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Autore Discussione: MIKHAIL GORBACIOV  (Letto 8660 volte)
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« inserito:: Maggio 21, 2008, 05:42:42 pm »

19/5/2008
 
Il mondo ha fame, l'Onu tace
 
 
MIKHAIL GORBACIOV
 


La crisi mondiale del cibo sembra aver colto i leader politici, ma anche gli esperti, alla sprovvista. Inizialmente definita «tsunami silenzioso», ora non è più silenziosa. In molti Paesi, compresi alcuni cruciali per la stabilità regionale e globale, ci sono già state sommosse per il pane. Alcune delle cause di questa crisi sono evidenti: crescenti consumi di cibo nella Cina e nell’India che vivono uno sviluppo tumultuoso; accresciuta domanda di biocombustibili come l’etanolo, che deriva dal granoturco; cambiamenti delle condizioni atmosferiche causate dal riscaldamento globale e dalla scarsità d’acqua. Il primo punto è un trend inevitabile, e dobbiamo rallegrarci che centinaia di milioni di persone si stiano tirando fuori dalla povertà e possano permettersi un’alimentazione corretta. Il nostro pianeta è perfettamente in grado di nutrirli: secondo gli esperti, con le attuale tecnologie agricole, la produzione basterebbe per otto miliardi di bocche. Le principali ragioni dell’improvvisa crisi sono tutte umane e sono il prodotto dell’azione - o meglio: dell’inazione - dei politici.

Non erano forse stati messi in guardia sul riscaldamento globale e sulla necessità di contromisure? La produzione di etanolo era stata presentata come un modo ambientalmente vantaggioso per ridurre la dipendenza dal petrolio. Ma non si erano presi in considerazione tutti gli aspetti, e il risultato è stato paradossale: in molti Paesi i contribuenti sovvenzionano la trasformazione dei cereali in etanolo, e così riducono le risorse di cibo. Il che crea un circolo vizioso, che ancora una volta dimostra come non esistano soluzioni semplici né parole magiche. Nelle scorse settimane il direttore generale della Fao, Jacques Diouf, ha giustamente sottolineato come la crisi sia maturata nel corso di decenni e sia il risultato di «vent’anni di politiche sbagliate». Mentre gli aiuti all’agricoltura nei Paesi in via di sviluppo sono stati dimezzati tra il 1990 e il 2000, ai suoi contadini il mondo industrializzato ha continuato a erogare generosi sussidi.

Come a dire: lasciamo che «quelli» affoghino o nuotino sulle onde del libero mercato, mentre «i nostri» verranno soccorsi. Ora che la crisi del cibo è anche tra noi - e con ogni verosimiglianza ci resterà - sono due le cose da fare. La prima è prendere misure di emergenza. La seconda è capire la lezione e utilizzarla per un’azione a lungo termine. Con l’evolvere della situazione, le nazioni seguiranno il principio dell’«ognuno per sè» o mostreranno finalmente la forza e la capacità di lavorare insieme e agire in modo efficace? La risposta non è ancora chiara. Alcuni Paesi produttori di cibo hanno già imposto limiti alle esportazioni per tenere bassi i prezzi ed evitare la rabbia popolare. Questa è una reazione comprensibile, ma a lungo termine non funzionerà. Occorrono soluzioni a livello internazionale. Il segretario generale dell’Onu ha convocato di recente un incontro dei vertici di 27 organizzazioni internazionali per coordinare la risposta della comunità mondiale.

E’ stata creata una forza speciale d’intervento, il che è un ottimo primo passo. I Paesi ricchi hanno dato mezzo miliardo di dollari per aiuti alimentari urgenti - una somma non enorme, ma pur sempre un buon inizio. L’agenda del G8 che si terrà in Giappone all’inizio di luglio è stata modificata: il primo ministro giapponese ha proposto di discutere «la minaccia della fame e della malnutrizione» nel mondo». Anche la società globale civile si è data da fare, e molte ong hanno offerto il loro aiuto. Tutto questo è buono e giusto, ma io continuo a chiedermi che cosa faccia il Consiglio di Sicurezza, che, secondo la Carta dell’Onu, «porta la responsabilità primaria di mantenere la pace e la sicurezza internazionale». Che dalle finestre del Palazzo di Vetro non si veda la minaccia alla pace e alla sicurezza? «Sono sorpreso - ha detto Diouf - di non essere stato convocato dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu», per riferire con urgenza sulla situazione. I diplomatici delle Nazioni Unite sembrano troppo abituati a lavorare come una squadra di vigili del fuoco che risponde alle crisi quando già sono degenerate in ostilità.

Ovviamente quello è un lavoro necessario, ma sviluppare misure preventive è ancor più importante. Com’è possibile che, mentre i parlamenti nazionali dedicano sessioni particolari ai problemi urgenti, mobilitando tutti gli esperti disponibili e trovando gradualmente le soluzioni, lo stesso non accada a livello internazionale? Il Consiglio di Sicurezza non è ancora diventato un centro decisionale che potrebbe far convergere le menti dei leader mondiali sui problemi reali - le vere priorità, non quelle distorte che vediamo oggi sul tappeto. E’ imperativo cominciare ora, senza aspettare la riforma dell’Onu, che ovviamente è necessaria. Se è vero che l’esclusione di Paesi come l’India, il Brasile, il Giappone, la Germania e il Sudafrica dal gruppo dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza è sbagliata e va corretta e che la sua sfera d’influenza dovrebbe includere la sicurezza economica e ambientale, perché non cambiare l’agenda e cominciare a coinvolgere, subito, questi Paesi nella discussione? Il problema è l’inerzia. Ma la crisi del cibo ci ha ricordato una volta di più che l’inerzia uccide.

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 28, 2008, 05:48:53 pm »

28/6/2008
 
Ue e Russia, l'alleanza necessaria
 
 
 
MIKHAIL GORBACIOV
 
In politica da 55 anni, sono sempre stato molto interessato a sentire il polso di Bruxelles, una delle capitali dell’Europa, che ospita dibattiti che spesso vanno oltre l’Europa. Ci sono stato anche di recente, a ricevere l’Energy Globe Award per il mio contributo alla causa ambientale. Questo viaggio è arrivato in un momento per me molto interessante: appena una settimana dopo che la Russia e l’Ue si erano finalmente accordate per far partire i negoziati mirati a una nuova partnership.

Chiaramente, la posizione globale dell’Ue dipende dalla sua forza internazionale, ora messa alla prova dal suo rapido allargamento. L’Unione Europea sta risolvendo i suoi complicati problemi interni e al tempo stesso si sta posizionando nell’arena mondiale. I discorsi sulla «vecchia» e la «nuova» Europa - che, detto per inciso, non sono stati respinti dagli europei con la dovuta forza - ora sembrano in fase calante: il tentativo di dividere l’Europa dall’esterno è fallito. Esso mette però a fuoco il vero problema: occorre ancora un enorme lavoro per essere certi che gli ultimi Paesi membri si uniformino agli alti standard Ue nell’economia, nelle tutele sociali e nella lotta alla corruzione. E gli standard in democrazia? Anche lì ci sono problemi. Un solo esempio recente: mentre quasi due terzi dei cittadini della Repubblica Ceca sono contrari al dispiegamento del sistema Usa anti-missile sul loro territorio, il Parlamento ceco ha appoggiato il progetto. È un trucco che avrà sempre meno probabilità di funzionare, in una democrazia matura.

Molti a Bruxelles temono che l’Ue venga a tal punto assorbita dall’integrazione dei nuovi Paesi membri e dal riassetto dei processi interni da non poter più far fronte a ciò che le occorre per espandersi. Questo, temono molti, minerebbe la sua capacità di diventare un vero leader globale. A me sembra che tali timori non siano senza fondamento. Prendiamo l’ambiente - un ambito in cui l’Ue ha tutte le ragioni per rivendicare una posizione di guida. La Commissione europea si è data traguardi ambiziosi per combattere i cambiamenti climatici. L’obiettivo, di qui al 2020, è triplice: tagliare del 20% le emissioni di gas serra, aumentare del 20% l’efficienza energetica, fornire il 20% dell’energia attraverso fonti rinnovabili. Eppure la marcia verso la riduzione finora è stata piuttosto fiacca. La realizzazione è al di sotto delle ambizioni.

Una spiegazione potrebbero essere gli obsoleti meccanismi decisionali che, tra l’altro, spesso intralciano gli sforzi per costruire un nuovo rapporto tra Ue e Russia. Per ovvie ragioni io seguo la vicenda con molta preoccupazione, perché l’avvio dei negoziati preliminari all’accordo è stato rinviato di quasi 18 mesi. Nessuno ci guadagna da una situazione in cui due Stati membri dell’Ue, prima la Polonia e poi la Lituania, hanno bloccato l’inizio delle trattative tra partner reciprocamente indispensabili. Quali che siano le ragioni di questa opposizione - rancori storici o suggerimenti dall’altra sponda dell’Atlantico - l’azione era sostanzialmente anti-europea. Non si può andare avanti guardando indietro o di lato. Lo fa, anche in Russia, solo chi non ha dimenticato e non ha imparato nulla. È sorprendente come i politici inclini al braccio di ferro e i sostenitori dell’uso della forza di Paesi diversi si aiutino a vicenda. Ovviamente, un tale «aiuto» è l’ultima cosa di cui la Russia ha bisogno.

Nei miei interventi a Bruxelles io ho continuato a ripetere ciò che avevo detto alla cerimonia di ingresso al Cremlino del nuovo presidente della Russia: il nostro Paese sta vivendo la sfida di modernizzare l’economia, la politica e la società nel loro insieme. Questo compito presenta molti aspetti. Il presidente Dmitry Medvedev ne ha scelto uno particolarmente importante: la lotta al «nichilismo legale», il che significa rafforzare il principio di legalità. Io appoggio la sua enfasi, che ovviamente è del tutto coerente con i valori europei. Questo è un buon momento perché i nostri amici europei pensino a come possono appoggiare la Russia in questo lavoro di importanza vitale. Ma certo non aiuteranno né la lunga serie di condizioni né la lezioncina impartita alla Russia. Si è già provato, ed è fallito. Quello che occorre è un dialogo esauriente, mirato a costruire una partnership avanzata tra l’Unione Europea e la Russia. Io ritengo che un’alleanza del genere debba essere istituzionalizzata, con strutture congiunte per prendere le decisioni e attuarle. A qualcuno un progetto del genere può sembrare eccessivamente ambizioso e poco fattibile, ma io non penso che sia un sogno irrealistico. Nel mondo di oggi, sempre più complesso e pure pericoloso, è qualcosa di cui entrambe le parti ovviamente hanno bisogno.

© 2008 Mikhail Gorbaciov
Distributed by The New York Times Syndicate
 
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 23, 2008, 11:38:27 pm »

23/8/2008
 
"L'Occidente non ci rispetta"
 
 
 
 
 
MIKHAIL GORBACIOV
 
La fase acuta della crisi provocata dall’assalto delle forze georgiane su Tskhinvali è ormai superata. Ma il dolore rimane. Come si fa a cancellare dalla memoria le orribile scene di un attacco missilistico notturno su una città pacifica, interi quartieri rasi al suolo, gente che moriva nascosta nelle cantine, la barbara distruzione di monumenti antichi e delle tombe degli avi?

