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Autore Discussione: BARACK OBAMA.  (Letto 42178 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Novembre 19, 2010, 10:52:58 pm »

19/11/2010 - INSIEME PER BATTERE LA MINACCIA DEL CYBER-TERRORE

Scudo contro il terrore
   
"Serve un approccio diverso per assicurarci un futuro più sicuro"

BARACK OBAMA

Con il vertice della Nato e quello tra Usa ed Unione europea a Lisbona di questa settimana, sono orgoglioso di aver visitato l’Europa un mezza dozzina di volte in qualità di Presidente.

Ciò riflette una verità durevole della politica estera americana - il nostro rapporto con gli alleati e partner europei è la pietra angolare del nostro impegno con il mondo, e un catalizzatore per la cooperazione mondiale. Con nessun’altra regione del mondo gli Stati Uniti hanno una tale stretta identità di valori, interessi, capacità e obiettivi. Il più importante rapporto economico del mondo, il commercio trans-atlantico, sostiene milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti e in Europa e costituisce la base dei nostri sforzi per sostenere la ripresa economica globale.

In quanto alleanza di nazioni democratiche la Nato garantisce la nostra difesa collettiva e aiuta a rafforzare le giovani democrazie. L’Europa e gli Stati Uniti stanno lavorando insieme per prevenire la diffusione di armi nucleari, promuovere la pace in Medio Oriente e affrontare il cambiamento climatico. E come abbiamo visto nei più recenti allarmi in Europa e con il complotto, sventato, per provocare esplosioni sui voli cargo trans-atlantici, cooperiamo ogni giorno nel modo più stretto per prevenire gli attentati terroristici e garantire la sicurezza dei nostri cittadini.

Detto in modo semplice, siamo gli uni per gli altri l’alleato più fedele. Né l’Europa né gli Stati Uniti possono affrontare le sfide del nostro tempo senza l’altro. Questi vertici sono quindi un’occasione per approfondire ancora di più la nostra cooperazione e per garantire che la Nato - l’alleanza di maggior successo nella storia umana – rimanga in questo secolo fondamentale come lo è stata in quello precedente. Ecco perché a Lisbona abbiamo un’agenda così ampia.

In primo luogo, in Afghanistan, possiamo unire i nostri sforzi per la transizione al comando afghano, anche se naturalmente continuando a garantire al popolo afghano il nostro costante impegno.

In Afghanistan la nostra coalizione a guida Nato comprende 48 nazioni, incluso il contributo di tutti i 28 alleati della Nato e di 40.000 truppe dai Paesi alleati e amici, di cui onoriamo lo spirito di servizio e di sacrificio. Il nostro sforzo condiviso è essenziale per sottrarre ai terroristi un porto sicuro, così come è necessario per migliorare la vita del popolo afghano. A Lisbona coordineremo il nostro approccio così da poter iniziare la transizione verso l’affidamento della responsabilità agli afghani all’inizio del prossimo anno, e adottare l’obiettivo del presidente Karzai: fare sì che le forze afghane prendano il comando delle operazioni di controllo e la sicurezza in tutto l’Afghanistan entro la fine del 2014. E a luglio, mentre avrà inizio la riduzione delle truppe americane, la Nato - come gli Stati Uniti, può creare un partenariato duraturo con l’Afghanistan per far capire che quando gli afghani assumeranno il controllo non verranno abbandonati a se stessi.

Così come si evolve la situazione in Afghanistan, anche la Nato dovrà trasformarsi a Lisbona dandosi un nuovo Obiettivo strategico che riconosca le potenzialità e i partner di cui abbiamo bisogno per far fronte alle nuove minacce del 21° secolo. Partendo dal riaffermare l’essenza vitale di questa alleanza – l’impegno sottoscritto nell’art. 5: l’attacco a uno è un attacco a tutti.

Per garantire che questo impegno abbia un senso, dobbiamo rafforzare la gamma completa delle capacità necessarie a proteggere oggi i nostri uomini e a prepararci alle missioni di domani. Oltre a modernizzare le nostre forze convenzionali abbiamo bisogno di riformare le strutture di comando dell’Alleanza per renderle più efficaci ed efficienti, di investire in tecnologie che consentano alle forze alleate di dispiegarsi e operare insieme in modo efficace, e di sviluppare nuove difese contro minacce come gli attacchi informatici.

Un’altra risorsa indispensabile all’Alleanza è la difesa missilistica del territorio della Nato, necessaria per affrontare la minaccia reale e crescente dei missili balistici. L’approccio adattativo per fasi alla difesa missilistica europea che avevo annunciato lo scorso anno fornirà una difesa forte ed efficace del territorio e della popolazione europea e delle forze americane ivi dispiegate. Inoltre, rappresenta la base di una maggiore collaborazione, con un ruolo per tutti gli alleati, la protezione per tutti gli alleati, e un’occasione per la cooperazione con la Russia, che ugualmente si trova sotto la minaccia dei missili balistici.

Inoltre bisogna creare le condizioni per la riduzione degli arsenali nucleari e fare passi avanti verso la visione che descrissi lo scorso anno a Praga - un mondo senza armi nucleari. Ma fintanto che queste armi esistono, la Nato dovrebbe rimanere una alleanza nucleare, e ho messo in chiaro che gli Stati Uniti manterranno un arsenale nucleare sicuro ed efficace per dissuadere qualsiasi avversario e garantire la difesa dei nostri alleati.

Infine a Lisbona, possiamo continuare a forgiare il rapporto di collaborazione oltre la Nato che contribuisce a rendere la nostra alleanza un pilastro della sicurezza globale. Dobbiamo tenere la porta aperta alle democrazie europee che soddisfano gli standard di adesione alla Nato. Dobbiamo approfondire la cooperazione con le organizzazioni che integrano i punti di forza della Nato, come l’Unione europea, le Nazioni Unite e l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. E con la partecipazione del presidente Dmitri Medvedev in occasione del vertice Nato-Russia possiamo riprendere nei fatti una cooperazione pratica tra Nato e Russia a beneficio di entrambe.

Infatti, così come gli Stati Uniti e la Russia hanno reimpostato il loro rapporto, possono farlo anche la Nato e la Russia. A Lisbona possiamo mettere in chiaro che la Nato vede la Russia come un partner, non come un avversario. Possiamo approfondire la nostra cooperazione sull’Afghanistan, sulla lotta alla droga e alle sfide alla sicurezza del 21° secolo - dalla diffusione delle armi nucleari a quella dell’estremismo violento. E progredendo con la cooperazione sulla difesa missilistica, possiamo trasformare una passata fonte di tensione in una fonte di cooperazione.

Per più di sei decenni, europei e americani sono stati gli uni al fianco degli altri perché il nostro lavoro comune favorisce i nostri interessi e protegge le libertà che ci sono care. Il mondo è cambiato e così deve fare la nostra Alleanza per renderci più forti e più sicuri. Questo è il nostro compito a Lisbona - rilanciare una volta di più la nostra Alleanza per garantire la nostra sicurezza e la nostra prosperità per i decenni a venire.

(Traduzione di Carla Reschia)
http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8107&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #61 inserito:: Maggio 26, 2011, 05:50:37 pm »

26/5/2011

La mia ricetta per il futuro

BARACK OBAMA

Sono qui a riaffermare una delle più antiche e solide alleanze mai conosciute.

