicemente arrivati alla convinzione che il clima sta cambiando rapidamente e che oggi si rovesciano in pochi minuti quantità d’acqua che un tempo cadevano in settimane. 

 

E del resto come condannare questo atteggiamento iperprudente, quando si ripensa alle ultime emergenze capitoline in cui gli amministratori locali hanno fatto spesso la figura di coloro che non capiscono e non vogliono capire. Hanno confuso i centimetri di neve con i millimetri di pioggia, hanno sottovalutato le ondate di calore, hanno visto la città eterna affogare sotto un metro di acqua e fango mentre i tombini erano occlusi dalle foglie morte. Peggio di così è difficile. Ma anche il loro comportamento denuncia una verità che non si può più sottacere: siamo oggi indifesi rispetto agli eventi climatici né più né meno di quanto lo fossero i nostri antenati medievali. Ci siamo modernizzati negli allarmi, però, e la Roma di questa vigilia del diluvio assomiglia a New York che aspetta il tifone o a Miami che viene evacuata nelle imminenze di un uragano. Strumenti di monitoraggio sofisticatissimi ci permettono di seguire le tempeste minuto per minuto dalla loro formazione. Ma nessuno strumento ci riesce ancora a difendere dal vento, dai fulmini, dalla pioggia e dalla neve. 

 

E così me ne sto chiuso in casa e domani non mi sposterò ne porterò mio figlio alle elementari, mentre ancora non si sa se le scuole saranno chiuse d’ufficio oppure no. Purtroppo la nostra percezione degli eventi naturali a carattere catastrofico è sempre la stessa: ne abbiamo una paura tremenda ma non facciamo nulla, ma proprio nulla, per prevenirli. Soprattutto nelle grandi città, dove vive ormai oltre la metà delle persone del pianeta, sclerotizzate dal cemento e da argini impossibili e ponti strettissimi, dimentichi di quei fiumi che pure sono stati padri delle loro civiltà. Chi si ricorda oggi del Tevere a Roma? Eppure senza il fiume sacro non ci sarebbero stati civiltà, acquedotti e strade. Oggi è ridotto a un rigagnolo di acqua melmosa precipitato in fondo a argini di pietra che lo sottraggono al respiro dei cittadini. Però non è ancora del tutto domato, e sarebbe in grado di esondare a Ponte Milvio e invadere perfino la Città del Vaticano e Trastevere in poche ore. 

 

Il nostro territorio è sempre più impreparato alle bombe d’acqua che arriveranno e certamente non è una questione tecnologica o di saperi scientifici che ormai sono acquisiti. E’ una questione di mancanza di cultura del rischio naturale in una popolazione che si ritiene generalmente immune fino a che un’impossibile previsione di terremoto o di tempesta non gli sbatte in faccia la realtà naturale che cerca di tenere fuori di casa per la maggior parte dell’anno. E abbiamo così tanti problemi che è meglio contare sulla buona sorte: vedrai che la scampiamo anche stavolta.

da - http://lastampa.it/2012/10/15/cultura/opinioni/editoriali/nell-attesa-del-diluvio-come-nel-medioevo-LIQyOThdWkkjuNlMkaN44M/pagina.html
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« Risposta #56 inserito:: Ottobre 23, 2012, 06:02:30 pm »

Editoriali
23/10/2012

Terremoti, sarà sempre allarme

Mario Tozzi

Una sentenza assolutamente incomprensibile da un punto di vista scientifico, e profondamente diseducativa. 

Una sentenza con la quale finalmente l’Italia si allinea con gli altri paesi del mondo dove gli scienziati vengono condannati dai tribunali teocratici e il terremoto considerato un castigo divino. Lo stesso atteggiamento usato, quasi due secoli fa, verso gli insorti risorgimentali emiliani cui si imputavano i danni dei sismi insieme allo sconvolgimento sociale. Nell’attesa di conoscere le motivazioni della sentenza possiamo forse puntare l’indice contro qualche parola eccessivamente rassicurante degli esperti, ma solo per invitare comunque a un maggiore riserbo. 

