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Autore Discussione: BARACK OBAMA.  (Letto 42152 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Gennaio 20, 2009, 04:54:49 pm »

Gli obama potrebbero riportare la città ai fasti dell'epoca dei Kennedy

E ora Washington supera New York

La Capitale si prepara a prendere il posto della «Grande Mela» come centro della vita economica e culturale
 

 
WASHINGTON – Quello di Bush e Obama non è l’unico cambio della guardia in America. Ce ne è un altro, quello tra New York e Washington. Da number one, la Grande mela retrocede a number two, la capitale la spodesta. Lo dicono i media. L’America, scrivono, presterà meno attenzione a Wall Street - da cui negli ultimi anni era dipeso il suo benessere ma che la ha tradita -, e più attenzione a Washington da cui, tra il presidente e il Congresso, dipende il suo benessere futuro. Non solo: come già avvenne grazie a Jackie e Kohn Kennedy, adesso grazie a Michelle e Barack Obama Washington diverrà il centro americano delle arti e della moda.

COOL WASHINGTON - Per i turisti che la anteporranno a Broadway e al Metropolitan museum c’è uno slogan pronto: «Washington is cool». I coniugi Obama, che, si afferma, hanno già modificato l’idea di femminilità e mascolinità in America, riportando la famiglia e il lavoro – non la ricchezza e lo svago - in primo piano, saranno l’attrazione principale. Anche le star di Hollywod e i «glitterati», gli intellettuali della high society, convergeranno su Washington anziché su New York, rinnovando il fugace sogno kennediano di un moderno Regno di Camelot di re Artù. Ma la causa prima del sorpasso della Grande mela da parte della capitale è la crisi finanziaria ed economica. Soltanto il governo, non il mercato selvaggio come pretendeva George Bush, potrà salvare la nazione con massicci pubblici sussidi. La forza della Grande mela, la base del suo successo, erano i soldi, ma gliene sono rimasti molto pochi.

GRANDE MELA NEI GUAI - E’ un cambio della guardia di cui ha preso atto persino David Paterson, il governatore dello stato di New York. La «Grande mela» è nei guai, ha ammesso Paterson, ha perso il 20 - 25 per cento del suo reddito quello che veniva da Wall Street. A risentirne di più è l’industria del divertimento: teatri, night clubs e ristoranti incominciano a chiudere i battenti. Ma è in ritirata anche l’industria mediatica, le tv e i giornali, la più importante d’America. Calano infine le mitiche vacanze con shopping a New York degli stranieri. «Un declino che a breve scadenza è destinato ad aggravarsi» ammonisce Paterson. «La recessione manderà al tappeto molti uffici e fabbriche, parecchia gente si trasferirà altrove, innanzitutto i giovani». La riprova: per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, la Grande mela non muterà profilo almeno per due anni, la costruzione di grattacieli simbolo è stata quasi congelata.

RIVOLUZIONE CULTURALE - Su Washington, la crisi finanziaria ed economica pesa di meno. A ogni cambio alla Casa Bianca vi arrivano migliaia, decine di migliaia di nuove persone, e poche delle vecchie se ne vanno. I consumi, gli acquisti di case e così via non si flettono, le lobbies portano miliardi e la vita sociale fiorisce. Un fenomeno questa volta assai più accentuato del solito. L’America, inoltre, vede nell’elezione di Obama una rivoluzione culturale oltre che politica, per essa la sua nuova Washington non la vecchia New York sarà il modello da seguire. Commenta il politologo Larry Sabato: «Al momento, la gente si vuole istruire, non divertire, per evitare il peggio. Washington tornerà in auge come ai tempi di Lincoln e di Kennedy, i due presidenti a cui s’ispira Obama». Ma il cambio non sarà permanente, aggiunge Sabato con una punta di scetticismo: «Quando la crisi verrà superata, vedrete, retrocederà daccapo a number two».

Ennio Caretto
19 gennaio 2009

da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Gennaio 20, 2009, 11:14:45 pm »

20/1/2009 (7:22) - INSEDIAMENTO ALLA CASA BIANCA

Obama day, come cambierà il mondo
 
Warren Buffett: «E’ il giusto comandante in capo per uscire dalla crisi»


ENZO BETTIZA, ALBERTO BISIN, LUCIA ANNUNZIATA


La questione razziale
Ma i neri deve conquistarli
L’Economist, col volto di Obama in copertina, dice che la presidenza americana è da sempre il mestiere più duro e più gravoso del mondo. Lo stesso Obama ora aggiunge che «il più importante ufficio al mondo» sta per essere occupato, per la prima volta, da un afroamericano e lascia intendere che la novità cambierà «in modo radicale» la convivenza civile tra neri e bianchi. Il 44° presidente degli Usa non aveva mai sottolineato, con altrettanto orgoglio e nettezza, la sua appartenenza all’etnia che conobbe il dolore della schiavitù e l’offesa della segregazione. Sincerità e calcolo si sono probabilmente intrecciati nella dichiarazione rivendicativa del politico che ha saputo attrarre il voto di tantissimi bianchi ma non di tutti i neri. Non è da escludere che il mezzo sangue Obama cerchi di recuperare il terreno perduto fra molti afroamericani che gli rimproverano di aver dimenticato, durante la campagna, i militanti dei diritti civili, il potere nero, forse anche le sacrificali «pantere nere»: tutti quelli, da Martin Luther King a Malcolm X, che con le loro lotte per l’uguaglianza razziale avevano concimato e spianato la strada all’ingresso di un nero nella Casa Bianca. Si era profilato per Obama il rischio di piacere troppo ai bianchi, di diventare una specie di clone politico di Tiger Woods, il campione nero e assoluto di golf, che manda in delirio anche i Wasp più arcigni e padronali. Un riequilibrio d’immagine s’imponeva, pertanto, al presidente di colore. Governerà sorvegliato da ministri e consiglieri bianchi, che occuperanno i due posti chiave della repubblica imperiale: in politica estera dovrà vedersela con l’accanita rivale democratica Hillary Clinton, mentre le questioni strategiche e militari dovrà discuterle con l’ex repubblicano Robert Gates. Facendo simili scelte ardite, Obama ha dato l’impressione di non volersi circondare di amici intimi e supini. Ma, al tempo stesso, ha offerto il fianco a quei critici neri che lo considerano poco nero e per niente rivoluzionario. Essi non mancheranno, alle inevitabili mosse deludenti o discutibili sui palestinesi o sull’Iraq, di vedere in lui un prigioniero di un «governo bianco» troppo filoisraeliano o debolmente distanziato dalla linea conservatrice di Bush. La politica estera sarà senz’altro il suo tallone d’Achille. Riuscirà a cavarsela più facilmente nei problemi interni all’America malata, che aspetta dal dinamico Obama, a prescindere dalla pelle, i giusti colpi di bisturi per estirpare il cancro ed evitare una seconda Grande Depressione. La sanità pubblica potrà essere una delle sue carte vincenti. Se gli riuscirà di dare il colpo di grazia allo spietato ma vacillante mercato sanitario americano, istituendo una copertura medica eguale per tutti, torneranno a sorridergli soprattutto i neri più poveri, meno protetti, meno sofisticati, che l’hanno votato perché vedevano in lui il vendicatore del loro brutto passato e il redentore del loro misero presente.