La ragione di questa amicizia così stretta non dipende solo da una storia e una eredità condivise; dai nostri legami di lingua e di cultura; dalla stretta collaborazione tra i nostri governi. La nostra relazione è speciale per i valori e le idee che condividiamo. Insieme abbiamo affrontato grandi sfide. E altre, profonde, si allungano davanti a noi. Arrivano in un momento in cui l’ordine internazionale è già stato ridisegnato per il nuovo secolo. Paesi come la Cina, l’India e il Brasile crescono rapidamente. Dovremmo dare il benvenuto a questo sviluppo, perché ha sollevato dalla povertà centinaia di milioni di persone e creato nuovi mercati e nuove opportunità per i nostri Paesi. Eppure, mentre avvenivano questi rapidi cambiamenti, in alcuni ambienti è diventato di moda chiedersi se la crescita di queste nazioni non si accompagnerà al declino dell’influenza americana ed europea sul mondo. Forse, prosegue quel ragionamento, quelle nazioni rappresentano il futuro e il momento della nostra leadership è passato. Questo ragionamento è sbagliato. Il momento della nostra leadership è ora. In un momento in cui minacce e sfide richiedono un lavoro comune per i nostri Paesi, noi restiamo il più grande catalizzatore di un’azione globale. In un’epoca definita dal rapido flusso dei commerci e delle informazioni, è la nostra tradizione di mercati aperti, la nostra ampiezza di vedute rafforzata dall’impegno per la sicurezza dei nostri cittadini, a offrire le migliori opportunità per un benessere forte e condiviso. Questo non significa che possiamo permetterci di rimanere fermi. La natura della nostra leadership ci chiederà di cambiare insieme ai tempi \. Noi abbiamo in comune l’interesse a risolvere i conflitti che prolungano le sofferenze umane e minacciano di fare a pezzi intere regioni. E condividiamo l’interesse per uno sviluppo che faccia avanzare la dignità e la sicurezza. Per riuscirci, dobbiamo mettere da parte l’impulso a guardare le zone povere del globo come un luogo dove agire con la carità. Dobbiamo invece aiutare gli affamati a sfamarsi da sé. Noi facciamo tutto questo perché crediamo non solo nei diritti delle nazioni, ma anche in quelli dei cittadini. Questo è il faro che ci ha guidati nella lotta contro il fascismo e contro il comunismo. Oggi, quell’idea viene messa alla prova in Medio oriente e in Nord Africa.

La storia ci dice che la democrazia non è mai facile. Occorreranno anni prima che queste rivoluzioni arrivino alla loro conclusione, e lungo quella strada ci saranno giorni difficili. Il potere raramente si arrende senza combattere. Ma quello che abbiamo visto a Teheran, a Tunisi e sulla Piazza Tahrir è un anelito alla stessa libertà che noi, a casa nostra, diamo per scontata, è un rifiuto dell’idea che i popoli di alcune parti del mondo non vogliono essere liberi, o hanno bisogno di una democrazia imposta dall’alto. Nessuna esitazione: Stati Uniti e Regno Unito stanno a fianco di coloro che anelano a essere liberi. E adesso dobbiamo mostrare che appoggeremo quelle parole con i fatti. Questo significa investire nel futuro di quelle nazioni che sono sulla strada della transizione alla democrazia, a cominciare dalla Tunisia e dall’Egitto; approfondendo i legami commerciali, aiutandoli a dimostrare che la libertà porta prosperità. Questo significa sostenere i diritti universali sanzionando chi persegue la repressione, rafforzando la società civile, appoggiando i diritti delle minoranze.

Lo facciamo sapendo che l’Occidente deve superare il sospetto e la diffidenza di molti in Medio oriente e Nord Africa - una diffidenza che ha le sue radici in un difficile passato. In Libia sarebbe stato facile, all’inizio della repressione, dire che la cosa non ci riguardava, che la sovranità di una nazione è più importante di una carneficina di civili dentro i suoi confini. Questo argomento per alcuni ha un peso. Noi però siamo diversi. Noi ci assumiamo una responsabilità più ampia. E mentre non possiamo fermare ogni ingiustizia, ci sono circostanze che tagliano la testa alle nostre cautele - quando un leader minaccia di massacrare il suo popolo, e la comunità internazionale è chiamata ad agire. Questo è il motivo per cui abbiamo fermato il massacro in Libia. E non ci fermeremo finché i libici non saranno protetti e l’ombra della tirannia cancellata. Procederemo con umiltà, sapendo che non possiamo dettare noi l’esito finale di ciò che succede fuori dai nostri confini. In fin dei conti, sono i popoli stessi a doversi guadagnare la libertà, essa non può essere imposta dall’esterno. Noi però possiamo e dobbiamo essere al fianco di chi combatte per questo.

(Estratto dal discorso pronunciato ieri dal Presidente degli Stati Uniti a Westminster Hall, Londra)

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/
« Ultima modifica: Settembre 01, 2013, 11:40:56 am da Admin » Registrato
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« Risposta #62 inserito:: Settembre 01, 2013, 11:40:38 am »


La mossa del cavallo di Obama.

Una nuova fase nella sua leadership e nel rapporto tra Usa e resto del mondo

Pubblicato: 31/08/2013 22:33


"Non sono stato eletto per evitare decisioni difficili". È questa frase probabilmente la chiave per capire cosa passa nella testa di un uomo decisivo oggi per gli equilibri del mondo, quel Presidente Obama che ha annunciato di aver deciso l'attacco in Siria. Definendo così forse una nuova fase della sua leadership, sfidando l'isolamento in cui nei giorni scorsi è stato lasciato dai suoi alleati occidentali.

Un isolamento che - anticipiamo - ha rotto, facendo un discorso di guerra in cui ha rovesciato la sua solitudine in un esercizio di leadership, elevando le ragioni della sua decisione dall'intervento specifico su Damasco a una questione di principio più ampia: la sopravvivenza stessa dell'assetto legislativo mondiale.

Un brevissimo discorso (e ancora una volta va segnalato il rapporto inversamente proporzionale nel mondo politico anglosassone fra Potenza e Lunghezza della comunicazione) con la definizione di tre questioni.

La prima, quella del principio sotteso all'intervento. C'è certo una questione umanitaria, ha detto ricordando i morti e i bambini uccisi dal gas, ma al di là della difesa delle vite di innocenti, l'uso del gas pone domande più ampie, rinvia a scenari ben più catastrofici: "Qual è lo scopo del sistema internazionale che abbiamo costruito se il bando dell'uso delle armi chimiche firmato dal 98% delle nazioni del mondo poi non viene fatto rispettare? Non fatevi illusioni: questo atto ha implicazioni più grandi. Se non imponiamo il rispetto degli accordi di fronte ad atti cosi' odiosi, cosa si penserà della nostra volontà e capacità di confrontare tutti coloro che rompono le regole internazionali? Ad esempio governi che scelgono di costruire armi nucleari? Terroristi che intendono usare armi biologiche? Eserciti che commettono genocidi?". È chiaro in questo discorso l'accenno all'Iran, ad Al qaeda. L'esistenza di una minaccia all'Occidente che va ben oltre la Siria è un richiamo cui è difficile per le nazioni occidentali non rispondere .

In questo senso è importante che la seconda questione aperta da Obama sia stato proprio un severo rimprovero delle debolezze dei suoi alleati. L'arma retorica di questo rimprovero è, come si diceva, il ribaltamento della solitudine degli Stati Uniti in manifestazione di leadership.
Sull'Onu in particolare Obama è stato molto duro: "Ho fiducia nelle prove che abbiamo senza dover aspettare I risultati degli ispettori Onu.
E sono perfettamente a mio agio nel procedere senza l'approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che fin qui è stato completamente paralizzato". Da anni non si sentivano in bocca di un presidente democratico critiche così pesanti - quelli repubblicani non hanno invece mai nascosto le loro impazienze nei confronti del Palazzo di Vetro. E in quella che appare come una aggiunta a braccio al discorso ufficiale (dove non ce n'è traccia) ha anche rivelato che molte nazioni che gli hanno detto no, "in privato ci hanno detto di procedere".

La terza questione sollevata dal Presidente è quella della leadership vera e propria: la sua personale e quella degli Stati Uniti.
La scelta di chiedere al Congresso di approvare (o meno) la sua decisione siriana, è stata fatta in quanto "Presidente della più antica democrazia costituzionale del mondo. Ho sempre creduto che il nostro potere è basato non solo sulla nostra forza militare, ma sull'esempio di un governo del popolo, fatto dal popolo, per il popolo." Interessante che per sottolineare questa sua convinzione abbia anche fatto una seconda rivelazione, un piccolo gossip: "Come conseguenza del voto in Inghilterra, molti mi hanno consigliato di non portare la discussione in Congresso", ma " tutto ciò è troppo importante perché venga trattato come un affare corrente".

