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« inserito:: Maggio 17, 2008, 12:12:55 am » |
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Perché Hillary non si ritira Nicholas von Hoffman
Perché una donna intelligente come Hillary Clinton si ostina a continuare la sua campagna elettorale sebbene tutto congiuri ormai contro di lei e le sue speranze siano al lumicino? Nelle sue apparizioni pubbliche, nelle quali si atteggia a donna del popolo, dice che lo fa per noi americani. Se è questa la ragione, la nostra risposta è: no, grazie.
Secondo molti la sua ostinazione ha altre motivazioni. Taluni ritengono che continui la campagna elettorale per rendere inevitabile la sua scelta come candidata alla vicepresidenza. Secondo questa scuola di pensiero, più prosegue la sua campagna elettorale e più Hillary Clinton lega a sé le donne bianche di una certa età così da poter poi sostenere che se non farà parte del ticket queste elettrici ne saranno deluse e se ne staranno a casa invece di andare a votare.
Altri sussurrano malevolmente che Hillary Clinton continuando a battersi speri che Obama in cambio del suo ritiro e del suo impegno a sostenerlo contro McCain si accolli i suoi debiti e che le venga restituito il denaro sborsato di tasca sua. Certamente ha la reputazione di una donna molto attaccata al denaro.
Se decine di migliaia di persone che hanno offerto donazioni ad Obama venissero a sapere che il loro denaro è stato girato a Hillary Clinton, la cosa potrebbe avere pesanti ripercussioni negative. Un accordo del genere dovrebbe essere concluso in segreto e questo è un modo di fare affari con il quale la signora Clinton ha una certa familiarità. Tanto è vero che il Washington Post riferisce che la sua vocazione a tenere le cose nell´ombra l´ha portata sul punto di essere incriminata da un gran giurì federale per aver mentito durante la prima presidenza Clinton. Il giornale aggiunge che l´ha fatta franca solo perché i pubblici ministeri dubitavano che un gran giurì avrebbe mai fatto arrestare una First Lady.
Barack Obama dovrà valutare se perderà più voti non offrendo a Hillary Clinton la vicepresidenza oppure offrendogliela. Hillary porta con sé in cabina elettorale la sua legione di donne devote - nonché un numero non specificato di uomini di razza bianca. Ma la sua presenza nel ticket scoraggerà i più entusiasti e idealistici sostenitori di Obama? Da settimane Obama va dicendo che Hillary Clinton incarna la vecchia politica che lui promette di mandare in soffitta.
Se riuscirà ad imporre la sua candidatura come vicepresidente non sarà la prima volta. Nel 1932 il prezzo che Franklin D. Roosevelt dovette pagare per ottenere la nomination consistette nell´accettare come compagno di cordata John Nance Garner, un reazionario del Texas, uno di quelli, tanto per capirci, che ingollavano whisky e masticavano tabacco. I due si disprezzavano e trascorsero i successivi otto anni ad ignorarsi e ad evitarsi accuratamente.
Ai giorni nostri la vicepresidenza è molto più importante di quanto fosse ai tempi di Garner. All´epoca il vicepresidente continuava ad abitare a casa sua e il suo compito si limitava a presiedere il Senato. Roosevelt non lavorava con i suoi vicepresidenti né si confidava con loro. Quando morì e Harry Truman assunse la carica di presidente, non era nemmeno a conoscenza dell´esistenza del Progetto Manhattan.
Ai giorni nostri il vicepresidente ha una sua residenza e dispone di un ufficio e di una scorta. Sebbene anche oggi un presidente potrebbe escludere il suo vice dalla Casa Bianca, la tradizione vuole che al vicepresidente sia assegnato un ufficio e un suo staff alla Casa Bianca.
Se Obama è dotato dell´istinto di sopravvivenza, prima di scegliere Hillary Clinton come suo vice nel ticket per le elezioni di novembre dovrebbe ottenere un impegno: Chelsea Clinton come sua assaggiatrice ufficiale alla Casa Bianca. Potete immaginare gli intrighi di potere e le richieste di piazzare in posti di responsabilità i suoi fedelissimi che verrebbero dall´ufficio di Hillary Clinton. E poi che se ne farebbero di Bill? Che succederà quando si verrà a sapere che strinse un accordo con un despota dell´Asia centrale - diciamo, una concessione petrolifera per uno dei suoi amiconi miliardari?
