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Autore Discussione: MARIO TOZZI.  (Letto 60213 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Agosto 12, 2010, 04:51:51 pm »

12/8/2010

Senza decisioni il paradiso sarà perduto
   
MARIO TOZZI*


Qual è il futuro dell’isola più famosa del mondo? I nuovi tagli del governo italiano, appena varati, non concedono molte alternative: o l’isola deve essere chiusa per l’impossibilità di esercitare un controllo degno di questo nome - e tanto vale allora blindarla sul serio - oppure tornerà in gioco la speculazione e la volontà di farne albergo di extra lusso per vip e ricchi che non vedono l’ora di violarne la acque trasparenti e i bastioni di granito.

Montecristo è una di quelle isole italiane degne di rilievo mondiale, non solo per il diploma europeo che le è stato conferito per i meriti nella conservazione e tutela dell’ambiente naturale, ma anche perché è l’archetipo dell’isola, l’isola per antonomasia.

Reminiscenze letterarie e la difficoltà di accesso l’hanno resa proibita, e nulla affascina di più al mondo di questa parola. Perfino i quotidiani coreani battono tempestivamente le notizie che riguardano Montecristo, quasi sempre per ribadire che è stata riaperta al pubblico. In realtà l’isola è stata chiusa per decenni e ha funzionato da riserva di caccia per la famiglia reale fino a che non è scampata a progetti di orribili speculazioni edilizie fugati definitivamente da quando è stata ricompresa nel Parco nazionale dell’arcipelago toscano. Ma oggi la situazione rischia di cambiare. I fondi ordinari dei parchi nazionali sono stati ridotti del 50%, cosa che significa, grosso modo, chiudere la metà dei parchi o licenziare la metà dei dipendenti. La situazione è tanto grave che i presidenti dei 23 parchi nazionali minacciano le dimissioni in massa per non rendersi corresponsabili dello scempio che necessariamente seguirà una mutilazione delle risorse talmente pesante da non garantire più alcuna tutela.

La stoltezza di questa manovra non è solo nell’aspetto ambientale: si può pensare che i nostri uomini di governo non abbiano coscienza di cosa significhi proteggere l’ambiente, o che non gliene importi granché, oppure che qualcuno pensi a speculazioni di varia natura. Sta soprattutto nell’aspetto economico: i parchi nazionali attirano ogni anno 95 milioni di presenze (di cui 30 milioni si fermano più di un giorno), con un giro d’affari di 10 miliardi di euro e con un incremento del 15% nell’afflusso turistico rispetto all’anno precedente. I parchi sono cioè un affare d’oro, anzi l’unico che funziona veramente in questi tempi di crisi. Non si riesce a credere che economisti avveduti possano trascurare questo aspetto che ha permesso, fra l’altro, a realtà marginali di acquisire un peso economico notevole grazie alla protezione della natura, come è il caso di paesini come Villetta Barrea e Civitella Alfedena, sconosciuti ai più e oggi fra i maggiori risparmiatori dell’Italia intera. Invece di incrementare quei fondi a 100 milioni di euro l’anno (poco più di due caffè per cittadino italiano ogni dodici mesi), i nostri governanti abbattono a 25 milioni quella dotazione, con un’operazione che non si sa se più suicida o ignorante. In queste nuove condizioni le perle della natura italiana hanno di fronte un bivio: o vengono di nuovo chiuse alle visite e blindate, per non correre rischi di compromissione, o vengono vendute al migliore offerente per fare cassa.

* Presidente del Parco nazionale dell’arcipelago toscano
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7702&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #31 inserito:: Ottobre 27, 2010, 09:39:12 am »

27/10/2010

Il fragile patto con la geologia
   
MARIO TOZZI

Indonesia, settore settentrionale di Sumatra: il vulcano Toba diede vita alla più terribile eruzione che gli uomini possano ricordare. Poco ci mancò che non fosse l'ultima, visto che, dopo l'immensa ricaduta di ceneri (2800 km3, a confronto il Monte Saint Helens, nel 1980, ne emise uno solo) su tutto il continente asiatico, ci furono cinque anni di freddo polare e dieci secoli senza estate.

Gli uomini si ridussero forse a un paio di migliaia su tutta la Terra, resistendo in enclave localmente più calde, scossi da continui terremoti e tsunami e terrorizzati dal futuro. Questo è stato il nostro ultimo «collo di bottiglia», circa 74.000 anni fa. Ma non sarà certo l'ultimo.

Terremoti di magnitudo superiore a 7,5 Richter, eruzioni vulcaniche esplosive che generano gigantesche nubi ardenti e tsunami che spostano grandi volumi di oceano: cosa sta accadendo in Indonesia? Non ci sono cause contingenti particolari per spiegare questi fenomeni: la quotidiana attività della Terra prevede scenari di questo tipo, anzi, questa sarebbe la normalità di un pianeta per fortuna ancora giovane e attivo. Se la Terra non avesse vulcani e terremoti assomiglierebbe alla Luna, un pianeta sostanzialmente morto. Semplicemente quello che accade in Indonesia è piuttosto la regola per il nostro mondo, anche dal punto vista degli uomini, che si ostinano a vivere nelle regioni più attive (Mediterraneo, regioni costiere in genere) e tralasciano le regioni interne più tranquille. Perché l'attività della Terra è data dall'incastro di un gigantesco mosaico di blocchi crostali (le placche) che producono fenomeni solo dove si separano o dove scorrono le une accanto alle altre oppure dove una finisce sotto l'altra (come è il caso indonesiano).

La sequenza degli eventi naturali del Sud-Est asiatico (che diventano poi catastrofi per colpa nostra) è impressionante: 1797, 1833, 1843, 1861 e 1883, queste le date degli tsunami scatenati da sismi o da eruzioni vulcaniche, l'ultima delle quali, quella della Krakatoa, si risentì con ondate anomale fino a Calais sulla Manica. Per non parlare poi dello tsunami del 2004, che ha aperto gli occhi del mondo sulla realtà di una delle regioni più attive della Terra. Addirittura lo stesso termine geologico lahar (cioè colata di fango), la maggior causa di morte al mondo legata ai vulcani, è stato coniato da queste parti. Il Merapi in eruzione dispensa sempre colate di fango, tanto che, in genere, gli abitanti si guardavano bene dal dormire in vista delle pendici del vulcano.

Terremoti e eruzioni sono la regola, ma ce ne accorgiamo solo ora perché oggi la comunicazione è globale e i fenomeni vengono visti nel loro aspetto drammaticamente spettacolare, non perché in passato non avvenissero. Solo che la memoria degli uomini è troppo corta rispetto a quella della Terra, che scandisce i suoi tempi usando i milioni di anni, mentre noi siamo già a disagio con i secoli. L'umanità è passata attraverso colli di bottiglia micidiali, ma tutti dovuti alla natura del pianeta stesso, alla sua normale attività. Non dovremmo dimenticare che l'Indonesia è un paradigma del mondo attuale, in cui le civiltà (tutte le civiltà, passate e future) esistono solo grazie a un consenso geologico temporaneo. Soggetto a essere ritirato senza preavviso.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8007&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #32 inserito:: Novembre 30, 2010, 05:31:08 pm »

30/11/2010

Il vertice dimenticato di Cancun


MARIO TOZZI

C’era una volta una bella riunione di uomini di buona volontà che decisero di darsi da fare per ridurre il proprio impatto ambientale sul pianeta. Partirono dal clima, che si stava surriscaldando, e stilarono un protocollo, a Kyoto, che non sarà stato un granché, ma almeno pretendeva impegni precisi e imponeva una legislazione dove prima c’era deregulation assoluta. Quegli uomini si sono riuniti tante volte dal 1992 (anno del primo summit per la Terra a Rio de Janeiro) al 2010 (Copenaghen), ma non sono riusciti ancora a mantenere nemmeno una delle loro promesse. Quegli stessi uomini si riuniscono ora a Cancun, in Messico, nel disinteresse generale. Ma c’è da meravigliarsi se l’attenzione dei cittadini e dei media sia spostata altrove?