Quello che resta è però un punto di svolta gravido di conseguenze potenzialmente devastanti. Da oggi in poi nella sola Italia, si badi bene, perché una sentenza simile non è neppure immaginabile in altri paesi moderni, a ogni registrazione di uno sciame sismico persistente (diversi all’anno) i ricercatori dovranno allertare la Protezione Civile e obbligare allo sgombero di province e intere regioni. Nel caso specifico de L’Aquila nessuna previsione puntuale era stata fatta e qualcosa si era detto solo a proposito di Sulmona che, peraltro, non subì alcun sisma. La ragione è presto detta: i terremoti non sono ancora prevedibili, nonostante tutti gli sforzi dei ricercatori, e solo se dovessero concorrere fenomeni eclatanti si potrebbe, a ragione, allertare o evacuare. Per intenderci, tremori continui per giorni, rilascio di gas dal sottosuolo, gonfiori o avvallamenti del terreno, frane, sorgenti che si intorbidano e pozzi che si seccano. Questo quadro non era presente nell’Abruzzo del marzo 2009. Che si doveva fare: sgomberare l’intera regione? E quante volte l’anno lo si dovrebbe fare lungo la dorsale appenninica? E, se ci è consentito, chi è il consulente tecnico d’ufficio del Tribunale (il perito super partes), visto che i massimi esperti sismologi italiani sono alla sbarra?

Questa sentenza ci dice che sì, i terremoti italiani sono prevedibili e che si farebbe bene a evacuare intere regioni anche per minimi allarmi. E un domani non fossero disponibili quei testoni di scienziati ci si potrebbe affidare a santoni e divinatori, ché tanto nel paese abbondano. Ci dice altresì che i giudici italiani non hanno un’idea neppure pallida e lontana di cosa sia un terremoto da un punto di vista fisico e credono che si tratti di un fenomeno gestibile come il tempo di domani. Ci dice infine che è inutile fare prevenzione, costruire meglio e rinforzare quanto già esiste: non sfiora la mente dei nostri che un terremoto di magnitudo 6,3 Richter in un paese moderno non dovrebbe far crollare neppure un cornicione e che dunque è tutto l’anno che ci si dovrebbe dare da fare, non solo nel corso di uno sciame sismico perché comunque in quel momento è troppo tardi. Ci dice, infine, che da domani il territorio italiano, che è a rischio sismico al 50% (con punte del 100% in Calabria per esempio), va immediatamente militarizzato perché la popolazione deve essere pronta a evacuazioni ogni volta che si presentino condizioni simili a quelle aquilane. E che nessun esperto si prenderà mai più la responsabilità di guardare con obiettività i dati: sarà comunque obbligato a un allarme che almeno tenga lontano il carcere. 

da - http://www.lastampa.it/2012/10/23/cultura/opinioni/editoriali/sara-sempre-allarme-Jllnv2e8M5g2C4EJo2MTqM/pagina.html
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« Risposta #57 inserito:: Novembre 13, 2012, 07:38:51 pm »

Editoriali
13/11/2012 - L’analisi

Il prezzo dei condoni

Rischio idrogeologico troppo alto. Intere zone andrebbero evacuate

Mario Tozzi


Che cosa si può fare in un Paese in cui si verifica uno smottamento ogni 45 minuti e dove, per frane a e alluvioni, muoiono otto persone al mese? In un Paese in cui oltre il 50% per cento del territorio è a rischio idrogeologico e in cui sono avvenuti, nell’ultimo mezzo secolo, circa 15.000 eventi gravi? 

 

In un Paese in cui, infine, le piogge sono cambiate drammaticamente negli ultimi quindici anni (nella provincia di Genova, nel dicembre 2009, caddero 450 mm di pioggia in un giorno, cioè la stessa quantità che cadeva normalmente in sei mesi)? In Italia ci sono circa 6600 comuni ad elevato rischio idrogeologico: il 100% in Calabria, Molise, Basilicata, Umbria e Valle d’Aosta, il 99% di Marche, Lazio, Toscana e Liguria, oltre il 90% in Emilia Romagna, Campagna e Abruzzo. Secondo il CNR, quasi il 15% del totale nazionale delle frane, e quasi il 7% delle inondazioni, avviene in Campania (1.600 in 75 anni), dove 230 comuni (da Ricigliano a Sorrento) su 551 sono a rischio di smottamento; le vittime per questi due eventi, negli ultimi 50 anni, sono state quasi 400 sulle 4.000 nazionali. Nella sola Genova 100.000 abitanti vivono in zone a rischio, cioè a dire che un genovese su sei rischia di essere coinvolto in piene e frane. 