Enzo Bettiza



La crisi economica
La sfida vera è Wall Street
Il presidente Obama entra alla Casa Bianca cosciente di dover affrontare una grave crisi. Non solo l’economia è in recessione, ma i mercati finanziari non danno segni di ripresa dal collasso dei mesi scorsi. Durante una recessione è compito proprio dei mercati finanziari favorire ed accelerare la riallocazione di capitale e lavoro impiegati improduttivamente. Se non funzionano la recessione si fa più lunga e difficile, e i suoi costi sociali più preoccupanti. Per questa ragione il piano economico di Obama non consisterà solo di uno stimolo fiscale per sostenere consumi e investimenti, ma anche di vari interventi atti a ristrutturare e ricapitalizzare il sistema bancario. Nonostante abbia richiesto al Congresso uno stimolo fiscale enorme, dell’ordine del 3% del Pil, Obama ha deciso di concentrare la spesa in investimenti di carattere strutturale, soprattutto sanità, scuola, ed energia, di cui gli Usa hanno grande bisogno ma che in realtà avranno effetti soprattutto a medio termine, a recessione terminata. L’amministrazione Obama sembra quindi accettare il fatto che sostenere consumi e investimenti durante una recessione è purtroppo realizzabile solo in misura estremamente limitata. I progetti di spesa che hanno effetti immediati tendono infatti ad avere bassa utilità sociale, come i «ponti verso il nulla» e le buche da scavare e richiudere di keynesiana memoria. Inoltre questi progetti sono dannosi perché le tasse con cui sono finanziati limitano l’attività economica nel futuro e, nella misura in cui sono previste, anche nel presente. I piani di intervento dell’amministrazione sui mercati finanziari, non ancora resi noti in dettaglio, assumeranno quindi un ruolo centrale nell’affrontare la crisi. Gli interventi di ricapitalizzazione dei mesi scorsi, pur di notevole entità, sembrano avere avuto effetti limitati: i tassi interbancari sono scesi, ma le banche sembrano semplicemente sedere inattive sul capitale fresco e sulla liquidità immessa dalla Federal Reserve. Gli azionisti delle banche, infatti, non hanno alcun interesse a realizzare le perdite e ad investire il capitale liquido prima di sapere se le perdite stesse possano essere addossate allo Stato. È quindi proprio l’ambiguità e la poca trasparenza degli interventi del Tesoro che, mancando ad oggi di distinguere adeguatamente tra il salvataggio delle banche e il salvataggio degli azionisti, ha favorito l’inattività del sistema finanziario. È necessario che l’amministrazione intervenga con chiarezza e trasparenza, ricapitalizzando le banche, assumendo capitale di rischio ove necessario, favorendo la rinegoziazione dei mutui, senza regali agli azionisti. Che sia fatto direttamente o indirettamente, acquistando o assicurando le attività «tossiche» nei bilanci delle banche, è di secondaria importanza. Ma è fondamentale che questi interventi siano adottati con rapidità, perché i mercati finanziari tornino ad operare al più presto. Solo allora cominceremo a vedere una luce alla fine del tunnel.

Alberto Bisin



La politica estera
Obama si prepara a trattare con l’Iran
Una delle poche cose certe cui guardare, oggi che è l’ora dell’Inaugurazione, per spiare nel futuro dell’Amministrazione Obama e nel nostro, è la persona che il Presidente degli Stati Uniti sceglierà per gestire il «dossier Iran». L’Iran rimane il punto più caldo della mappa del pianeta, per gli Stati Uniti; divenuto ancora più caldo dopo l’attacco di Israele a Gaza: sia Hamas a Gaza che Hezbollah in Libano sono sostenuti infatti da Teheran. Il favorito, secondo gli insider di Washington, è Dennis Ross, nome sconosciuto ai più, ma assolutamente significativo nei circuiti della politica mediorientale, dal momento che ha fatto da inviato speciale sulla questione Israele-Palestina sia per la prima amministrazione (repubblicana) di George Bush padre, sia per i due mandati dell’amministrazione (democratica) di Bill Clinton. Aggiungendo l’Iran a queste esperienze, «Ross avrebbe un nuovo e più potente ruolo, che offrirebbe sostanziose evidenze che Obama intende trattare il problema della pace mediorientale come un solo pezzo, da Gaza a Teheran alla Siria», ha scritto due settimane fa, su Newsweek, Michael Hersh. Questa è la novità. Invece di discutere se trattare o meno oggi o domani, con Hamas o con Hezbollah in Libano, gli Usa sceglierebbero di trattare direttamente con il potere regionale che le manovra. Andrebbero cioè direttamente dal padrone, saltando a piè pari i suoi valletti. Naturalmente, l’Iran costituisce un dossier a sé, con i suoi progetti nucleari, e la permanenza sui tavoli di Washington di una «opzione militare mai esclusa». In realtà, questa opzione di guerra è considerata quasi impossibile: lo dicono gli stessi esperti militari, e lo prova il rifiuto opposto da George W. Bush, nell'ultimo periodo della sua presidenza, a un attacco aereo di Israele alla centrale nucleare di Teheran. Si sa invece che una trattativa fra Washington e Teheran, sia pure esile e complessa, è in corso da tempo. Un allargamento di questi contatti alle questioni del Vicino Oriente non è dunque impossibile. Su questo Obama non si è dichiarato, ma sono trapelate alcune anticipazioni. Ad esempio, di recente il Guardian, riportando fonti vicino al nuovo presidente, ha scritto che la sua amministrazione «avrebbe intenzione di abbandonare la dottrina Bush sull’isolamento di Hamas per stabilire un canale con il gruppo». Un canale; non un contatto diretto. E quale migliore canale dell’Iran, appunto, visto che controlla i due nemici vicini di Israele? Se Obama adottasse questa linea, ci sarebbero degli effetti anche sulle opzioni finora usate dall’Europa per delineare la propria politica estera. Dalla Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti hanno sempre coinvolto e utilizzato vari Paesi europei nelle relazioni con il mondo arabo, sia per il loro ruolo di ex potenze coloniali, sia come cuscinetti tra sè e l’influenza sovietica. Su queste premesse s’è costruita la partnership atlantica in Medio Oriente. E su questa base è stata costruita la diplomazia coltivata dalla Dc (Andreotti e non solo) e poi ereditata, fino ai governi Berlusconi, dalla nostra politica. Ma gli Usa di Obama non hanno più bisogno come prima dell’Europa per rapportarsi al mondo arabo. Obama è infatti oggi una parte del Terzo Mondo che si è fatto Usa. L’intermediazione è la sua stessa persona. Così, nel caso decidesse nel prossimo futuro di rivolgersi direttamente all’Iran, diminuirebbe di molto il peso di Hamas e di Hezbollah. Ma contemporaneamente diminuirebbe un po’ anche il ruolo che l’Europa ha fino ad oggi avuto.

Lucia Annunziata


da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Gennaio 20, 2009, 11:25:02 pm »

Fronte del video di Maria Novella Oppo



In diretta la fine di un'èra



Finalmente oggi finisce l’era Bush. E finisce con grande soddisfazione del mondo, nonché della maggioranza del popolo americano. Di fronte a questo tracollo politico, ci sono però alcuni che cercano di salvare l’insalvabile dell’eredità bushista.

Se non lo statista, almeno l’uomo di fede, se non il politico, almeno l’alleato della nostra destra. Bene ha fatto, perciò, La7 a mandare in onda il film di Oliver Stone (che al momento di scrivere non abbiamo ancora visto), come occasione di un dibattito che può spingere i bushisti di ieri a prendere le distanze dai propri errori e quelli di oggi a mostrare la debolezza delle loro ragioni.

Come è successo ieri mattina nel dibattito di Omnibus, durante il quale Fiamma Nirenstein (deputata Pdl) ha incredibilmente sostenuto che le armi di distruzione di massa Saddam le aveva, solo che erano piccole, praticamente tascabili. E questo dopo che lo stesso Bush ha chiesto scusa per l’errore, costato solo poche centinaia di migliaia di morti.

da unita.it
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« Risposta #18 inserito:: Gennaio 20, 2009, 11:26:02 pm »

George W.Bush. Addio a un presidente piccolo e cieco

di Dacia Maraini


Nessuno come Michael Moore ha saputo ritrarre il presidente Usa,diviso fra la recita del buon governante e quella del buon cristiano, figure tutte di un pezzo, ritte in difesa della patria, che però soffre in segreto di improvvise paure e di incertezze divoranti.
Nessuno come il regista ha saputo cogliere le pause, non di riflessione, ma di panico che si insediavano fra le parole del presidente.

