Sudafrica: l’odio che non muore mai
Oreste Pivetta
Una questione di classe. Ma è anche la natura a volerci così. Richard Mason è in Italia per presentare il suo ultimo romanzo, Le stanze illuminate, pubblicato da Einaudi (pagine 496, euro 18,50), il terzo dopo Anime alla deriva e Noi. Manson ha appena trent’anni. Anime alla deriva lo scrisse che ne aveva ventidue e fu un successo. È nato in Sudafrica, proprio a Johannesburg, dove in questi giorni si contano i morti di una tragedia che sorprende molti di noi europei, occidentali: neri sudafricani che perseguitano, incendiano, uccidono altri neri, immigrati dai paesi vicini. È il conflitto tra poveri, è una storia che si trascina da tempo immemorabile, è il nostro dna, cerca di spiegare Mason, che una traccia l’ha disegnata proprio nel suo romanzo, quando ricorda la guerra anglo-boera d’inizio secolo, la violenza, le morti, le fattorie incendiate, la violazione dei diritti umani, quando attraverso l’artificio di un diario ritrovato rievoca l’esistenza degli afrikaners nei campi di concentramento inglesi.
Richard Mason ha lasciato Johannesburg, quand’era appena bambino. I genitori furono costretti ad andarsene, perseguitati perché ritenevano che l’apartheid fosse una pratica inaccettabile. Raggiunsero l’Inghilterra e fecero in modo che Richard frequentasse le scuole migliori, compreso l’esigentissimo e costosissimo collegio di Eton. Nel prossimo libro, Mason racconterà la sua infanzia in Sudafrica e la partenza verso l’Europa.
Mason mi chiede qualcosa dell’Italia. Dice d’esser rimasto scandalizzato (esattamente «agghiacciato») dall’immagine dei saluti romani alla festa per l’elezione di Alemanno, sindaco di Roma, mi domanda con stupore se esistano ancora fascisti in Italia, è incuriosito dalla fortuna di Berlusconi.
Gli chiedo ovviamente del Sudafrica e dei fuochi di Johannesburg. C’è davvero solo una crisi economica all’origine di tutto?
«Il Sudafrica resta un paese ricco. Mi pare difficile parlare di crisi. Non abbiamo subìto il crollo dei subprime, non abbiamo subìto il crollo del mercato immobiliare e le materie prime che il Sudafrica possiede continuano a valere. La verità è che non è cambiata la miseria materiale e morale dei ghetti, delle bidonville, anche se l’apartheid è finito e molti sono i neri che hanno assunto posizioni di prestigio. Ma sono come il presidente Mbeki: i figli di una borghesia che li ha fatti studiare a Londra o in America, delle sofferenze dei poveri non sanno nulla».
Francamente, e ingenuamente, pensavano che un paese e un popolo che hanno sofferto tanto dell’intolleranza razziale ne fossero vaccinati...
«Non è così. I guasti restano, ci vorranno generazioni e generazioni. Pesa ancora l’odio sull’odio generato da quella guerra anglo-boera di un secolo fa. Gli Afrikaner sfruttavano i neri, gli inglesi promisero ai neri, in cambio del loro aiuto, terre e fattorie sottratte ai boeri, ma conclusa la guerra non rispettarono i patti. Da lì nacque la rivolta contro i bianchi, di lì nacque l’ostilità feroce, alla quale i conquistatori risposero con una repressione feroce che si concretizzò nell’apartheid. Una legge ha cancellato l’apartheid, ma i rancori durano e durano nella società tutti i segni della discriminazione. Chi ne fu vittima, cerca una rivalsa e vittime diventano gli ultimi arrivati, poveri che possono mettere a rischio la condizione di altre vittime prima di loro, appena un poco più emancipate dalla miseria. C’è qualcosa che sta nella profondità della storia e dell’animo umano in tutto questo, sì qualcosa che tocca il nostro dna: gli uomini e i delfini sono esseri viventi programmati per collaborare, ma la collaborazione funziona in piccoli gruppi e un gruppo non collabora con l’altro, una famiglia non collabora con l’altra, le differenze affermano i loro diritti. Lo dicono molte teorie sull’evoluzione della specie...».
Il male è dentro di noi. Non c’è dubbio e non c’è modo di consolarsi. Però sappiamo che lei s’è inventato qualcosa, in uno spirito ben diverso.
«Mi piace parlare della Kay Mason Foundation...».