La Russia non voleva questa crisi. La leadership russa è internamente in una posizione abbastanza forte, non ha bisogno di una «piccola guerra vittoriosa». La Russia è stata trascinata nello scontro dall’avventatezza del presidente georgiano Mikhail Saakashvili, che non avrebbe mai osato lanciare l’attacco senza appoggio esterno. La Russia non poteva permettersi di non agire. La decisione del presidente Medvedev di fermare le ostilità è stata la mossa giusta di un leader responsabile. Chiunque si fosse aspettato confusione a Mosca è rimasto deluso. Il presidente russo ha agito con calma, sicurezza e fermezza.

Chi ha progettato questa campagna chiaramente voleva che la Russia venisse accusata per aver peggiorato la situazione nella regione e nel mondo, indipendentemente dai risultati dello scontro. Con l’aiuto di queste forze l’Occidente ha montato un attacco propagandistico contro la Russia, soprattutto nei media americani. La copertura mediatica non ha avuto nessuna equità ed equilibrio, soprattutto nei primi giorni della crisi. Tskhinvali era in rovine fumanti e migliaia di persone stavano scappando dalla città nella quale non erano ancora entrate le truppe russe, ma la Russia era già stata accusata di aggressione, e si ripetevano le sfacciate menzogne del leader georgiano che si sentiva incoraggiato a pronunciarle.

Non è ancora chiaro se l’Occidente fosse al corrente dei piani di Saakashvili, ed è una questione seria. Quello che è chiaro è che l’assistenza occidentale nell’addestramento delle truppe georgiane e il massiccio invio di armi hanno spinto la regione non verso la pace, ma verso la guerra. Se questa disavventura militare è stata una sorpresa per i protettori stranieri del leader georgiano, peggio per loro. Saakashvili era stato ripetutamente lodato per essere un fedele alleato degli Usa e un autentico democratico, e anche per aver fornito aiuto in Iraq. Oggi tutti, gli europei e, soprattutto, gli innocenti abitanti civili della regione, devono raccogliere le macerie di quello che è stato distrutto dal miglior amico degli americani.

Coloro che danno giudizi affrettati su quello che succede nel Caucaso, oppure cercano influenza in quella zona, dovrebbero prima farsi almeno una vaga idea della complessità di quella regione. Gli osseti vivono sia in Georgia che in Russia. E’ così ovunque, un mosaico di gruppi etnici che vivono l’uno accanto all’altro. Perciò è meglio dimenticare frasi come «questa è la nostra terra», «stiamo liberando il nostro Paese». Dobbiamo pensare ai popoli che abitano quella terra. Il problema del Caucaso non può essere risolto con la forza. Ci hanno provato più volte, e si è sempre rivelato un boomerang.

Quello che serve è un accordo legalmente vincolante a non ricorrere alla forza. Saakashvili si è più volte rifiutato di firmarlo, per ragioni che ora diventano assolutamente chiare. L’Occidente farebbe una cosa buona se aiutasse a raggiungere tale accordo adesso. Se, invece, l’Occidente sceglierà di accusare la Russia e riarmare la Georgia, come ipotizzano gli esponenti americani, una nuova crisi sarà inevitabile. Se andrà così, aspettiamoci il peggio.

Condoleezza Rice e George Bush hanno promesso di isolare la Russia. Alcuni politici americani hanno minacciato di espellere la Russia dal G8, di abolire il Consiglio Russia-Nato o di fare pressioni per impedire l’adesione russa alla Wto. Sono minacce vuote. Da tempo ormai i russi si chiedono: «Se la nostra opinione in queste istituzioni internazionali non conta nulla, perché dovremmo averne bisogno? Solo per sederci a un tavolo ben apparecchiato e ascoltare lezioncine?».

In effetti, la Russia per molto tempo è stata messa di fronte a fatti compiuti. Eccovi l’indipendenza del Kosovo, prego. Ecco l’abrogazione del trattato sulla difesa antimissile e la nostra decisione di piazzare difese missilistiche nei Paesi confinanti. Eccovi l’infinita espansione della Nato. Tutto questo sullo sfonde di commuoventi parole sulla partnership. A chi sarebbe piaciuto questo spettacolo?

Oggi negli Stati Uniti si parla molto di «riconsiderare» le relazioni con la Russia. Posso suggerire un’abitudine senz’altro da riconsiderare: parlare alla Russia con condiscendenza, senza rispetto per le nostre opinioni e interessi. I nostri due Paesi possono dar vita a una seria agenda di cooperazione reale. Penso che molti americani, come molti russi, ne comprendano la necessità. E i politici? Di recente è stata istituita una commissione bipartisan guidata dall’ex senatore Gary Hart e dal senatore Chuck Hagel, per studiare le relazioni russo-americane. Il mandato è presentare «raccomandazioni politiche alla nuova amministrazione per promuovere gli interessi nazionali americani in rapporto alla Russia». Se l’obiettivo è solo questo, dubito che ne verrà fuori qualcosa di particolarmente buono. Se invece ci sarà anche una considerazione degli interessi dell’altra parte, e della sicurezza comune, si potrebbe aprire una strada verso la ricostruzione della fiducia e l’inizio di un utile lavoro, insieme.

Copyright 2008 Mikhail Gorbaciov
Distributed by The N. Y. Times Syndicate


da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 23, 2008, 11:41:44 pm »

23/8/2008
 
L'Europa al governo del mondo
 
 
 
 
 
PIERO FASSINO *
 
La guerra in Ossezia non è solo un conflitto «locale». Anzi, è la conferma di quanto nell’epoca della globalizzazione conflitti locali non ci siano più, perché ogni conflitto - ovunque avvenga - investe la stabilità e la sicurezza del mondo. E difatti le conseguenze di quella guerra stanno investendo i rapporti tra Russia e Stati Uniti, la funzione della Nato e il ruolo dell’Europa. Si conferma quanto fondato sia affermare - come già hanno fatto Barbara Spinelli e Arrigo Levi - che mai come in questo momento «è l’ora dell’Europa».

Dell’Europa hanno intanto bisogno gli Stati Uniti che tra poche settimane eleggeranno un nuovo presidente, dopo anni di unilateralismo che hanno condotto l’America al più basso grado di simpatia e di consenso nel mondo. E, anzi, avvertiamo tutti l’esigenza di un’America che torni a essere guardata con fiducia. In fondo questa è una delle carte di Barack Obama, che si presenta come un presidente in grado di far nuovamente amare quel Paese. Ma in ogni caso, quale che sia il loro futuro presidente, gli Stati Uniti non usciranno in ventiquattr’ore dalle loro difficoltà. L’Unione Europea ha qui un ruolo prezioso: proprio chi è più amico dell’America e ne è un alleato solido da più di mezzo secolo può aiutare Washington a uscire dal suo neoisolazionismo e accettare l’idea di un mondo multipolare e di una governance multilaterale.

Anche la Russia ha in questo momento bisogno di qualcuno che la aiuti: sia a uscire dalla sindrome dell’accerchiamento, sia a liberarsi di quei tratti autocratici e autoritari che stanno nella storia di quel Paese e che, se non rimossi, rendono più difficile a Mosca essere accettata in un ruolo di leadership. Così come non meno impellente per la Russia è stare in un sistema di relazioni che per un verso non la veda sola nel confronto con la Cina e per l’altro le consenta di non subire l’offensiva dell’integralismo islamico che preme ai suoi confini.

Sono tutte ragioni che offrono all’Unione Europea l’opportunità di porgersi alla Russia come un partner affidabile e credibile, tanto più in un momento in cui la guerra dell’Ossezia ripropone due nodi: la funzione della Nato e il carattere multietnico su cui devono essere fondate le nazioni. E se si guarda a questi anni si vede che è stata proprio l’Unione Europea e il suo allargamento a rendere meno traumatica per la Russia l’estensione ad Est della Nato e a rendere più sicuri i diritti di cittadinanza per le tante minoranze dell’Europa centrale e orientale, a partire dalle minoranze russe dei Baltici che - con l’ingresso di quelle nazioni nell’Ue - hanno visto riconosciuti diritti di cittadinanza prima negati.

Ma è l’ora dell’Europa anche in un mondo smarrito di fronte alla globalizzazione. Il vertice di Hokkaido ci ha mostrato il limiti del G8. Il fallimento dei negoziati Wto ci indica i rischi enormi di una globalizzazione economica anarchica. E dal Darfur alla Birmania, dal Tibet al Caucaso risulta sempre più cruciale la questione dei diritti umani e civili. E appare sempre più urgente riformare le istituzioni internazionali - dall’Onu al Fondo Monetario, dal Wto alla Banca Mondiale - dotandole di poteri e risorse adeguati a esprimere una governance politica del mondo.

Chi, se non l’Unione Europa, può assumere oggi nelle sue mani queste bandiere? Per quante contraddizioni l’integrazione europea possa vivere - e il travagliato percorso del Trattato di Lisbona ne è una spia evidente - resta il fatto che l’Ue è il luogo dove da cinquant’anni si edifica una governance sovrannazionale: un unico mercato, una moneta comune, uno spazio di libera circolazione, un’area di diritto e giustizia comune, politiche europee in un numero crescente di materie. E - seppure con fatica - l’ambizione a una politica estera e di difesa comune.

Conclusione. È l’ora dell’Europa. Sì, ma gli europei ne sono consapevoli? E soprattutto lo vogliono? La risposta non è scontata, se si guarda ai referendum francese, olandese e irlandese o alle frequenti manifestazioni di nostalgia protezionista, di gelosia delle nazioni e di diffidenza verso tutto ciò che l’Europa evoca. Ma proprio questo è il compito delle classi dirigenti europee: non sottrarsi alle proprie responsabilità, non assecondare la paura della globalizzazione sull’uscio di casa, non rinunciare a nuovi e più ampi livelli di integrazione, non considerare il «governo del mondo» un’espressione visionaria, ma un’ambizione per la quale l’Europa ha energie, intelligenze, passioni da spendere.

*ministro degli Affari Esteri del governo ombra del Pd


da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Ottobre 01, 2008, 05:34:47 pm »

Potrebbe essere un'idea degli strateghi di Putin per coprirsi sul versante «liberale»

Gorbaciov torna in politica. E lancia il Pd russo

Col socio milionario Lebedev fonda il Partito democratico. «Sarà all'opposizione»


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE


MOSCA — Ci aveva provato già prima, ma questa volta Mikhail Gorbaciov sembra intenzionato a tornare veramente in politica, forse con l'approvazione del Cremlino. L'ex leader sovietico ha deciso di fondare un partito assieme all'oligarca ed ex Kgb Aleksandr Lebedev per partecipare alle future elezioni politiche. Sarà un partito democratico e liberale che mira a pescare voti nel settore rimasto scoperto dopo la catastrofe elettorale subita alle politiche di dicembre scorso dall'opposizione. Il progetto potrebbe essere addirittura un'idea degli strateghi di Putin che già un anno fa avevano messo assieme tre partiti «di governo» per coprire tutti i settori, destra, centro e sinistra. Ma la decisione di fondare il nuovo «Partito Democratico Indipendente» (nome provvisorio) potrebbe anche essere stata dettata dalla volontà di Lebedev di proteggere i suoi interessi che rischiano la collisione con il Cremlino. L'ex Gensek (Segretario Generale del Pcus) aveva già tentato altre volte di rientrare sulla scena politica russa, ma sempre con risultati disastrosi. Alle elezioni presidenziali aveva ottenuto al massimo qualche centinaio di migliaia di voti (meno dello 0,5%). Ultimamente aveva fondato un partito che però non ha partecipato alle elezioni di dicembre, l'Unione dei Socialdemocratici. Lebedev, che possiede una quota dell'Aeroflot oltre a interessi nel settore immobiliare, è uno dei pochi oligarchi che qualche volta criticano il Cremlino. Fino a poco tempo fa era al 358° posto nella lista dei più ricchi del mondo, con un patrimonio di 3,1 miliardi di dollari. La crisi di queste settimane avrebbe però abbattuto il valore dei suoi asset del 60%.