C'è in lui qualcosa del bambino terrorizzato. Eppure il popolo gli ha dato fiducia.
Soprattutto quando l'ha visto accorrere alle torri sfracellate, stringere la mano ai pompieri, farsi tutt'uno con la gente colpita.

Ma gliel'ha tolta questa fiducia quando ha saputo che si era imbarcato in una guerra inutile e dannosa. Quando ha visto morire i suoi figli, uno per uno fino ad arrivare all'allarmante cifra di tremila soldati, in una azione militare che si pretendeva sicura e veloce.

Quando ha capito che il terrorismo, anziché diminuire, non faceva che aumentare. Quando ha compreso che aveva ammesso la tortura in nome del "fine che giustifica i mezzi", il che è precisamente quello che credono i terroristi da cui ci si voleva distinguere.

Ora che se ne va, col suo passo da cow-boy, con quegli occhi piccoli e ciechi, che non hanno saputo vedere né capire - Goethe dice che la cosa più difficile è sapere vedere con i propri occhi quello che sta sotto il proprio naso- ora che si allontana mano nella manocon la sua Laura ignara e sorridente, ci fa un poco pena.

Ci sembra più visibile e chiara la sua natura di vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro.
Ringraziamo la democrazia americana, perché in un altro paese sarebbe rimasto fino alla morte, facendo danni su danni.
Addio signor Bush, che dio abbia pietà delle sue irresponsabili azioni da debole che si maschera da forte.


20 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #19 inserito:: Gennaio 20, 2009, 11:27:06 pm »

Il Paese del sogno

di Concita De Gregorio


Come il gospel di Aretha Franklin. Il discorso di Obama è sembrato una specie di preghiera, quasi un poema, un poco una poesia. Breve, semplice che arriva alla gente comune, facile che lo capiscono i bambini. Umile e fermo, confidenziale e sicuro. In crescendo, come il canto della signora nera nel soul che ha cantato per festeggiarlo e per accoglierlo: Obama ha recitato una litania religiosa e laica insieme che in venti minuti ha fatto piazza pulita della retorica vuota e reazionaria del bushismo e ha riportato sulla scena le parole antiche della modernità.

Le parole vecchie sono parole vere, ha detto. Le ha scelte con cura da un repertorio a cui ciascuno può dare il nome che crede: democratico, socialista, utopistico, realista, egualitario. Noi, popolo, ha cominciato. Poi le frasi chiave: sei parole ciascuna. Siamo rimasti fedeli ai nostri ideali. La crisi è grave ma ce la faremo. Abbiamo scelto la speranza sulla paura. La grandezza va conquistata. Tutti liberi, tutti uguali, tutti in diritto di perseguire la felicità. Dare agli ultimi non è beneficenza, è la strada più sicura per il bene comune. Rifare l’America: scuola, sanità, energia pulita. Prendersi le responsabilità: non perseguire il piacere della ricchezza e della fama ma la fatica oscura di chi si assume i rischi. Le nostre diversità sono una forza non una debolezza. Il nostro spirito è più forte dell’odio. Al mondo musulmano: interesse, rispetto. A chiunque nel mondo cerchi pace e dignità: eccoci, siamo amici. Sessant’anni fa un uomo come me non era servito al tavolo in un ristorante, oggi sono qui a parlarvi. Poi una lista di aggettivi: gentilezza, altruismo, coraggio, generosità.

Ecco il paese del sogno: è un paese gentile, generoso, coraggioso, altruista. Il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare con lui, ha detto Obama. Con queste poche parole semplici, così fuori moda nel mondo a cui gli ultimi vent’anni ci hanno ridotti. Responsabilità, sobrietà, rispetto, solidarietà. Cura di ciascuno per il bene di tutti. “A coloro che restano aggrappati al potere con la corruzione e con l’inganno dico: siete dalla parte sbagliata della storia ma vi daremo una mano se sarete disposti ad abbassare il pugno”. Siete dalla parte sbagliata. Lavoro e coraggio. Speranza, non paura.


20 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #20 inserito:: Gennaio 21, 2009, 11:06:45 am »

La festa senza festa


di Massimo Gaggi


«Che la forza sia con te» gli ha detto, fissandolo negli occhi, il vescovo episcopale T.D. Jakes. Mancavano tre ore al giuramento e le famiglie Obama e Biden, con pochi altri intimi, erano nella chiesetta di St. John, a due passi dalla Casa Bianca, per la funzione mattutina. Dopo aver invocato l'aiuto di Dio, Jakes ha spiegato che le sfide che attendono il nuovo presidente sono talmente dure da indurlo a citare — come avrebbe fatto il figlio quattordicenne del vescovo — non le Sacre Scritture, ma Guerre Stellari: «Questo è il momento delle decisioni difficili, non della correttezza e della buona educazione.
Tu vedrai la luce, ma prima dovrai sentire il calore delle fiamme». Obama non si è scomposto: lo sa già da tempo.

Incassati i voti che gli hanno consentito di battere McCain, la sua retorica della speranza nelle ultime settimane si è trasformata in appello al coraggio degli americani, alla loro capacità di stringere i denti, di riscattarsi nei momenti più difficili. E ieri, nel giorno trionfale dell'incoronazione, il primo presidente nero d'America ha completato il percorso oratorio col quale ha portato il Paese dai gioiosi giorni della speranza alla nuova era delle responsabilità. La speranza non è stata sepolta: il cambiamento nel quale si può credere ( change we can believe in) è sempre in cima all'agenda presidenziale. Ma il suo cielo è metallico, zeppo di nuvole, non più l'orizzonte sereno, disegnato con colori pastello, del logo elettorale di Obama.

Il leader democratico vuole riconquistare la fiducia del mondo scossa da anni di iniziative di politica estera unilaterali e costellate di errori. Spiega, quindi, che «la potenza da sola non basta a proteggerci se non la usiamo con prudenza, se non convinciamo il mondo della giustezza della nostra causa». Ma per Obama, come per Bush, gli Stati Uniti sono «una nazione in guerra contro una rete di forze che le hanno scatenato contro odio e violenza». Non può, quindi, tentennare o fare passi indietro. Quanto all'economia, è gravemente indebolita dall'avidità e dall'irresponsabilità di alcuni, ma anche dall'incapacità collettiva di fare scelte difficili e di preparare il Paese per una nuova era.

Sarà Obama, ora, a traghettarlo, ma avverte che il viaggio sarà penoso e pieno di insidie. Il presidente non lo ha detto esplicitamente ieri nel discorso d'insediamento, ma ha già spiegato che, dopo i costosi interventi pubblici a sostegno dell'economia che verranno attivati nei prossimi mesi e che porteranno inevitabilmente il debito pubblico a livelli molto pericolosi, verrà il momento del «dimagrimento» della spesa federale: ci saranno massicci tagli alla spesa sociale, soprattutto alle pensioni e a Medicare, la sanità pubblica per gli anziani il cui costo è enormemente cresciuto sotto la presidenza Bush. Sarà lo stesso modello di sviluppo a cambiare: più Stato non solo perché oggi il settore privato è fermo, ma perché col calo dei redditi da lavoro, la disoccupazione, la riduzione del valore delle case e dei patrimoni finanziari e la necessità di ricominciare a risparmiare dopo decenni di indebitamento «selvaggio», per molto tempo le famiglie non potranno tornare ad essere il motore della crescita economica. Un'altra scommessa temeraria per Obama, presidente di una nazione di individualisti. Forse anche per questo ha affidato l'invocazione che ha preceduto il giuramento al reverendo Warren, il pastore che dal 2002 veste i panni del profeta della fine dell'egocentrismo.