Quando si grida all’allarme per tanto tempo e poi non si prende nemmeno una decisione coraggiosa e, anzi, si lascia che le cose vadano come sempre o quasi, il minimo è che la credibilità si perda per strada.

Quando il problema è troppo grande noi uomini preferiamo distogliere lo sguardo, impicciati come siamo in meccanismi più concreti e immediati, come resistere alla crisi economica. Ci si mettono poi anche gli scettici, quelli che, raramente in buonafede, seminano dubbi sul fatto che il cambiamento climatico dipenda dalle attività industriali, richiamando in causa balle spaziali come le macchie solari o i raggi cosmici (che, insieme, assommano al 5%, forse, del forcing attuale sul clima). O coloro i quali aggiungono che l’1% degli scienziati che non concordano sulle responsabilità umane possa comunque avere ragione. La cosa è vera, in linea di principio, ma voi a chi dareste retta se nove dottori su dieci vi consigliassero di operare vostro figlio malato e uno no, suggerendo che sarebbe meglio risparmiare visto che siamo in crisi?

I dati attuali sono preoccupanti. L’anidride carbonica in atmosfera è aumentata del 38% rispetto all’epoca pre-industriale (387 ppm), mentre il metano del 158% e il protossido d'azoto del 19%. Tutti questi gas hanno il potere di riscaldare dal basso l'atmosfera e cambiare il clima e dipendono quasi esclusivamente dalle nostre attività. I ricercatori indicano da tempo cosa fare: ridurre subito le emissioni clima-alteranti (che significa ridurre anche quelle inquinanti in generale, particolare non trascurabile) del 60% per sperare in qualche effetto nei prossimi cinquant'anni (se azzerassimo all'istante tutte le emissioni, la temperatura dell'atmosfera continuerebbe ad aumentare per altri 50 anni a causa della grande inerzia del sistema). A Copenaghen, dove si sono solo posti i fondamenti politici, si era deciso, implicitamente, che le emissioni clima-alteranti dovessero essere ridotte di almeno 12 miliardi entro il 2012. Non facendo nulla, infatti, le emissioni globali al 2020 salirebbero a circa 56 miliardi di tonnellate per anno. Ma per mantenere il surriscaldamento globale al di sotto di 2°C (il livello invalicabile deciso a Copenaghen) le emissioni globali non dovrebbero superare i 44 miliardi di tonnellate al 2020, cioè 12 miliardi di tonnellate al 2012. Questo se si vuole stare sicuri.

Ma che cosa sta accadendo in realtà? Che la riduzione massima a livello globale, entro il 2020, sarà attorno a tre miliardi di tonnellate rispetto alla crescita tendenziale esistente. Questo significa che le emissioni globali al 2020 saranno probabilmente di circa 53 miliardi di tonnellate, un valore totalmente incompatibile con l'obiettivo dei 2°C. Anche in questo caso si saprebbe cosa fare: abbassare le emissioni in casa propria e incentivare su quella stessa via, con denaro e tecnologie, i Paesi non sviluppati. Vi pare stia accadendo? E ci vogliamo meravigliare se nessuno si fila il vertice di Cancun?

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8149&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #33 inserito:: Dicembre 06, 2010, 11:31:43 am »

6/12/2010

Ma fanno più vittime le noci di cocco

MARIO TOZZI

Ci si meraviglia che qualcuno possa essere ancora vittima di un animale supposto feroce all’inizio del terzo millennio, ma poi non si perde occasione per gridare allo squalo assassino.

Con tutto il rispetto per chi ha perduto la vita in un modo orribile, bisogna però ribadire che non esiste alcuna perversione omicida in natura.

E che nessuna categoria morale umana può essere chiamata in causa quando si parla di animali non umani. Gli squali degli oceani di tutto il mondo vengono oggi decimati da una guerra senza quartiere, condotta da uomini che non esitano a mutilarli delle pinne e ributtarli in mare ancora vivi, ma destinati a una morte atroce, solo per soddisfare la voglia di pietanze esotiche remunerative come l’oro.

Sono animali antichissimi e predatori perfetti ormai però in via di estinzione anche a causa di una cattivissima fama non giustificata dai fatti. Ne «Lo squalo» (1975) il predatore è una specie di serial killer dotato di volontà omicida, quando sappiamo benissimo che nessuno squalo attaccherebbe un uomo adulto senza motivo. Nel Mar Rosso gli squali restano spesso imprigionati all’interno della barriera corallina con la bassa marea e lì possono ancora cercare di predare, lasciandosi attirare dalle gambe dei bagnanti di cui non percepiscono il resto del corpo. Il tutto è spesso aggravato da un fatto nuovo: le quantità di rifiuti, spesso residui di cibo, che finiscono in certi tratti di mare e che fanno da pastura per pesci carnivori.

Non esistono certo gli squali vegetariani del cartoon «Alla ricerca di Nemo», ma al mondo si registrano più vittime, ogni anno, a causa della caduta di noci di cocco che non per morso di pescecane (su un centinaio di presunti attacchi, solo una vittima, nel 2007, in tutto il Nordamerica, secondo International Shark Attack File). Eppure non risulta che si stia preparando un film dal titolo «La vendetta della noce di cocco», né che la gente si guardi bene dal prendersi un riposino sotto le palme.

Non c’è niente da fare, il nostro bisogno del mostro da sconfiggere, dal drago o alla belva marina, è sempre in agguato, pronto a riproporsi a ogni occasione, pure se creata da noi.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8171&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #34 inserito:: Gennaio 12, 2011, 10:41:33 pm »

12/1/2011

Le false promesse del nucleare

MARIO TOZZI

Un’intensa campagna pubblicitaria, fintamente imparziale, cerca di indurre da qualche settimana nelle teste dei cittadini l’idea che sia ora di tornare all’energia nucleare. Gli italiani si erano peraltro espressi, in assoluta maggioranza, contro già nel 1987, e hanno sempre ribadito, nei sondaggi, la loro generale contrarietà all’atomo. Oggi si cerca di far pensare che il contesto sia cambiato, che è giusto cambiare idea e che Cernobil è ormai lontana. All’interno di un auspicato dibattito di idee il cui risultato, però, sembra già scritto: i tempi sono maturi perché l’Italia abbracci questa forma di energia. Nessuno di questi presupposti è, però, purtroppo vero. Purtroppo, perché chi non vorrebbe una forma di energia potentissima (un kg di uranio arricchito fornisce tutta l’energia di cui un italiano ha bisogno nella sua intera vita), sicura, priva di inquinanti o di emissioni clima-alteranti e magari inesauribile e a buon mercato?