I due operano assieme da tempo. In primavera hanno acquistato il 49% di Novaya Gazeta, il bisettimanale indipendente per il quale lavorava Anna Politkovskaya, la giornalista assassinata nel 2006. Il 51% del giornale è rimasto ai redattori che decidono la linea politica. Tutto lascia prevedere che quella di Gorbaciov sarà una opposizione «rispettosa». Da tempo il padre della perestrojka non nasconde il suo sostegno per il Cremlino e per Vladimir Putin che ha definito «un vero democratico». Gorbaciov ha criticato gli Usa per l'intenzione di creare un sistema di difesa missilistico in Polonia. A suo avviso i missili sono puntati contro la Russia. Anche nel recente conflitto nel Caucaso Gorbaciov ha appoggiato il Cremlino: «Gli Usa hanno armato la Georgia». Il piano del partito del potere di coprire tutto lo spettro politico non ha funzionato in pieno, fino ad oggi. Il centro è coperto da Russia Unita che ha avuto grande successo. A sinistra è andata bene Russia Giusta, il partito fondato dal nulla dallo speaker del Senato. A destra Forza Civica è stata un fiasco. La dissoluzione di Yabloko e dell'Sps, l'Unione delle forze di destra, lascia un pericoloso vuoto. Gorbaciov e Lebedev potrebbero riuscire a riempirlo, chiudendo così la porta a un eventuale ritorno delle forze di opposizione democratica. La prova dell'eventuale appoggio del Cremlino si avrà al momento della registrazione della nuova formazione, operazione che richiede l'approvazione del Ministero della Giustizia. Se ce la faranno, vuol dire che lassù qualcuno li ama.

Fabrizio Dragosei
01 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 03, 2008, 10:59:16 am »

3/11/2008
 
La crisi e il socialismo per ricchi

MIKHAIL GORBACIOV

 
Man mano che la crisi finanziaria globale diventa sempre più profonda, diventa chiaro che il collasso della Borsa ha colpito non solo i ricchi - il cui tenore di vita probabilmente non ne verrà affetto - ma anche milioni di persone comuni che hanno affidato i risparmi della loro vita ai mercati.

Questa crisi finanziaria appare solo la prima fase di una crisi più vasta dell’economia che potrebbe essere la peggiore dalla Grande Depressione degli Anni 30. Questa crisi non è nata dal nulla. Avvertimenti erano venuti da diverse parti, inclusi gli economisti, non soggetti normalmente alla tentazione di nutrire inutili ottimismi. Cautela è stata raccomandata anche dai veterani della politica mondiale della Commissione Trilaterale e del World Political Forum, preoccupati nell’osservare i mercati finanziari diventare una bolla pericolosa, con un legame scarso o addirittura nullo con i flussi reali di beni e servizi. Tutti questi avvertimenti sono rimasti inascoltati.

Nei prossimi mesi l’avidità e l’irresponsabilità dei pochi colpirà tutti noi. Nessun Paese e nessun settore riusciranno a sfuggire alla crisi. Il modello economico radicato nei primi Anni 80, basato sulla massimizzazione dei profitti grazie all’abolizione della regolazione necessaria a proteggere gli interessi della società nel suo insieme, sta tramontando.

Per decenni ci siamo sentiti ripetere che questo modello avrebbe portato benefici a tutti, e che «l’alta marea finisce col sollevare tutte le barche». Ma le statistiche dicono che non è stato così. La crescita economica degli ultimi decenni - assai modesta se paragonata a quella degli Anni 50-60 - ha beneficiato in modo sproporzionato i membri più ricchi della società. Il tenore di vita della classe media è invece fermo, e la voragine tra i ricchi e i poveri è aumentata perfino nei Paesi economicamente più sviluppati.

Il sistema è stato reso ancora più precario dai prestiti irresponsabili sostenuti da complessi strumenti derivati, che alla fine si sono rivelati complicate piramidi finanziarie. Perfino la maggior parte degli economisti e dei bancari non riesce a spiegare come funzionano. A beneficiare maggiormente di questi schemi sono stati i loro inventori.

Di tutti i fatti venuti alla luce nelle ultime settimane, uno mi ha colpito in particolare. L’anno scorso le maggiori banche d’investimento americane hanno pagato, secondo alcune stime, 38 miliardi di dollari di bonus. Suddividendo questa somma per i numeri della loro forza lavoro viene fuori la cifra di 200 mila dollari per persona: quattro volte più del reddito di una famiglia americana media! In più c’erano i «paracadute dorati», i pacchetti di buonuscita multimilionari pagati ai dirigenti delle banche che sono crollate o sono state salvate dal governo.

Questo è il risultato: capitalismo tagliagola per la maggioranza e «socialismo» degli aiuti governativi per coloro che sono già ricchi. Fra tre o quattro anni, quando ci saremo lasciati alle spalle la fase acuta della crisi, queste stesse persone ci diranno che il capitalismo più «crudo» funziona meglio e dovremmo lasciarli liberi da ogni costrizione. Fino alla prossima crisi ancora più devastante?

L’attuale modello di globalizzazione ha portato alla deindustrializzazione di intere regioni, deteriorando le infrastrutture, togliendo funzionalità ai sistemi sociali e provocando tensioni a causa di processi economici, sociali e di immigrazione incontrollati e non regolati. Il danno morale è stato enorme, rispecchiato perfino nel linguaggio: l’evasione fiscale è diventata «pianificazione fiscale», licenziamenti di massa sono diventati «ottimizzazione del personale» e via di questo passo.

Il concetto di uno sviluppo sostenibile per le generazioni future è stato soppiantato dall’idea del libero commercio come panacea per tutti i problemi. «Domani è un altro giorno», è il motto di questi tempi, mentre il 60% degli ecosistemi, secondo le ricerche promosse dall’Onu, sono già stati danneggiati. Il ruolo dello Stato e della società civile è stato ridotto, con gli uomini visti non più come cittadini ma, nel migliore dei casi, come «consumatori di servizi offerti dal governo». Il risultato è un mix esplosivo di darwinismo sociale - sopravvive il più forte, i deboli muoiano - e della filosofia del «dopo di noi il diluvio».

La crescente crisi dell’economia mondiale, oggi, finalmente attrae l’attenzione dei politici. Per motivi comprensibili, ci si concentra su misure di salvataggio immediate. Sono senz’altro necessarie, ma c’è anche bisogno di riconsiderare le basi del modello socio-economico della società moderna, direi addirittura la sua filosofia, che si è rivelata assai primitiva, basata interamente sul profitto, il consumismo e il guadagno personale. Perfino il guru della teoria monetarista moderna, il defunto Milton Friedman - che ho avuto modo di incontrare - sosteneva che non si poteva ridurre tutto all’Homo oeconomicus, che la vita sociale non è fatta solo di interessi economici.

Tempo fa ho invocato una combinazione di morale e politica. Durante la perestroika ho cercato di seguire sempre l’idea che la politica dovesse contenere una componente morale. Penso che per questa ragione, nonostante gli errori commessi, siamo stati in grado di tirare la Russia fuori dal totalitarismo: per la prima volta nella nostra storia, un cambiamento radicale è stato avviato e portato a un punto di non ritorno senza un bagno di sangue.

È arrivato anche il momento di combinare la morale e gli affari. È un argomento difficile. Ovvio che un business deve fare profitti, oppure morirà. Ma sostenere che l’unico dovere morale di un uomo d’affari è fare soldi significa portarsi a un passo dall’idea del «profitto a ogni costo». E mentre nell’economia reale che produce esiste ancora una qualche trasparenza - dovuta a tradizioni, e alla presenza dei sindacati e di altre istituzioni - che permette alla società di mantenere una certa influenza, la sfera dell’«ingegneria finanziaria» ne è priva. Non c’è nessuna glasnost, nessuna trasparenza, nessuna moralità. E le conseguenze sono state devastanti.

L’alleanza tra politici e uomini d’affari, che per decenni avevano spinto verso la deregulation diffondendo i principi del laissez-faire nelle economie di tutto il mondo, insieme con gli analisti che esaltavano i titoli delle società in cui avevano interessi, e i teorici dell’economia che offrivano come unica soluzione a ogni problema il «togliere il controllo a qualunque cosa», è stata distruttiva e spesso corrotta. L’abbiamo visto in Russia, dove queste ricette sono state promosse con frenesia quasi maniacale negli Anni 90. Ora che questa piramide perniciosa e immorale sta crollando, dobbiamo pensare a un modello che la rimpiazzerà. Non chiedo di abbatterla senza pensarci, e non ho soluzioni pronte a portata di mano. Il cambiamento deve essere evolutivo. Un nuovo modello dovrà emergere, basato non più soltanto sul profitto e sul consumismo.

Sono convinto che in un’economia nuova i bisogni della società e i beni della società devono svolgere un ruolo assai maggiore di quello attuale. I bisogni della società sono abbastanza chiari: un ambiente sano, un’infrastruttura moderna e funzionale, un sistema di istruzione e sanità, alloggi accessibili. Costruire un modello che abbia al centro queste necessità richiederà tempo e sforzo. Ci vorrà una svolta intellettuale. Ma i politici che portano la responsabilità per il superamento dell’attuale crisi devono ricordarsi una cosa: senza una componente morale ogni sistema è condannato a fallire.
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Marzo 08, 2009, 12:29:32 pm »

Fede e politica Il leader sovietico sviò il discorso

Gli appunti segreti: così Reagan tentò di convertire Gorbaciov

L’uomo della perestrojka ripeteva «Grazie a Dio», ma era un modo di dire.

Replicò: sono battezzato, non credente


DAL NOSTRO CORRISPONDENTE


WASHINGTON — «Slava Bogu», grazie a Dio, continuava a ripetere Michail Gorbaciov. È da sempre una delle esclamazioni più comuni e amate dai russi. E lo era anche al tempo dell'Unione Sovietica, segretario generale del partito compreso, con buona pace del comunismo ateo e materialista. Ma per Ronald Reagan quelle due parole, che spesso chiudevano o aprivano le frasi del suo interlocutore, erano un indizio, forse un inconscio segnale di fede. Eterno ottimista, il presidente americano che da falco si fece colomba e riaprì il dialogo con l'Impero del Male, era convinto che il leader della perestrojka fosse in grado di cambiare il sistema sovietico. E pensava che la religione potesse essere il grimaldello per riuscirci. Ma probabilmente Reagan fece anche di più. Secondo lo storico James Mann, della Johns Hopkins University, cercò addirittura di convincere segretamente il leader comunista dell'esistenza di Dio.

Come rivela lo studioso in un saggio pubblicato ieri sul Wall Street Journal, avvenne nel 1988 a Mosca, durante il quarto vertice tra i capi delle due Superpotenze. A prova della sua tesi, Mann cita gli appunti presi dai consiglieri della Casa Bianca presenti al primo colloquio del summit moscovita, finora top-secret e da poco accessibili nella Reagan Library, la biblioteca presidenziale di Simi Valley, in California. Dopo aver parlato di coesistenza pacifica e diritti umani, la conversazione prese una piega inattesa. Secondo i resoconti, Reagan disse a Gorbaciov che quanto stava per dirgli doveva rimanere assolutamente segreto e che se mai qualcosa fosse trapelato, lui avrebbe negato tutto. Poi il presidente cominciò a parlare in favore della tolleranza religiosa in Urss, apprezzando le aperture del segretario generale verso la Chiesa Ortodossa, ma chiedendogli cosa ne pensasse di inserire la libertà di professione religiosa, di tutte le fedi, fra i diritti del popolo. Gorbaciov, battezzato ma non credente, aggirò la domanda. Cercò di ridimensionare il problema religioso in Urss, ammettendo gli eccessi del passato, ma in fondo promettendo che la perestrojka, espandendo la democrazia avrebbe allargato anche gli spazi di libertà della religione.