Per alcuni quello Obama-Clinton è il "dream-ticket". Per altri è un sogno popolato di ragni velenosi, serpenti e ratti grandi quanto elefanti. Invece, ai fini della nuova politica di unità nazionale di cui parla Obama, non è da escludere che il senatore dell´Illinois pensi di offrire la vicepresidenza a un repubblicano. Il repubblicano Abraham Lincoln scelse un vicepresidente democratico nel 1864. Nel 2008 il democratico Barack Obama potrebbe scegliere il senatore repubblicano del Nebraska Chuck Hagel o l´indipendente Mike Bloomberg. Un ticket del genere forse non sarebbe da sogno, ma sicuramente vorrebbe dire che si volta pagina.
Nicholas von Hoffman collabora regolarmente con The Nation, è autore di tredici libri ed è opinionista del New York Observer © 2008, The Nation
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Pubblicato il: 16.05.08 Modificato il: 16.05.08 alle ore 12.26 © l'Unità.
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 27, 2008, 06:47:22 pm » |
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Barack Obama, anatomia di una campagna elettorale
Roberto Rezzo
Case Study. La campagna di Barack Obama per la Casa Bianca è diventata oggetto di studio nelle università americane ancor prima d’essere finita. Analizzata come un modello aziendale in cui s’intrecciano tecniche di marketing e comunicazione, budget e amministrazione, gestione delle risorse umane. Un modello politico per essere riuscita a trasformare l’entusiasmo della base in risultati concreti dal punto di vista elettorale. Qualcosa che al presidente del Partito democratico Howard Dean non era mai riuscito.
Dietro a questa squadra c’è una squadra di fedelissimi del senatore dell’Illinois, un gruppo che già si conosceva o aveva lavorato insieme a Chicago. Al vertice ci sono persone che si sono formate rispettivamente alla scuola dell’ex leader della Camera Dick Gephardt e dell’ex leader del Senato Tom Daschle. L’altra ala del Partito democratico, rispetto a quella dei Clinton. Ex ragazzi prodigio della politica che per le molte campagne elettorali alle spalle avevano il polso della stanchezza nazionale nei confronti dei Clinton. E imparato la lezione delle politiche di medio termine nel 2006: l’America che ha voglia di cambiare.
«Credo che chiunque con un minimo di realismo in zucca sapesse perfettamente che Obama partiva in svantaggio - spiega Valerie Jarrett, la sua consulente più anziana e autorevole, in una delle rare interviste concesse - Ma se ora si trova dove è arrivato, è anche perché in fondo eravamo assolutamente sicuri che l’impresa non era impossibile. Potevamo farcela».
La determinazione ha portato a una lunga serie di record in termini di volontari reclutati, partecipazione a comizi e manifestazioni, contatti Internet. L’ultimo riguarda il numero di finanziatori. Si sapeva che mai nessun candidato nella storia delle presidenziali aveva convinto tanti sostenitori ad aprire il portafogli, anche solo per un contributo minimo di dieci dollari. Ora salta fuori che i computer della Federal Election Commission non sono neppure in grado di contarli. A gennaio hanno superato le 65.536 righe massime contemplate dal programma con cui vengono stilati i resoconti mensili.
«No Drama Allowed». Questa sarebbe la prima direttiva impartita da Obama per assumere gli oltre 700 membri che lavorano a tempo pieno nella sua campagna. Niente protagonismi, niente primedonne, niente polemiche. Lavoro di squadra che si faccia notare solo per i risultati. David Plouffe, general manager di «Obama 2008», è l’incarnazione perfetta di questa visione. Un tipo freddo e impassibile, abilissimo nel macinare numeri e avverso alle luci della ribalta. Procede una mossa dopo l’altra come un giocatore di scacchi. È il master mind del piano che dall’inizio guardava oltre le primarie del 5 febbraio, il Supermartedì su cui Clinton aveva puntato tutto per assicurarsi la nomination. Ha aperto uffici nelle aree trascurate da Clinton, specialmente negli Stati dove si vota con la partecipazione diretta alle assemblee popolari.
La strategia di lungo periodo ha pagato: nel mese successo al Supermartedì, ha vinto dieci primarie di fila. E sono stati proprio i caucus a determinare il vantaggio di Obama in termini di delegati eletti che Clinton non è più riuscita a recuperare.