Infine Obama ha affrontato la domanda che gli viene ripetuta da molte parti: non era stato nominato per finire le guerre dell'era Bush? "So che siete stanchi della guerra" ha detto rivolgendosi direttamente ai cittadini, "ma tutti sappiamo che non ci sono facili vie d'uscita.
E io non sono stato eletto per evitare decisioni difficili". È questa la frase di cui parlavamo all'inizio.

L'intervento è dunque una classica mossa del cavallo che mostra, al di là dell'essere o meno d'accordo con la sua decisione, che il Presidente democratico ha ancora capacità e voglia di essere un leader e di difendere il ruolo degli Stati Uniti.

Da questo discorso in poi, tuttavia, ci sono infinte incognite.

La prima e' quella del congresso: voterà a favore della posizione presidenziale, visto che negli Stati Uniti il consenso a questo intervento militare è bassissimo?

La seconda è quella delle prove. Obama dice di aver fiducia nel dossier del suo governo, ma dove sono le sue prove, e sono davvero convincenti?
Il passaggio e' essenziale.

La terza ha a che fare con l'intervento in sé. La Siria è l'alveare di tutti in conflitti del medioriente, il vaso di Pandora (come spesso viene chiamato) in cui si ritrovano tutte le lacerazioni della regioni. Assad è difeso da Iran e da Hezbollah in Libano. È attaccato dalle monarchie Sunnite del Golfo, che hanno buona responsabilità anche nel chiudere gli occhi su un forte filone quaedista nelle file di coloro che si ribellano a Damasco. La Siria, infine, è confinante con Israele, con cui da anni va avanti una Guerra a bassissima intensità.

Toccare questo alveare, sia pur con solo un piccolo fuoco, un bombardamento limitato nel tempo e nei modi, come Obama promette, può facilmente tramutarsi nella esplosione dello scontro in mille pezzi, un contagio del conflitto di un'area più vasta , inclusa la nostra, sotto forma di terrorismo.

L'obiezione (fatta anche da alcuni ambienti militari americani) a questo intervento Usa ha a che fare con la sua efficacia, con il rapporto fra risposta alle atrocità e pericolo di una accelerazione delle dimensioni stesse della guerra.

Queste immagini drammatiche sono state diffuse dagli attivisti siriani. Mostrano adulti e bambini stesi al suolo, molti senza vita.
Le pubblichiamo in quanto documento della guerra civile che sta dilaniando la Siria.

da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/la-mossa-del-cavallo-di-obama-nuova-leadership_b_3849740.html?utm_hp_ref=italy%3E&ref=HREA-1
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« Risposta #63 inserito:: Settembre 11, 2013, 11:00:08 am »

CRISI SIRIANA

Obama: «Reagire contro le stragi di Assad»

Ma lascia spiraglio: proposta Putin «serve»

Il presidente Usa alla nazione. «Il Paese è stanco delle guerre, il nostro intervento non sarà a tempo indeterminato»


«Se non reagiamo, Assad continuerà ad usare le armi chimiche. E forse altri lo seguiranno. Nell'interesse della sicurezza nazionale degli Stati Uniti bisogna rispondere, servirà da deterrente. Quando si deve fermare l'uccisione di bambini con i gas gli Stati Uniti hanno il dovere di agire»». Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti Barack Obama in un discorso rivolto alla nazione. Determinato a condurre il raid, ma anche a scongiurarlo qualora dalla diplomazia arrivasse una soluzione. Obama, rivendicando l'uso della forza contro Assad, ha infatti chiarito che la decisione verrà discussa al Congresso, anche se dopo aver battuto la strada, appunto, della diplomazia: «Oltre che comandante delle forze armate Usa sono anche il presidente della più antica democrazia costituzionale del mondo: ecco perchè ritengo che la cosa migliore è spostare questa discussione in Congresso. Non schiererò truppe americane in Siria - è stata la solenne promessa fatta in tv -. Il nostro Paese è stanco delle guerre. Sarà un intervento non a tempo indeterminato e mirato per scoraggiare uso di armi chimiche. L'apparato militare americano colpisce forte. Colpiremo forte, dobbiamo scoraggiare Assad dall'uso di armi chimiche».

LA MEDIAZIONE RUSSA: «UTILE» -Quanto alla proposta russa, «è troppo presto per dire quanto avrà successo, ma potrebbe consentire - sostiene Obama - di togliere di mezzo le armi chimiche senza un intervento militare».

TENSIONE ALTA - La tensione sulla Siria resta comunque alta. Damasco infatti ha accettato la proposta russa di mettere le armi chimiche siriane sotto il controllo internazionale. E soprattutto il ministro degli Esteri siriano, Walid Muallem, ha annunciato che il regime è pronto a firmare la Convenzione sulle armi chimiche del 1993, cui la Siria non aveva mai aderito; mostrerà quindi i suoi arsenali e bloccherà la produzione di armi chimiche. Ma la proposta di Mosca «può funzionare solo se gli americani e tutti coloro che li sostengono respingono l'uso della forza», ha detto il presidente russo Putin. Auspicando che la proposta sia «un buon passo verso una soluzione pacifica» della crisi siriana. Intanto il Consiglio di sicurezza Onu ha rinviato la riunione, chiesta da Mosca, prevista per la serata. Il presidente americano Obama, dal canto suo, ha chiesto al Congresso di ritardare il voto di ritardare il voto sull'intervento militare degli Usa in Siria per dare una chance all'opzione diplomatica.

DIPLOMAZIA - La Casa Bianca valuta le proposte, ma ha riferito che i leader di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia preferiscono tutti una soluzione diplomatica della vicenda. Tutti sono d'accordo sulla necessità che la comunità internazionale valuti una «ventaglio completo di risposte». Nel pomeriggio Obama ha parlato al telefono con l'omologo francese Hollande e il premier britannico David Cameron: il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, ha detto che i tre sono d'accordo sul fatto che il Consiglio di sicurezza Onu valuti la proposta della Russia per mettere le armi chimiche siriane sotto controllo internazionale. I leader «hanno parlato della loro preferenza per una soluzione diplomatica ma hanno anche messo in luce l'importanza di continuare a sviluppare un'ampia serie di risposte».

DOMANDE SENZA RISPOSTA - Se da una parte la comunità internazionale plaude la proposta russa perché significherebbe allontanare, almeno momentaneamente, la guerra, dall'altra alcuni si pongono alcune domande sulle ragioni di una decisione simile. La Gran Bretagna prima fra tutte: «Sussistono delle domande serie che richiedono risposte circa la proposta russa sulla consegna di armi chimiche da parte della Siria», ha commentato il primo ministro britannico, David Cameron.

LO SCETTICISMO DI ISRAELE - Dubbi sull'ipotizzato piano di sorveglianza e controllo dell'arsenale di Damasco vengono da Israele. Il governo di Tel Aviv è scettico sulla proposta di mettere le armi chimiche sotto il controllo internazionale e pensa che Damasco possa sfruttarla per «prendere tempo». A dirlo è stato Avigdor Lieberman, presidente della commissione Affari esteri e Difesa del Parlamento israeliano, intervistato da Israel Radio. «Assad sta guadagnando tempo, e molto anche», ha detto l'ex ministro degli Esteri e alleato del premier Netanyahu. Secondo Lieberman, la Siria sta tenendo la situazione in stallo, come l'Iran avrebbe fatto durante i primi negoziati sul nucleare quando affrontava un'offerta di trasferire all'estero le sue riserve di uranio arricchito. Lieberman ha detto che lo Stato ebraico non ha dettagli sull'offerta di Mosca e che non è chiara la logistica di un eventuale trasferimento delle armi nucleari, che secondo la proposta russa sarebbe poi propedeutico a una loro distruzione. Anche il presidente israeliano Shimon Peres si è pronunciato sulla proposta di Mosca, dicendo che i negoziati per il trasferimento delle armi chimiche sarebbero «duri» e che la Siria «non è affidabile».