Fu a questo punto, racconta Mann, che Reagan cambiò passo. E da un sforzo in favore della tolleranza religiosa, si cimentò in un diretto tentativo di promuovere la fede del suo partner in Dio. Disse di avere la lettera di una vedova di un soldato sovietico, morto durante la Seconda Guerra Mondiale, un non-credente che prima di essere ucciso in battaglia scrisse alcune parole su un foglio, pregando che Dio lo accettasse. Gorbaciov provò a cambiar tema, parlando della cooperazione nello spazio. Ma Reagan non si lasciò sviare, notando come lo spazio stia in direzione del cielo. E mentre l'incontro si avviava alla fine, il presidente si fece via via più insistente e personale. Citò perfino il caso di suo figlio Ron, anche lui ateo come Gorbaciov: «Il presidente — raccontano le minute — disse che il suo più grande desiderio era di servire a suo figlio il pranzo più squisito per poi chiedergli se credesse che ci fosse un cuoco».

La conversazione finì su queste note. Secondo uno dei consiglieri che riassunse il dialogo, Rudolf Perina, «Reagan pensò di poter convertire Gorbaciov o fargli vedere la luce». Ma l'altro scriba, l'ex sotto-segretario di Stato Thomas Simons, ha una visione meno romantica: in un'intervista rilasciata tre anni fa, disse che il tema religioso fu in realtà sollevato da Reagan per far abilmente deviare i colloqui da temi più sostanziali. Eppure, come ricorda Mann, non era la prima volta che un presidente americano nutriva ambizioni missionarie: nove anni prima Jimmy Carter, che era anche un pastore battista, aveva detto al dittatore sud-coreano Park Chung Hee: «Vorrei che conoscesse Dio». E comunque, secondo lo studioso, l'ossessione della fede non era in Reagan puramente strumentale. Più volte per esempio aveva discusso con Colin Powell, suo consigliere per la Sicurezza nazionale, se Gorbaciov non fosse in segreto molto devoto.

Paolo Valentino
08 marzo 2009

da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 01, 2009, 08:38:38 am »

1/4/2009
 
La sfida di Londra
 
MIKHAIL GORBACIOV
 

Mano a mano che la crisi finanziaria ed economica globale si fa più profonda e grave tutti noi dobbiamo ripensare alcune questioni chiave, tra cui il ruolo dello Stato. Si può già prevedere che l’approccio al ruolo di governo che ha prevalso negli ultimi decenni si capovolgerà. L’assalto è cominciato più di trent’anni fa, con Margaret Thatcher e Ronald Reagan: economisti, uomini d’affari e politici puntarono il dito contro i governi come fonte di quasi tutti i problemi economici. Certo le critiche sulle interferenze dei governi erano solide e motivate: in quegli anni gli elettori avevano buone ragioni per sostenere i politici che promettevano di limitare il ruolo dei governi lasciando alle imprese una maggiore libertà di agire e quindi di crescere. Tuttavia, dietro le critiche c’erano anche altri interessi: quelli di chi, pur promettendo che l’ondata liberalizzatrice avrebbe dato vantaggi a tutti, era in realtà interessato soprattutto a spingere le grandi imprese, liberandole da obblighi pesanti nei confronti della società e smantellando la rete di sicurezza sociale che proteggeva i lavoratori.

La globalizzazione è stata accompagnata da una nuova fase di attacco contro lo Stato in favore della concorrenza assoluta su tutti i mercati: beni, servizi e lavoro. I principi del monetarismo, dell’irresponsabilità sociale e ambientale, del consumo eccessivo e dei superprofitti come motori dell’economia e della società sono diventati uno standard internazionale. Il cosiddetto «consenso di Washington» - che riflette questi principi - s’è diffuso ovunque con forza. Così sempre più spesso molti settori dell’economia e della finanza sono stati lasciati a se stessi, senza supervisione.

Inevitabilmente, una dopo l’altra sono esplose le bolle. Prima quella digitale, poi quella del mercato azionario, infine quella dei mutui. Finché il finanziamento globale, nel suo insieme, non è diventato a sua volta un’enorme bolla. Piccoli gruppi di persone hanno creato una ricchezza favolosa per se stesse, mentre il tenore di vita di gran parte della popolazione mondiale - nel migliore dei casi - è rimasto invariato. E gli impegni per aiutare i poveri del mondo sono stati quasi sempre dimenticati. L’indebolimento dello Stato ha consentito un’ondata selvaggia di frodi finanziarie e corruzione, ha permesso al crimine organizzato di infilarsi nell’economia di numerosi Paesi, e consegnato un’influenza sproporzionata alla lobby delle imprese, che fa leva sui finanziamenti alla politica. Ciò ha falsato il processo democratico e danneggiato gravemente il tessuto sociale.

Settembre 2008 ha segnato l’inizio di un crollo catastrofico dell’intera struttura. Sotto le macerie sono rimasti i risparmiatori, la produzione - scesa a un ritmo senza precedenti - e milioni di disoccupati in tutto il mondo. Non è esagerato dire che oggi è minacciata tutta l’economia mondiale.

E ancora oggi continuiamo a sentire i pareri di chi tuttora crede nella magia salvifica del mercato completamente libero. Solo che gli elettori non vanno più in caccia di soluzioni: si aspettano che siano i leader eletti ad agire. E sono questi a dover intervenire perché non ci sono altri strumenti.

In un momento in cui lo tsunami economico sta minacciando la sopravvivenza di centinaia di milioni di persone, dobbiamo riconsiderare la responsabilità dello Stato per la protezione e la sicurezza dei suoi cittadini. Abbiamo sentito argomenti contro lo «Stato bambinaia» e contro il concetto di assistenza «dalla culla alla tomba»: in effetti il governo non può curarsi di tutto in eterno. Però ha il dovere di proteggere le persone dalla rapina finanziaria cui abbiamo assistito negli ultimi anni.

I governi si sono ormai presi la responsabilità del salvataggio dell’economia. In questa sfida devono impedire che enormi somme di denaro dei contribuenti siano spese senza controllo. Il denaro non deve finire nelle mani e tasche di coloro che vogliono, come si dice, «privatizzare i profitti e nazionalizzare le perdite».

In un mondo globalizzato dobbiamo contemporaneamente ripulire la finanza e costruire strutture di governance internazionale più solide. Il primo incontro del G-20, nel novembre scorso a Washington, è stato solo un inizio. Ha mostrato una consapevolezza nuova del fatto che per riuscire bisogna mettere insieme una unione di forze senza precedenti nella storia mondiale.

Voglio sperare che i capi di governo del G-20 che si riuniscono a Londra saranno capaci - oltre che di risolvere i problemi - di gettare le basi per una governance che duri negli anni a venire. Le sfide sono davvero gigantesche: si tratta di dare un nuovo ruolo ai governi e agli organismi internazionali in materia di regolamentazione dell’economia. Di avviare la costruzione di economie meno militarizzate. Di non inseguire consumi eccessivi e superprofitti e di armonizzare le preoccupazioni ambientali con la crescita economica. Un compito di entità pari alla sfida che affrontammo nella seconda metà degli Anni Ottanta: scongiurare la minaccia di una catastrofe nucleare. Per vincere servono una cooperazione internazionale e una leadership collettiva che sappiano superare gli stereotipi obsoleti, mettendo al primo posto gli interessi comuni.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Aprile 21, 2009, 03:32:35 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 01, 2009, 12:32:17 pm »

1/5/2009
 
Per un G20 alleato dell'Onu
 
MICHAIL GORBACIOV
 
Il gruppo dei Venti si è già riunito due volte, compreso il recente summit di Londra. È ormai una sede di confronto riconosciuta. Un riconoscimento, fin troppo tardivo mi pare, che il mondo è cambiato e che le vecchie istituzioni non hanno saputo tenere il passo con la rapida evoluzione dei bisogni. E tuttavia ci sono alcuni interrogativi sull’essenza e sul funzionamento del nuovo ente che richiedono rapide risposte. La prima domanda è se le decisioni adottate a Londra possano arginare la crisi globale economica mettendo il mondo sui binari d’una crescita sostenibile.

Una risposta definitiva arriverà solo col tempo, ma la prima impressione è che quanto ha deciso il summit di Londra possa essere un primo passo. Tuttavia, sono necessari punti di riferimento più chiari per strutturare il sistema di governance globale in campo finanziario ed economico e i compiti del gruppo. Prevenire crisi come l’odierna non dovrebbe essere il principale compito del G-20. Quello che serve è la transizione a un nuovo modello che integri fattori sociali, ambientali ed economici.

La seconda domanda riguarda la collocazione del G-20 nel sistema delle istituzioni globali. Che cos’è: un «politburo globale», un «club di potenti» o il prototipo di un governo mondiale? Come interagirà con l’Onu? Sono persuaso che nessun gruppo di Paesi, anche se contano per il 90% dell’economia mondiale, possa sostituire le Nazioni Unite. Ma il G-20 potrebbe reclamare la leadership nell’economia mondiale se saprà tenere nel debito conto le opinioni dei Paesi che non ne fanno parte.

La presenza nel G-20 di nazioni che rappresentano regioni geografiche differenti per livelli di sviluppo è un segnale che induce alla speranza. Però questo gruppo è improvvisato, messo insieme nell’estrema pressione della crisi. Non comprende Paesi influenti nella loro area come Egitto, Nigeria o Iran. E non è molto chiaro sui metodi. Per evitare errori il G-20 dovrà essere molto trasparente e lavorare a stretto contatto con l’Onu. Almeno una volta l’anno dovrebbe tenere una riunione al suo quartier generale e fare all’Assemblea un rapporto che dovrebbe essere discusso in termini sostanziali.

Ultima, ma non meno importante, è la finalità di questa nuova istituzione. Dovrebbe restare confinata all’economia e alla finanza globale o dovrebbe, prima o poi, affrontare i problemi politici? La risposta non è così scontata. Chi trova da obiettare su un ruolo politico per il G-20 potrebbe rilevare che la comunità internazionale ha affidato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu l’incarico di vigilare sulla pace internazionale. La nostra principale preoccupazione dovrebbe essere rinforzare questo ruolo. È vero che tutti i tentativi d’ignorarlo o bypassarlo, in Medio Oriente come in Europa o altrove, sono finiti male. È anche vero, però, che il primo compito del Consiglio di Sicurezza è di reagire con prontezza alle situazioni di crisi e di pericolo.

Sappiamo che non è attrezzato per affrontare questioni strategiche di lungo termine. In più i gravi ritardi nella sua riforma hanno reso l’Onu meno rappresentativa del G-20, adatto invece a considerare gli aspetti politici legati alle sfide globali della sicurezza, della povertà e dell’ambiente. Inoltre, altri gruppi e organizzazioni come il G-8 o la Nato affrontano problemi di natura politica. Credo che il G-20 potrebbe trovare un ruolo chiave nell’architettura della politica planetaria. Se sarà utile per fermare la crisi economica guadagnerà la credibilità necessaria per porsi come guida.

Uno dei problemi pronti per una disamina politica è la militarizzazione delle strategie economiche mondiali, la militarizzazione del pensiero. Un’eredità che ci arriva dal XX Secolo, forse il più tragico e sanguinoso della storia. Sono tematiche interconnesse: la militarizzazione distoglie risorse dall’economia reale, alimenta i conflitti e crea la convinzione che le soluzioni praticabili siano militari e non politiche.