Il contesto non è cambiato rispetto a 25 anni fa, anzi, semmai è peggiorato rispetto alla scelta atomica. La tecnologia è ancora sostanzialmente quella, figlia del lavoro di Fermi negli Anni Quaranta: non esistono impianti nucleari di quarta generazione. È come se, entrando in un negozio di elettrodomestici, chiedeste una radio a valvole. I miglioramenti non hanno impedito incidenti come quello di Tokaimura (Giappone 1999), né che i reattori francesi siano spesso arrestati per problemi. L’Italia dipende forse di più oggi dall’estero per i combustibili fossili, ma l’uranio non evita questa dipendenza, semmai l’accentua, visto che non ne abbiamo nel sottosuolo patrio e che le riserve mondiali sono valutate in 5 miliardi di tonnellate, che basteranno, forse, per ancora mezzo secolo (se non si costruiscono nuovi impianti, altrimenti le scorte si riducono di conseguenza, tanto che si rischia di costruire impianti che non avranno più combustibile, vista la vita media di oltre 40 anni).

I costi sono addirittura, in proporzione, aumentati: una centrale necessita di 8-9 miliardi di euro (stima Areva, che costruisce i reattori Epr) che non si capisce bene quale investitore privato possa mettere in campo. Secondo il Mit il costo medio del capitale nucleare è superiore (10%) a quello delle altre fonti energetiche (7,8%). E secondo Moody’s il prezzo medio dell’energia nucleare è più elevato del gas (+26%), ma anche dell’eolico (+21%), arrivando alla media, per MWh, di 151 dollari. In realtà noi sapremmo quanto costa esattamente 1 kWh prodotto per via atomica solo quando il primo kg di uranio della prima centrale nucleare al mondo sarà reso innocuo. Cioè più o meno fra 30.000 anni. Sono le spese di smantellamento e di inertizzazione delle centrali e delle scorie, le «esternalità» nucleari, del tutto comparabili a quelle del petrolio o del carbone: costi sociali che pagano sempre i cittadini in termini di sanità e benessere.

Il problema delle scorie è irrisolto: non esiste al mondo nemmeno un sito definitivo per lo stoccaggio dei rifiuti radioattivi. Pensare che un giorno sarà disponibile una tecnologia adatta significa addossare alle prossime generazioni un fardello che nessuno ha il diritto di affibbiare. Non si sa poi bene dove costruire la prossima centrale in un Paese che è sismico, soggetto a rischio idrogeologico e vulcanico, densamente popolato e quasi privo di pianure e di grandi corsi d’acqua. Una nuova centrale Epr necessita di oltre 65 metri cubi al secondo di acqua e non si sa nemmeno se il Po possa sostentarla in eventuali periodi di secca. Resta il mare, con tutti i problemi di inurbamento residenziale che si possono immaginare.

Il ricorso al nucleare è una scelta di grossi gruppi industriali supportati dalle banche d’affari, che non tiene in nessun conto l’ambiente e le esigenze dei cittadini (in Italia la gran parte dei comuni si è dichiarata denuclearizzata). Certo, è lecito fare i soldi sul nucleare, ma li si fanno anche sulle mine antiuomo o sulle armi senza che ciò susciti cori d’entusiasmo. Efficienza energetica nella produzione e negli usi finali dell’energia, migliore coibentazione di case e palazzi (1/3 dei consumi totali, che può essere ridotto del 50-70% senza perdite di benessere, ma solo costruendo meglio e isolando termicamente), eliminazione degli sprechi, risparmio energetico, decentramento: questi sono i comandamenti da seguire oggi. Aspettando magari un nucleare senza scorie o l’idrogeno che verrà.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8285&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #35 inserito:: Marzo 12, 2011, 10:46:25 am »

12/3/2011

L'apocalisse come vicino di casa

MARIO TOZZI

Hanno resistito alla fine del mondo. Al vero big-one, il «terremoto cattivo», il più potente di tutti. Quello che ci si aspettava dal 1923 o da prima ancora, quando soltanto pochi edifici rimasero integri e tutti furono storditi di paura. Quello cui si resiste soltanto se c'è cultura e consapevolezza, se si è stati educati all’emergenza e si è costruito per bene.

Sono uomini come noi, i giapponesi, solo che sono riusciti a rimanere calmi sopra la terra che tremava, di fronte a uno dei sei o sette più violenti terremoti di sempre. Sono uomini come noi, solo sono usciti ordinatamente dai grattacieli, che avevano appena smesso di oscillare come pioppi al vento, e si sono recati nei punti di raccolta. Non hanno mai recriminato contro la «natura assassina» o il «terremoto killer». Tokai o chokkagata li chiamano in Giappone gli eventi catastrofici che verranno, perché lì è chiaro per tutti che quello è il futuro inevitabile, perché i sismi, come pure le eruzioni, sono parametri che fanno parte della pianificazione della vita nazionale e personale quotidiana.

Un terremoto come questo di Sendai avrebbe causato decine di migliaia di morti in Italia e centinaia di migliaia in Iran. E certo un terremoto come quello aquilano (centinaia di volte meno distruttivo) in Giappone non avrebbe fatto crollare nemmeno un cornicione.
Nel prossimo futuro gli eventi naturali a carattere catastrofico assumeranno una connotazione di classe che già oggi è più di una tendenza: i Paesi (ricchi) che si attrezzano possono evitare il collasso, quelli (poveri) che non riescono a farlo crollano (come dimostra Haiti).
E all'interno di quei Paesi, gli sventurati che si accalcano nelle favelas suburbane occupano siti già scartati perché pericolosi e rischiano più di chi si è procurato un insediamento sicuro.

Ma questo terremoto è qualcosa di più, è la dimostrazione lampante di come la prevenzione sia l'unico mezzo scientifico serio che funziona davvero, e che fa addirittura risparmiare in emergenza. Invece di inseguire la chimera di una previsione finora impossibile, sarebbe bene prendere ad esempio il popolo che fa la migliore prevenzione del mondo affidandosi alla ricerca e, in ultima analisi, alla cultura del rischio costruita nei secoli. E le esercitazioni antisismiche, che da noi indurrebbero agli scongiuri di rito, lì consentono di salvare vite, perché niente è meno scontato del panico quando la terra ti trema sotto i piedi: affidarsi a una rappresentazione già ripetuta cento volte salva più vite che non recitare un rosario a memoria.

Per un cittadino di Tokyo ci sono 40 probabilità su 100 che, nei prossimi dieci anni, un altro terremoto colpisca la sua terra con magnitudo 7 Richter. Il blocco crostale che comprende le isole nipponiche si trova proprio al contatto fra la grande placca dell'oceano Pacifico e quella dell'Asia: da quello scontro si generano eruzioni vulcaniche e terremoti. E' così da molto prima che gli uomini arrivassero sulla Terra e sarà così per molto a lungo ancora. E là tutti lo sanno, non attribuiscono colpe a un destino cinico e baro o al fato.