10 settembre 2013 (modifica il 11 settembre 2013)
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Redazione Online

da - http://www.corriere.it/esteri/13_settembre_10/siria-russia-risoluzione_efbb66ce-19fd-11e3-bad9-e9f14375e84c.shtml
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« Risposta #64 inserito:: Marzo 29, 2014, 11:22:41 am »

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Obama: “Su Difesa si può risparmiare. Ma Ue spende poco rispetto a Usa”
Incontro a Villa Serena tra il presidente americano e Renzi: "Gli americani spendono più del 3% del Pil, l'Europa l'1%". Il presidente del Consiglio: "Nel rispetto degli accordi verificheremo i budget". Ma il capo della Casa Bianca sostiene le riforme del premier: "Sa cosa fare, sono rimasto colpito dalla sua visione. E il dibattito europeo tra crescita e austerity è sterile"

di Redazione Il Fatto Quotidiano | 27 marzo 2014

Crisi, crescita, occupazione, austerity, politica estera. Ma l’incontro tra il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il presidente degli Stati Uniti Barack Obama è sinonimo soprattutto di difesa.  Il gap tra le spese di difesa Usa ed europee in seno alla Nato “è diventato troppo significativo”, ha scandito Obama, secondo cui ognuno deve farsi carico della propria parte di fardello. “Non ci può essere una situazione in cui gli Usa spendono più del 3% del loro Pil nella difesa, gran parte concentrato in Europa” mentre “l’Europa spende l’1%: il divario è troppo grande”, “siamo una partnership nella Nato” e bisogna “fare in modo che tutti paghino la giusta quota”, ha spiegato il presidente Usa. Dall’altra parte, però, “negli Usa abbiamo ridotto le spese per la difesa – ha aggiunto il capo della Casa Bianca rispondendo a una domanda sui tagli dell’Italia – Riconosco che in Europa, ne ho parlato con Napolitano e Renzi, ci sono opportunità per una maggiore efficienza e rendimento”. E’ possibile avere risparmi anche nel settore della Difesa, ma “c’è un certo impegno irriducibile che i Paesi devono avere se i Paesi vogliono essere seri nell’alleanza Nato e nella Difesa”. E Renzi in qualche modo conferma: “Ha ragione Obama quando dice che la libertà non è gratis – dichiara il presidente del Consiglio – L’Italia ha sempre fatto la sua parte consapevole delle proprie forze. Il tema dell’efficienza dei costi della pubblica amministrazione e della difesa sono sotto gli occhi di tutti e nel rispetto della collaborazione provvederemo a verificare i nostri budget”.

Ad ogni modo Italia e Stati Uniti hanno confermato di avere una linea unitaria sulla crisi ucraina. “A Bruxelles abbiamo condiviso la dura e forte protesta per le scelte contro il diritto internazionale compiute da Russia” ha detto Renzi. ”Continuiamo a sperare – ha aggiunto Obama – che la Russia attraversi la porta della diplomazia e collabori con tutti noi per risolvere la questione ucraina in modo pacifico”.

Renzi: “Ora il Yes we can vale per noi”
“Tutti i giornalisti italiani sanno che Obama non solo è il presidente Usa: per me e la mia squadra è fonte di ispirazione” ha esordito Renzi dopo l’incontro con il presidente Usa Barack Obama a Villa Madama. ”Il dialogo di oggi conferma la grande amicizia e partnership” tra Italia e Usa che d’altra parte hanno “valori comuni”, ha ribadito Renzi. Secondo il capo del governo la sfida lanciata da Obama alle relazioni tra Ue e Usa “è affascinante”. La sfida per l’esecutivo, ha assicurato il presidente del Consiglio, è cambiare l’Italia per cambiare l’Europa che non dev’essere solo una terra di diritti, libertà e pace, ma anche “di crescita e occupazione”. ”I nostri nonni – ha ricordato Renzi – hanno combattuto per l’Europa, gli Usa hanno combattuto per salvare la democrazia in Europa. Mia mamma piangeva davanti alle immagini del crollo del muro di Berlino. Serve un percorso di unificazione dell’Europa in cui l’Europa sia terra di cooperazione ma anche di crescita e occupazione”. La visita di Obama, insiste Renzi, “non è solo un gesto simbolico, ma un incoraggiamento”. Possono essere gli Stati Uniti un modello? “Certo – risponde Renzi – Abbiamo chiamato Jobs Act un percorso per restituire spazio e credibilità per i giovani che oggi sono disoccupati. Ma quello che è fondamentale è che Italia faccia il proprio compito, dia corpo a riforme strutturali che aspettiamo da 20 anni: su questo si gioca la nostra credibilità”. Tale è l’ispirazione, in ogni caso, che la visita di Obama, dice il presidente del Consiglio, è un “appuntamento molto importante per nostro governo. Quel messaggio che ha caratterizzato la campagna di Obama, ‘Yes we can‘, oggi vale anche per noi in Italia”. ” L’Italia – ribadisce – non ha alibi, agli italiani dico: non cerchiamo scuse, dobbiamo cambiare noi stessi”.

Obama: “Italia fortunata con Napolitano. Renzi? Colpito dalla sua visione”
Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha cominciato il suo intervento con un saluto in italiano (“Buon pomeriggio”) e esprimendo la gioia dell’incontro con Papa Francesco e con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (con il quale Obama ha un rapporto stretto da tempo): “L’Italia è fortunata ad avere un uomo di Stato così forte, che aiuta il Paese in momenti così difficili” ha detto il presidente americano. Obama si dice ansioso di accogliere Renzi alla Casa Bianca. ”Avevo già conosciuto Renzi quando era sindaco, spero di accoglierlo presto negli States come presidente del Consiglio. Italia e Usa condividono legami molto forti, che riguardano la famiglia e la storia – dichiara Obama – Gli Usa sono la chiave di volta dei rapporti tra Ue e resto del mondo, sono colpito dalla visione che Renzi porta con sé in questo nuovo incarico. Credo che questo sarà positivo per l’Italia e per l’Europa tutta. È una nuova generazione di persone che governano l’Italia”. “La crescita europea – continua Obama – è ancora molto lenta e il tasso di disoccupazione ancora molto alto. Ciascun Paese dovrà affrontare diverse questioni e Renzi lo sa. Penso che Renzi abbia identificato alcune delle riforme strutturali necessarie” per far andare avanti l’Italia e farla uscire dalla crisi. ”Nessuno sa meglio di Renzi – fa parte della sua missione – che deve rinvigorire l’economia italiana. Ciascun paese ha pregi e difetti in economia e Renzi ha identificato delle riforme strutturali che l’Italia deve compiere. Ho fiducia in lui, sarà in grado di portare avanti l’Italia”.

Il presidente Usa: “Crescita o austerity? Dibattito sterile: più si cresce, più conti in ordine”
E anche Obama tifa per la crescita: il dibattito in Europa tra “crescita e austerity è un dibattito sterile – dice – le finanze pubbliche devono essere in ordine ma più si cresce e più i conti sono in ordine”. “Chi gode della globalizzazione è ai vertici – precisa il capo della Casa Bianca- ma chi è in mezzo ha sempre più dei problemi. Dobbiamo raddoppiare gli sforzi per educare i giovani e fornire competenza per il lavoro. E’ fondamentale sostenere i giovani e i disoccupati e so che il governo italiano lo sta facendo”.