 

Sono numeri da primato europeo del dissesto per una ragione ben precisa, l’Italia è il paese in cui più si costruisce e l’unico in cui si condona. Ogni anno circa 500 kmq di territorio nazionale vengono ricoperti di cemento e di asfalto. Cosa che lo rende complessivamente impermeabile alle piogge che, a quel punto, restano in superficie, invece di infiltrarsi naturalmente in profondità, e esondano inevitabilmente. Già le catastrofi naturali non esistono, nel caso italiano sono quasi interamente provocate dall’uomo che il rischio lo crea anche dove in passato non c’era. Rettificazione e cementificazione dei fiumi, insediamenti in aree pericolose, disboscamenti e incendi fanno il resto. Tutto questo in una nazione geologicamente giovane e instabile, nel bel mezzo del cambiamento climatico più grave che si conosca da quando l’uomo organizza attività produttive. 

 

Se però torniamo al che fare, allora non si può non registrare che la prevenzione rischia di non bastare più, perché ormai quello che si doveva fare è stato fatto. L’intervento ingegneristico per bloccare frane e alluvioni potrà funzionare solo in limitati casi: non sono infatti note soluzioni di questo tipo che possano arrestare definitivamente questi fenomeni. Costruire meglio, nel caso del rischio idrogeologico, non serve. Molto spesso, anzi, le opere che si vedono in giro per le nostre montagne producono svantaggi peggiori dei benefici che volevano ottenere. Quei muri bassi di cemento o in pietra che vengono posti di traverso ai corsi d’acqua per limitarne l’azione erosiva, le cosiddette «briglie», non sono solo (quelle «statiche» soprattutto) perlopiù inutili, ma spesso risultano dannose, visto che l’acqua, da cui ci si voleva difendere, poi si scava comunque una strada aggirando la briglia e rendendola instabile. E ancora si parla di messa in sicurezza, come se fosse possibile imbrigliare un’intera catena montuosa come l’Appennino. Come se questa operazione avesse un senso geologico ed ecologico, come se, infine, servisse almeno a qualche cosa.

 

Insomma, si deve dolorosamente capire che da alcune zone a maggior rischio bisogna spostarsi senza se e senza ma. Non lo si farà in un mese e nemmeno in un anno, ma lo si deve mettere in progetto nella pianificazione territoriale. Spontaneamente, seppure dopo secoli di dissesti, lo si è già fatto in tutta Italia: basti pensare al paese di Craco, in Lucania, spostato per frana, o a Pentedattilo, in Calabria, o, ancora, Frattura, in Abruzzo. La delocalizzazione delle costruzioni e delle popolazioni a maggior rischio non può più essere procrastinata, ma deve essere messa nel conto delle scelte politiche future: non farlo significa ignorare colpevolmente la realtà dei fatti. E si deve capire anche che nessun territorio del mondo può reggere il ritmo di cementificazione impresso a quello italiano, dove, ogni secondo che passa, un metro quadrato di superficie viene asfaltata, cementata o disboscata e incendiata. Il consumo di suolo non è solo un emergenza estetica e paesaggistica, è prima di tutto la causa fondamentale delle nostre rovine geologiche.

da - http://lastampa.it/2012/11/13/cultura/opinioni/editoriali/rischio-idrogeologico-troppo-alto-intere-zone-andrebbero-evacuate-TJvz2c4cepceqilasjIeBM/pagina.html
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« Risposta #58 inserito:: Settembre 17, 2013, 11:13:58 pm »

EDITORIALI
16/09/2013

Costa Concordia, una tecnica antica per salvare l’Hi-Tech

MARIO TOZZI

Mentre ancora non sappiamo se anche il più piccolo rischio ambientale sia stato effettivamente scongiurato, né se la struttura dello scafo reggerà alle tensioni, una cosa la sappiamo per certa: sarà la tecnologia più semplice e antica del mondo eventualmente a vincere su quella sofisticata dei moderni supertransatlantici.
 