Ed è una fortuna che i giapponesi siano così disposti ad ascoltare la scienza e non le superstizioni, perché altrimenti lo scenario economico mondiale avrebbe potuto avere ripercussioni spaventose. Il potere industriale e commerciale di cui dispongono innerva ormai la ricchezza economica di tutto il mondo: se dovessero ritirare i propri capitali per intervenire in patria a sanare gli effetti di un terremoto devastante, la loro mancanza si risentirebbe in ogni angolo del pianeta. Il Giappone è disseminato di faglie attive, in grado di scatenare ancora terremoti, e tutti i sismologi della Terra si aspettano altri sismi distruttivi dell'ordine di 6,5-8,5 Richter nel prossimo futuro. Anche dopo il terremoto di ieri.

Altra cosa è il maremoto, che viaggia veloce come un jet di linea a 800 km/h e, in mare aperto, nessuno lo avverte. Quando però arriva vicino alla costa «sente» il pendio che risale e monta in ondate alte come palazzine, sradica ogni cosa, carica ogni tipo di oggetto e poi si abbatte a mitraglia (la ricostruzione fatta da Clint Eastwood nel suo Hereafter è perfetta). Non ci si difende da uno tsunami se non allontanandosi dalla costa e salendo più in alto possibile. Se anche si è costruito per resistere ai terremoti, questo non salverà chi sta per strada: le vite degli uomini si svolgono perlopiù nei primi due metri da terra, e contro quel rischio non c'è cemento che tenga (muri contro gli tsunami sono stati peraltro costruiti in Giappone, ma non hanno mai funzionato). Si capisce perché lo tsunami farà probabilmente più vittime del terremoto in sé: nessun sistema di allerta può funzionare quando il tempo a disposizione è così poco. L'immunità dagli eventi naturali non rientra nelle disponibilità degli uomini.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali
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« Risposta #36 inserito:: Aprile 11, 2011, 08:43:22 pm »

11/4/2011 - LA STORIA

Roma, un mese al terremoto immaginario

MARIO TOZZI

C’è chi si prepara a passare almeno una notte in automobile, chi affitta un camper e chi prenota viaggi in paesi lontani. Tutto attorno a una medesima data, l’11 maggio 2011. Manca un mese esatto al catastrofico terremoto che distruggerà Roma e molti cittadini sono apparentati da un unico comune denominatore.

Vogliono mettersi presto alle spalle quella data, che viene agitata dalla voce popolare e dal web come esiziale in base alle teorie di Raffaele Bendandi, il quale avrebbe predetto quella e altre numerose sciagure (103 per la precisione).

Ma chi era Raffaele Bendandi? Un illustre sconosciuto che elaborò una curiosa teoria sull’origine dei terremoti, generati da particolari allineamenti planetari, che non ha trovato alcun riscontro scientifico. E come poteva averlo, visto che veniva da un uomo a digiuno di qualsiasi nozione geofisica avanzata, un autodidatta che aveva appena la licenza elementare e che era soltanto rimasto impressionato dal cataclisma del 1908 a Messina? Intanto per cominciare, quella dell’11 maggio a Roma è certamente solo una sciocchezza autoreferenziale tipo leggenda metropolitana, tant’è che non risulta nemmeno nelle carte dello stesso Bendandi (conservate nell’osservatorio di Faenza). Ma non risulta neppure che ne abbia mai azzeccata una. In un biglietto datato 27 ottobre 1914, mostrato dallo stesso Bendandi, egli indicava un forte sisma per il 13 gennaio 1915 in Italia centrale, nozione un po’ vaga per significare Avezzano (dove appunto ci furono 40.000 vittime).

Il biglietto autografo non era però stato consegnato a un notaio e nessun altro ne seppe alcunché prima del terremoto, così come accadde anche per gli eventi del 1924 nelle Marche o del 1976 in Friuli, spesso riportati come «previsti». Un conto è «prevedere» che fra un mese ci sarà un terremoto in Cile: la cosa è possibile, visto che si tratta di zona sismica e che, in media, subisce qualche migliaio di sismi all’anno, ma dove esattamente? E in che giorno esattamente? Sebbene in scienza sia sempre possibile che uno solo abbia ragione e tutti gli altri torto, a tutt’oggi non è possibile prevedere un terremoto, mentre molto si può fare in termini di prevenzione. Ma quello che colpisce, nella sindrome da terremoto che sta colpendo i romani (amplificata da radio e Web), è la nostra naturale inclinazione all’apocalisse, magari in scala ridotta, che riaffiora in molti aspetti della vita quotidiana. Come se ne avessimo un qualche bisogno, per esempio quando rallentiamo per vedere cosa è accaduto nella corsia opposta, dove ci sono auto incidentate, luci della polizia e lenzuoli sulle vittime. O come quando indugiamo per vedere se c’è ancora qualcuno rimasto sotto le macerie di un crollo. Non è solo la rassicurazione che l’abbiamo scampata e che è toccato a qualcun altro.

E’ qualcosa di più. Forse l’eco lontana delle catastrofi cui siamo scampati quando ci siamo fatti strada nell’evoluzione della vita sulla Terra: il boato cupo del vulcano Toba, che ridusse gli umani a un migliaio appena in tutto il pianeta, o l’apertura della grande frattura del continente africano, che divise per sempre i nostri antenati dalle scimmie antropomorfe. Quindi vai con le profezie Maya e il 21 dicembre 2012, dàgli con Nostradamus e il soprannaturale, o con i terremoti come castigo divino, tutto tranne che fare i conti con i nodi irrisolti del nostro passaggio sul pianeta: estremizzazione del clima, fine delle risorse e nubi radioattive. Forza catastrofe! Purché ridotta e, possibilmente, suggestiva.

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
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« Risposta #37 inserito:: Giugno 06, 2011, 12:39:22 pm »

6/6/2011

Chi ci guadagna dai referendum

MARIO TOZZI


Sappiamo veramente su cosa andiamo a votare fra sette giorni?

Al di là dello specifico giuridico dei quesiti referendari, e prima di dividerci in favorevoli e contrari, la questione è se sappiamo valutarne esattamente contenuti e conseguenze. Cominciamo dall’acqua.

Andiamo davvero a votare per stabilire se l’acqua italica perderà il suo carattere pubblico e potrà essere mercificata come altri beni? La risposta è no, quello che invece succederà è che la gestione dei servizi idrici avrà una corsia preferenziale per i privati. Ma è invece giusto domandarsi se questo porterà vantaggi per i cittadini, per l’ambiente e, infine, per la risorsa acqua in sé.

Oggi l’acqua in Italia costa circa un euro ogni mille litri, una cifra davvero irrisoria, e viene garantita alla stragrande maggioranza della popolazione pulita e abbondante, tanto che, se lasciassimo aperti tutti i rubinetti di casa 24 ore su 24, l’acqua continuerebbe a esserci servita per tutto il tempo. Per questa ragione sembra difficile migliorare il servizio idrico: escluso che si possa fornire acqua colorata o profumata o gassata al rubinetto, per l’utente non ci può essere alcun vantaggio. I fautori del no sostengono che così si riparerà la rete degli acquedotti italiani, ridotta a perdere circa 40 litri ogni 100, ma sembrano ignorare tre fatti: che quell’acqua in gran parte ritorna in falda (e dunque agli acquedotti), che il vero spreco dell’acqua è nell’agricoltura (circa il 60% dell’uso, contro meno del 20% di quello potabile) e che nessun privato si sobbarcherà una spesa che viene valutata cautelativamente attorno a 60-80 miliardi di euro. Sostanzialmente il servizio idrico domestico non può essere migliorato ed è difficile individuare altri motivi a questa privatizzazione forzata che non quelli del mero profitto per le imprese, non del vantaggio per i cittadini: un piccolo guadagno, però costante per decenni, come la rendita di un affitto. La controprova sta nel fatto che, dovunque in Italia, la gestione privata ha sollevato le critiche dei cittadini e ha, di contro, sempre portato un aumento delle tariffe (basta confrontare Agrigento o Lucca, private, con Milano o Roma, pubbliche; mentre Parigi torna al pubblico dopo anni di privatizzazione).