Nel 2004 al fianco di Gephardt aveva lavorato in una campagna senza soldi e prematuramente finita in un mare di debiti. E ha fama di essere tiratissimo con i soldi. Innanzi tutto è riuscito a pagare tutti i collaboratori meno di Clinton. Quindi ha bloccato tutte le istanze di spesa che intaccassero la copertura necessaria a fare campagna sino alla conclusione delle primarie. Il risultato è che adesso in cassa ci sono 18 milioni, mentre Clinton ha dovuto sborsare 11,4 milioni per coprire il rosso.
Questo non significa che tutto fili liscio come l’olio. Il piano iniziale era quello di trasformare una vittoria in Iowa in una vittoria nel New Hampshire, innescando un meccanismo a catena impossibile da fermare. Le cose sono andate diversamente: Clinton ha vinto nel New Hampshire e da allora lo scontro si strascina. La promessa di lasciare da parte l’arsenale di colpi bassi che spesso fa considerare la politica un gioco sporco e senza scrupoli, secondo molti commentatori non è stata sempre rispettata. Molti dubbi rimangono su chi abbia soffiato ad arte su polemiche che alla fine dipingevano Clinton come una razzista. O sull’indignazione suscitata da sue presunte gaffe.
La squadra di sogno che per la prima volta ha portato un afroamericano a un passo dalla nomination si prepara adesso a una sfida altrettanto ambiziosa. Riunire un partito profondamente diviso e presentare Obama a tutto un altro tipo di elettori. Convincere gli indecisi che un anziano e rispettato eroe di guerra sarebbe soltanto una brutta copia delle vecchie amministrazioni Bush. È scattato un nuovo giro di assunzioni. L’ultimo nome è quello di Anita Dunn, partner di uno delle più importanti società di comunicazione politica a Washington. Ha lavorato per Bill Clinton e John Kerry.
Pubblicato il: 27.05.08 Modificato il: 27.05.08 alle ore 13.36 © l'Unità.
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 05, 2008, 09:44:04 pm » |
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C’era una volta a Chicago
Barack Obama
Se si passa del tempo a Washington, si sente parlare delle divisioni presenti nel nostro paese, di un divario crescente di natura geografica e ideologica, razziale e religiosa, di ricchezza e opportunità. E ci sono politici che cercano di trarre vantaggio da tali divisioni, mettendo gli americani gli uni contro gli altri, o indirizzando messaggi diversi a interlocutori diversi. Ma avendo viaggiato in tutto il paese negli ultimi mesi, non sono rimasto colpito dalle differenze: piuttosto mi hanno impressionato i valori e le speranze che condividiamo. Nelle grandi e nelle piccole città, uomini e donne, giovani e anziani, bianchi, neri e gialli, tutti gli americani condividono la medesima aspirazione verso sogni semplici: un lavoro con un salario che possa mantenere una famiglia, una sanità su cui contare e alla loro portata, una pensione dignitosa e garantita, un’istruzione e opportunità per i nostri ragazzi.
Speranze comuni. Sogni americani. Sono i sogni che hanno guidato i miei nonni. Dopo che mio nonno combatté nella seconda guerra mondiale, il GI Bill gli offrì la possibilità di andare al college, e il governo quella di acquistare una casa insieme a mia nonna. Poi si trasferirono nell’Ovest, lavorarono sodo cambiando spesso lavoro, e riuscirono a garantire a mia madre un’istruzione adeguata, aiutandola ad allevare me e risparmiando il necessario per andare in pensione. E questi sono gli stessi sogni che hanno guidato mio suocero. Un operaio di Chicago a cui all’età di trent’anni diagnosticarono la sclerosi multipla. Ma lui ogni giorno andava a lavorare, anche se la mattina doveva uscire un’ora prima e appoggiarsi a un girello per arrivarci, mentre la moglie stava a casa con i bambini. Con quell’unico stipendio riuscì a mantenere la famiglia e a mandare mia moglie Michelle e il fratello al college. Il suo sogno era di vedere i figli migliorare la loro condizione. E così fu. Sono gli stessi sogni che hanno guidato mia madre. Una madre sola che, anche se doveva contare sui buoni pasto dello Stato, una volta finiti gli studi, ha seguito la propria vocazione ad aiutare gli altri e ha cresciuto me e mia sorella nella convinzione che in America non esistono barriere che impediscano il successo; non importa il colore della pelle, da dove vieni o quanti soldi hai in tasca.