La Costa Concordia era un gioiello tecnologico che si guidava con un semplice joystick, così come accade ai più moderni jet di linea. 
 
Un paese galleggiante con 5000 abitanti, centinaia di appartamenti, decine di ristoranti, sale da gioco, discoteche, palestre e piscine che viaggia di giorno e di notte a 20 nodi all’ora guidato da radar sofisticati e sala di controllo da stazione spaziale. Un paese intero che si schianta contro scogli ben visibili a causa della bravata tribale di un comandante sbruffone. Questa la triste realtà di un meccanismo che ci può sfuggire di mano da un momento all’altro. E che sembra una legge generale: a un livello tecnologico elevato corrisponde un livello di attenzione sempre più scarso, come a dire che più ci si affida e meno si controlla. E ora siamo tutti lì davanti agli schermi a vedere come centinaia di uomini cerchino di rimettere diritta una nave sì adagiata su un fianco, ma praticamente a terra, non in fondo al mare. Un’operazione mai tentata prima d’ora al mondo che ci descrivono come tra le più complicate. E a cui ci si è preparati per oltre un anno per poi, in fondo, affidarci ai principi più semplici della meccanica, quelli che l’umanità adopera da secoli: gru, martinetti idraulici, leve, funi d’acciaio e cassoni pieni d’acqua. E cinquecento uomini di 26 Paesi, come al tempo dei faraoni. Non una levitazione elettromagnetica, nemmeno una sollecitazione nucleare. Tutto apparentemente semplice. Tutto un po’ paradossale. Una volta completata la rotazione e scongiurate rotture e lacerazioni, che sarebbero esiziali per il delicato ecosistema dell’arcipelago toscano, la nave dovrà essere trainata verso un porto dove rottamarla. Un porto che non c’era: con tutte le navi che circolano nel Mediterraneo non siamo ancora sicuri che un porto italiano sia abilitato alle operazioni. E forse i coreani hanno appena varato un vascello in grado di trasportare sul suo dorso navi di quella stazza: nel 2013, dopo millenni di navigazione, al massimo della tecnologia costruttiva del XXI secolo, cominciamo a sospettare che le navi incidentate devono essere recuperate. Lo stesso accadde giusto 101 anni fa per l’oggetto meccanico più grande costruito fino allora dagli uomini, l’inaffondabile Titanic che, infatti, affondò al suo primo viaggio. 
 
Si dirà che in tutti e due i casi la colpa è dell’uomo e non della tecnologia, semmai di un suo uso non corretto. In fondo, Edward J. Smith viaggiava a tutta velocità nelle nebbie oceaniche e furono comunque i suoi uomini di vedetta a non scorgere l’iceberg, forse per via del freddo, e non i rivetti d’acciaio a cedere perché mal congegnati o mal costruiti. Così come fu Schettino a decidere di fare «l’inchino» sopravvalutando le possibilità di manovra della Concordia e forse ignorando i segnali di pericolo. Ma queste sono scuse parziali, la realtà è che cercando di mettere sotto controllo il mare abbiamo contingentato i tempi e ingigantito le navi, suggerendo vacanze sul mare in cui il mare non è più protagonista. E non lo è nemmeno il comandante, che non guarda più il timone ma solo uno schermo graduato in cui le altre navi sono numeri tutti uguali. Funi, martinetti e contrappesi che fanno ruotare un bestione di 114.000 tonnellate, in cui nessuno dei sofisticati sistemi di navigazione funziona più, ormai ridotto a massa inerte di ferro inutilizzabile: la vittoria della tecnica semplice sulla tecnologia barocca, inutile e ridondante, di cui non abbiamo alcun bisogno.

da - http://www.lastampa.it/2013/09/16/cultura/opinioni/editoriali/costa-concordia-una-tecnica-antica-per-salvare-lhitech-Y25jwfhBmHi0xckw3S19dK/pagina.html
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« Risposta #59 inserito:: Febbraio 03, 2014, 04:59:17 pm »

Editoriali
01/02/2014

Stessa pioggia, città cambiate
Mario Tozzi

Scrivo con l’ultimo residuo di batteria del mio pc, mentre, a pochi passi da San Pietro, nella capitale d’Italia, molti isolati ed edifici sono senza corrente elettrica da ore. Roma è rimasta quasi isolata: strade consolari allagate, il Gra interrotto, voragini che si aprono dovunque. L’Italia tirrenica è sotto la tormenta e piove in poche ore la stessa acqua che un tempo cadeva in mesi. 