Il referendum sull’energia nucleare può essere letto in questa stessa chiave: il ritorno all’atomo porterà un vantaggio per i cittadini, per l’ambiente o per il fabbisogno energetico nazionale? L’incidente di Fukushima dimostra che l’energia nucleare non è sicura intrinsecamente: dopo tre mesi le perdite radioattive non sono state ancora fermate e sarà difficile tornare ad abitare in quei luoghi per almeno mezzo secolo. È vero che anche gli altri impianti di produzione di energia sono dannosi per la salute e per l’ambiente, ma quando avviene un incidente in una centrale nucleare sono guai per tutto il pianeta per generazioni (le mutazioni indotte dall’incidente di Cernobil si trasmettono geneticamente, cosa che non accadde nemmeno per le bombe atomiche sganciate sul Giappone).

Ma anche il vantaggio per i cittadini sembra dubbio: già oggi l’energia nucleare è la più cara di tutte, come dimostrano i dati del dipartimento dell’Energia degli Usa (Doe, 11,15 cent/kWh contro i 9,61 dell’eolico e gli 8,03 del gas, con previsioni di divaricazione di quelle forbici al 2020: 14,37 contro 11,32 e 8,05 rispettivamente). Inoltre un impianto nucleare Epr 1600 III plus costa fra 8 e 10 miliardi di euro (stima Areva) e non si considerano qui tutti quei costi che, chissà perché, ci ostiniamo a chiamare «esterni» e che, invece, sono intrinsecamente connessi ai combustibili geologici (anche il nucleare lo è): eventuali incidenti, smantellamento (decommissioning) e inertizzazione delle scorie verranno necessariamente addossati alla collettività (come dimostra il caso giapponese). In queste condizioni la bolletta costerà di più, non di meno, soprattutto in un Paese che dovrebbe impiantare ex novo le centrali. Inoltre l’Italia dovrà importare l’uranio, che prima o poi finirà, esattamente come il petrolio. E anche per l’ambiente non si vedono vantaggi, perché è vero che si riducono le emissioni clima alteranti, ma non esiste ancora al mondo nemmeno un sito per lo stoccaggio definitivo delle scorie. Anche in questo caso il vantaggio è tutto dei gruppi che costruiranno e gestiranno le centrali, che, non a caso, si oppongono fieramente al referendum, perché perdono l’occasione di contrarre un mutuo molto vantaggioso: introiti privatizzati e «perdite» a carico dello Stato. Al di là dei distinguo ideologici, le questioni acqua e energia su cui si voterà si riducono a logiche molto più semplici ed è su quella base che i cittadini possono riappropriarsi di una consapevolezza troppe volte lasciata in altre mani.

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« Risposta #38 inserito:: Settembre 13, 2011, 11:03:38 am »

13/9/2011

I tagli poco chirurgici ai bilanci dei parchi

MARIO TOZZI*

Per consolidata tradizione, ambiente e cultura ci rimettono sempre quando la congiuntura economica stringe alla gola. Ma quanto sta accadendo da alcuni mesi ai parchi nazionali italiani rasenterebbe il ridicolo, se non implicasse rischi molto seri per la tutela del patrimonio naturale, e insieme culturale, del nostro Paese. Sono anni che i fondi ordinari riservati ai Parchi e alle Riserve dello Stato diminuiscono (circa 50 milioni di euro nel 2009), ma, dal contesto della scorsa finanziaria, anche quei pochi denari sono spariti, obbligando il Ministero per l’Ambiente ai miracoli per garantirne comunque la sopravvivenza. Si trattava già di pochissimi soldi: alle 23 «perle» naturalistiche del Belpaese andava meno di quanto occorre per costruire 1 km della variante di valico Bologna-Firenze, un’autostrada «tecnica», ma pur sempre un’autostrada. Il risultato è che oggi i parchi possono garantire solo il funzionamento ordinario, cioè il pagamento degli stipendi, o poco più, e vedono pesantemente indebolite le funzioni di tutela e salvaguardia che sono il loro primo obiettivo.

Ma il taglio più cervellotico (e vagamente tafazziano) è quello appena operato ai danni delle indennità dei presidenti, che sono sospese in quanto si tratterebbe di «cariche onorifiche». Nessun compenso percepito nel 2011 e, addirittura, l’ingiunzione di restituire parte di quelli del 2010. Come a dire che avere la responsabilità legale del Parco dello Stelvio equivale alla presidenza di un circolo amatoriale di dama. Come se i parchi fossero centri di spreco che inghiottono denari pubblici senza portare in cambio alcunché, e come se le indennità attualmente a disposizione fossero tanto ingenti da giustificare uno sfrondamento. Quanto sarebbe la cifra risparmiata? Circa 1500 euro per presidente al mese, che, moltiplicato per i 23 parchi nazionali, potrebbe rischiare di avvicinarsi, più o meno, al compenso percepito mensilmente dal Ragioniere Centrale dello Stato firmatario della disposizione (che meriterà senz’altro il suo stipendio, ma almeno quanto se lo meritano i presidenti).

I 23 parchi nazionali italiani sono un esempio di buon funzionamento della pubblica amministrazione e pur avendo budget inferiori a quelli del servizio giardini di una qualsiasi grande città italiana, personale sottodimensionato e sottopagato, scarse possibilità di controllo reale del territorio e, spesso, strutture e mezzi non adeguati favoriscono uno sviluppo economico importante a livello locale e nazionale. Nel 2010 l’unico settore turistico non in crisi è stato quello dei parchi (+16%, con un giro di affari di alcuni miliardi di euro per circa 35 milioni di visitatori). Il 33% dei comuni italiani ha il proprio territorio ricompreso in un parco, percentuale che sale al 68% se si considerano i comuni sotto i 5000 abitanti. Per non dire del fatto che sarebbe bene considerare i parchi prima di tutto come valori e non come prezzi.

E gestire un parco può mettere a rischio anche la propria incolumità personale, come dimostra il recente attacco incendiario contro il presidente del Parco Nazionale del Circeo, reo di aver detto no all’applicazione dell’elefantiaco piano casa della Regione Lazio all’interno dell’area protetta. Per non parlare degli oltre 10.000 ettari di territorio protetto bruciati negli anni scorsi e degli episodi di bracconaggio contro specie simbolo come l’orso marsicano.

In tutto questo si stanno rimettendo le mani su un’ottima legge come la 394 (istitutiva dei parchi nazionali), con qualche dubbio che lo si faccia per migliorarla. A novembre, infine, scadranno molte presidenze di parchi nazionali e non si capisce con quale spirito qualcuno potrebbe aspirare alla riconferma, viste le responsabilità e i rischi contro zero riconoscimento economico. A meno che il reale obiettivo sia quello di ridurre i parchi all’impotenza: cancellarli non si può, renderli non operativi e invisi alla popolazione, quello sì, riaprendo l’assalto speculativo ai territori più incantevoli del Belpaese.