Sono gli stessi sogni che mi hanno portato a Chicago oltre vent’anni fa, per fare l’organizzatore di una comunità di chiese. Lo stipendio - 12.000 dollari l’anno - non era quello che i miei amici avrebbero ottenuto in grandi aziende o in studi legali. Non conoscevo nessuno a Chicago, ma sapevo che c’erano persone che avevano bisogno di aiuto. L’acciaieria aveva chiuso e si erano persi molti posti di lavoro. In un angolo dimenticato dell’America il sogno americano stava svanendo. E io sapevo che per i sogni vale la pena di lottare.
La cosa speciale dell’America è che tutti vogliamo che questi sogni si avverino non soltanto per noi, ma anche per gli altri. Ecco perché lo chiamiamo il sogno americano. Lo vogliamo per il ragazzo che non va al college perché non può permetterselo; per l’operaio che si chiede se il prossimo inverno lo stipendio basterà a pagare la bolletta del riscaldamento; per i 47 milioni di americani che vivono senza copertura finanziaria; e per i milioni che si chiedono angosciati se la pensione basterà a garantire loro la dignità che meritano.
Quando il sogno americano viene negato ai nostri connazionali, ne va dei nostri stessi sogni. Oggi, il prezzo di quel sogno sta salendo come non mai. In questa economia globale, mentre alcuni si sono arricchiti oltre ogni immaginazione, gli americani del ceto medio - e quelli che si affannano per farne parte - vedono il sogno americano svanire sempre di più.
Lo sapete per esperienza personale: gli americani lavorano di più per avere di meno e pagano costi maggiori per sanità e istruzione. Per molti, un solo stipendio non basta per mantenere una famiglia e mandare i figli all’università. A volte, non ne bastano neppure due. È sempre più difficile risparmiare. È sempre più difficile andare in pensione. Si fa quel che si deve, ci si assume le proprie responsabilità, ma si ha sempre l’impressione di stare a galla a stento o di perdere terreno. E nel constatare tutto questo ogni giorno della mia campagna, rifletto su quanto sarebbe improbabile per la mia famiglia di allora realizzare i propri sogni oggi. Io non accetto un futuro così. Dobbiamo riprenderci il sogno americano. E per farlo dobbiamo cominciare col riprenderci la Casa Bianca da George Bush e Dick Cheney. Siamo stanchi di tagli fiscali per i ricchi che trasferiscono il fardello sulle spalle di chi lavora. Siamo stanchi di aspettare dieci anni per un aumento del salario minimo, mentre i compensi per i manager salgono alle stelle. Siamo stanchi di vedere sempre più americani senza assistenza sanitaria, sempre più americani che diventano poveri, sempre più ragazzi americani con il cervello e le qualità per andare al college ma senza i soldi per farlo. Siamo pronti per vedere la fine dell’amministrazione Bush perché siamo stufi e stanchi di essere stufi e stanchi. (...) Questo è ciò che dobbiamo fare per riprenderci il sogno americano. Sappiamo che non sarà facile. Ce lo ricorderà la compagnia dei «non si può», «non ci riesci», «non ci provare nemmeno», laggiù a Washington - quella degli interessi particolari e delle loro lobby, della mentalità che vuole questo paese troppo diviso per fare progressi.
Non mi sono candidato alla presidenza per adeguarmi a questa mentalità: l’ho fatto per sfidarla. La posta in gioco è troppo alta: le famiglie che non riescono a tirare avanti, il lavoratore anziano che pensa con terrore alla pensione, la ragazza che non crede che in America ci sia spazio per i suoi sogni. Per sostenere questi americani, non mi accontenterò di niente che non sia un cambiamento autentico, profondo - il cambiamento di cui abbiamo bisogno e in cui possiamo credere.