Da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/03/27/renzi-a-obama-per-me-e-per-la-mia-squadra-e-fonte-di-ispirazione/928759/
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« Risposta #65 inserito:: Marzo 29, 2014, 12:15:38 pm »

Esteri
28/03/2014 -  Al Quirinale

Napolitano a Obama: “La Russia è importante bisogna coinvolgerla”
Quinto incontro dal 2009, intesa su occupazione e difesa.
Il presidente americano elogia la nostra leadership in Nord Africa



È presto per sapere se e quale sarà il trade-off, ovvero la compensazione per l’Italia a fronte della nomina dell’ex premier laburista Stoltenberg alla Nato - che è ormai data per certa - o se vi sarà una (ulteriore) diluizione nel tempo sugli ordinativi degli F35, tutte cose sulle quali lo scambio di vedute è avvenuto in un colloquio personale e diretto tra Giorgio Napolitano e Barack Obama. In quei venti minuti nello Studio alla Vetrata il presidente italiano ha avuto modo di illustrare al presidente americano - che lo stima pubblicamente per saggezza e statura politica - le «difficoltà oggettive» insite nei limiti al potere di grazia presidenziale, oltre che nella situazione assai complessa nella politica italiana stessa e nella pubblica opinione. Insomma, difficile se non impossibile cancellare la condanna all’ ex capo Cia Robert Seldon Lady, ultimo dei condannati per la rendition di Abu Omar, il cui nome però pare non sia stato neanche pronunciato, né alla Vetrata né a colazione nel sontuoso Salone degli Specchi.

Venti minuti faccia a faccia, quasi 40 con le delegazioni, e oltre tre quarti d’ora a tavola, c’è stato tempo per dispiegare una conversazione a tutto campo, in un clima che uno dei testimoni oculari definisce «di grande e cordiale reciproca comprensione». Al quinto incontro, ormai possono dire di conoscersi bene. Al punto che Obama può formulare con calore i convenevoli anglosassoni, il «nice to see you again» di saluto con un classico riferimento meteorologico, «Roma è bella anche con la pioggia». Poi si è entrati subito nel vivo.

Si sa da tempo che in un mondo ormai multipolare gli americani ritengono di non dover più giocare il ruolo di tutori dell’ordine mondiale, e per questo al Colle come pubblicamente il presidente Usa ha ripetuto che «gli Stati Uniti non possono spendere per la difesa il 3 per cento del Pil, mentre i Paesi europei si fermano sotto l’un per cento». Ma proprio per questo, quando s’è affrontato il tema della crisi ucraina, incastonato in un discorso sulla necessità dell’impegno congiunto e transatlantico per far fronte alle molteplici sfide, Napolitano ha esortato nel suo perfetto inglese a guardare oltre la crisi nei rapporti con Mosca, un Paese «influente in molti scenari», ovvero nell’intero Medio Oriente a cominciare dall’Iran e dalla Siria. «Non dobbiamo perdere la prospettiva, che si va coltivando da anni, di coinvolgere e responsabilizzare la Russia, nel confronto con le molteplici sfide globali e le minacce alla sicurezza comune che vengono da più fronti, dal terrorismo internazionale alla non-proliferazione nucleare», ha scandito Napolitano racchiudendo in una frase sola scenari geopolitici, e la storia dell’avvicinamento a Mosca che data ormai dal primo G8 del 1998.

L’Europa «deve farsi maggior carico di se stessa» specie ora che la fase peggiore sembra passata, ha detto Obama, «occorre mettere l’accento sulla crescita». Napolitano ha ribattuto segnalando il contributo dell’Europa alla ripresa economica generale e al superamento della crisi, aggiungendo che adesso (e vale soprattutto per l’Italia) occorre tener presente «le esperienze e i risultati ottenuti dagli Stati Uniti». Il presidente americano ha ringraziato il nostro Paese per gli sforzi compiuti in Nord Africa, a cominciare dalla Libia, e Napolitano ribadito che l’Italia ha un forte impegno e un ruolo prioritario nella costruzione di uno stabile equilibrio politico e statuale di Tripoli. Comuni le preoccupazioni per la situazione in Egitto, e una speranza per la Tunisia che, è l’analisi del presidente Usa e non solo, può essere d’esempio nel virtuoso cammino intrapreso sulla via della democrazia, ben impostato grazie alla nuova Costituzione che riconosce i diritti civili e anche quelli delle donne. Alla fine, si sono salutati. Come due amici di vecchia data. E chissà se Obama ha trovato con Napolitano quell’«empatia» che a Bruxelles aveva indicato come via maestra per evitare le guerre col vicino, sia esso un Paese o un semplice concittadino a rischio povertà.

Da - http://lastampa.it/2014/03/28/esteri/napolitano-a-obama-la-russia-importante-bisogna-coinvolgerla-6mDB0Ew8zHZlySOPKZQWPJ/pagina.html
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« Risposta #66 inserito:: Ottobre 22, 2014, 06:03:32 pm »

Diplomazie

Se Barack Obama è un presidente divenuto «paria»
Di Massimo Gaggi

Non è la prima volta che un presidente a metà del suo mandato alla Casa Bianca soffre di un drammatico calo della popolarità. Successe perfino a Bill Clinton. George Bush otto anni fa risolse il problema limitando le sue apparizioni a qualche cena per la raccolta di fondi elettorali. Fu sbeffeggiato dalla stampa perché i candidati repubblicani alle elezioni di «mid term» non ne volevano sapere di dividere il palco dei loro comizi col presidente. Nessuno, fino a qualche tempo fa, immaginava che qualcosa del genere potesse avvenire anche con un Barack Obama. Invece è successo: anche lui una presenza ingombrante nella difficilissima campagna elettorale dei democratici: una sconfitta già messa in conto al presidente che aveva suscitato più speranze e che, quindi, è diventato il catalizzatore di tutte le delusioni. Ma Barack, al quale non fa difetto l’orgoglio, non ha accettato il ruolo di presidente invisibile. Dopo aver limitato per molte settimane la sua attività di partito alle cene per il «fund raising», ha voluto provare a smentire i suoi critici presentandosi a qualche comizio. I risultati sono stati talmente deludenti da spingere perfino un giornale «amico» come il Washington Post a parlare in un editoriale di «presidente paria». Il giornale ironizza su un presidente invisibile e intoccabile che viaggia su un visibilissimo jumbo jet.

Che fare se Barack ha indici di gradimento molto bassi soprattutto negli Stati dove i conservatori sono più forti? Gli strateghi hanno deciso di mandare i personaggi più popolari - Michelle Obama, il vicepresidente Joe Biden e anche Bill Clinton - nei collegi «di confine», dove la partita elettorale è ancora aperta. L’«onore» di condividere il palco col presidente è stato riservato a candidati di collegi sicuri, coi democratici in vantaggio di almeno dieci punti nei sondaggi: un comizio a Chicago, nel suo Stato, l’Illinois, e un altro in Maryland, alle porte di Washington. Qui nel 2012 Obama prese il 90 per cento dei voti. Spalti gremiti, ma l’iniziale calore svanisce nelle pieghe di un discorso notarile. La gente comincia a defluire quando Barack non è ancora a metà del suo intervento. Un clima da sconfitta annunciata.

22 ottobre 2014 | 10:45
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_ottobre_22/se-barack-obama-presidente-divenuto-paria-8d95de02-59c6-11e4-b202-0db625c2538c.shtml
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« Risposta #67 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:42:52 am »

L’intervista

«Il freddo Barack dopo la sberla saprà risorgere»
Lo scrittore Jay McInerney: il successo di «House of Cards» prova il cinismo verso i palazzi del potere. E oggi i «cattivi» al comando sono i repubblicani

Di Alessandra Farkas, corrispondente da New York
La conferenza stampa di Barack Obama dopo le elezioni di Midterm (Reuters) La conferenza stampa di Barack Obama dopo le elezioni di Midterm (Reuters)

«Queste elezioni di Midterm vanno lette come un sonoro schiaffo in faccia ad Obama - spiega Jay McInerney -. Si è trattato di un referendum sul presidente e lui ha perso perché oggi è estremamente impopolare». All’indomani della riconquista di Camera e Senato da parte del partito repubblicano, l’autore di «Le Mille Luci di New York» e «L’ultimo Scapolo» si riscopre a criticare un presidente «che ho votato due volte e per cui continuo a tifare».