*Presidente del Parco Nazionale dell'Arcipelago Toscano
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« Risposta #39 inserito:: Settembre 26, 2011, 09:29:11 am »

25/9/2011

I terremoti non si leggono negli oroscopi

MARIO TOZZI

Proprio mentre il sangue di San Gennaro si liquefaceva nel Duomo di Napoli, la magistratura decideva che la scienza avrebbe dovuto, se non prevedere, almeno dare indicazioni più precise relativamente al terremoto che ha distrutto l’Aquila nell’aprile del 2009.
È vero che negli Stati Uniti una disputa legale fra scienza e Genesi ha avuto una durata trentennale e che qualcuno vorrebbe elevare il creazionismo a disciplina scolastica attraverso i tribunali.

Ma non si era mai visto in nessuna parte del mondo un processo a scienziati colpevoli di non aver preso le giuste misure precauzionali prima dell’unico evento catastrofico, per definizione, imprevedibile. Il tutto mentre la riforma del sistema universitario del ministro Gelmini rischia di maturare uno dei frutti più avvelenati: la sparizione di 25 dipartimenti di scienze della Terra (gli stessi dove si formano coloro che si occupano di sismi) su 31 perché non dotati di una massa critica sufficiente, dunque riassorbiti in altre strutture.

Era possibile prevedere il terremoto de L’Aquila? La risposta è decisamente no, in nessuna parte del mondo si sono mai previsti i terremoti, se si esclude il caso molto particolare del 1975 in Cina, nella lontana provincia di Haicheng. Lì, però, i segnali erano formidabili: sorgenti che si inaridivano, tremori diffusi, crolli e frane, tanto che le autorità cinesi sgombrarono l’intera provincia. Il terremoto effettivamente arrivò e fece «solo» un migliaio di vittime a fronte di centinaia di migliaia possibili. Il regime rese possibile un’operazione che in nessun altro Paese libero sarebbe stata nemmeno ipotizzabile. Tanto meno nel caso aquilano, in cui non c’erano segnali seri o univoci e anche chi preconizzava un sisma lo faceva per un’area generica, centrata peraltro su Sulmona, senza specificare né l’ora né il giorno: cosa si doveva fare, evacuare l’Abruzzo intero? E per quanto tempo? Prevenire certo si poteva, ma questa mancanza è da attribuire interamente agli amministratori che non hanno provveduto a risanare e rinforzare gli edifici o a chi ha operato malaccortamente o in malafede, sicuramente non ai ricercatori del comitato grandi rischi. E certo le cose non miglioreranno se non si rafforzano, invece che indebolire, le prerogative degli scienziati della Terra e dei geofisici, come invece si sta facendo con la riduzione dei dipartimenti.

Del resto questo è il Paese in cui centinaia di romani, nel maggio scorso, si sono allontanati dalla capitale per paura di un terremoto «previsto» da un orologiaio di Faenza, peraltro deceduto trent’anni prima. Ma non dovremmo stupirci più di tanto: alcuni magistrati ci inducono a pensare che si possano prevedere i terremoti (e non che sia basilare, invece, prevenirli costruendo per bene), magari come dovremmo prevedere le mosse della nostra giornata in base all’oroscopo quotidiano, considerato come scienza da milioni di connazionali. E milioni di fedeli in tutto il mondo credono nei miracoli di ogni religione, anche quando quei fenomeni possono essere spiegati scientificamente: nel caso del sangue di San Gennaro basta aggiungere sale da cucina a una soluzione di cloruro ferrico e polvere di marmo (tutti elementi già reperibili nel medioevo) per ottenere una gelatina rossastra che, se viene scossa, diventa liquida. Coltiviamo qualche dubbio sul fatto che questo sia il secolo del progresso scientifico: forse altrove, non in Italia.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9240
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« Risposta #40 inserito:: Ottobre 04, 2011, 07:40:47 pm »

4/10/2011

Crolli ripetuti disastri annunciati

MARIO TOZZI

Chi avrà il coraggio di guardare negli occhi i sopravvissuti al crollo di Barletta e i parenti delle vittime?

Con quale faccia qualcuno si permetterà ancora di parlare di fatalità o di destino? Mentre si sta ancora scavando a mano, e le cause non sono state messe in luce, una cosa è certa, crolli e cedimenti degli edifici sono una tragica regola sul territorio italiano e non si fa nulla per prevenirli. Ma questo è proprio il momento di insistere, tanto per cominciare perché si vada fino in fondo a quanto testimoniato in quel ventre molle e fatiscente della città della disfida. Cioè che il crollo era annunciato da segnali premonitori pesanti come scricchiolii e allargamento di crepe e fratture.

Ma questi crolli sono sempre annunciati, perché spesso causati da interventi mal congegnati o in malafede, figli della bulimia costruttiva del nostro Paese e della speculazione, quando non da piogge torrenziali o frane. Anche qui, dove una parte della comunità cittadina teneva faticosamente in piedi la memoria di quel tragico crollo del 1959, quando 58 persone furono uccise da quella che allora già si tentava di chiamare la mala-edilizia. E il tutto è figlio dei soliti difetti, quelli sì strutturali: nessuna pianificazione nei centri storici, pochi piani regolatori e soprattutto deroghe e mancato rispetto delle regole. Nel 1959 furono le sopraelevazioni su un’autorimessa non adatta a sostenerne il peso a causare il crollo.

In questo caso vedremo, ma, come a Villa Jacobini a Roma o nel 1999 a Foggia, è la mancanza di controlli e manutenzione a fare il resto. Il raffronto tra prima e dopo il crollo a Barletta è impressionante: la facciata dell’immobile mostra i segni di un restauro recente, ma c’è stato un rilievo statico-strutturale? Sono state messe in campo competenze ingegneristiche, o tutto è stato lasciato nelle mani di tecnici impreparati? Da un lato poi ci sono le transenne dei lavori sulla casa vicina: sono stati fatti a regola? Si è provveduto a sostenere le strutture eventualmente interessate? Il tutto su quinte di case che mostrano i segni di interventi ripetuti a diversi livelli: mattoni e pietre a vista, malte intaccate da intarsi di tetti e muri, fori e l’idea di un caos costruttivo e abitativo che al sud è la regola. Qui non si aprono voragini come a Napoli e a Roma, non ci si mettono il terremoto come a L’Aquila o le frane come in Veneto. Qui tutto riporta alle colpe degli uomini. Interventi senza misura e fuori controllo sono la regola in Italia e l’abusivismo edilizio mette in condizioni di rischio centinaia di migliaia di persone.

All’alba del terzo millennio le abitazioni degli italiani non sono sicure, tutt’altro: tra frane, alluvioni, terremoti, voragini e cedimenti strutturali ogni cittadino ha, in un raggio molto corto attorno a casa propria, motivi per non fidarsi. Già è difficile vivere sotto la spada di Damocle di un grave rischio naturale, ma subire le conseguenze di mancanze di altra natura è francamente inaccettabile. E che fine ha fatto quel libretto dei fabbricati che avrebbe dovuto accompagnare la vita dei nostri immobili fornendone una carta d’identità veritiera? In questo contesto disastrato, speriamo che qualche regione si renda conto che non è di piani casa e aumento di volumetrie abitative che il Paese ha bisogno, ma della più grande delle opere: la ristrutturazione dei centri storici fatiscenti di una parte delle città italiane, specie del Meridione. Ritardare questa grande opera è ben più grave che averne realizzate poche delle altre.