In questa campagna elettorale si parla molto di politica della speranza. Ma politica della speranza non significa sperare che le cose vadano meglio: è la politica di credere in cose che ancora non si vedono, in ciò che può essere questo paese; la politica di battersi e lottare per quel che si crede quando è difficile. L’America è la somma dei nostri sogni. Ciò che ci lega, ciò che ci rende un’unica famiglia, è il fatto che ci battiamo per i sogni di tutti, e che riaffermiamo una certezza fondamentale - io sono il difensore di mio fratello, sono il difensore di mia sorella - e lo facciamo attraverso la nostra politica, le nostre scelte e le nostre vite quotidiane. È giunto il momento di farlo di nuovo. È giunto il momento di riprenderci il sogno americano.
(novembre 2007) Tratto dalla raccolta di discorsi di Barack Obama «Yes, We Can, il nuovo sogno americano» Donzelli Editore
Pubblicato il: 05.06.08 Modificato il: 05.06.08 alle ore 8.51 © l'Unità.
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 06, 2008, 10:51:44 pm » |
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Con un comunicato smentisce le indiscrezioni
Hillary: «Non cerco la vice presidenza»
Forse la Clinton sabato darà l'appoggio a Obama, ma intanto non dà segni di cedimento
WASHINGTON - Hillary Rodham Clinton non sta cercando di ottenere la candidatura come vice presidente di Barack Obama. Lo ha puntualizzato il comitato promotore della sua campagna elettorale con un comunicato, smentendo le indiscrezioni su una tale proposta fatta pervenire all'avversario. «La senatrice Clinton ha messo in chiaro nel corso dell'intera campagna che farà tutto quanto è in suo potere perché alla Casa Bianca sia eletto un democratico», si puntualizza nella nota. «Non sta cercando di arrivare alla vice presidenza, e nessuno è legittimato a parlare per suo conto se non lei stessa. La scelta al riguardo è del senatore Obama, ed esclusivamente sua». Anche se sul piano formale il rivale non ha ancora ottenuto la nomination del partito per le presidenziali del 4 novembre, dovendosi attendere la convention nazionale di fine agosto a Denver, il numero di delegati che ha conquistato è più che sufficiente a garantirgliela comunque.
FINE- Per questo la Clinton avrebbe deciso mercoledì sera di mettere fine alla sua campagna ormai destinata alla sconfitta. L'ex first lady avrebbe comunicato la sua intenzione di portare il suo sostegno alla candidatura di Obama e di congratularsi con lui per essere riuscito a riunire un numero di delegati sufficiente per conquistare l’investitura del partito democratico. Hillary Clinton avrebbe rilasciato queste dichiarazioni durante una lunga conferenza telefonica privata mercoledì sera con alcuni deputati democratici.
SABATO - «La senatrice Clinton organizzerà un evento a Washington per ringraziare i suoi sostenitori ed esprimere il suo sostegno al senatore Obama e all’unità del partito», ha dichiarato il suo direttore della comunicazione, Howard Wolfson. «L’evento avverrà sabato per riunire la maggior parte dei sostenitori della Clinton che vogliono assistervi», ha aggiunto. In un primo momento era stata diffusa la data di venerdì. Nel suo discorso Hillary Clinton inviterà i democratici a concentrarsi sull’elezione presidenziale e a contrastare il candidato repubblicano John McCain. Wolfson.
LE POSSIBILITÀ - Diverse opzioni sono state esaminate: sospendere la campagna per conservare il controllo sui delegati acquisiti alla Clinton e assicurarsi così una visibilità suscettibile di aiutarla a promuovere la sua riforma del sistema sanitario americano, oppure lasciare i suoi delegati liberi di sostenere Obama e ritirare senza condizioni la sua candidatura. Secondo il consigliere, né Clinton né i suoi più stretti collaboratori hanno ancora fissato le modalità del ritiro, anche se tutti riconoscono che la lotta della candidata per tentare di diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti è terminata. Durante la conferenza telefonica con i sostenitori di Hillary Clinton alla Camera dei rappresentanti, questi hanno esortato la loro candidata a mettere fine alla sua campagna o almeno a esprimere il suo sostegno a Obama. La decisione della Clinton di accedere alla loro richiesta è stata per più d’uno una sorpresa. La senatrice di New York aveva in effetti minacciato di insistere sulla sua candidatura fino alla convenzione nazionale del partito democratico in agosto, ciò che avrebbe potuto ridurre le possibilità di vittoria democratica nelle elezioni presidenziali.