Cosa c’è dietro quella che i media hanno definito «un’ondata di rabbia»?
«Anche i candidati democratici sono fuggiti da lui come fosse un appestato. C’è che l’economia si è ripresa ma non quanto la classe medio-bassa sperava. E poi i repubblicani hanno sfruttato a loro vantaggio le crisi internazionali, da Ebola a Isis, incolpando Obama di non averle sapute prevenire e gestire. Spesso i presidenti vengono colpevolizzati per circostanze fuori dal loro controllo solo perché sono i politici più potenti di tutti. Il mondo sta diventando sempre più pericoloso e insicuro e quando ha paura la gente cerca un capro espiatorio. Proprio la politica estera, che tradizionalmente non entra nelle elezioni di Midterm, ha svolto un ruolo insolitamente di primo piano».

Da Dwight Eisenhower a Ronald Reagan e da Bill Clinton a George W. Bush, il partito di ogni presidente al secondo mandato prende sempre la batosta alle elezioni di Midterm .
«È una costante della politica americana perché dopo sei anni gli elettori cominciano a stancarsi del presidente, a quel punto in odore di monarca. Ma nel caso specifico credo sia intervenuto anche il fattore razza. Una percentuale non indifferente dell’elettorato è razzista e fin dall’inizio non c’è stato nulla che egli potesse dire o fare per cambiare l’innato disprezzo di questi individui. I media americani e lo stesso Obama non amano toccare questo tasto e ciò secondo me è un errore perché non risolvi nulla nascondendo il problema sotto il tappeto».

Gli errori di Obama e del Partito democratico?
«Obama non è riuscito a comunicare agli elettori i successi della sua amministrazione. La sua proverbiale freddezza l’ha penalizzato anche coi membri del Congresso perché sin dall’inizio egli si è rifiutato di adattarsi alla politica delle strette di mano e dei rapporti personali con deputati e senatori con cui è costretto a lavorare. Se possedesse doti umane e comunicative maggiori forse oggi non si troverebbe in questo pantano».

Che cosa l’ha sorpresa di più in queste elezioni?
«Il fatto che, dopo essersi battuti per anni contro l’Obamacare, i repubblicani adesso non ne parlino più perché hanno capito che funziona ed è popolarissima tra gli elettori. La legge passerà alla storia come il suo traguardo più importante, che ha sottratto l’America all’imbarazzo di essere l’unica grande democrazia dove solo i ricchi potevano curarsi».

Per cos’altro sarà ricordato?
«Per averci portato fuori dall’Iraq e dall’Afghanistan e non aver iniziato nuove guerre. Non è stato un grande presidente ma ha ancora tempo per diventarlo».

Non crede che sia ormai anche lui un’anatra zoppa?
«Obama continuerà a usare l’arma dell’executive action per varare nei prossimi mesi una delle più importanti riforme dell’immigrazione della nostra storia. Ora che hanno la maggioranza, i repubblicani saranno costretti a lavorare con lui perché se continueranno nell’ostruzionismo alle prossime elezioni presidenziali gli elettori li puniranno».

Se la sente di fare previsioni sul 2016?
«Quest’ultima sconfitta democratica finirà per aiutare Hillary Clinton perché ogni minimo passo falso del Congresso repubblicano aiuterà la sua causa. L’enorme popolarità della serie House of Cards testimonia del cinismo diffuso verso i palazzi del potere. Dove oggi i “cattivi” che comandano sono i repubblicani» .

@afarkasny
6 novembre 2014 | 07:43
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_novembre_06/freddo-barack-la-sberla-sapra-risorgere-764b8d14-657e-11e4-b6fa-49c6569d98de.shtml
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« Risposta #68 inserito:: Novembre 12, 2014, 04:08:18 pm »

La svolta arriva sul clima
Intesa storica tra Cina e America
Dopo 17 anni di veti incrociati, Pechino e Washington pronti ad annunciare uno storico accordo. Sono i due Paesi che producono più emissioni al mondo

Di Massimo Gaggi, inviato a Pechino

PECHINO «Vedete che bel cielo blu? Purtroppo è blu Apec: è provvisorio, svanirà dopo il vertice». È lo stesso presidente Xi Jinping a fare dell’amara ironia sull’inquinamento ormai soffocante prodotto dalla rapida industrializzazione cinese: smog solo momentaneamente svanito perché una settimana prima del vertice Asia-Pacifico il governo ha ordinato il blocco di fabbriche e centrali elettriche nel raggio di 200 chilometri da Pechino e ha ridotto drasticamente il traffico chiudendo scuole e uffici pubblici. Così ieri - oltre a discutere di sviluppo dei commerci, del ruolo geopolitico degli Stati Uniti in Estremo Oriente e delle cose da fare per evitare che le frizioni tra la superpotenza americana e la nuova potenza cinese sfocino in un’altra guerra fredda - Barack Obama e Xi Jinping hanno parlato a lungo proprio di inquinamento e mutamenti climatici arrivando a un accordo «storico» che sarà quasi certamente annunciato oggi. Lo hanno fatto prima nella passeggiata fuori programma nella Città Proibita, accompagnati solo dai loro interpreti, poi nella cena di Stato, nella residenza presidenziale di Zhongnanhai.

Ieri a Pechino è stata la giornata delle intese commerciali: le promesse di ampliare gli accordi di libero scambio più volte formulate in questi anni in sede Apec e ribadite ieri con enfasi dalla presidenza cinese, ma soprattutto l’accordo Usa-Cina per la cancellazione dei dazi che gravano sui prodotti di tecnologia digitale avanzata: dai sistemi basati sul Gps ai semiconduttori, alle apparecchiature biomedicali come Tac, risonanze magnetiche e macchine per la radioterapia anticancro. Oggi - insieme agli approfondimenti delle questioni politiche come il ruolo della Cina sul nucleare iraniano, il suo impegno nella lotta contro i terroristi dell’Isis, la mobilitazione contro Ebola - sarà il giorno dei patti sull’ambiente tra i due Paesi che di gran lunga producono più emissioni inquinanti al mondo. Per anni la firma di un nuovo protocollo paragonabile a quello siglato a Kyoto ormai 17 anni fa è stata resa impossibile dai veti incrociati: agli Usa contrari ad assumere impegni non condivisi anche dalle nuove potenze emergenti (e assai inquinanti), Pechino replicava che un Paese ancora in via di sviluppo, con grosse sacche di povertà, non può essere assoggettato agli stessi vincoli imposti alle nazioni industrializzate della parte più ricca del mondo.

Una rigidità che si è attenuata di recente: la Cina ha capito che deve cambiare modello di sviluppo non per fare un favore al mondo industrializzato ma perché l’intero Paese sta diventando una camera a gas, mentre Obama - che sull’ambiente ha un nervo scoperto fin dal fallimento della conferenza di Copenaghen del 2009, il suo primo insuccesso a livello internazionale - vorrebbe chiudere la sua esperienza alla Casa Bianca firmando un nuovo protocollo sul clima alla conferenza mondiale che l’Onu terrà l’anno prossimo a Parigi.

L’incontro bilaterale a sorpresa di ieri alla Città Proibita e la cena-fiume durata due ore più del previsto fanno ben sperare per intese tra le due grandi potenze più ampie di quelle ipotizzate alla vigilia. Accordi in campo militare per evitare che incidenti isolati nei territori contesi tra Pechino e altri Paesi dell’area possano sfociare in conflitti.


Ma anche un maggior coinvolgimento del governo di Pechino nella gestione delle grandi questioni mondiali, dall’emergenza per Ebola alla lotta contro i terroristi dell’Isis, alla pressione sull’Iran perché rinunci a ogni programma nucleare militare. Un rasserenamento dei rapporti tra le due capitali annunciato ieri mattina dall’accordo per l’eliminazione delle barriere tariffarie sull’hi-tech. L’ultima intesa in sede Wto risale a 16 anni fa, quando molte delle tecnologie oggi più diffuse nemmeno esistevano. Ma tutti i tentativi di aggiornarne i contenuti erano fin qui naufragati. Poi, nei giorni scorsi, la svolta che ora dovrebbe rendere possibile un nuovo accordo nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del Commercio.