«La nostra è sempre la nazione più grande — ha detto ieri Obama agli americani— ma la grandezza non è un dono: bisogna conquistarsela». Insomma una festa, quella di ieri, con poco da festeggiare. Forse anche per questo non si è conclusa, come avveniva da decenni, con uno spettacolo di fuochi d'artificio. La buona notizia, per l'America, è che probabilmente Obama è l'uomo giusto per gestire questo difficilissimo momento: più che un commander-in-chief dovrà essere un persuader-in chief. «Dai tempi di Reagan non c'è stato in America un altro persuasore così efficace», dice Sean Wilentz, storico delle presidenze Usa che insegna a Princeton. E dai tempi di Roosevelt, quelli della Grande Depressione, nessuno si è trovato a dover fronteggiare devastazioni economiche e crisi internazionali così gravi. Obama è preoccupato ma anche consapevole della sua forza. Entra alla Casa Bianca con un livello di consenso senza precedenti (il 78%), mentre anche il 58% degli americani che hanno votato per McCain pensano che il leader democratico farà bene. E, comunque, di sognatori in giro ne sono rimasti pochi: un'indagine Gallup indica che più della metà degli americani pensa che tra un anno la situazione economica sarà peggiore di quella attuale. Tra le sue file cominciano ad affiorare i delusi, ma per adesso Obama ha un grosso capitale politico da spendere. Mentre i repubblicani — l'opposizione che dovrebbe tagliargli la strada — sono segnati da divisioni profonde come non se ne vedevano da quando Barry Goldwater perse malamente le elezioni del 1964.

21 gennaio 2009
da corriere.it
« Ultima modifica: Gennaio 28, 2009, 12:22:40 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #21 inserito:: Gennaio 21, 2009, 11:07:50 am »

«Un sogno lungo secoli Ma il razzismo non è morto»

L'allarme di Dinkins, primo sindaco nero di New York

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI


WASHINGTON — «I miei genitori non avrebbero mai creduto in un giorno come questo perché neppure io o la mia generazione l'avremmo mai creduto. Se il sogno di Martin Luther King non è ancora realizzato, questo è un passo da giganti per poterlo un giorno coronare ». David Dinkins, il primo sindaco afro-americano di New York dal 1990 al 1993 e l'ultimo esponente democratico a ricoprire questa carica non è a Washington, come avrebbe tanto desiderato.
«Sono ancora convalescente, dopo una recente operazione a cuore aperto e non posso esserci — racconta al telefono da Harlem — ma ci sono con l'anima e con lo spirito. La notte che Obama vinse ero ad Harlem con gli altri leader neri di New York. Quando il risultato spuntò sul video gigante lungo la 125esima strada, piangemmo tutti».
Cosa prova dentro di sé oggi?
«Il mio cuore è pieno di gioia e di stupore. Non avrei mai creduto di vivere abbastanza a lungo per essere testimone di tale giorno. Sono figlio della Grande Depressione e ho combattuto nella Seconda guerra mondiale per un'America che ci considerava come cani. I marines neri come me venivano trattati peggio dei prigionieri di guerra italiani: una nazione nemica».
Come si è arrivati a questa storica inaugurazione?
«Io e gli altri politici neri come Charles Rangel, Percy Sutton e Basil Paterson abbiamo un'espressione: "Voliamo tutti sulle spalle di altri". Mi riferisco a Malcolm X, Martin Luther King Jr., Sojourner Truth, Harriet Tubman, Rosa Parks e Percy Sutton che nel 1977 si candidò alla carica di sindaco di New York con tanta classe e distinzione che nessuno mi rise dietro quando, nell'89, provai anch'io ad osare tanto».
Fu una vittoria schiacciante?
«Non direi. Mi scontravo col repubblicano Rudy Giuliani, che allora non era nessuno — l'11 di settembre era lontano — eppure lo sconfissi con un margine di soli 160 mila voti. Non scordiamoci che il primo sindaco nero di una grande città fu Carl Stokes nel 1967. Mi creda: anch'io ho patito il razzismo sulla mia stessa pelle».
In che modo?
«Ricordo quando partivamo al fronte per rischiare la vita ma a casa dovevamo bere nelle fontane solo per neri e non potevamo mettere piede nei locali per bianchi. Nel '46, quando frequentavo la Howard University di Washington, non potevo far spesa o andare al cinema sulla F Street. Eppure un sacco dei miei compagni di corso erano veterani di guerra tornati a casa con pezzi di bomba nel corpo».
Quando cominciarono a migliorare le cose?
«È stato un processo molto lento. Negli anni '50 un bianco mi urlò di stare attento "perché l'anno scorso ne abbiamo linciati soltanto cinque e potresti essere tu il prossimo". Negli anni '60 e anche dopo i taxi non si fermavano a raccogliermi quando vedevano che ero nero e nei negozi mi trattavano come un ladro o uno squattrinato. Ma non creda che oggi sia poi tanto diverso».
Cosa intende dire?
«Che la nuova generazione è certamente meno penalizzata della nostra ma il razzismo esiste ancora e discrimina e non uccideremo mai il mostro se facciamo finta che non esiste. Purtroppo l'eredità della schiavitù non si cancella in un giorno e il Paese continua ad essere pieno di gente intollerante ».
Ha mai incontrato il presidente Obama?
«Più volte. È un uomo magnifico, come essere umano e come politico, e riempie di orgoglio tutti noi. Ha dieci anni meno di mio figlio e lo sento vicino come un figlio».
Dove porterà l'America?
«Ci sarà un boom di politici afro-americani perché il successo di uno infiamma sempre la speranza di molti altri. L'arrivo di Michelle Obama, soltanto la terza first lady con una post-laurea, farà capire al mondo che non esiste un modello fisso e statico di come una first lady deve essere, comportarsi, sembrare. Sull'America splende già una luce diversa».


Alessandra Farkas

21 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #22 inserito:: Gennaio 21, 2009, 11:08:38 am »

Omessi i passaggi sul comunismo e sui dissidenti

La Cina censura il discorso di Obama

La parola «comunismo» manca nella versione dei portali cinesi più popolari, Sohu e Sina


PECHINO - La trascrizione in cinese del discorso inaugurale del presidente statunitense Barack Obama sui siti web cinesi è incompleta, sono stati omessi i passaggi che parlano di comunismo e di dissidenti. Il discorso di Obama rischiava di irritare i dirigenti del partito comunista cinese, attenti a quel che internet diffonde in Cina.

LE PARTI MANCANTI - Obama ha dichiarato che le generazioni precedenti «hanno affontato il comunismo e il fascismo non soltanto con i missili e i carrarmati, ma con alleanze solide e convinzioni durature». Poi ha detto che «chi si attacca al potere con la corruzione e l’inganno» e «fa tacere i dissidenti» è secondo Obama «dal lato sbagliato della storia». La parola comunismo manca nella versione dei portali cinesi più popolari, Sohu e Sina, e la menzione dei dissidenti è scomparsa. A Hong Kong invece si può trovare la versione completa sul sito di Phoenix Tv.


21 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #23 inserito:: Gennaio 21, 2009, 11:09:32 am »

Lacrime, sciamani e dubbi «Così si esorcizza la paura»

Tutti in fila per assistere al giuramento. Rito contro gli «spiriti»


WASHINGTON — (Il senso di questa giornata lo capiremo più in là. Ora non si sa se cambierà la storia, e poi quanto. Però una simile euforia umano- politica collettiva non si era mai vista, nella storia che conosciamo. Non si erano neanche mai visti milioni di persone contemporaneamente, programmaticamente gentili gli uni con gli altri. Che cercano disperatamente di sperare. Comunque, ecco qui).