Dando il via a un serio dibattito su questo tema nel G-20 e aprendovi un confronto politico, i leader mondiali potrebbero costruire una base d’azione per quei corpi dell’Onu responsabili dei progressi nel settore: il Consiglio di Sicurezza e la Conferenza sul disarmo di Ginevra. Dopo il summit di Londra il premier britannico Gordon Brown definì l’incontro un passo verso un nuovo ordine mondiale e una «nuova era di progresso e cooperazione internazionale». Benché la strada sia ancora lunga prima che ciò diventi realtà, questa è la direzione in cui dobbiamo muoverci.

Distribuito da New York Times Service

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« Risposta #9 inserito:: Maggio 31, 2009, 11:02:57 am »

L'esclusiva testimonianza dell'allora leader sovietico, che si trovava nella capitale cinese nel periodo della rivolta di Tienanmen: "Quanto dolore nel volto di Zhao Ziyang"

Gorbaciov: "Vent'anni fa ero a Pechino non dimenticherò mai quei ragazzi"

di FIAMMETTA CUCURNIA

 
ROMA - "Sì, io c'ero. Ero a Pechino in quei giorni gravi. Non potrò mai dimenticare il dolore che leggevo sul volto di Zhao Ziyang, né le facce stanche e gli occhi pieni di speranza degli studenti che mi venivano vicino, sorridenti, e dicevano "perestrojka, perestrojka". Era il loro modo di chiedere aiuto, ma io non potevo fare nulla". Vent'anni dopo, per la prima volta, Mikhail Gorbaciov racconta i retroscena del suo viaggio a Pechino, tra il 15 e il 17 maggio del 1989: l'importanza di quella sua visita dopo tanti anni di rivalità tra i due giganti comunisti; il silenzio dei dirigenti cinesi; i suoi contatti con i giovani che proprio dalle sue riforme avevano tratto coraggio e ora speravano fortissimamente nel suo aiuto; il suo dolore per l'epilogo tragico.

Mikhail Sergeevic, con quale stato d'animo affrontò il viaggio a Pechino?
"Si trattava, per noi, di un viaggio storico. Dovevamo chiudere la lunga parentesi di ostilità tra Russia e Cina, durata oltre trent'anni. Lo volevamo noi, a Mosca. E lo volevano anche i nostri amici cinesi. Non esistevano due persone più adatte ad affrontare questo nodo di Gorbaciov e Deng Xiaoping. Così cominciammo le consultazioni".

All'epoca gli esperti dicevano che uno dei problemi più gravi era quello del regolamento delle frontiere.
"Ma figuriamoci. Sapete quanto erano lunghe le frontiere tra Urss e Cina? Mezzo mondo. Piccole scaramucce qua e là potevano sempre essere ricomposte. Decidemmo a pié pari di scorporare quel problema: troppo complesso, ne avremmo parlato in seguito. Ma poiché anche i cinesi erano molto interessati, trovare l'accordo fu gioco facile. Ci furono molte consultazioni. A un certo punto, durante un viaggio di Stato, Li Peng fece scalo a Mosca per rifornire il suo aereo, e ci incontrammo. Fu un colloquio lungo, in cui parlammo di tutto: lui conosceva benissimo il russo, perché aveva studiato da noi. Ricordo che mi disse: "Compagno Gorbaciov, la Cina però non accetterà mai di fare il fratello minore". "Ma come sarebbe possibile", gli risposi io "che un Paese cresciuto ormai oltre il miliardo di cittadini possa fare il nostro fratello minore?". Alla fine fu stabilita una data, 16 e 17 maggio 1989. In quel momento nessuno poteva immaginare quel che sarebbe accaduto in quei giorni".

Quando cominciarono ad arrivare le prime notizie delle manifestazioni di Pechino, come reagirono i membri del Politburo?
"Le prime notizie parlavano, sì, di manifestazioni di massa, però sembrava tutto di dimensioni contenute. Ci consultammo tra di noi, nel Politburo, e decidemmo che non era il caso di rinviare la visita. Non era possibile ipotizzare quello che avrei trovato al mio arrivo: io arrivai nel momento più duro della rivolta".

Che misure presero i dirigenti cinesi per evitare imbarazzi?
"Il programma ufficiale fu mantenuto. Noi stavamo all'interno del Palazzo del popolo, col Politburo. Facevamo le nostre trattative, ci servivano la colazione, ci riunivamo per il pranzo. E intanto, in quelle stesse ore, fuori della finestra c'era il finimondo. In piazza c'era la Cina. Centinaia di migliaia di persone, non solo studenti, chiedevano un incontro. Speravano che Gorbaciov, arrivato da Mosca con la sua perestrojka, potesse influire sulle decisioni del governo. Ma io non potevo".

Non ne parlò con i leader cinesi?
"Ero molto colpito. Molto solidale. Ma ero in Cina per una visita ufficiale, di Stato, ed è del tutto evidente che non potevo intervenire. Dovevano decidere i dirigenti cinesi. I problemi erano arrivati a un punto da non poter più essere ignorati".

Proprio Repubblica, in quei giorni, scrisse che in città circolava il racconto dell'auto di Gorbaciov bloccata, mentre correva nel quartiere Jing Song, dagli operai che cercavano Li Peng. Nella leggenda pechinese, che però non ha mai trovato riscontro, lei scende subito a parlare col popolo, interroga e risponde alle domande, stringe le mani sorridendo e prima di andarsene distribuisce caramelle.
"È vero che incontrai i ragazzi. Un giorno, mentre ci muovevamo in macchina scortati dalla polizia, ho visto un gruppo di studenti e operai. Erano riusciti ad avvicinarsi tanto che l'auto fu costretta a fermarsi. Io aprii subito la portiera e uscii fuori. Erano molto affettuosi. Sorridenti. Avevano i visi stanchi, gli occhi rossi. Capii che volevano spiegarmi il perché della loro protesta, che erano lì per la democrazia, la libertà. "Perestrojka", dicevano. Ma io ho cercato di non approfondire. Mi rendevo perfettamente conto della delicatezza della situazione. E anche delle difficoltà della dirigenza cinese. Avevo ricevuto moltissime lettere, commoventi, dagli studenti. Lettere e biglietti che ancora conservo".

Ma se la città era invasa dalla folla, come mai lei la incrociò una sola volta?
"Evidentemente, il governo cinese voleva ridurre al minimo i contatti. Un giorno, mentre ci portavano in macchina al Palazzo, mi resi conto che eravamo finiti in periferia. Un percorso alternativo, fuori mano. Ma noi abbiamo chiuso gli occhi, lasciando che fossero loro a decidere. Dietro tutto questo c'era il supremo interesse del mio Paese di ristabilire le relazioni bilaterali. Di questa normalizzazione avevamo bisogno noi, ne aveva bisogno la Cina e, io dico, ne aveva bisogno il mondo. Non abbiamo però potuto tacere del tutto. Fui costretto a dire, durante la conferenza stampa, di sperare e di essere certo che i leader cinesi sarebbero riusciti a trovare in sé la saggezza per fare la scelta migliore".

Si fa fatica ad immaginare che in quella situazione così drammatica, con la piazza in subbuglio, tutto il mondo con gli occhi puntati, essendo evidente che lei non poteva ignorare ciò che stava accadendo, nessuno dei dirigenti cinesi abbia voluto dire nulla.
"Ci accolsero nel migliore dei modi, con immenso calore, amicizia. Certo, erano ben coscienti del fatto che noi non solo sapevamo tutto, ma continuavamo a ricevere richieste di aiuto dalla piazza. Tuttavia direttamente, durante i colloqui, non dissero mai niente. Non potrò mai dimenticare Zhao Ziyang. La sofferenza si leggeva sul suo viso. Il giorno in cui ci accolse in qualità di segretario del Partito comunista cinese non riusciva a nascondere il peso insostenibile che aveva nel cuore. Sembrava che potesse avere un infarto da un momento all'altro. Il colloquio durò ore e ore, forse cinque, se non ricordo male. Bevemmo insieme litri di vodka. Non so se abbia avuto la tentazione di aprirsi di più. Disse solo che c'erano dei problemi da risolvere. No, è chiaro: non volevano coinvolgerci direttamente".

Cosa pensò quando seppe che Zhao era stato rimosso e emarginato, dopo aver cercato di evitare il bagno di sangue?
"Pensai che non era la decisione migliore. Ma stiamo parlando della Cina. All'interno della classe dirigente in quei giorni ci fu uno scontro. Poi Deng accolse il punto di vista di Li Peng".

Si disse che la dirigenza cinese temeva un "effetto Gorbaciov".
"È possibile. Ma ci tennero a dimostrarmi grande amicizia. Subito dopo Pechino, andammo per tre giorni a Shanghai. Il sindaco allora era Jang Zemin. Ci portarono a vedere le prime zone economiche speciali. Pranzammo insieme, lui cantava le canzoni russe e io gli facevo il controcanto. Anche lui parlava bene russo, aveva studiato da noi in gioventù".

Qualcuno scrisse che la tragedia della Tienanmen fu in qualche modo un monito per lei, che mai volle usare la forza in Russia.
"No, questo è falso. C'erano state già molte situazioni simili da noi. Rivolte nazionali e dispute territoriali. Io avevo già fatto la mia scelta".

Secondo lei fu la rivolta cinese a dare il via ai sommovimenti del 1989, che finì col crollo del Muro di Berlino?
"Io credo che, sì, tutto cominciò quell'anno, con la perestrojka che iniziava a segnare la svolta e la decisione di creare a Mosca un vero Parlamento espresso attraverso vere elezioni. Fu una scossa che fece tremare il mondo e poi si fermò nel punto di partenza, due anni dopo, col crollo dell'Urss".

(31 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Novembre 10, 2009, 09:38:57 am »

10/11/2009 - IL MURO - 20 ANNI DOPO. ANALISI DI UN PROTAGONISTA

Ora giù il muro con la Russia
   
MIKHAIL GORBACIOV


Il 1989 è stato un punto di svolta per l’Europa e per il mondo, un anno in cui la storia è andata a tutto gas. Questa accelerazione è simbolizzata dalla caduta del Muro di Berlino e dalle rivoluzioni di velluto nell’Europa centrale e orientale. I regimi totalitari e autoritari sono usciti dal palcoscenico della storia. Quegli eventi, e il loro dispiegarsi pacifico, furono resi possibili dai cambiamenti avviati in Unione Sovietica a metà degli Anni 80. Li avviammo perché erano dovuti: rispondevamo alle richieste della gente, che mal sopportava di vivere senza libertà, isolata dal resto del mondo. In pochi anni i principali pilastri del sistema totalitario in Unione Sovietica sono stati picconati, preparando il terreno per una transizione democratica e per riforme economiche. Ciò che avevamo fatto nel nostro Paese, non potevamo rifiutarlo ai nostri vicini.

Non li abbiamo forzati ai cambiamenti. Dall’inizio della perestrojka, ho detto ai leader del Patto di Varsavia che l’Unione Sovietica si stava impegnando in grandi riforme ma che dovevano decidere loro quello che volevano fare. Voi siete responsabili verso la vostra gente, dissi, noi non interferiremo. In effetti era una sconfessione della Dottrina Breznev, basata sul concetto di «sovranità limitata». Inizialmente le mie parole furono ascoltate con scetticismo. Noi però non abbiamo mai vacillato: per questo gli sviluppi europei del 1989-1990 sono stati pacifici e incruenti.