Kay Mason è una sorella di Richard. È morta. Dell’iniziativa si può leggere nel sito
www.kaymasonfoundation.org. Richard ci ha messo i soldi guadagnati con il suo primo libro. Chi volesse imitarlo...
«È una impresa che ho affrontato con l’aiuto del vescovo Desmond Tutu. L’obiettivo è di aiutare a studiare giovani delle bidonville. L’apartheid sarà un capitolo chiuso, ma la discriminazione non è finita perché la scuola costa e frequentare una scuola è consentito solo a chi ha famiglie che possono pagare. Ci siamo sostituiti alle famiglie. Abbiamo cercato di realizzare le condizioni perché qualche ragazzo del ghetto potesse studiare. Ce ne sono di bravissimi. Qualcuno di loro diventerà la nuova classe dirigente sudafricana. Finalmente nei luoghi che contano ci sarà qualcuno che ha fatto esperienza di bidonville, di case di lamiera, di miseria, di ignoranza. Uno di loro mi raccontava giorni fa del suo inizio difficile, guardato con diffidenza agli altri ragazzi bianchi, con i quali litigava e magari si picchiava. È diventato un leader, un rappresentante di classe. Ha doti straordinarie di narratore e le usa per spiegare a tutti come fosse e come sia la vita nel ghetto. I suoi racconti sono antidoti ai pregiudizi».
Ci proverà anche lei nel suo prossimo libro?
«Sì, quello in cui narro di una famiglia bianca nei primi anni ottanta nella mia città, Johannesburg, e della loro bambinaia. La famiglia bianca non sa ovviamente nulla della bambinaia, che invece osserva e sa tutto di loro. E racconta, dal suo punto di vista».
Lei ha studiato nelle migliori scuole. È diventato a scuola romanziere?
«No. Sono nato tardi, undici anni dopo la sorella più piccola. Sono stato un “errore”. All’ultimo nato mia madre non aveva più voglia di raccontare favole. Per cui mi riempì di libri e di dischi, che riproducevano la bella voce di un attore mentre leggeva un romanzo, tanti, da Alice nel paese delle meraviglie a Winnie the Pooh. Così mi sono innamorato della scrittura, del suono della scrittura».
Questo suo ultimo romanzo, cinquecento pagine, è ricchissimo di temi, ciascuno dei quali poteva valere a sua volta un romanzo: la guerra anglo-boera (che ricorda quella in Iraq), la vecchiaia e la perdita della memoria e della coscienza (persino l’alzheimer), il rapporto tra genitori e figli, il rapporto tra fratelli, il mito del successo e del denaro nella società contemporanea e altro ancora. C’è qualcosa che vale più di altro?
«Ci sono i personaggi: la madre Joan McAllister, che ha radici in Sudafrica e in Sudafrica ritorna in un viaggio della memoria, prima di ritrovarsi in un ospizio di lusso, c’è la figlia Eloise presa dalla sua carriera, che vive con senso di colpa il ricovero della madre... Joan ed Eloise vivono il nostro tempo, che è anche quello di Abu Dhabi e della guerra in Iraq, che ha molto in comune con la guerra in Sudafrica: due grandi potenze che provocano una guerra che non finisce mai, che produce disastri nella società, con la scusa di portare libertà e civiltà, mentre si innalzano barriere di filo spinato. Pensano di vincere. Non ci riusciranno. Reagiranno colpendo ferocemente i diritti umani. Aprono le porte alla vendetta, all’ostilità infinita. La mia bisnonna ha vissuto l’esperienza di un campo di concentramento in Sudafrica. I morti furono migliaia. Sono tragedie che hanno lasciato e stanno lasciando il segno, anche se poi tutti dimenticano. Non credo che uno scrittore, tratteggiando i protagonisti di un romanzo, possa dimenticare il contesto: sono loro, seguendo la loro vita, a trascinarlo nella realtà dolorosa dei tempi».
Lei s’è fatto trascinare anche in un ospizio: ha descritto molto bene il procedere della malattia nell’anziana Joan...
«Ho trascorso molte ore con gli anziani, anche in case di riposo e ho imparato che la condizione del vecchio può dire molto. A Città del Capo ho conosciuto una deliziosa vecchietta. Le ho detto: perdere la testa potrebbe essere terrificante, ma potrebbe essere anche assai divertente. Lei mi si è avvicinata e all’orecchio mi ha sussurrato: è vero, è divertente».
Pubblicato il: 21.05.08
Modificato il: 21.05.08 alle ore 8.19
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