Il prologo
«La guerra in Iraq!». «Hey Hey, goodbye ». «Le porcherie di Wall Street!». «Hey Hey, goodbye». «La vostra depressione, le vostre paure, la vostra angoscia! Scuotetele via!». «Hey, Hey, goodbye». L’evento della vigilia che meglio esprime lo stato d’animo generale, e pure quello che fa più ridere, è il rito new age-sciamanico per cacciare gli spiriti maligni dalla Casa Bianca. L’ha organizzato la comica Kate Clinton, che officia insieme a una cantante nera e a una maga di Brooklyn. Un migliaio di persone nel giardino di Dupont Circle urla hey hey goodbye a tutti imali personalpolitici, se li scrolla via saltellando, si rilassa. Anche perché per cacciare gli spiriti, oltre a bruciare varie erbe, molti agitano canne modello baobab; così semplicemente respirando si è diciamo tutti più allegri. Sembra — è — un episodio di nicchia. Ma mostra che aria tira tra la gente venuta a Washington molto più dei balli da ricchi o delle presenze Vip. «Sono qui perché ne ho sentito parlare in tv», dice Amy DeWine, avvocato di Saint Louis, che tutti guardano male perché è in pelliccia. «Ma è fantastico, ho gridato come una scema e mi sento rinata». «Pure io», dice il suo atletico e sconosciuto vicino con un triangolo rosa appiccicato alla giacca a vento, «quando Kate Clinton ha detto che sono stati tempi di “destra militante e sinistra in trincea” ho urlato hey hey goodbye e ho sentito che era la fine di otto anni da incubo ».


Interno borghese
Nelle ville e villette del Northwest Washington, dove i festeggiamenti prendono la forma di cene sedute, la gente è più competente e più cauta. A Spring Valley, dirigenti della World Bank e i loro amici discutono: se Barack Obama riuscirà a far qualcosa; o se—tutti dicono è «molto possibile» — sarà un «empty suit», un vestito vuoto, molta immagine zero sostanza, non ce la farà a riformare l’economia, a far processare Bush e Cheney, ecc. Ma finito il dolcino al limone gli ospiti fremono. «Eehm, scusate se noi andiamo, vorremmo alzarci alle cinque per prendere un buon posto in tribuna», fa sapere Dean, giudice californiano, qui col figlio studente Brad. Gli altri: «In effetti anche noi andiamo presto coi ragazzi…». Fine della serata, sveglia dopo poche ore.


Il Mall
Alle sette è già pieno. Ai varchi (ex varchi) tra il Campidoglio e la Casa Bianca ci sono file inutili di un chilometro. Dopo un po’ la gente decide che—parole di Megan Schultz, bionda pragmatica di Chicago—«the Obama Crowd, la folla di Obama, siamo noi. Sul Mall sono trecentomila, qui saremo due milioni»; e va con le amiche a scongelarsi in un caffè. L’Obama Crowd è ovunque ed è uniformemente «nice», carino e gentile; pare un film-presa in giro con Jim Carrey ma è vero. Ci si abbraccia in coda, ci si presenta nelle file per le bevande calde, si lasciano dollari ai volontari della Free Methodist Church che danno caffè gratis e hanno messo un megaschermo sopra l’altare per far vedere l’Inaugurazione ai senzacasa, al caldo. L’autorappresentazione di massa dell’altra America possibile prosegue senza intoppi. Tutti la fotografano e la filmano. Un gruppetto più nice degli altri gira fotografando tutti e dando biglietti da visita, così i soggetti potranno rivedersi su un sito web. A un certo punto il Casino Nice è totale ma fluido. «Oggi siamo parte della storia» e però bisogna trovare un megaschermo.


La dolce vittoria nel fast food
I migliori sono al caldo, tra i trecento tavoli nel salone con fast food di ogni tipo diventato auditorium nel National Press Building. Le centinaia di rifugiati si congratulano tra loro per non essere riusciti a entrare nel Mall, «qui si sta benissimo e c’è pure il sushi», dice una di San Francisco. Lara Mitchell, afroamericana di Detroit, si presenta ai vicini, si siede e comincia a piangere preventivamente. Sugli schermi appaiono gli ex presidenti. W. Bush e Dick Cheney vengono insultati ma neanche troppo. Quando arriva Michelle solo qualche elitista bianca e liberal azzarda che vestiva meglio prima. Quando arriva Obama tutti si alzano e si abbracciano tipo gol da campionato. Quando la senatrice Dianne Feinstein parla di «sweet victory» si decide che sì, ha trovato le parole giuste, almeno per la giornata. Quando il pastore omofobico Rick Warren fa l’invocazione una buona metà prega sul serio. Quando canta Aretha Franklin un ragazzino si stupisce, «ma davvero è ancora viva? ». Quando Joe Biden giura comincia a calare un silenzio sacrale; irreale tra la puzza di fritto. Quando Obama giura e poi parla si assume collettivamente un’aria da «quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare». Lara smette di piangere. «Ora mi sento sollevata, anche se sono disoccupata ». Il candidato terapeutico è diventato un presidente abbastanza normale, intanto. Non si sa cosa farà da oggi; però a molti è cambiato l’umore. Magari per un po’ dura, hey hey goodbye.

Maria Laura Rodotà
21 gennaio 2009

da corriere.it
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« Risposta #24 inserito:: Gennaio 21, 2009, 11:10:34 am »

21/1/2009
 
Il presidente ragazzo
 
BARBARA SPINELLI
 

L’apparizione di Obama, non solo nel paesaggio americano ma nel mondo, conferma qualcosa che ciascuno di noi sa: basta una persona forte, e il paesaggio d’un tratto può cambiare.

Una personalità che crede intensamente nel bene comune senza vacillare né badare a interessi particolari può rimettere in moto quel che pareva immobile, nella società e ai suoi comandi. Può ridar senso alla parola, quando sembrava che essa l’avesse perso e che il ritiro nel silenzio fosse la scelta meno indecorosa. Obama ha messo fine a questa stagnazione. Ha vinto proponendo la speranza, che sorge inaspettata proprio quando la passione ottimistica si spegne e - così ha detto il nuovo Presidente alla cerimonia d’insediamento, ieri - l’inverno è profondo. Forse il momento Obama è qui: nella parola da lui ritrovata. Ma non è solo questo. Perché una grande personalità si imponga, perché vinca tanti ostacoli, occorre che il momento stesso, indipendentemente dalla persona, abbia una sua intensità irresistibile. Occorre il tifone più letale, perché nasca un grande capitano che porti in salvo il bastimento: senza tifone il capitano MacWhirr di Joseph Conrad sarebbe restato nel grigiore, pur essendo portato al comando. Il profondo inverno rivela l’eccellenza dello statista e al tempo stesso lo fa nascere.

Dicono che Obama pensava da tempo a candidarsi, ma che non riteneva giunta l’ora. Se ha forzato i tempi è perché ha fiutato che questo non era forse il suo momento ma di sicuro era il momento più grave della storia recente americana: e che da tale momento lui era chiamato, quale che fosse la sua maturità personale. Nella sua autobiografia, egli ricorda i libri che l’hanno marcato, da Shakespeare a Moby Dick a Conrad: specialmente Cuore di Tenebra, «che mi ha insegnato quel che spaventava i bianchi nei neri, e come nasce l’odio». Scrive Michiko Kakutani, critico letterario del New York Times, che Obama, per i libri che l’ispirano, ha un senso tragico della storia e delle ambiguità umane, ed è refrattario all’incoscienza ottimista delle ultime amministrazioni.

Quel che è accaduto nel 2008 conferma l’inverno descritto da Obama. Il tracollo finanziario testimonia di una fragilità americana che molte amministrazioni hanno ignorato: dell’assenza di un «occhio vigile» sugli spiriti animali del mercato. Le guerre che continuano in Medio Oriente certificano che Washington ha fallito, in quella che riteneva essere la sua funzione: egemonizzare il mondo e rifarlo da capo, spegnendo chi fomenta conflitti. Bush e i neo-conservatori avevano nutrito questo susseguirsi di bolle: l’illusione che gli Stati Uniti fossero gli unici a poter capire e aggiustare le storture dell’umanità. L’arroganza di tale illusione, unita a ignoranza e a una mancanza di curiosità abissale, a cominciare dal clima e dal rapporto con l’Islam. Non a caso, elencando antiche virtù dell’America, Obama ha citato ieri quella che tanto le è mancata: la curiosità. Questo è il grande freddo che il Presidente ha di fronte: non gli incidenti di un impero paragonabile all’antica Roma, ma le rovine di una folie de grandeur che da tempo non fa i conti con la realtà.