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« Risposta #41 inserito:: Ottobre 26, 2011, 05:13:29 pm »

26/10/2011

Prevenzione dimenticata

MARIO TOZZI

Buoni ultimi in Europa, gli italiani sembrano scoprire, nell’autunno 2011, che il regime delle piogge è cambiato.

Non ci sono più le pioggerelline invernali, né le rugiade primaverili. No, qui deflagrano vere e proprie bombe d’acqua.


Bombe d’acqua che scaricano in poche ore la stessa quantità di pioggia che un tempo cadeva in qualche mese. Quasi 130 mm di pioggia a Roma (con due vittime) in un paio d’ore, una vittima nel Salernitano, 140 mm in una sola ora alle Cinque Terre e ancora dispersi. Peccato che le alluvioni istantanee (flash-flood) siano ormai da tempo diventate la regola nel nostro Paese e investano anche bacini fluviali minori. Questo non è più il tempo delle grandi piene del Polesine o dell’Arno: nell’Italia del terzo millennio tocca e toccherà sempre più all’Ofanto, piuttosto che al Brachiglione. Le bombe d’acqua sono figlie del clima che si surriscalda e si estremizza: più energia termica a disposizione dei sistemi atmosferici significa maggiore possibilità di eventi fuori scala rispetto al passato. Ma tutto peggiora quando, anziché guardare in terra, si continua a osservare il cielo nella speranza che il fato non sia avverso. L’esempio della Liguria è eclatante: le alluvioni in quella sottile striscia di terra sono e saranno la regola a ogni pioggia un po’ più grave del solito. Per forza: quando si costruisce fino dentro gli impluvi fluviali, il terreno viene reso impermeabile e non assorbe più la pioggia che, invece, si precipita nei corsi d’acqua, ormai non più commisurati a quelle precipitazioni. Così arrivano le alluvioni, dovute alla nostra scarsa conoscenza della dinamica naturale e al mancato rispetto delle regole: se si leva spazio al fiume, il fiume prima o poi se lo riprende. E hai voglia a sturare i tombini a Roma o a decretare lo stato di calamità (che non andrebbe assolutamente favorito, perché si deve operare in prevenzione, non in emergenza) a La Spezia: sono solo palliativi che rimandano alla prossima occasione. Se non si liberano i fiumi dell’aggressione cementizia, se non si rispettano le regole di un territorio così fragile e giovane come quello italiano e se, peggio, si favorisce l’abusivismo anche attraverso sciagurati piani casa e ancor più sciagurati condoni, il problema non si risolverà mai. Ma proprio questo è il punto: nessun decisore politico si impegna nella manutenzione del territorio attraverso piccole opere diffuse. Tutti sperano di lucrare consenso con l’ennesimo ponte inutile o l’ennesimo raddoppio di strada. Così non si opera nell’interesse della popolazione e si degrada il territorio al rango dei Paesi del Terzo mondo, mentre si hanno ambizioni da sesta potenza industriale del pianeta. Le perturbazioni investiranno le solite zone ad alto rischio: l’Alto Lazio, la Campania, la Calabria e Messina. E ascolteremo le solite litanie e giustificazioni, magari appellandosi all’eccezionalità dell’evento che, però, non è ormai più tale. Non si può vivere a rischio zero, è vero, ma, non avendo fatto nulla, non ci si dovrebbe nemmeno lamentare.

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« Risposta #42 inserito:: Gennaio 15, 2012, 11:16:44 am »

15/1/2012

Dopo la tragedia, il disastro ambientale

MARIO TOZZI

Dobbiamo constatare con dolore che nell’Italia del terzo millennio non si muore solo per frana o alluvione, ma anche annegati nel mare più frequentato del mondo. Mentre scriviamo sono ancora decine le persone che mancano all’appello, ma le immagini teletrasmesse non mostrano corpi in mare, né ne sono stati raccolti sulla vicinissima riva. Si spera siano stati già tratti in salvo o comunque siano stati già trasferiti, perché sarebbe davvero insopportabile pensare che siano rimasti ancora intrappolati nella nave tragicamente basculata. E non vorremmo scoprire che lo spaventoso incidente della più grande nave da crociera italiana sia dovuto alla volontà di «portare un saluto» agli abitanti dell’isola del Giglio che, siamo sicuri, ne avrebbero fatto volentieri a meno.

Dalla nave non hanno veduto le vicinissime luci di ingresso al porto? E nemmeno quelle del paese? Questa sarebbe già una colpevole mancanza di controlli, anche in caso di guasti, non ci vengano però a raccontare che lo scoglio, parzialmente asportato (a testimonianza di una velocità d'impatto elevata), non fosse segnalato nelle carte nautiche. Primo perché lo è forse dal secolo scorso, e secondo perché è praticamente attaccato alla costa e la rotta di navi come quelle mantiene distanze di almeno tre miglia dall’isola. Non per caso. E ci dicano, per favore, che le esercitazioni a bordo vengono tenute regolarmente e che l’equipaggio sa esattamente cosa fare in caso di pericolo, anche se le prime voci dei turisti scampati fanno sorgere qualche dubbio.

Ma il problema è quello delle grandi navi da crociera, che si sono trasformate in veicolo di turismo di massa (da elitarie che erano), e il cui solo equipaggio supera la popolazione residente dell’isola del Giglio stessa. Il problema è quello di un turismo mordi e fuggi che si accontenta di «toccare» più porti in una settimana, come se avvicinarsi a un’isola significhi averla non dico compresa, ma almeno assaggiata. E senza alcun vantaggio economico per le isole, che spesso non hanno nemmeno i porti adatti per ospitare navi di quel genere.

Speriamo poi che le conseguenze negative, dal punto di vista ambientale, siano limitate all’impatto dell’enorme scafo sul fondale. Impatto violentissimo, e reiterato per centinaia di metri, che certamente avrà compromesso a lungo quel breve tratto di fondale. Speriamo cioè che non ci sia sversamento in mare delle oltre 2000 tonnellate di gasolio marino che la nave portava nei suoi serbatoi. In quel caso l’isola del Giglio sarebbe condannata per alcuni anni a non ospitare quasi più nessun ecosistema marino sano.

È bene non dimenticare che un centimetro cubo di petrolio è in grado di ammazzare il 90% della vita di un metro cubo d’acqua. E sarebbe meglio ricordarlo prima di intraprendere rotte di crociera così vicine ai gioielli del nostro Tirreno: Montecristo, Capraia e Pianosa ospitano equilibri delicatissimi che morirebbero per impatti ambientali così devastanti. Naturalmente ciò vale a maggior ragione per le petroliere che incrociano proprio in quei mari ogni giorno dell’anno e il cui traffico dovrebbe essere bandito da quello che resta pur sempre il santuario europeo dei cetacei.

Il recente naufragio della nave Rena in Nuova Zelanda e questo della Costa Concordia ci rammentano che non è necessario essere petroliere per recare morte e distruzione, basta non avere il combustibile abbastanza protetto da reggere a urti simili. L’obbligo di impenetrabilità dei serbatoi dovrebbe essere un requisito indispensabile alla navigazione in certe acque.