La sfida più grande è stata la riunificazione della Germania. Nell’estate 1989, durante la mia visita alla Repubblica Federale Tedesca, i giornalisti chiesero a me e al cancelliere Kohl se avessimo discusso la possibilità di una riunificazione. Io risposi che avevamo ereditato quel problema dalla storia e che toccava alla storia risolverlo. «Quando?» chiesero i giornalisti. Il Cancelliere ed io indicammo il XXI secolo. Qualcuno potrebbe dire che siamo stati cattivi profeti. E avrebbe ragione: la riunificazione tedesca è arrivata molto prima; e per volere dei tedeschi, non di Gorbaciov o di Kohl. Gli americani ricordano spesso l’appello del presidente Reagan da Berlino: «Mr Gorbaciov, tiri giù quel muro!». Ma poteva farlo un solo uomo? Tanto più che altri mi dicevano: «Salva quel muro!»? Con milioni di persone che a Est come a Ovest chiedevano la riunificazione, dovevamo agire responsabilmente. Leader europei e americani accolsero la sfida, vincendo perplessità e paure. Lavorando insieme, siamo riusciti a evitare nuovi conflitti e a conservare la fiducia reciproca. La Guerra Fredda era finalmente chiusa.

Gli sviluppi successivi, però, non sono andati tutti come avremmo voluto. L’ex Germania dell’Est ha capito che non tutto era perfetto in Occidente, soprattutto lo Stato sociale. Eppure, nonostante i problemi di integrazione, i tedeschi hanno reso la Germania unificata un esponente rispettato, forte e pacifico della comunità delle nazioni. Meno bene se la sono cavata i leader che danno forma alle relazioni globali, in particolare europee: l’Europa non ha risolto i suoi problemi fondamentali, non è riuscita a creare una solida struttura di sicurezza. Subito dopo la fine della Guerra Fredda, avevamo iniziato a discutere nuovi meccanismi di sicurezza per il nostro continente. Tra le varie idee c’era quella di un consiglio di sicurezza per l’Europa, con poteri ampi e reali.

Con mio grande rammarico, gli eventi hanno preso una direzione diversa, impedendo che emergesse una nuova Europa. Al posto delle vecchie linee divisorie ne sono emerse di nuove. L’Europa ha visto guerre e spargimento di sangue. Persistono sfiducia e vecchi stereotipi. La Russia è sospettata di cattive intenzioni e disegni aggressivi. Sono rimasto sconcertato dalla lettera aperta che ventidue politici dell’Europa centrale e orientale inviarono lo scorso giugno al presidente Obama, chiedendogli di abbandonare la politica di apertura alla Russia. Contemporaneamente l’Europa viene trascinata in una polemica su chi abbia scatenato la Seconda guerra mondiale. Sono stati fatti tentativi per mettere sullo stesso piano la Germania nazista e l’Unione Sovietica. Tentativi sbagliati, storicamente falsi e moralmente inaccettabili. Chi spera di costruire in Europa un nuovo muro di reciproco sospetto e animosità rende un cattivo servizio al suo Paese e all’Europa. Essa diventerà un forte «global player» solo diventando davvero la casa degli europei, a Est come a Ovest. L’Europa deve respirare con due polmoni, come disse una volta papa Giovanni Paolo II.

Come possiamo muoverci verso questo obiettivo? All’inizio degli Anni 90 l’Ue aveva deciso di accelerare il suo allargamento. Molto è stato fatto. Che cosa implicasse quel processo, però, non è stato abbastanza ponderato. L’idea che tutti i problemi europei si sarebbero risolti costruendo l’Europa «da Ovest» si rivelò men che realistica e probabilmente irrealizzabile. Un passo più misurato avrebbe dato all’Ue il tempo di sviluppare un nuovo modello di relazioni con la Russia e i Paesi che non hanno prospettive di entrare a breve nell’Unione. L’attuale modello di relazioni Ue con altri Paesi europei è basato sull’assorbimento del più alto numero possibile nel tempo più breve possibile, lasciando i rapporti con la Russia una «questione sospesa». Che tipo di Russia volete vedere: una nazione forte, sicura dei suoi diritti, o un fornitore di risorse naturali che «sa stare al suo posto»?

Troppi politici europei non vogliono parità di gioco con la Russia. Vogliono che una parte sia maestra o accusatrice, l’altra alunna o imputata. La Russia non accetterà questo modello. Vuole essere capita, vuole essere trattata sullo stesso piano. Essere all’altezza delle prossime sfide storiche - sicurezza, ripresa economica, ambiente, immigrazione - richiederebbe un ripensamento delle relazioni politiche ed economiche globali. Io esorto tutti gli europei a prendere in considerazione la proposta del presidente russo Dmitri Medvedev per un nuovo trattato di sicurezza europea. Una volta risolto questo nodo, l’Europa parlerà a voce alta.

Copyright Mikhail Gorbaciov, distribuito da The New York Times Syndicate
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« Risposta #11 inserito:: Febbraio 09, 2010, 09:33:00 am »

9/2/2010

Afghanistan meglio che Obama si ritiri
   
MIKHAIL GORBACIOV

L’Afghanistan è in subbuglio, con tensioni crescenti e morti quotidiani, molti dei quali - compresi donne, bambini e anziani - nulla hanno in comune con terroristi o militanti. Il governo sta perdendo il controllo del suo territorio: delle 34 province, una decina sono nelle mani dei taleban. La produzione e l’esportazione di oppio sta crescendo. E c’è il rischio concreto che la destabilizzazione si estenda ai Paesi vicini, comprese le repubbliche dell’Asia centrale e il Pakistan.

Ciò che è iniziato nel settembre 2009 dopo la rielezione di Karzai - una risposta militare al terrorismo, in apparenza appropriata - potrebbe finire in un colossale fallimento strategico. Dobbiamo capire perché sta succedendo e che cosa si può ancora fare per ribaltare una situazione quasi disastrosa. La recente conferenza internazionale sull’Afghanistan di Londra, cui hanno partecipato rappresentanti di molti Paesi e organizzazioni internazionali, è un primo passo in una nuova direzione. I delegati hanno preso decisioni che potrebbero capovolgere la situazione, a condizione che si rifletta su quanto è successo negli ultimi tre decenni e se ne tragga una lezione.

Nel 1979 il governo sovietico inviò i suoi soldati in Afghanistan, giustificando quella mossa con il desiderio di aiutare elementi amici e con la necessità di stabilizzare un Paese vicino.

L’errore più grave fu la mancata comprensione della complessità dell’Afghanistan: il suo mosaico di gruppi etnici, clan e tribù, le sue tradizioni uniche, il suo governo minimale. Così si ottenne il risultato opposto: un’instabilità ancora più grande, una guerra con migliaia di vittime e conseguenze pericolose per la Russia. In più l’Occidente, soprattutto gli Stati Uniti, soffiò sul fuoco nello spirito della Guerra Fredda, pronto ad appoggiare chiunque contro l’Unione Sovietica, senza pensare alle conseguenze.

Come parte della perestrojka a metà degli Anni 80, la nuova leadership sovietica trasse le sue conclusioni dai guai in Afghanistan e prese due decisioni: ritirare i soldati e lavorare con tutte le parti in conflitto e con i governi coinvolti per arrivare a una riconciliazione nazionale e fare dell’Afghanistan un Paese pacifico e neutrale che non minacciasse nessuno.

Guardando indietro, io continuo a pensare che fosse un doppio percorso corretto e responsabile. Sono sicuro che, se fossimo riusciti a concluderlo, si sarebbero evitati problemi e disastri. Abbiamo lavorato molto e in buona fede, ma avevamo bisogno di una cooperazione sincera e responsabile da parte di tutti. Il governo afghano era pronto a scendere a patti e in un certo numero di regioni le cose cominciarono a migliorare. Ma il Pakistan e gli Stati Uniti bloccarono tutto. Volevano una sola cosa: il ritiro delle truppe sovietiche. Pensavano che così avrebbero avuto il pieno controllo dell’Afghanistan. Rifiutando anche il minimo appoggio al governo del presidente afghano Muhammad Najbullah, il mio successore Boris Eltsin fece il loro gioco.

Negli Anni 90 il mondo sembrava indifferente all’Afghanistan. In quel decennio il governo cadde nelle mani dei taleban, che trasformarono il Paese in un porto franco per i fondamentalisti islamici e un incubatore di terrorismo. L’11 settembre 2001 fu un brusco risveglio per i leader occidentali. Anche allora, però, l’Occidente prese una decisione che non era attentamente ponderata e perciò si rivelò sbagliata. Dopo aver spodestato il governo taleban, gli Stati Uniti pensarono che la vittoria militare, ottenuta a poco prezzo, fosse conclusiva e avesse risolto l’annoso problema. L’iniziale successo è stato probabilmente una delle ragioni per cui gli americani si aspettavano una «passeggiata» in Iraq, con ciò facendo anche laggiù un fatale errore di strategia militare. Nel frattempo costruivano in Afghanistan una facciata democratica, da difendere con le forze di sicurezza internazionali, cioè le truppe della Nato, che cercava di assumere il ruolo di poliziotto globale.

Il resto è storia. La via militare in Afghanistan si rivelò sempre meno sostenibile. Era un segreto di Pulcinella; anche l’ambasciatore degli Stati Uniti lo scriveva nei cablogrammi resi pubblici di recente. Negli ultimi mesi mi è stato chiesto più volte quale suggerimento darei al presidente Obama, che ha ereditato questo caos dal suo predecessore. La mia risposta è sempre stata la stessa: una soluzione politica e il ritiro delle truppe. Il che richiede una strategia di riconciliazione nazionale. Ora, finalmente, un piano molto simile a quanto noi avevamo suggerito più di vent’anni fa e i nostri partner avevano rifiutato è stato presentato all’incontro di Londra: riconciliazione, coinvolgendo nella ricostruzione tutti gli elementi più o meno ragionevoli e puntando su una soluzione politica più che militare.

L’inviato delle Nazioni Unite in Afghanistan ha detto in una recente intervista: occorre smilitarizzare l’intera strategia in Afghanistan. Che peccato che questo non sia stato detto, e fatto, molto prima! Oggi le probabilità di successo sono al massimo del cinquanta per cento. Ci sono stati contatti con alcuni elementi taleban. Ma molto di più va fatto per coinvolgere l’Iran e molto resta da fare con il Pakistan. La Russia potrebbe diventare un tassello importante del processo di stabilizzazione afghana. L’Occidente dovrebbe apprezzare la posizione dei suoi leader: lungi dal gongolare guardando l’Occidente che ingoia il rospo e lavandosene le mani, la Russia è pronta a collaborare con l’Occidente perché capisce che è nel suo interesse contrastare le minacce che arrivano dall’Afghanistan.

Mosca ha ragione a chiedere perché, negli anni della presenza militare Usa e Nato in Afghanistan, sia stato fatto poco o nulla contro l’oppio, che in grandi quantità arriva in Russia attraverso i confini porosi dei suoi vicini, minacciando la salute dei suoi abitanti. Ha anche ragione a chiedere accesso alle opportunità economiche in Afghanistan, compresa la ricostruzione di decine di progetti costruiti con il suo aiuto e distrutti negli Anni 90. La Russia è un vicino dell’Afghanistan e bisogna tener conto dei suoi interessi. Dovrebbe essere ovvio, ma qualche volta occorre ricordarlo.

Vorrei sperare che stia nascendo una nuova fase per il sofferente Afghanistan, un raggio di speranza per i suoi milioni di abitanti. L’opportunità è lì, ma per afferrarla occorrono realismo, tenacia, onestà nell’imparare dagli errori del passato e abilità nell’agire sulla base di quella conoscenza.