Il senso tragico della storia, se davvero anima Obama, lo aiuterà enormemente. Poiché si tratta di andare sino in fondo, nell’esplorare la notte. Le guerre contro il terrore non portano frutti, né in Iraq né in Afghanistan. In Asia urge più della guerra un negoziato vasto fra Pakistan, Afghanistan, India, aggiungendo Iran, Cina, Russia. È stato quantomeno azzardato far credere a piccoli nazionalismi (Georgia, Ucraina, Israele) che potevano tutto, perché alle spalle avevano il gigante Usa.

Sapere che la storia è tragica non vuol dire vederla nera, senza vie d’uscita. L’acme della tragedia non consiste nella nemesi punitiva ma nella catarsi, capace di purificare l’uomo che apprende la propria colpa e i propri limiti. Per l’America è qui il compito: smettere la forza irresponsabile, aprire (dice Obama) una «nuova era di responsabilità». Da secoli essa vorrebbe essere il faro sopra la collina: un sogno condiviso dal Presidente afro-americano. Ma anche la sfiducia verso gli Usa nel frattempo s’è fatta globale. Anche in questo «il mondo è cambiato e urge cambiare con lui». L’America è a un bivio. La sua idea di sovranità nazionale assoluta, che non riconosce autorità sopra di sé, si è rivelata fallace, minacciosa. Non è detto che Obama sia all’altezza di un così enorme momento storico: il momento in cui l’America, se cosciente, scopre il post-nazionalismo europeo; in cui riconosce che il multipolarismo non è un malvagio disegno cinese, russo o europeo, essendo ormai la realtà. Ma di certo il momento gli consente di guardare alto e lontano. È la sua occasione. È il Tifone terribile che può travolgerlo, o innalzarlo e renderlo grande.
 
da lastampa.it
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« Risposta #25 inserito:: Gennaio 21, 2009, 11:13:03 am »

21/1/2009
 
Ma occorre concretezza
 
CARLO ROSSELLA
 

Un giro di telefonate nelle capitali europee e si scopre che Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e Gordon Brown hanno seguito in diretta televisiva il discorso di Barack Obama.

Anche Francesco Cossiga, l’ex presidente della Repubblica italiana, americanologo ed esperto di oratoria, non ha perso un attimo delle parole del presidente. Ma confessa la sua delusione: «Poco, poco, e troppa superbia».

Nelle cancellerie dei grandi Paesi europei il sermone dell’«inauguration day» ha confermato il giudizio su Obama che già circolava nei giorni scorsi a Sharm-el-Sheikh, durante il vertice col presidente egiziano Hosni Mubarak. A differenza dei giornali, delle tv e a di molti intellettuali, i leader europei, chiacchierando fra un dattero e una tazza di tè alla menta, si sono detti dubbiosi su Obama, esprimendo riserve sull’efficacia delle ricette economiche e politiche della futura amministrazione. Sul Medio Oriente, ad esempio, ci si aspettava un team nuovo. Invece ecco i Dennis Ross e i clintonian dei tempi di Madeleine Albright, che già una volta hanno fallito e che potrebbero fallire di nuovo. Gli europei non ce l’hanno certo con Obama, ma non nascondono, nei privatissimi colloqui nelle coulisses dei vertici, la loro perplessità. Dubbi apparsi anche in America, fra molti articolisti del Wall Street Journal e non solo sul Weekly Standard o altre riviste conservatrici.

Obama ieri ha avuto la possibilità di dire qualcosa di memorabile, come fecero Roosevelt, Kennedy, Reagan e lo stesso Clinton, ma il suo discorso è apparso meno brillante di quelli fatti nella campagna elettorale, con una sola indicazione forte: quella rivolta al senso di responsabilità dei cittadini. Certo un discorso ben costruito ma rapsodico, poetico, quasi un gospel, onesto e religioso.

I capi di stato europei, alle prese con la grave crisi economica mondiale, si aspettavano di più. Obama ha fatto la diagnosi di una malattia fin troppo conosciuta e sofferta, ha indicato le origini e le colpe del morbo, ha raccontato le condizioni del malato, ma non sono apparse ricette, e cure immediate, nemmeno una.

Non si ha un’idea di quel che Obama farà nei fatidici cento giorni. Forse ha seguito l’indicazione del Financial Times di allungare il periodo. Nella «nuova era della responsabilità», ha proclamato il quarantaquattresimo presidente, gli americani, non devono chiedersi cosa possa fare il governo per loro ma cosa intendono fare loro per il governo. Altro che le mirabolanti promesse della campagna elettorale. Obama ha riflettuto sul declino degli Stati Uniti, e si è detto pronto a far l’impossibile pur di ridare all’America tutto il suo prestigio ed il suo potere, come dopo la seconda guerra mondiale. Ovviamente con tanto rispetto e considerazione per gli alleati che dovranno contribuire a questa salvifica missione. Obama vuole un mondo di amici, di ogni fede, e si è rivolto anche ai musulmani. Questo messaggio universale lo tradurranno in atti pratici il segretario di Stato Hillary Clinton e il segretario al Tesoro Timothy F. Gelthner. I due, insieme con Obama, dovranno affrontare la terribile crisi economica mondiale e i drammi palestinese, iracheno, afghano pakistano, oltreché le impellenti questioni energetiche ed ecologiche.

Gli europei, ma anche gli arabi, i cinesi, gli indiani e i latino americani si stanno preparando da mesi all’era Obama. Le parole, all’inizio erano piaciute e a tutti, dalle elezioni del 4 novembre scorso in poi, sono affiorate le prime perplessità, seguite da velate critiche. Ora, dopo il discorso-gospel di Washington si aspettano i primi atti concreti da fare in fretta e senza errori. Le attese di tutti, come ha detto il primo ministro inglese Gordon Brown, sono «unreasonably high».

«Che Dio mi aiuti e aiuti l’America», ha detto Obama per esorcizzare queste preoccupazioni a lui ben note. Alla fine, anche Obama, visto come il messia della nuova America, si è messo nelle mani di Dio. Con un po’ di umiltà, finalmente.
 
da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Gennaio 21, 2009, 11:14:07 am »

Una giornata che ha voluto riconciliare l'America divisa da 8 anni di guerra

Nel discorso di Obama, una svolta culturale e poltica profonda

Addio all'ideologia di Bush Obama tende la mano al mondo


di VITTORIO ZUCCONI


WASHINGTON - "Un uomo che sessanta anni or sono non sarebbe neppure stato servito in un ristorante, oggi presta giuramento per assumere la più alta carica della nazione". Da queste parole, che riassumono senza retorica e senza arroganza l'enormità di quello che abbiamo visto ieri a Washington, deve partire il racconto di una giornata che ha voluto riconciliare l'America straziata e divisa da otto anni di guerra ideologica e di guerra militare, da "falsi dogmi e false promesse". E che non si può più permettere di tergiversare o di nascondersi nella partigianeria: "Se siamo arrivati sotto nubi nere che si addensano sopra di noi è perché non abbiamo fatto le scelte difficili. Il tempo di farle comincia oggi".

Ben oltre l'emozione di un giorno e di una folla come Washington non aveva mai visto nella propria storia, non per funerali, celebrazioni, insediamenti, dimostrazioni che pure l'hanno investita e allagata per due secoli, l'esordio di Barack Hussein Obama ha mostrato, sotto l'eleganza dell'oratoria e della presentazione, le unghie di una svolta culturale e politica profonda, che si può riassumere nella necessità di rispettare insieme "il diritto" e i "valori della democrazia", non potendo l'una esistere senza gli altri.

Ci si attendeva una "lista della lavandaia" di promesse e programmi di azione alla New Deal, che non ha fatto. Quello che ha fatto è stato rovesciare l'ottica miope della cultura repubblicana dominante tra Reagan e Bush e riportare il mondo al centro delle preoccupazioni americane, e non più l'America al centro del mondo. Questo senso di un capovolgimento della clessidra, della riapertura a un mondo che l'angoscia delle Torri Gemelle aveva sbarrato nell'unilateralismo bushista e nella seduzione della forza è quello che ha portato ieri forse due milioni di persone lungo i tre chilometri della spianata fra il Congresso e il mausoleo di Lincoln.