Mentre sul libero scambio gli Usa, pur andando avanti col loro progetto (l’alleanza Tpp che esclude la Cina) hanno deciso di non ostacolare il progetto «alternativo» sostenuto da Pechino, il Ftaap, che, dopo otto anni di negoziati, è ancora a livello di studio di fattibilità.

12 novembre 2014 | 07:15
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Da - http://www.corriere.it/esteri/14_novembre_12/svolta-arriva-clima-intesa-storica-cina-america-842c4ed8-6a32-11e4-bebe-52d388825827.shtml
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« Risposta #69 inserito:: Marzo 10, 2016, 06:00:48 pm »

Libia, il bilancio di Obama: "Un errore sostenere intervento Nato nel 2011"
Lunga intervista del presidente Usa a The Atlantic: "Ho avuto troppa fiducia che europei, vista vicinanza, seguissero follow-up".
Definisce gli alleati 'free rider', opportunisti.
Critica Sarkozy, Cameron, sauditi. Ma si dice "orgoglioso" di aver fatto marcia indietro sui raid in Siria per punire l'uso di armi chimiche di Assad

10 marzo 2016
   
WASHINGTON - "Quando mi guardo indietro e mi chiedo cosa sia stato fatto di sbagliato - ha spiegato Obama - mi posso criticare per il fatto di avere avuto troppa fiducia nel fatto che gli europei, vista la vicinanza con la Libia, sia sarebbero impegnati di più con il follow-up". Con il Pentagono che prepara i piani per un nuovo intervento in Libia, Barack Obama ammette che il suo sostegno all'intervento della Nato nel 2011 fu "un errore", dovuto in parte alla sua errata convinzione che Francia e Gran Bretagna avrebbero sostenuto un peso maggiore dell'operazione.

"Non ha funzionato" e "nonostante tutto quello che si è fatto, la Libia ora è nel caos", ha detto il presidente in una lunghissima intervista sulla sua politica estera al The Atlantic, che la titola 'The Obama doctrine', durante la quale bolla gli alleati, dei paesi del Golfo ma anche europei, come "opportunisti". E fa il nome del presidente Nicolas Sarkozy "che voleva vantarsi di tutti gli aerei abbattuti nella campagna, nonostante il fatto che avessimo distrutto noi tutte le difese aeree".

Poi l'affondo, anche questo andava bene perché, continua il presidente americano "permise di acquistare il coinvolgimento della Francia in modo che fosse meno costoso e rischioso per noi". Obama non esita poi a coinvolgere nelle critiche anche David Cameron che dopo l'avvio dell'intervento perse interesse, "distratto da una serie di altre questioni".

Il primo ministro britannico David Cameron e Barack Obama, la foto è tratta dall'intervista dell'Atlantic (Pete Souza / White House)

Un'intervista lunga in cui Obama si confida con Jeffrey Goldberg, autore dell'articolo, e racconta come la sua amministrazione fosse spaccata sull'intervento - con Hillary Clinton, bisogna sottolinearlo, alla guida dei falchi - e come vi fossero pressioni da parte dell'Europa e dai paesi del Golfo all'azione, come da sempre gli alleati fanno con Washington. "E' ormai diventata un'abitudine negli ultimi decenni - si lamenta - che in queste circostanze la gente ci spinga ad agire ma non mostra nessuna intenzione di rischiare nulla nel gioco".

Sono "opportunisti", "free rider", cioè quelli che viaggiano gratis, e rivolge anche un serio monito all'Arabia Saudita, alleato storico che ha duramente criticato l'accordo nucleare con Teheran, sottolineando come debba imparare a "dividere" la regione con l'arcinemico iraniano con il quale condivide la responsabilità di attizzare i conflitti in Siria, Iraq e Yemen. I sauditi "devono trovare un modo efficace di condividere il vicinato ed istituire una pace fredda" ha poi aggiunto, spiegando che se gli Usa dovessero sostenerli acriticamente contro l'Iran "questo significherebbe che noi inizieremmo ad usare i nostri interventi e la forza militare per azioni punitive, ma questo non sarebbe nell'interesse degli Usa né del Medio Oriente".

In compenso Obama si dice "orgoglioso" della decisione presa nell'agosto del 2013 di fare marcia indietro, quando ormai le macchine della guerra e del consenso si erano messe in moto, sulla decisione di avviare i raid aerei in Siria per punire l'utilizzo di armi chimiche da parte di Bashar al-Assad. "Sapevo che premere il pulsante di pausa per me avrebbe avuto un costo politico, ma sono riuscito a svincolarmi dalle pressioni e pensare in modo autonomo a quale fosse l'interesse dell'America, non solo rispetto alla Siria ma anche rispetto alla democrazia".

"E' stata una decisione difficile, e credo che alla fine è stata la decisione giusta", ha detto ancora il presidente difendendo la scelta di non intervenire allora contro Assad, criticata da molti e considerata il peccato all'origine del baratro in cui ora è precipitata la Siria. L'articolo sulla politica estera del presidente uscente ricostruisce i retroscena di quella guerra mancata, anche attraverso la voce altri membri dell'amministrazione, a partire da John Kerry che il 30 agosto aveva pronunciato un discorso che suonò come un'effettiva dichiarazione di guerra. Il segretario di Stato ha confidato a Goldberg che era sicuro che i raid sarebbero scattati il giorno dopo.

Invece il presidente - che si sentiva di "andare verso una trappola, preparata da alleati ed avversari e dal consenso sulle aspettative che si hanno riguardo a quello che il presidente americano deve fare", scrive Goldberg - al suo consiglio di guerra riunito annunciò, tra lo stupore di tutti, che non ci sarebbe stato nessun raid il giorno successivo ma che voleva chiedere un voto al Congresso sul raid.

La decisione di Obama provocò immediate e durissime reazioni sia da parte di alleati sia interni che esterni. Hillary Clinton - possibile prossimo presidente degli Stati Uniti che aveva avuto modo di mostrare da segretario di Stato in Libia la sua filosofia interventista - nel 2014, sempre a The Atlantic, ha durante criticato quella scelta: "Il non aver costruito una credibile forza in aiuto delle persone che originarono le proteste contro Assad ha lasciato un grande vuoto che ora stanno riempendo i jihadisti".
Libia, il bilancio di Obama: "Un errore sostenere intervento Nato nel 2011"

Ma oggi Obama difende con vigore quella decisione di ribellarsi a quello che chiama "il libro delle regole di Washington, che prevede risposte a diversi eventi, risposte che tendono ad essere militarizzate. Quando l'America è minacciata direttamente, il libro funziona, ma può anche diventare una trappola che ti porta a decisioni sbagliate. Nel mezzo di una sfida internazionale come la Siria - ha concluso - viene criticato severamente se non segui le regole, anche se vi sono buone ragioni per farlo".

E le ragioni per Obama erano gli errori commessi dal suo predecessore con il suo interventismo e la sua democrazia esportata in Medio Oriente, ricorda Goldberg che rivela anche come Obama consideri il primo compito di un presidente nell'arena internazionale del post Bush "don't do stupid shit", non fare cose stupide
 
© Riproduzione riservata
10 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/03/10/news/obama_raid_nato_errore-135185099/?ref=HREC1-1
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« Risposta #70 inserito:: Maggio 09, 2016, 05:56:11 pm »

Obama come Steva Jobs: il suo discorso agli studenti della Howard University è memorabile

L'Huffington Post | Di Redazione

Sul pulpito, con la toga. Si presenta così Barack Obama agli studenti della Howard University per tenere il discorso di fronte a una platea di 15mila laureati. Un discorso toccante, politico in cui il Presidente ha ricordato agli studenti di abbracciare il loro patrimonio afro-americano: "Create il vostro stile, impostate il vostro standard di bellezza, abbracciate la vostra sessualità". Obama ha ricordato i passi avanti che sono stati fatti in termini di superamento dei pregiudizi in fatto di razza e colore della pelle, ma ha anche esortato gli studenti a non abbassare la guardia e a continuare a lottare.