05 giugno 2008
da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Giugno 06, 2008, 10:52:37 pm » |
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Sex and the City
Hillary vittima del complesso di Mr. Big
La Clinton è stata una macchina da guerra. Ma mai da sola
«Tra molti anni, Sex and the City e la candidatura presidenziale di Hillary Clinton saranno visti come espressioni gemelle di un femminismo stravagante e contraddittorio». Addirittura. Però forse un po’ sì. Lo scriveva ieri Timothy Noah sulla rivista online Slate. È un’interpretazione frivola, dopo queste primarie sanguinose che hanno diviso per razza e genere; ma ha un suo perché. Le ex ragazze della serie ora film erano ambiziose e indipendenti; ma erano alla continua ricerca di conferme emotive tramite scarpe costose e approvazione maschile di qualche Mr. Big. Hillary è stata una macchina da guerra tutta la vita; però mai da sola. Sempre incrollabilmente sposata con Mr. Bill. Per cui ora si dice che Carrie, Miranda, ecc. di Sex and the City e il senatore Clinton «incarnano un sogno femminile di potere in qualche modo compromesso». È compromesso anche il sogno democratico di conquistare la Casa Bianca però, ora, forse. Per gli errori di Hillary, i limiti di Barack Obama, lo scompiglio nell’elettorato dopo questa corsa anomala. Perché ora il candidato democratico di padre nero e mamma bianca rischia tra le donne bianche, quelle dell’età di sua madre, soprattutto. In queste primarie i sondaggi sono stati spesso inesatti; ma adesso, per Obama, sulle donne bianche, sono preoccupanti. Ad aprile lo preferivano a John McCain. A maggio, McCain aveva un vantaggio di otto punti. Poi si vedrà. Per il momento, i media americani raccontano della signora indignata alla riunione democratica sul caso Michigan-Florida che gridava «McCain nel 2008!». Delle elettrici non giovani che dichiarano «il modo in cui è stata trattata Hillary per me è un’offesa personale». Di quelle infuriate perché «i democratici pensano che tanto andremo zitte e buone a votare ». Di quelle convinte che Obama sia l’ennesimo uomo che le ha fregate. Conquistare quelle elettrici, per Obama, non sarà semplice. Ha una moglie carismatica ma spigolosa, con cui molte non si identificano; deve sperare che Michelle non faccia altre gaffes, o che ne faccia Cindy McCain, milionaria con l’aria da Barbie sotto psicofarmaci. Obama ha sempre votato pro aborto,mentre John McCain ha un percorso netto di voti antiabortisti; ma non può vantarsene troppo, potrebbe costargli voti di americani religiosi. È accusato di elitismo,ma è moltomeno ricco di McCain; però McCain è un vecchio americano (bianco) alla mano e rassicurante. Obama è un marito fedele; ma non conta più di tanto, basta pensare a Bill. Si può consolare con l’ultimo sondaggio Gallup secondo cui le donne, di tutti i colori, lo preferiscono a Mc- Cain.Ma solo per tre punti, 49 a 46. Oppure può pensare che le elezioni americane sono un grande, quadriennale psicodramma collettivo; con alti e bassi emotivi e continui innamoramenti dei media per una tendenza o per l’altra. L’ultima tendenza, ora che Hillary si arrende e Obama non dà certezze, è narrare a tappeto l’arrabbiatura delle donne bianche. Anche se, scriveva ieri Rosa Brooks sul Los Angeles Times, «è sbagliatissimo decidere che le donne, come gruppo, abbiano idee politiche condivise. Ci sono anche molti uomini dispiaciuti per Hillary,ma non vedo titoli che recitano "Uomini angosciati per la probabile sconfitta di Clinton"». Intanto, Obama ha cominciato a lodare Hillary, a dire che è formidabile. Il voto di Carrie di Sex and the City, delle newyorkesi elitiste, lo ha già intascato; è quello delle americane normali e impoverite, con più problemi di mutuo che di scarpe, che deve guadagnare. Sperando nell’aiuto di Hillary. Per il sogno femminile di potere «compromesso » (ma esiste potere maschile non compromesso?) ci saranno, si presume, altre occasioni. Attenzione ai Mr. Big, nel frattempo.
