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« inserito:: Maggio 20, 2008, 05:19:42 pm » |
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Puglia, la Guantanamo dei clandestini
Marco Rovelli
Sono partito dalla stazione di Foggia, con lo stesso treno che ha preso Tareq per fuggire dal buco nero che lo ha accolto e inghiottito e rifiutato nel medesimo tempo, tutto nel medesimo gesto.
Tareq si stropiccia gli occhi, qui, in questo vagone. Li sfrega come per risvegliarli da un sonno. Sonno è stato, in questi due mesi, sonno della ragione. Tareq non ci crede, e gli occhi continuano a restare a mezzo. Fermano immagini, come impigliate nel sonno che resta.
Si guarda intorno, prende un giornale. In Marocco aveva cominciato a studiare italiano, in previsione del viaggio. Qualcosa sa leggere. Si ferma sui resoconti dall’Iraq. Un paese lontano, per molte cose. Ma che adesso, dopo questi due mesi, sente più vicino. Sente oscuramente come una comune radice del male. E c’è un nome facilmente disponibile per designare questo male comune, per darne una ragione semplice e chiara: questo nome è Guantanamo. I due mesi appena passati sono stati la sua Guantanamo.
Me lo ridice, nel salotto di casa mia, nella città ligure dove si è diretto, e stabilito. E quando il suo amico Salim racconta che il capo della cooperativa dove lavora non gli ha concesso un giorno di ferie che lui aveva chiesto per nessuna delle due feste musulmane che ci sono in un anno - e io, dice, che sono sempre disponibile a lavorare quando c’è da sostituire qualcuno malato o in ferie - Tareq dice: noi abbiamo un problema con voi.
Voi chi? Chiedo io, che non concepisco un noi, un voi. Mohamed, un amico di Tareq che vive in Italia da molti anni, è fidanzato con una ragazza atea e comunista, e lavora con un’associazione interculturale, mi dà manforte, «Macché noi e voi, dice. Non c’è differenza, ci mischiamo!». E a me che dico di non essere cristiano, che anzi fatico a darmi una qualsiasi forma di appartenenza identitaria, che sono semplicemente un uomo, c’est tout - Tareq ribatte Non, c’est pas tout!
Siamo due mondi che si scontrano, io e Tareq.
Uno come Tareq, che appartiene a quella minoranza di marocchini che reclamano un’integrale osservanza dei precetti religiosi, non può che uscire rafforzato nelle sue convinzioni di differenza dei cuori da un’esperienza come i due mesi della sua Guantanamo. Guantanamo, allora, definisce la separazione di uno spazio globale, di due campi che non possono che contrapporsi, e tra i quali si può al più arrivare a un compromesso, a una coesistenza che però non tocchi mai la definizione delle identità. E di fronte a queste esperienze sono soprattutto Salim e Rachid, gli altri due amici che stanno nel salotto di casa mia, a essere colpiti. Perché loro, che non hanno queste convinzioni assolute di Tareq, ci guardano perplessi, ma una parola chiara e discriminante - Guantanamo - fa presa, e rende comprensibili tante cose che appartengono a un’esperienza comune.
Nel viaggio verso nord, in treno, Tareq legge e ammutolisce. E gli si fanno chiare davanti immagini, campioni di una realtà che ancora non crede di aver attraversato. E rivede i due mesi appena passati chiusi in quelle immagini. Del resto a Casablanca Tareq faceva il fotografo, ed è abituato ad articolare il mondo in scatti che catturino una verità. Lui, nelle immagini, che lo attraversano adesso, è convinto di leggere una verità profondissima. Vede un vecchio mattatoio, e lo sporco di quell’ambiente, e dei letti fatti di cartone. Vede una baracca di sdraio e di ombrelloni. Vede spiagge come deserti, e un tempo vuoto e improduttivo. Non ci sono le tute arancioni di Guantanamo negli scatti che rivede adesso, ma è davvero come se fossero presenti ugualmente, in spirito.