"La passione da sola non basta, serve una strategia", ha spiegato il Presidente. E questa strategia per il cambiamento passa attraverso il voto: "È così che noi cambiamo la nostra politica, eleggendo persone a tutti i livelli, che ci rappresentano e sono responsabili per noi" ha aggiunto, sottolineando che "quando noi non votiamo noi, buttiamo via il nostro potere. Per questo vi invito a votare non una volta, ma tutte le volte".

    Poi rivolgendosi direttamente ai ragazzi un incoraggiamento per la vita: "Quando il viaggio sembra troppo duro e quando un coro di cinici vi darà che siete sciocchi a continuare a credere in qualcosa, o che non riuscirete a fare qualcosa e dovreste rinunciare, che fareste bene ad accontentarvi, potreste ripetere a voi stessi la frase che mi ha accompagnato in questi ultimi 8 anni: Yes We Can".

Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/05/08/obama-jobs-discorso-studenti-howard-university_n_9865176.html?ncid=fcbklnkithpmg00000001
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« Risposta #71 inserito:: Gennaio 03, 2017, 09:02:59 pm »

All'agnello Obama crescono i denti da lupo

Pubblicato: 30/12/2016 19:31 CET Aggiornato: 30/12/2016 19:44 CET OBAMA

La guerra fra poteri si riaccende nel cuore degli Stati Uniti.

Scrivo "si riaccende" perché l'attacco di Obama a Trump, via Putin, il tentativo dell'ormai ex Presidente di condizionare le decisioni prossime del nuovo Presidente, e, in prospettiva, - perché non immaginarlo? - preparare il terreno per un impeachment, può sorprendere solo chi dell'America ha, o preferisce avere, una visione propagandistica. E può sorprendere solo chi del Presidente Obama ha sempre preferito coltivare una immagine da santino.

In realtà un robusto, spesso pericoloso, conflitto interno è parte sostanziale di una democrazia come quella americana che è sempre stato un sistema attraversato da complotti, violenze, e rese dei conti. Basterà qui ricordare i ben 4 presidenti uccisi, a partire da Abraham Lincoln nel 1865 e arrivando a John F. Kennedy a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963.

Basterà qui ricordare il Maccartismo, le schedature dell'Fbi, le operazioni segrete contro i nemici Usa, le manovre intorno al Vietnam, l'impeachment di Nixon, lo scandalo Contras, le guerre di spie di epoca reaganiana (che fanno sembrare sciocchezze le espulsioni di Obama oggi) gli scandali sessuali dei Clinton e le gigantesche false verità raccontate all'Onu da Bush.

Vitale e fetida, la democrazia americana non ha mai perso lo spirito animale che l'ha creata e sostenuta in quasi due secoli di incontrastata ascesa nel mondo. Un vitalismo spesso trasformato nella impeccabile foto di un perfetto sistema di pesi e contrappesi. Immagine popolare ma creazione, più che di verità, di una poderosa macchina produttrice di mitologia sul destino speciale americano. Macchina essenziale dello sviluppo americano, ben anteriore ad Hollywood, se è vero che alcuni dei testi fondamentali del mito americano (ad Harvard in primis) sono libri come quello di James Fenimore Cooper, The Prairie, del 1827, o Walden di Henry David Thoreau, del 1847.

Nulla di nuovo dunque a Washington. Salvo, forse, la sorpresa di vedere crescere i denti da lupo all'agnello Obama.

Minacciato nella sua eredità, nel significato stesso della sua presidenza, ha tirato fuori le verità che albergavano evidentemente nel suo cuore - e ha finalmente parlato di razzismo, di fine della speranza, ha fatto all'Onu un passo contro Israele, ha inviato, via Kerry, una denuncia dell'espansionismo israeliano in Cisgiordania accusando direttamente Israele di essere una minaccia per la pace. Ha poi mobilitato la Cia, con il suo rapporto sulle ingerenze russe nelle elezioni Usa, e l'Fbi sulle operazioni di hackeraggio di Putin, fino alla espulsione di 35 supposte spie di Mosca.

In tutti questi passaggi si legge lo scopo evidente di costruire un muro intorno a Trump, precipitando situazioni di fatto che il prossimo presidente dovrà platealmente cancellare. Sono mosse intese anche a raccogliere e galvanizzare lo scontento delle molte istituzioni che saranno fatte fuori dalla politica di Trump: si attendono pulizie generali dentro la Cia, dentro l'Fbi, la dismissione di progetti militari contro Putin in Europa e Medio Oriente, in Africa. Sono mosse di posizionamento di una guerra interna il cui profilo è già chiaro.

Cade così la limata, lisciata versione del presidente " buono" Obama. La novità che si segnala in questi giorni è proprio la caduta della convenzione rassicurante, alcuni preferirebbero dire "buonista", del potere Usa che è sembrata prevalente in questi ultimi otto anni della amministrazione democratica. Una ammissione tardiva, ma non meno feroce perché tale, dello scontro di potere che si è mosso sotto le acque apparentemente tranquille dell'amministrazione Obama. Otto anni finiti, non a caso, con la vittoria di Donald Trump, il cui successo è stato inversamente proporzionale allo sfaldamento politico vissuto dall'interno del mondo democratico perfetto degli Obama.

Anche in questo senso, l'elezione di Donald Trump ha messo allo scoperto una parte di verità sugli Stati Uniti. Rompendo i luoghi comuni, le banalità, ed esponendo invece l'asprezza delle divisioni interne del Paese su praticamente ogni tema, da Israele, al petrolio, al mondo musulmano, al nazionalismo economico, all'immigrazione, alle alleanze di mercato, fino a, e non ultimo, il riscaldamento globale.

La divisione che attraversa ora l'America non è questione di politica o di ideologie. Riguarda il giudizio su cosa è il mondo in cui viviamo, e riflette opinioni e divisioni che attraversano tutti i nostri paesi occidentali. Per questo, la lotta fra democratici e repubblicani nei prossimi anni sarà in grado di imbastardirsi al suo interno a un livello che farà apparire ogni precedente un gioco da gentiluomini.

Ma c'è una differenza fra il conflitto interno agli Usa oggi e quelli del passato. L'America è entrata in una fase di lotta intestina ogni volta che il suo destino dominante è stato minacciato da una sconfitta. La crisi interna dei diritti civili, la crisi internazionale del Vietnam, e poi dell'Iran, la crisi petrolifera degli anni settanta. E anche oggi vi si ritrova la stessa traccia di debolezza.

La crisi odierna ha però un contesto diverso. L'America di Trump si affaccia su un mondo in cui il suo potere di controllo non è solo debole, è anche già ampiamente sostituito da altri centri di potere. E' un mondo con altre grandi nazioni di fatto esenti dalla influenza Usa, come il blocco asiatico; un mondo in cui per Washington l'Europa stessa non è più una sponda indiscutibile, e il Medioriente e l'Africa sono praticamente persi. Un contesto in cui gli Usa non sono più né il maggior mercato né il maggior produttore, e nemmeno il maggior contribuente per la spesa per aiuti allo sviluppo dei paesi terzi. La risposta ironica e condiscendente di Putin a Obama è una prova agghiacciante di questa "superfluità" americana.

Un mondo in cui ognuno corre per sé.

L'America in cui si riaccende la guerra politica interna avrà dunque molte poche sponde a cui aggrapparsi con una certa sicurezza, mentre viceversa noi alleati degli Americani abbiamo molte meno ragioni per poterci schierare con e per gli Stati Uniti. Un disvelamento non da poco, che ci porterà, nei prossimi mesi ed anni, a ri-tarare il nostro giudizio e le nostre previsioni su cosa sono gli Usa per noi e su cosa davvero ci conviene fare di loro, e con loro.

Da - http://www.huffingtonpost.it/lucia-annunziata/all-agnello-obama-crescono-i-denti-da-lupo_b_13897358.html?utm_hp_ref=italy
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