Ma questo ormai lo sanno anche i sassi: bombe d’acqua le abbiamo chiamate un po’ impropriamente, e sono figlie di un tempo meteorologico che si è fatto estremamente variabile e di un clima complessivamente molto più caldo rispetto agli ultimi decenni. E’ gennaio ma non fa freddo: abbiamo avuto temperature atmosferiche fino a 15°C. E, non a caso, piogge torrenziali. E siamo andati vicini al disastro: se oggi piovesse in Arno l’acqua che è piovuta nel novembre del 1966, avremmo danni molto più gravi e vittime a Pisa e a Firenze. 

Se piovesse con continuità lungo tutta l’asta fluviale del Tevere, nemmeno la città eterna sarebbe immune da una dolorosa alluvione che invaderebbe pure il Vaticano, Trastevere e Piazza Venezia. 

Sembra quasi che a ogni pioggia abbondante (per fortuna nessuno le chiama più eccezionali) le cose vadano addirittura peggio. Ma come, non abbiamo ormai tecnologia e strumenti sofisticati per regolarci meglio? Effettivamente le previsioni del tempo sono oggi davvero molto attendibili e gli scenari ipotizzabili con precisione: possiamo seguire l’andamento delle tempeste e individuare i punti di atterraggio dei cicloni.

Ma l’unico vantaggio rispetto al Medioevo è questo, per il resto siamo indifesi rispetto agli eventi meteorologici come secoli fa: uomini in mezzo alla tormenta. Anzi, in un certo senso, siamo più indifesi di allora, perché il nostro territorio è complessivamente più fragile: non sono cambiate solo le piogge, sono cambiate anche le città. 

I corsi d’acqua sono stati fatti sparire sotto la terra e i palazzi, oppure precipitati in fondo ad argini di pietra in cui sono stati dimenticati. E tutto attorno le aree di naturale esondazione dei fiumi, quelle che, da sole, difendono le aree inurbate, sono ormai invase dalle costruzioni. In questo paese si è costruito troppo: ogni anno si asfaltano e cementificano forse duecentomila ettari di suolo, con il risultato di un rischio idrogeologico in progressivo aumento, invece che in diminuzione. 

Perciò non è un problema di tecnologia: di quella ne abbiamo fin troppa e, anzi, l’affidarcisi troppo rende meno pronti al momento in cui, comunque, toccherà affrontare la natura, questo mostro che tentiamo di tenere fuori dalla nostre mura domestiche per undici mesi all’anno, illudendoci invano di recuperarlo solo durante le ferie. E’ una questione culturale: con gli eventi naturali bisogna farci i conti prima di tutto accettandoli. Non saremmo mai immuni, rassegniamoci.

Soprattutto rispetto al clima. E hai voglia a tenere pulite le caditoie, i greti dei fiumi, e i tombini dalle foglie morte e dalla immondizia (tutte cose comunque da fare), qui il problema è che riduciamo queste operazioni a un fatto puramente tecnico, mentre meriterebbero ben altra cura, comprensione e ragionamenti. I romani antichi non si scomponevano poi troppo ad attraversare il Velabro in barca, qualche volta all’anno, e uno dei monumenti più vistati di Roma è la Bocca della Verità (dove non si deve infilare una mano se si è bugiardi), che altro non è che un inghiottitoio per l’acqua di pioggia, cioè un tombino, cui i nostri antenati dedicavano marmi pregiati e sculture dell’oceano con i delfini. Si chiamava rispetto per la natura. E consapevolezza che essere invulnerabili non è prerogativa dei viventi su questo pianeta.

Da - http://lastampa.it/2014/02/01/cultura/opinioni/editoriali/stessa-pioggia-citt-cambiate-LS2AnD5SGAivPE4aLdbqRI/pagina.html
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