Tareq mi racconta. Lui è arrivato in regola qui in Italia. Con un contratto da stagionale, esattamente come richiede la legge. Quella legge ipocrita che ha il doppio nome «Bossi Fini». Una legge biforcuta, dove l’ipocrisia sta nel pretendere che gli stranieri possano entrare in Italia solo se hanno già un contratto di lavoro. Cosa assurda, per il banalissimo motivo che nessun datore di lavoro prende a scatola chiusa un lavoratore senza sapere chi è, senza conoscerlo prima. E così questo legittima di fatto l’uso di lavoro clandestino. I flussi annuali d’ingresso di persone che teoricamente dovrebbero essere all’estero riguardano invece persone che già stanno in Italia e che stanno già lavorando in nero, clandestinamente. Quando invece si arriva in Italia, eccezionalmente, con un contratto già in tasca, è possibile che sia una frode. Come appunto nel caso di Tareq, che aveva il suo contratto stagionale. Nove mesi. Lo aveva ottenuto pagando un sacco di soldi, indebitandosi. Aveva dato seimila euro all’intermediario, a Casablanca. Tremila sarebbero andati al datore di lavoro, tremila sarebbero rimasti all’intermediario. Funziona come un’asta, dice. Il padrone fa un certo numero di contratti fittizi, e l’intermediario li vende sulla piazza di Casablanca. Ma qualcosa non ha funzionato, forse l’intermediario non ha versato i tremila euro al padrone, fatto sta che questo non è andato alla prefettura per formalizzare il contratto e far avere il permesso di soggiorno a Tareq così come erano gli accordi. Così Tareq è rimasto col visto che nel frattempo gli è scaduto, e adesso è clandestino.
Tareq non crede ancora ai suoi sensi. «Prima di partire ti dicono che avrai casa e lavoro. Invece sono arrivato e mi hanno messo in una baracca senza letto, senza acqua, senza luce, senza bagno. Prima di partire ti dicono che ci sarà da lavorare tutti i giorni, e si guadagnano settanta, ottanta euro al giorno. Invece arrivi d’inverno, e in Puglia non c’è niente da fare, in due mesi ho lavorato solo mezza giornata, con la paga che è venti euro per una giornata piena. Dalle due e mezzo alle sette di sera a raccogliere carote, l’attività ufficiale del padrone, che in realtà guadagna dal traffico di decine di contratti falsi ogni anno. In due mesi ho guadagnato dieci euro, con un debito di seimila euro da recuperare. Con la casa dove abitavamo che era un inferno totale. Non c’era il letto, e non c’era da mangiare. «Shuma, shuma - ripete- : vergogna. È una vergogna che un imprenditore italiano si comporti così». E quando gli chiedo chi gli aveva dato la casa ha un moto di rabbia, «Non era una casa! Era una baracca che ci aveva dato il padrone, mi ci aveva portato lui. Ci ammazzavano gli animali lì dentro, era un ex mattatoio. E un amico mio che aveva fatto il viaggio con me stava in una rimessa di uno stabilimento balneare, dove d’inverno ripongono le sdraio e gli ombrelloni, e lui dormiva su una sdraio, insieme a un altro, e loro due pagavano 150 euro al mese per stare lì dentro, e le volte che sono andato a trovarlo dovevo stare attento, non dovevo farmi vedere da nessuno, se no il padrone pensava che anch’io dormissi lì e poi faceva pagare di più. Era una Guantanamo!». La Guantanamo di Tareq era a Zapponeta, provincia di Foggia.
L’intermediario, a Casablanca, ha minacciato Tareq. Non devi mai dire i nomi della ditta e del padrone. Se dici i nomi, ti mandiamo nella bara. Tareq però me li vuole dire. Esita un po’, e poi li dice. Il nome del direttore amministrativo e quello direttore tecnico. Li ripete. Anche se li ha già ben stretti in memoria. «Sono loro, dice, che mi hanno dato la visione del mondo occidentale e del popolo italiano. Io non pensavo che era proprio così la realtà: voi parlate di diritti, anche di diritti degli animali: ma la verità è che i diritti esistono solo per voi, non per gli immigrati».
A Casablanca Tareq, che si era diplomato in elettronica, aveva un banchetto per la strada e vendeva scarpe. Poi faceva anche il fotografo per le feste di matrimonio, quelle magnifiche e lunghe feste che durano giorni. Adesso è pentito: «Voglio solo lavorare quel tanto che basta per ripagare il mio debito che ho aperto con amici e conoscenti e poi tornare in Marocco».