Erano turisti della storia e della speranza venuti dall'Africa e dall'Asia, dal Caribe e dall'Europa, da tutti gli stati americani per rinnovare quel patto di ammirazione e di solidarietà ideale con un'America dalla quale si erano sentiti traditi. O considerati come pedine da spostare o rovesciare in base a teorie, dottrine o false teoremi. Invece "il terreno ci è cambiato sotto i piedi e non possiamo continuare come prima". L'illusione di poter proteggere una democrazia dai propri nemici interni ed esterni sottraendo pezzi di diritti costituzionali nel nome della sicurezza viene catalogata tra "le false promesse e i falsi dogmi".

Il resto del mondo va affrontato "in pace, con dignità e umiltà", perché la forza militare "da sola non ci protegge, né ci autorizzare a fare quello che vogliamo". "Noi tendiamo la mano a tutti coloro che la tendono aperta verso di noi, sciogliendo il pugno".
Siamo non soltanto oltre il bushismo o almeno quella cosiddetta e mai ben definita "dottrina Bush" che fu adottata nel panico dopo l'orrore dell'11 settembre, ma anche oltre il "pagare ogni prezzo o portare ogni peso" di John F. Kennedy alla sua inauguration del gennaio 1961.

Non mancheranno coloro che accuseranno questo giovane uomo che nasconde sotto un autocontrollo titanico le emozioni che abbiamo visto sgorgare quando la moglie gli ha posato la mano guantata sulla spalle per calmarlo durante un'esecuzione musicale completamente inutile e poi nell'impappinarsi al momento di giurare, di essere un ingenuo, un "buonista", che non capisce la realtà oltre il Potomac.

Ma ancora più deluso sarà che si era immaginato che da lui sarebbe venuto l'annuncio di manifesti ideologici, di programmi pubblici di lavoro e di investimenti che ha ridotto invece alla promessa di puntellare l'economia, non di sostituire lo Stato al mercato. "Il governo non è né la soluzione né il problema", come i vecchi liberal e i nuovi reaganiani avevano sostenuto dogmaticamente accapigliandosi senza mai risolvere il dramma delle recessioni periodiche.

Il problema è sapere fare le "scelte difficili" quando vanno fatte, di "tenere gli occhi sempre aperti e vigili sul mercato" che lasciato a se stesso "si avvita fuori controllo. Arriveranno regole, tasse (da pagare, non da evadere) e fiumi di danaro pubblico su imprese e infrastrutture. E soprattutto, è urgente il ritorno alla "responsabilità", la parola sulla quale ha insistito e già batteva in campagna elettorale, mentre i repubblicano lo dipingevano come la reincarnazione di Marx e ed Engels, irritando anche la propria base afro Americana, abituato a essere coccolata e lisciata dei predicatori del vittimismo.

La piccola, e per ora soltanto retorica, rivoluzione culturale che il 44esimo presidente Americano ha proposto, incarnando come nessun avrebbe potuto fare in maniera più evidente l'ansia collettiva di cambiare, sta nel promettere di riportare al cuore dell'amministrazione pubblica "verità, responsabilità e diritto", non "i falsi dogmi", sventolati per dividere e vincere le elezioni, senza poi poter governare. Certamente, "sconfiggeremo i terroristi", "lasceremo l'Iraq al suo popolo", "tenderemo la mano a chi aprirà il pugno e scioglierà la sua mano".

Ma questo presidente, l'uomo che non avrebbe potuto entrare in gabinetto pubblico una generazione fa e da ieri notte dorme con le due figlie bambine (ammesso che siano riuscite a dormire) nella casa dove anche Churchill sentiva gli spettri, ha risposto alla folla che ha risposto a lui ricordando che l'America ha vinto le proprie guerre con la potenza della propria "umiltà" e con la difesa dei propri valori civili e non con la "falsa scelta" (quante volte questa allusione al "falso" è tornata nel discorso tra cannoni e costituzionale. Una verità che nessuno come qualcuno che ha "sentito schioccare la frusta sulla pelle" dei proprio fratelli e sorelle potrebbe testimoniare meglio, nel giorno in cui l'America migliore sembra essere finalmente tornata fra noi, nel mondo.

(21 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #27 inserito:: Gennaio 21, 2009, 11:15:04 am »

L'ANALISI

La religione civile di Barack

di ALEXANDER STILLE


L'inaugurazione di Barack Obama, oltre a molte altre pietre miliari (il primo presidente nero della storia americana) segna anche un evento rivoluzionario nella storia dei media mondiali. Grazie alla Rete, che è entrata nelle vite quotidiane di milioni di persone in tutto il mondo solo negli ultimi anni, e grazie alla centralità assoluta degli Stati Uniti in questo particolare momento, essendo l'unica superpotenza di un mondo fortemente globalizzato, l'elezione e l'inaugurazione di Obama sono diventate un evento mondiale come nessun'altra elezione americana era mai stata prima d'ora.

Bisogna tornare forse al giubileo della regina Vittoria, il cinquantesimo anniversario del suo regno, quando la Gran Bretagna regnava su metà del pianeta in una sorta di globalizzazione ante litteram, per trovare una cerimonia politica nazionale che ha avuto un seguito tanto ampio. I sovrani di tutta Europa, undici primi ministri coloniali e numerosi maharaja indiani parteciparono a quell'evento, che fu seguito dalla neonata stampa quotidiana, di ogni parte del mondo.

Ma l'elezione di Obama naturalmente è qualcosa di diverso, che mescola elementi della cultura contemporanea della celebrità con forme nuove e innovative di democrazia partecipativa e sentimenti profondi, emotivi, potremmo dire quasi religiosi. "Un incantesimo che aprirà una nuova America" recitava oggi il titolo del quotidiano britannico The Guardian.

Molti non americani dicevano, un po' per scherzo, durante la campagna elettorale, che anche gli altri paesi dovevano avere la loro quota di voti elettorali nelle elezioni americane, considerando l'impatto del paese sugli affari mondiali.

I giovani francesi, tedeschi e italiani hanno seguito la candidatura di Obama e hanno esultato per le sue vittorie come se alle elezioni nazionali avesse vinto il loro partito. Io guardo costantemente le pagine Facebook di italiani - giovani e vecchi - con obamerie varie, simboli e messaggi, come se lui fosse uno "di casa". In un esempio di transfert estremo, la leader dei socialisti francesi, Ségolène Royal, avrebbe detto che la sua campagna aveva "ispirato" Obama e che lui aveva copiato le sue tattiche, suscitando una certa dose di ilarità e ridicolo in Francia. "Evidentemente c'è stato un problema di traduzione e Obama ha frainteso i suoi insegnamenti, perché lui ha vinto", ha commentato un lettore sul sito di Le Monde. Un editorialista del Times londinese ha scritto: "Domenica sera ho sognato Barack Obama. Milioni di persone lo sognano".

Obama è diventato una specie di test delle macchie di Rorschach universale, dove ognuno vede quello che vuole vedere. Al tempo stesso, assistere alla curiosa coreografia dell'inaugurazione di Obama - per molti non americani è la prima volta - potrebbe produrre uno shock. Il giuramento sulla bibbia di Lincoln, i riferimenti a Dio, la lunga preghiera che ha preceduto il discorso del neopresidente, lo sfrontato patriottismo e il sentimento sublime di una finalità nazionale specificamente americana sembrano qualcosa di profondamente estraneo per molti europei. Oltre a esporre elementi familiari del suo programma, Obama ha fatto riferimenti specifici alla grandezza dell'America, a Dio e ai padri fondatori.