Maria Laura Rodotà 04 giugno 2008
da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 23, 2008, 09:37:16 am » |
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ESTERI
La Clinton disse che il passato del suo avversario avrebbe indebolito la candidatura
"Ma i suoi compagni di classe lo ricordano come uno lucido e motivato"
Sbornie e spinelli all'Università
"Per non pensare al futuro"
di SERGE KOVALESKI
UNA TRENTINA di anni fa, Barack Obama si distingueva nel piccolo campus dell'Occidental College di Los Angeles per la sua eloquenza, la sua intelligenza e il suo attivismo contro l'apartheid in Sudafrica. Ma Obama, noto allora come "Barry", prendeva parte anche alle feste. Nel suo libro di memorie del 1995, a distanza di anni egli rammenta "di aver fumato spinelli nella camera di qualche fratello" e rivela di essersi ubriacato più volte. Prima del college, quando era studente alle Hawaii, secondo quanto scrive nel libro, indulgeva nell'uso di marijuana, alcol e talvolta cocaina. Nel novembre scorso il senatore Obama, allora presunto candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti, ha confessato agli studenti di un liceo del New Hampshire di aver "preso alcune pessime decisioni" da teenager in relazione all'uso di stupefacenti e di alcol.
Le ammissioni di Obama sono cosa rara per un politico (Il libro "Dreams from my father" lo ha scritto prima di candidarsi e di entrare in politica). Nel dicembre scorso per qualche tempo le sue rivelazioni sono salite alla ribalta quando un consigliere della senatrice Hillary Clinton ha ipotizzato che le sue esperienze con la droga lo avrebbero reso vulnerabile nei confronti di attacchi da parte dei repubblicani qualora fosse diventato il candidato ufficiale del suo partito.
Obama non ha mai quantificato e precisato l'uso che ha fatto di sostanze stupefacenti: ha descritto però i due anni trascorsi all'Occidental College - un'università di studi umanistici a maggioranza bianca - come un risveglio progressivo e profondo dall'indifferenza nella quale aveva vissuto, un progresso che lo condusse all'attivismo e a temere che la droga potesse portarlo inesorabilmente alla tossicodipendenza o all'apatia generale, come vedeva accadere in molti uomini di colore. Il resoconto fatto da Obama dei suoi anni giovanili e del suo consumo di stupefacenti, tuttavia, differisce molto dai ricordi di altre persone, che non rammentano che egli ne facesse uso. In quasi una trentina di interviste, amici, compagni di classe, mentori del liceo e del college ricordano tutti Obama come un giovane determinato, motivato, padrone delle proprie azioni. Uno studente che in nessun modo pareva avere a che fare con problemi legati alla droga. Un portavoce della sua campagna, Tommy Vietor, ha detto che il libro di Obama "è uno schietto resoconto personale di quello che il Senatore Obama sperimentò e pensò all'epoca", e ha scritto: "Non sorprende che i suoi amici del liceo e del college non abbiano ricordi personali e stentino a rammentare ciò che avvenne oltre 20 anni fa con la sua stessa precisione".
Ciò che è chiaro è che il periodo trascorso da Obama all'Occidental College, dal 1979 al 1981 lo avviò con decisione alla sua carriera nel servizio pubblico. Lì sviluppò una più robusta autoconsapevolezza, visse una sorta di nascita politica, soprattutto nel suo secondo anno di università, quando si interessò alle grandi diseguaglianze e ingiustizie sociali come l'apartheid e la povertà nel Terzo mondo.
Figlio di madre americana bianca e di padre keniano nero, Obama ha scritto che si ubriacava nel tentativo di superare e annientare la confusione che provava nei suoi stessi confronti. "Un tossico, uno spinellato... ecco che cosa ero destinato a diventare. Ero destinato ad assumere il ruolo ultimo e inevitabile di un giovane di colore. Solo che le sbornie non erano per cercare di dimostrare che tipaccio fossi, ma per scacciare dalla mia mente le domande su chi ero e chi sarei diventato".
Quando Obama frequentò il suo penultimo e ultimo anno di università, corrispondenti al periodo nel quale egli scrive di aver fatto largo uso di marijuana e di cocaina perché "poteva permettersi di acquistarle", tuttavia egli si era già laureato.