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« Risposta #12 inserito:: Marzo 18, 2010, 08:43:27 am »

18/3/2010

Mosca, serve una nuova perestrojka
   
MIKHAIL GORBACIOV

La perestrojka, lanciata in Unione Sovietica 25 anni fa, è da allora oggetto di acceso dibattito. Che ora riprende quota, non solo per via dell’anniversario ma anche perché la Russia si trova di nuovo a fronteggiare la sfida del cambiamento. In momenti come questi è appropriato e necessario guardare indietro.

Abbiamo introdotto la perestrojka perché sia i nostri cittadini sia i nostri amministratori capivano che continuare così non era più possibile. Il sistema sovietico, creato nell’Urss con lo slogan del socialismo e a prezzo di enormi sforzi, perdite e sacrifici ha reso il nostro Paese una superpotenza con una forte base industriale. In condizioni estreme funzionava; in circostanze più normali ha condannato la nostra patria all’inferiorità. Questo era chiaro a me e agli altri dirigenti della nuova generazione, così come ai membri della vecchia guardia che tenevano al futuro del Paese. Mi ricordo la conversazione con Andrei Gromyko poche ore prima che il Comitato Centrale riunito in assemblea plenaria eleggesse il nuovo segretario generale nel marzo 1985. L’ex ministro degli Esteri conveniva sulla necessità di un cambio epocale e sul fatto che, per quanto i rischi fossero alti, era di vitale importanza procedere.

Chiedono spesso a me e ad altri leader della perestrojka se fossimo consapevoli del tipo di cambiamento a cui saremmo andati incontro. La risposta è sì e no: non del tutto e non immediatamente.

Era chiarissimo cosa dovessimo abbandonare: il rigido ed ideologico sistema politico ed economico; il confronto frontale con la maggior parte degli altri Stati del mondo; la corsa senza regole al riarmo. Rifiutando tutto questo ottenemmo il pieno consenso popolare mentre i funzionari che si rivelarono stalinisti duri a morire dovettero tacere e adeguarsi. Ben più difficile trovare una risposta alla domanda successiva: Quali erano i nostri obiettivi, cosa volevamo ottenere? Noi avevamo percorso un lungo cammino in tempi brevi: eravamo partiti dal tentativo di emendare il sistema esistente ed eravamo arrivati alla conclusione di doverlo cambiare. E tuttavia, sono sempre rimasto fedele alla scelta fatta in favore di un’evoluzione: un cambiamento che non avrebbe distrutto il popolo e il Paese e avrebbe evitato spargimenti di sangue.

Era una bella sfida attenersi a questo programma mentre affioravano conflitti vecchi e nuovi. Da un lato i radicali spingevano sull’acceleratore, dall’altro i conservatori ci mettevano i bastoni tra le ruote. Entrambi i gruppi hanno la maggior colpa per quanto è accaduto in seguito. Ma accetto la mia parte di responsabilità. Noi, i riformatori commettemmo errori che sono costati cari, a noi e al Paese. Il nostro più grave errore è stato intraprendere con troppo ritardo la riforma del Partito comunista. Era stato il partito a dare inizio alla perestrojka, ma presto divenne un ostacolo al suo progresso. I burocrati che ne erano a capo organizzarono il tentato colpo di stato dell’agosto 1991, che tagliò le gambe alla perestrojka. Agimmo con troppo ritardo anche nel riformare l’unione delle repubbliche che avevano fatto già molta strada nel corso della loro esistenza comunitaria. Erano diventati degli Stati a tutti gli effetti, con le loro economie e le loro élite. Dovevamo trovare un modo per garantire la loro sovranità nazionale all’interno di una unione democratica decentrata. Al referendum del marzo 1991 oltre il 70% della popolazione era a favore di una nuova unione di repubbliche sovrane. Ma il colpo di stato, che mi indebolì come Presidente, segnò il loro destino. Abbiamo commesso anche altri sbagli: presi nel vortice delle battaglie politiche perdemmo di vista l’economia e il popolo non ci ha mai perdonato la scarsità dei beni di prima necessità e dei minimi comfort di quei tempi.

Ma detto tutto questo e qualsiasi cosa ne pensi chi mi critica, quello che è stato ottenuto dalla perestrojka è innegabile. Da lì è passata la via per la libertà e la democrazia. I sondaggi confermano che anche i più critici verso la perestrojka e i suoi fautori - e in particolare verso di me - apprezzano le sue conquiste: l’abbattimento del sistema totalitario, la libertà di parola, riunione e fede; la libertà di movimento e il pluralismo economico e politico.

Dopo la fine della perestrojka e lo smantellamento dell’Unione Sovietica, i leader russi hanno optato per una versione «radicale» delle riforme. La loro terapia «shock» si è rivelata peggio della malattia che voleva curare. Molta gente è precipitata nella miseria; il divario nei redditi è fra i più ampi al mondo. Sanità, educazione e cultura subirono enormi decurtazioni. La Russia cominciò a perdere la sua base industriale diventando completamente dipendente dall’esportazione di petrolio e gas naturali. All'inizio del nuovo secolo il Paese si trovava in uno stato di collasso, a un passo dal caos. I processi democratici hanno sofferto di questo degrado nazionale. Le elezioni del 1996 e il trasferimento del potere a un «erede» designato nel 2000 sono stati atti democratici nella forma ma non nella sostanza. Da allora ho iniziato a preoccuparmi per il futuro della democrazia in Russia. Capimmo che in una situazione che metteva in forse la stessa esistenza dello Stato russo non era sempre possibile rispettare in modo formale le leggi: in alcuni casi un certo autoritarismo è necessario.

Ecco perché ho appoggiato Vladimir Putin durante il suo primo mandato presidenziale. E non ero il solo: era con lui dal 70 all’80% della popolazione e credo avessero ragione. Nondimeno, stabilizzare il Paese non può essere l’unico fine. La Russia ha bisogno di sviluppo e di riforme per diventare leader nel mondo globalizzato e interconnesso. Il nostro Paese non ha fatto un passo avanti in questa direzione negli ultimi anni, malgrado per un decennio abbiamo beneficiato degli alti prezzi delle nostre principali esportazioni, petrolio e gas. La crisi globale ha colpito la Russia più duramente di molti altri Paesi e la colpa è solo nostra. La Russia potrà progredire senza problemi solo seguendo un percorso democratico. E recentemente ci sono stati da questo punto di vista diversi passi indietro.

Il processo democratico ha perso mordente. In molti casi ha subito una involuzione. Tutte le decisioni di rilievo sono prese dall’esecutivo, il Parlamento si limita a un’approvazione formale. L’indipendenza dei giudici è stata messa in discussione. Non abbiamo un sistema partitico che dia la possibilità alla maggioranza di vincere lasciando alla minoranza la possibilità di esercitare un ruolo attivo e far valere la propria opinione. C’è la crescente sensazione che il governo sia spaventato dalla società civile e voglia controllare tutto.

Sono cose che conosciamo bene, le abbiamo già passate. Vogliamo tornare indietro? Credo che nessuno, compresi i nostri leader, lo desideri. L’insoddisfazione per questo stato di cose è diffuso a tutti i livelli. Percepisco allarme nelle parole del presidente Dmitry Medvedev quando si chiede, come ha fatto in alcune recenti dichiarazioni pubbliche: «Come può una economia primitiva basata sulle materie prime e su una corruzione endemica portarci verso il futuro?». Possiamo stare tranquilli se «l’apparato di governo nel nostro Paese è il più grande datore di lavoro, il maggior editore, il miglior produttore, giudice di se stesso, e, di per se stesso un partito e persino una nazione?».

Non si potrebbe dirlo meglio. Sono d’accordo con il Presidente e con il suo obiettivo, la modernizzazione. Ma non funzionerà se il popolo è tagliato fuori, se è considerato solo una pedina. Per avere persone che si sentono e agiscono da cittadini c’è una sola ricetta: democrazia, legalità e dialogo aperto tra il popolo e il governo. Quello che ci frena è la paura. Tra la gente come fra chi governa serpeggia il timore che la modernizzazione potrebbe portare all’instabilità e persino al caos. In politica la paura è una cattiva consigliera, dobbiamo superarla. Oggi la Russia ha molti cittadini liberi e indipendenti pronti ad assumersi responsabilità e a sostenere la democrazia. Ma molto dipende dai comportamenti del governo.

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« Risposta #13 inserito:: Giugno 10, 2010, 05:27:09 pm »

10/6/2010

Le nuove leadership una sfida per l'Europa

MIKHAIL GORBACIOV

Pochi mesi fa politici, economisti e mezzi di informazione hanno iniziato a discutere se fosse finita o meno la crisi globale scoppiata nell’autunno 2008. I più pensavano che il peggio fosse passato e che presto si sarebbe riavviata una crescita stabile.

Il nuovo giro di turbolenze finanziarie ed economiche che ha colpito l’Europa ha colto di sorpresa gli esperti, smentendo le previsioni frettolose di una fine della crisi. Ancora una volta, i leader politici e gli esperti hanno dovuto rivedere le loro ipotesi e i loro progetti.

In Europa questo processo è particolarmente doloroso. Come il tracollo di una diga i problemi che si sono accumulati per molti anni in un Paese, la Grecia, hanno causato una frana che minaccia l’euro, il futuro dell’Unione europea e la ripresa economica globale.

E’ un altro richiamo alla interconnessione del mondo globalizzato. Per gli europei, questo è un serio motivo in più per riflettere sulla natura e il ritmo di integrazione del continente.

Non voglio unirmi al coro del panico. Le voci sull’imminente scomparsa dell’euro gli sono chiaramente esagerate. Ma è stato colpito duramente, e questo dimostra che la moneta unica senza adeguati meccanismi di regolamentazione - politica ed economica e fiscale - è estremamente rischiosa. Nell’euforia per l’allargamento dell’Unione europea tali rischi erano stati sottovalutati. Ora, l’Ue si trova ad affrontare il compito immediato di arginare la crisi e prevenirne la diffusione ad altri Paesi.

La prossima sfida è quella di sviluppare meccanismi per il controllo dei bilanci degli Stati membri dell’Ue. Questo va al cuore del problema della sovranità. Non è affatto certo che gli Stati si adatteranno a una tale violazione della loro «Sancta santorum». E’ un problema politico importante, che porterà per certo a un dibattito difficile e alla lacerante ricerca di un compromesso.

Vedo in questa crisi il sintomo di una tendenza assai radicata e profonda che è pericolosa per l’Europa e per il mondo. Il rischio è che l’Europa perda il suo ruolo di motore economico, politico e culturale dello sviluppo globale - un ruolo che ha svolto per almeno gli ultimi tre secoli.

Questi timori e queste previsioni sul «declino dell’Europa» stanno diventando sempre più diffusi, per diverse ragioni.

Molti Paesi del Terzo Mondo, già assai indietro, stanno ora facendo enormi passi avanti nella crescita economica. Con ogni probabilità ben presto rivendicheranno posizioni chiave nell’economia mondiale, relegando sempre più l'Occidente a ruoli di supporto.

Negli ultimi tre o quattro decenni i prodotti occidentali hanno perso competitività nei confronti delle merci prodotte in Oriente e in altre regioni in via di sviluppo. Non si tratta solo più di tessile, abbigliamento e calzature; la concorrenza, con successi via via maggiori ora avviene in campi come l’industria meccanica e delle costruzioni navali, l’elettronica, la produzione di auto e di software - settori in cui l’Occidente, una volta godeva di un virtuale monopolio.