Quello a cui stanno assistendo è una tradizione retorica peculiare ma importantissima, appropriatamente definita la "religione civile dell'America". Secoli di guerre di religione hanno bandito Dio dal discorso pubblico in gran parte dell'Europa, e il flagello del fascismo ha reso il nazionalismo qualcosa di molto controverso sul vecchio continente: per questo la liturgia civica americana sembra qualcosa di arcaico ed estraneo. (Un articolo su queste pagine, appena qualche giorno fa, sottolineava l'assenza della religione civile in Italia.)
Più di quarant'anni fa, il sociologo americano Robert Bellah scrisse un saggio fondamentale intitolato La religione civile in America, partendo dai numerosi riferimenti a Dio e a un fine superiore presenti nel discorso inaugurale di John Kennedy.

Kennedy iniziò con queste altisonanti parole: "Oggi non assistiamo alla vittoria di un partito, ma alla celebrazione della libertà, che simboleggia una fine, oltre che un inizio, che esprime il rinnovamento, oltre che il cambiamento. Eppure le stesse convinzioni rivoluzionarie per cui i nostri antenati hanno combattuto sono ancora in forse in tutto il mondo, la convinzione che i diritti dell'uomo non vengono dalla generosità dello Stato ma dalla mano di Dio".
Essendo situate generalmente all'inizio e alla fine del discorso, queste pennellate religiose potrebbero essere liquidate come specchietti per le allodole, ammiccamenti agli elettori religiosi bisognosi di rassicurazione. Invece, Bellah sosteneva che rivestivano un ruolo centrale nel discorso di Kennedy e nel linguaggio politico americano fin dai tempi della Dichiarazione di indipendenza di Jefferson: "Noi consideriamo manifeste tali verità, e cioè che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che sono stati dotati dal Creatore di determinati diritti inalienabili, che tra questi diritti c'è la vita, la libertà e la ricerca della felicità".

Abramo Lincoln, il presidente preferito da Obama, era intriso del linguaggio di Jefferson e di quello della Bibbia quando creava la retorica pregnante della guerra civile americana, che fornì il carburante emotivo per la guerra, per salvare l'unione, abolire la schiavitù, ma anche promuovere la riconciliazione nazionale dopo la fine del conflitto. "Con malizia verso nessuno, con carità verso tutti", disse Lincoln nel suo secondo discorso inaugurale. Martin Luther King usò il linguaggio jeffersoniano e la cadenza biblica per radunare milioni di persone in difesa della causa dei diritti civili.

Naturalmente, come riconosce Bellah, la religione civile dell'America non sempre è stata usata a fin di bene. È stata usata come giustificazione per il Manifest Destiny [la "missione" degli Stati Uniti di espandersi nel continente americano], la guerra contro il Messico e per la negazione dei diritti civili e politici degli indiani. Ovviamente, George Bush ha usato una sua forma di religione civile con i suoi discorsi sull'"asse del male" e la sua affermazione che la libertà era un diritto divino che l'America aveva il dovere di diffondere in tutto il mondo.

Ma considerando la profonda forza emotiva di questo linguaggio, e alla sua capacità di fissare le priorità nazionali - la guerra alla povertà, la corsa alla Luna, i diritti civili - Obama è sempre stato estremamente abile nell'attingere al filone jeffersonian-lincolnian-kennedian-martinlutherkinghiano di questa tradizione. Il nuovo presidente cerca di sfruttare la forza di questa tradizione per contrastare la versione più nazionalistica usata da Bush, e per metterla al servizio del suo nuovo e diversissimo programma.
(Traduzione di Fabio Galimberti)

(21 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #28 inserito:: Gennaio 21, 2009, 11:18:54 am »

Il braccialetto del Presidente

In pochi minuti è cambiato tutto. Dal sito della Casa Bianca, ieri paludatissimo, e oggi con le foto di Obama. Mica foto ufficiali. Sono scatti di vita comune. Lui con la famiglia, lui con gli operai. E' cambiato anche il look presidenziale. Anzi, Barack è il primo presidente degli Uniti a sfoggiare un braccialetto nella cerimonia che tiene il mondo col fiato sospeso, che fa fermare il pianeta. E' il suo amuleto, dicono. Lo porta da poco meno di un anno.

A febbraio del 2008 incontrò in Wisconsin la signora Tracy Jopeck, mamma di Ryan David un soldato ucciso in Iraq da una mina il 2 agosto del 2006. E' un bracciale semplicissimo, nero, con una targhetta d'argento. C'è la data di nascita e di morte di Ryan: aveva vent'anni quando è caduto. Le due date e una scritta; "Tutti hanno dato qualcosa, lui ha dato tutta". Quando la signora Tracy gliel'ha regalato Barack Obama stava correndo per le primarie democratiche e si è commosso. "Non lo toglierò più", aveva detto. E così è stato. Un amuleto ma anche il simbolo del no alla guerra del Presidente.

Lo aveva detto a febbraio proprio in Wisconsin, davanti alla folla di sostenitori. Aveva mostrato il bracciale e ricordato la storia di Ryan. "Incontro ogni giorno in tutto il Paese madri e familiari che piangono i loro figli, ma pensano anche a tutte le ragazze e i ragazzi che sono ancora laggiù, chiedendosi quando finirà". Per Ryan, per tutti i morti in Iraq, per chi aspetta a casa, il bracciale di Obama è un altro simbolo di speranza. 

20 gennaio 2009
da unita.it
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« Risposta #29 inserito:: Gennaio 22, 2009, 12:41:11 am »

«Finalmente orgoglioso di essere americano»

di Francesca Gentile


«Mi ha fregato, avevo detto che sarei stato io il primo presidente nero della storia d’America!». Will Smith scherza nel giorno dell’insediamento alla presidenza di Barack Obama. Scherza perché è felice del grande momento storico che il popolo americano e la «minoranza» afroamericana stanno vivendo. L’attore di Independence Day, il protagonista di Io sono leggenda, ora sugli schermi in Italia con il film drammatico di Gabriele Muccino Sette Anime, ha una teoria: «Credo che una grande parte del successo di Barack Obama dipenda dalla comunità artistica e in particolare da Mtv».

L’emittente musicale? Ci spiega?
«Quello che ha fatto Mtv, da venticinque anni a questa parte, è unire il sobborgo con la città, la campagna con la metropoli, l’America con il resto del mondo. Ha parlato ai giovani del globo, ai ragazzi bianchi come ai giovani neri. Dopo Mtv non è più possibile raccontare bugie, non puoi più raccontare delle differenze fra le razze. Loro, i giovani di oggi, sanno che non è vero niente. Fino a due, tre generazioni fa era diverso, i ragazzi, la stragrande maggioranza dei ragazzi, viveva nel loro piccolo mondo, magari nella campagna profonda d’America o in qualche paese sperduto della terra. Erano separati da tutto, lontani dal contatto con “l’altro”. A questi ragazzi potevi dire qualsiasi cosa, loro ci avrebbero creduto».

La globalizzazione giovanile di Mtv dunque avrebbe fatto il miracolo di sconfiggere il razzismo?
«Forse detto così è esagerato, ma io credo fortemente che un grande ruolo nel meraviglioso fatto che un ragazzo nero, Barack Obama, è diventato presidente degli Stati Uniti d’America, l’abbia avuto il rimescolamento artistico, lo scambio culturale che questa televisione ha mostrato ai sui giovani».

Lei è spesso in giro per il mondo per promuovere i suoi film. Ha notato differenze nella percezione dell’America dopo l’elezione di Obama?
«Decisamente sì. Sono stato a Mosca, Parigi, Londra e Roma ed ovunque ero così fiero! È la prima volta, da dieci anni a questa parte, che mi sento orgoglioso di essere americano quando sono all’estero».

Se ne avrà l’occasione interpreterà Barack?
«Lo farò. Non appena lui avrà scritto la storia dei prossimi otto anni. Nel frattempo potrei interpretarlo ogni volta che sarà fuori ufficio, così mi alleno».

Perché? Il suo progetto di diventare Presidente non è tramontato?
«No, solo che, anziché il primo sarò il secondo presidente nero degli Stati Uniti d’America».


21 gennaio 2009
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