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« Risposta #43 inserito:: Gennaio 19, 2012, 04:58:57 pm »

Ambiente

19/01/2012 - IL PARADISO DEI SUB

L'isola del Giglio, ultima oasi del "bove marino"

I fondali rocciosi sono pieni di Gorgonie rosse, che ospitano lo squalo gattuccio, spugne, anemoni, briozoi, alghe incrostanti, salpe, gronchi e muggini

Gorgonie, cavallucci e cetacei: è uno dei litorali più incontaminati del Mediterraneo

MARIO TOZZI
Isola del giglio

Ma cosa c'è di così prezioso nei fondali dell'isola del Giglio che preoccupa i turisti e gli ambientalisti di tutta Italia? In realtà è tutto l'arcipelago toscano a essere importantissimo dal punto di vista ambientale. E il paventato sversamento di combustibili dalla Costa Concordia un'apocalisse da evitare a tutti i costi. L'isola è un grande scoglio di granito emerso in mezzo al Tirreno dopo una storia geologica antica e tormentata. Il contrasto magnifico fra il colore chiaro dei graniti e il verde del mare le conferisce un valore paesaggistico elevatissimo, che le ha permesso di essere premiata da anni con il massimo delle vele e delle bandiere blu.

A causa del ritardato arrivo sulla ribalta turistica internazionale e della cura dei suoi abitanti, quel mare si è conservato in buona salute ed è una delle poche mete significative, liberamente accessibili, del turismo subacqueo del Tirreno. Nelle zone sabbiose, come quelle davanti al porto (dove si è arenata la nave), la prateria a Posidonia, una pianta marina che testimonia acque pulitissime, è ampia e sostanzialmente integra e ospita ancora le grandi nacchere (Pinna nobilis) e una quantità di pesci come dentici, saraghi e pesci luna. Chi si bagna nelle baie del Giglio può ancora incontrare i cavallucci marini, sicuri indicatori di qualità delle acque che, in Italia, sono diventati rarissimi nell'ultimo mezzo secolo. Nelle tane una moltitudine di murene multicolori e di aragoste, astici e le caratteristiche «margherite» (le granceole) gigliesi.

Il fondale in roccia (già pesantemente intaccato dalla nave per circa 1 km) è ricchissimo a coralligeno con praterie estese di Gorgonie rosse, piuttosto rare nel Mediterraneo, che fanno da nursery allo squalo gattuccio, altro indicatore di qualità dell'ecosistema. E poi anemoni, spugne, briozoi, alghe incrostanti, salpe, gronchi, muggini in quantità.

L'isola è comunemente visitata dai cetacei marini che si vedono comodamente dai traghetti all'arrivo, ma l'ospite più pregiato è tornato a farsi vedere due anni fa, quando le acque del Giglio sono state sede di un clamoroso quanto inaspettato avvistamento, quello di due rarissimi esemplari di foca monaca che amoreggiavano a largo del Campese. Le foche monache ancora abitano il Mare Nostrum, ma per anni non erano state più avvistate nell'arcipelago toscano: catturate con le spadare oppure uccise dall'ingestione delle reti di nylon casualmente ingoiate con i pesci strappati alle reti. «Bove marino» la chiamavano i gigliesi decenni fa, quando era frequente ritrovarla in mezzo ai filari di vite intenta a rotolarsi a terra. Nei punti più deserti dell'isola, di notte, i «bovi marini» uscivano talvolta dal mare e si arrampicavano sui liscioni di granito a godersi la luna. La loro presenza nel Mediterraneo è ridotta a pochi nuclei in Egeo, Ionio e Mar Nero, attorno alle coste istriane e lungo la costa nord africana. In Italia è stata talvolta sporadicamente avvistata a Montecristo e in Sardegna, dove certamente si rifugiava stabilmente, ma è poi sparita per anni. Speriamo che tornino presto a salutare la salvezza di uno dei mari più puliti d'Italia.
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« Risposta #44 inserito:: Gennaio 26, 2012, 09:12:52 am »

26/1/2012

Fuggire non serve a nulla

MARIO TOZZI

Scossi dall’incredibile incidente del Giglio, provati dalle alluvioni di fine 2011, mentre non si è ancora rimarginata la ferita de L’Aquila, gli italiani si trovano ad affrontare lo stress inevitabile di una sequenza sismica dove apparentemente non te lo aspetti. Prima nelle Prealpi venete e successivamente in Emilia Romagna. I due eventi non sono in alcun modo collegabili, ma si comprende la paura di chi, al massimo, vede oscillare i pioppi della pianura padana, non i campanili. Poi però si deve fare un piccolo esercizio di memoria e ritornare a una lontana notte di primavera nei ducati di Parma e Reggio Emilia, proprio negli anni in cui Ciro Menotti guidava i moti insurrezionali e la repressione delle istanze liberali era durissima. Quella notte la terra trema con un’intensità attorno al VII-VIII° grado della scala Mercalli, con gravi danni a Parma e Reggio. E anche quel terremoto viene risentito in gran parte dell’Italia settentrionale.

Francesco IV d’Este concede finanziamenti straordinari e Maria Luigia d'Austria promulga un decreto a favore di Parma e dei comuni limitrofi. Ma di chi o di cosa la colpa del terremoto? Il vescovo di Reggio Filippo Cattani attribuisce la colpa ai rivoluzionari risorgimentali, i quali non avevano alcun timore di Dio, né di nessun altro potere costituito. E anche il duca d’Este ribadisce che il terremoto era un segno divino di condanna delle ribellioni in atto in quella che ancora era solo un’espressione geografica.

A salvare Ciro Menotti sarebbe bastata un po’ di memoria o di lettura di cronache: già nel 1831 a Parma e Reggio Emilia vennero giù comignoli, muri, tegole e calcinacci. Quel terremoto fu del VII-VIII° grado della scala Mercalli, come furono intensi quelli del 1811, del 1810, del 1806 e quello del 1732, quando di moti non se ne parlava nemmeno. E nel 1834, l’Appennino parmense sarebbe stato di nuovo colpito da terremoti del VII-VIII grado che si abbatterono soprattutto sulla zona di Parma.

Oggi sappiamo che quella fetta di Pianura Padana è a rischio sismico, ma che il pericolo non è eccessivo, se paragonato a quello di Messina o di Catania. Dal 1600 a oggi nella zona si sono registrati oltre 21 terremoti di rilievo. L’ultimo nel 1996, quando alla Ipercoop di Reggio Emilia caddero al suolo decine di apparecchi televisivi nuovi di zecca frantumandosi in mille pezzi. Quella volta la terra tremò per 55 secondi proprio nella stessa zona dei «terremoti carbonari» del 1831 e 1832. Anche in questo caso gli abitanti avvertirono un boato tremendo e il contemporaneo dilagare della paura.

A secoli di distanza dovremmo aver imparato che lì la terra ha sempre tremato e che la responsabilità è delle strutture geologiche profonde che risentono della spinta del blocco crostale adriatico incuneatosi fra Europa e Africa. E che non c'è bisogno di agitarsi troppo: basta costruire bene e premunirsi dentro casa assicurando alle pareti gli oggetti pesanti. E non fuggire per strada in tutta fretta: fanno più feriti i comignoli o i cornicioni eventualmente in bilico che le scosse sismiche.

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