Questo ha portato alla fuga dei capitali e delle industrie dall’Occidente e a tassi di disoccupazione persistentemente elevati in Europa - tassi aggravati ora dalla crisi. Se continua così, l’Europa dovrà affrontare una crisi politica che potrebbe compromettere la sua maggiore e storica conquista: la stabilità democratica.

Aggiungete a questo l’incalzante invecchiamento della popolazione europea. La percentuale di cittadini in età lavorativa è in rapida diminuzione, presto potrebbero non essere più in grado di sostenere la popolazione a riposo e, più in generale, lo stile di vita a cui gli europei sono abituati.

Quindi, ci sono tendenze che agiscono in profondità dietro le turbolenze economiche e fiscali in Europa. Eppure i rimedi proposti fin qui riguardano per lo più la finanza pubblica e una quantità di prescrizioni per «tagli dolorosi» di pensioni, prestazioni sociali e altre spese di bilancio. E’ un percorso irto di pericoli.

Gli europei sono scesi in piazza per protestare contro i forti tagli della spesa sociale. La loro protesta è comprensibile. Sono convinti che la crisi non sia stata causata dalle pensioni o dagli assegni sociali e danno la colpa al fallimento delle politiche economiche e ai super-profitti e all’avidità di quelli che percepiscono ancora enormi bonus e dividendi mentre la gente comune tira la cinghia.

Né vi è una soluzione rapida per i problemi demografici dell’Europa. L’afflusso continuo di immigrati con mentalità, culture e religioni diverse coincide con l’aumento della xenofobia ed è percepito come una minaccia all’identità nazionale.

L’Europa è messa sotto pressione da tutti i tipi di problemi: quelli causati dal corso naturale degli eventi e quelli che avrebbero potuto essere evitati. E le conseguenze, politiche e non solo economiche, sono inevitabili. Una è la prospettiva che altri centri di potere prenderanno la leadership nella comunità mondiale, nazioni a cui molti europei guardano con rispetto ma anche con apprensione.

«Perdere l’Europa» dovrebbe essere inconcepibile. Questo, temo, sarebbe una vera e propria - non solo metaforica - fine della storia. Una storia a cui l’Europa, nonostante le sue mancanze e tragedie, ha contribuito così tanto con i valori universali di civiltà e cultura. Che tipo di Europa potrebbe riconquistare la leadership mondiale? È tempo di pensare a costruire una grande comunità intercontinentale da Vancouver a Vladivostok, con la piena partecipazione degli Stati Uniti e Russia. Questa è l’unica possibilità per l’Europa di tornare a esercitare la sua forza di stabilizzazione nel mondo.

Dopo la fine della guerra fredda, gli europei ha fatto un errore enorme rifiutandosi di proseguire sulla strada della piena integrazione con la Russia, che è e si considera parte inalienabile di una Grande Europa.

Anche noi siamo in parte da biasimare per aver «scollegato» la Russia e l’Europa. L’errore deve essere corretto. Il processo di modernizzazione che sta iniziando in Russia offre un’opportunità unica. La Russia sta avviando un vero e proprio cambio di direzione. Sta abbandonando il modello economico basato sulla risorse, riattrezzando le sue industrie e promuovendo i settori innovativi del business che fanno leva sull’enorme potenziale intellettuale della nazione.

Come ho spesso affermato, una modernizzazione tecnologica ed economica di successo richiede una revisione delle strutture politiche e una accelerazione dei processi di democrazia. Questo non indebolirà la Russia, come molti nel nostro Paese temono. Aprirà nuove opportunità per progredire e per costruire una forte comunità transnazionale che non cercherà il confronto con il resto del mondo. Cercherà invece di consolidare il potenziale di Russia, Europa e Stati Uniti per il bene di tutti.

Ora abbiamo bisogno di un segnale chiaro da parte dei leader di Russia, Stati Uniti e Unione europea che devono comprendere la necessità di un tale consolidamento. Se lo fanno, dovrebbero iniziare a lavorare sulle specifiche di questo grande progetto.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7459&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #14 inserito:: Ottobre 11, 2010, 07:29:40 am »

11/10/2010

Una nuova comunità mondiale

MIKHAIL GORBACIOV

In Russia come negli Stati Uniti il «reset» nelle relazioni Usa-Russia, a cui i leader dei due Paesi avevano promesso di dedicarsi oltre 18 mesi fa, è ora in corso di valutazione. Alcuni, spesso per ragioni di politica interna, stanno cercando di sminuire ogni risultato. Altri si chiedono se è veramente iniziata una nuova fase del rapporto o se questa è solo un’altra oscillazione positiva del pendolo seguita inevitabilmente da un passo indietro.
Per valutare a che punto siamo è utile riandare alla storia delle nostre relazioni. Ancora più importante, dobbiamo considerare quelle relazioni in un contesto più ampio, come parte dei cambiamenti nel nostro mondo globalizzato.

Nei primi Anni 90 le aspettative russe sulla cooperazione con gli Stati Uniti erano così grandi, il clima era euforico. Un po’ di quell’euforia era basata su illusioni e su una visione idealizzata degli Stati Uniti - un sentimento particolarmente diffuso tra gli intellettuali. Eppure, quelle aspettative riflettevano anche la solida convinzione che le nostre nazioni insieme avrebbero potuto fare grandi cose, sia nel proprio interesse sia per il bene comune.
L’euforia ben presto lasciò il posto alla disillusione. Più avanti nel decennio, quando l’economia russa era minata da riforme inefficaci e mentre milioni di russi erano ridotti alla povertà, gli Stati Uniti applaudivano i leader russi.

Molti russi non potevano fare a meno di chiedersi se una Russia debole, ridotta all’angolo fosse quello che gli Usa volevano.

Sempre negli Anni 90 la Nato fu ampliata mentre gli Stati Uniti proclamavano la loro vittoria nella Guerra Fredda e l’intenzione di mantenere la superiorità militare.
Che cosa valeva allora l’impegno preso dal presidente Ronald Reagan al vertice di Ginevra del 1985, quando si unì a me nel dichiarare solennemente che le nostre due nazioni non avrebbero mai cercato di prevalere militarmente? E come si poteva costruire un rapporto di fiducia sulle fondamenta poste negli Anni 90?

Il periodo in cui gli Stati Uniti potevano considerarsi l’unica superpotenza rimasta e persino una «iperpotenza», capace di creare un nuovo tipo di impero, si rivelò relativamente breve. La crisi finanziaria globale - iniziata stavolta negli stessi Stati Uniti piuttosto che alla periferia del mondo - ha stimolato il processo di riallineamento globale in favore di nuovi centri di potere e influenza. Gli Stati Uniti hanno dovuto adeguarsi a questo cambiamento, e non è facile.

La proposta di «resettare» le relazioni con la Russia rifletteva il riconoscimento che la politica precedente era fallita. E riconosceva il grande potenziale di un partenariato tra le due nazioni. Tuttavia, le obiezioni sorsero fin dall’inizio. Gli oppositori hanno sottolineato che le nostre nazioni erano troppo diverse per essere in grado di costruire un rapporto «organico» sostenibile a lungo termine. Inoltre, sia in Russia che negli Stati Uniti è apparso chiaro come alcune persone credano ancora che i nostri Paesi sono potenziali avversari.

Né la Russia né gli Stati Uniti possono permettersi un altro scontro. Anche se molto diverse, stanno entrambe attraversando una transizione. Stanno cercando di creare nuove relazioni, spesso difficili da configurare, con poteri emergenti. Anche l’Unione europea affronta questa sfida - resa ancora più difficile dai problemi nati dal frettoloso allargamento e dall’integrazione monetaria.

L’area intercontinentale da Vancouver a Vladivostok affronta problemi simili e stanno emergendo molti interessi comuni. Così come devono emergere potenti forze di reciproca attrazione. Il reset tra Usa e Russia e il «partenariato per la modernizzazione» deciso tra l’Ue e la Russia dovrebbero segnare l’inizio della strada verso una nuova comunità intercontinentale.

Solo lavorando insieme Stati Uniti, Europa e Russia possono assicurarsi una posizione di leadership e di influenza in un mondo globale in rapido cambiamento.
Sto forse chiedendo un’associazione del «Nord» contrapposto al «Sud», al mondo islamico o forse alla Cina? Niente affatto.

Sarebbe la ricetta per un vero scontro di civiltà, qualcosa che nel mondo di oggi è totalmente inaccettabile. Nei rapporti con gli altri Paesi dobbiamo sempre cercare la cooperazione, la soluzione condivisa dei problemi e i modi per superare le difficoltà - sia quelle già emerse sia quelle che verranno.

Il mondo islamico, la cui presenza si fa sentire non solo all’esterno ma anche in Europa e negli Stati Uniti, è alle prese con la sfida dell’adattamento alla modernità, cercando allo stesso tempo di proteggere la sua identità culturale e la sua peculiare civiltà.

In conseguenza di questo processo doloroso le tendenze estremiste all’interno dell’Islam politico si oppongono alle tendenze moderate e ai regimi che non sono contrari alla modernizzazione e sono pronti al dialogo. Una comunità di civiltà condivisa, con radici culturali comuni ed esperienze di vario tipo, capace di interagire con il mondo islamico, deve essere parte di tale dialogo. Un tal genere di comunità potrebbe svolgere un ruolo altrettanto importante nel dialogo con la Cina.

L’importanza politica della Cina aumenterà indubbiamente con la sua popolazione e il suo potere economico. Questo sarà un test importante per la comunità internazionale così come per la Cina, soprattutto perché l’evoluzione storica di una nazione non è sempre lineare. Ci sono snodi che richiedono decisioni difficili. La Cina prima o poi dovrà affrontare una scelta politica - o, per chiamare le cose col loro nome, il problema della democrazia. L’impegno e la collaborazione con una grande nazione che è diventata non solo la «fabbrica del mondo», ma anche un gigante economico e un «laboratorio» politico sarà un altro compito fondamentale per la comunità intercontinentale da me sostenuta.

Non è ancora chiaro come si formerà questa comunità e quale sarà il suo assetto finale. Ciò che è chiaro è che dobbiamo iniziare a costruire un’architettura di sicurezza durevole, in primo luogo in Europa, con Stati Uniti e Russia come partner. Le recenti dichiarazioni politiche degli Stati Uniti suggeriscono che, finalmente, anche i leader degli Stati Uniti riconoscono che la sicurezza non può essere raggiunta unilateralmente, richiede collaborazione.

La proposta del presidente russo Dmitry Medvedev di concludere un trattato di sicurezza pan-europeo si applica alla stessa area, che si estende dal Nord America all’Europa e a tutta la Russia.
Sono convinto che in futuro emergerà un’associazione intercontinentale di nazioni con un destino comune.

I grandi obiettivi possono sembrare eccessivamente ambiziosi o astratti, soprattutto in un momento in cui la Russia e gli Stati Uniti non sono d’accordo nemmeno sulla questione del pollame importato, nonostante il loro impegno pubblico a un nuovo rapporto, e l’Ue continua a negare ai cittadini russi l’ingresso senza visto.
Eppure sono convinto che la mia proposta non sia un sogno irrealizzabile. La portata del cambiamento globale è così vasta, e il potenziale contributo delle nazioni attraverso lo spazio intercontinentale di Russia, Europa e Nord America è così enorme, che la loro stretta associazione dovrebbe essere vista come un imperativo. Dobbiamo passare dal resettare e dal collaborare a una riconfigurazione delle relazioni politiche globali.

© 2010 Mikhail Gorbachev Distributed by The New York Times Syndicate
Traduzione di Carla Reschia
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