Nel salotto di casa mia Salim mi dice di aver fatto lo stesso tragitto di Tareq, anche per lui la porta d’ingresso per l’Italia è stata Zapponeta. Un anno prima, ma le cose erano state le stesse. Un contratto fittizio comprato per rientrare nei flussi degli stagionali. «Ma io c’ero rimasto solo quindici giorni, poi sono venuto subito dai miei amici che erano già qui a Spezia. Avevo lavorato a Zapponeta nei campi di pomodori per una settimana, la paga doveva essere di venti euro al giorno ma non ci avevano dato niente, alla fine. Però il permesso di soggiorno l’avevo preso, e allora avevo deciso di venirmene via». Sono scappato dal manicomio, dice. Adesso lavora in una cooperativa di pulizie che lavora in un supermercato, in quella cooperativa dove non gli hanno mai dato un giorno di ferie per le festività musulmane. Lavora a ore, dalle trentacinque alle quarantacinque, dipende dalle necessità. È in regola, ma gli è scaduto il permesso di soggiorno. Così quando si è trattato di rinnovare il contratto precario, di quattro mesi, lui ha finto di avere ancora un permesso di soggiorno valido e ha firmato il contratto, altrimenti sarebbe rimasto a casa, e difficilmente avrebbero fatto una richiesta di regolarizzazione quelli della cooperativa. Così Salim, anche se «clandestino», lavora in regola e gli versano regolarmente i contributi.
Quella di Rachid, coetaneo di Salim, 25 anni, è un’altra storia, ma anch’essa segnata dallo stato di minorità indotto e agevolato da una legge schiavistica come la biforcuta Bossi Fini. Era venuto di nascosto, pagando 4500 euro per viaggiare nascosto dietro cumuli di casse di merci in un camion. A Casablanca lavorava in un mercato ortofrutticolo, ma i soldi erano pochi. Era l’estate del 2003. Lui e i suoi sette compagni di viaggio uscirono dal camion solo a Barcellona, da dove presero un treno fino a Milano. Di là Rachid arrivò a Spezia, dove c’era suo zio, che gli aveva già procurato un lavoro. Sono già cinque anni che Rachid lavora per un’azienda edile di proprietà di un suo connazionale. Dalle otto di mattina alle sei di sera, cinquanta euro al giorno. In quest’azienda sono in otto, quattro in regola e quattro clandestini. I clandestini come Rachid sono comodissimi: bravi a far tutto, e sfruttabili al massimo. Se ti ammali niente paga, va da sé. Ogni tanto capita che la sua azienda faccia anche lavori pubblici. Il clandestino Rachid, ad esempio, è andato a fare dei lavori in una caserma dei carabinieri. Aveva il tesserino con il nome di uno dei dipendenti in regola.
Conviene un po’ a tutti che Rachid resti in queste condizioni. Agli enti locali che grazie a Rachid riescono ad appaltare i lavori ai costi più bassi così come al suo padrone: il quale, per questo motivo, gli aveva allungato l’orario di lavoro assegnandogli nuovi compiti quando si è accorto che Rachid aveva cominciato a frequentare una scuola serale di italiano per stranieri. «Ma quale scuola!», gli diceva, «Dovete lavorare e basta!». Conviene a tutti che Rachid resti nel suo stato di minorità, clandestino, separato, che non comunichi con gli altri, non si sa mai che possa capire qualcosa di nuovo e di diverso, scuotersi, e reclamare diritti che adesso non ha.
Tareq, Salim e Rachid abitano insieme adesso. Ma Tareq, che è fresco della sua Guantanamo, è quello più scosso, che più degli altri recalcitra alla sottomissione. «A veder queste cose vergognose - dice - cose che non ci aspettavamo, noi che abbiamo studiato, che credevamo alle cose belle, ci ammaliamo fisicamente, psicologicamente. Aspettavamo di migliorare la vita, non di trovare queste condizioni. Il problema è che ci sono quelli che hanno fatto un po’ di soldi in Italia, loro tornano, hanno la macchina, i vestiti, là si sta bene, dicono - e allora tutti vogliono imitarli, è questo il problema. Anch’io l’ho voluto fare, ed eccomi qua, con i debiti, e la voglia di tornare».
Pubblicato il: 19.05.08 Modificato il: 19.05.08 alle ore 12.50 © l'Unità.
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