Obama in particolare descrive un episodio risalente a quel periodo: ricorda di aver visto qualcuno di nome Micky tirar fuori dal congelatore della carne di un negozio di gastronomia "un ago e un tubo", a quanto pare per farsi un buco di eroina. Allarmato da quanto aveva visto, Obama scrive di aver immaginato in che modo una semplice bolla d'aria potesse portarlo all'altro mondo.
Obama si lasciò coinvolgere nell'Associazione degli studenti di colore e nella campagna di spoliazione mirante a esercitare pressioni sul college affinché togliesse i propri finanziamenti alle società che facevano affari in Sudafrica. Per affermare il loro punto di vista gli studenti campeggiarono all'aperto in una baraccopoli improvvisata nel campus. Obama fu uno dei pochi studenti a prendere la parola a un raduno al campus per promuovere la campagna. Rebecca Rivera, membro di un analogo gruppo di studenti ispanici, afferma che nelle sue parole c'era "passione, assolutamente, ma non foga incoerente".
Amiekoleh Usafi, compagno di classe di Obama, prese anch'egli la parola in quella occasione e oggi ricorda di averlo incontrato alle feste. Noto all'Occidental College con il nome di Kim Kimbrew, egli dice di aver visto Obama a dir tanto con qualche sigaretta e una birra: "Non lo avrei mai definito un drogato, e dire che lì ce ne erano tanti! Ma lui era troppo cool per cose del genere".
(Copyright The New York Times-La Repubblica Traduzione Anna Bissanti)
(23 agosto 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 23, 2008, 09:38:13 am » |
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ESTERI
Droga e alcol da ragazzo. Ma anche un fascino irresistibile
Alla vigilia della Convention, viaggio alla scoperta di Barack Obama, l'educazione di un leader
di VITTORIO ZUCCONI
ORMAI alla vigilia delle incoronazione in quella cerimonia liturgica semi religiosa chiamata "Convention", calcolata quest'anno per coincidere con il giorno del "discorso del sogno", il 28 agosto, di Martin Luther King, il figlio di un pastore vagante dell'Africa e di una contadina della Prateria americana che osa aspirare alla presidenza degli Stati Uniti rimane, dopo quintali di libri, autobiografie, documentari, insinuazioni e adulazioni, il più famoso sconosciuto del mondo.
Del giovane candidato alla presidenza americana Barack Hussein Obama, che ha compiuto 47 anni il 4 agosto scorso, crediamo di sapere tutto, vizi e vizietti, qualità e debolezze, canne fumate, "linee" annusate e marca di bourbon preferita. Ma dell'uomo, chiuso dentro il bozzolo della sua coolness da jazzista anni '50, vestito della sua aria ingualcibile come i completi di "fresco lana" italiano che indossa, nascosto nella sua maestria retorica, abbiamo intravisto qualche lampo, mai l'immagine completa. La "Obama Story" è stata sviscerata e analizzata anche in inchieste equilibrate, nè agiografiche nè calunniose, come questa condotta dal New York Times. Ma la "Obama Soul", la sua anima resta un segreto che appartiene soltanto a lui e forse a Michelle, la sua prima e finora unica moglie.
Una campagna elettorale non è lo strumento migliore per scrutare la verità di candidati sballottati fra gli estremi opposti della autosantificazione e della demonizzazione e si trasformano in lavagne sulle quali i cortigiani propri e altrui possono scarabocchiare e cancellare di tutto, senza mai scalfire la superficie.
E questo, di essere ancora un affascinante enigma, un magnifico sconosciuto per milioni di americani, è il vero nemico che Barack Obama deve sconfiggere, assai più insidioso dell'anziano, e a tratti ormai visibilmente senile, avversario repubblicano McCain.
Gli sarà difficile, perché questa coolness, questa imperturbabilità che provoca accuse di snobismo, è un tratto che si ritrova non nel suo essere Obama, intelligente, colto, cosmopolita (peccato grave presso l'elettorato più provinciale), ma nel colore indelebile della sua pelle. E' un meccanismo istintivo, ma anche appreso, che chiunque abbia avuto contatti e apparenti amicizie con americani di sangue africano, riconosce anche nelle persone di colore più di successo. E' una difesa, un senso di prudenza, di diffidenza, di riservatezza che la storia, la diversità, e la minorità insegnano dolorosamente a tutti coloro che, per il cognome italiano con la vocale alla fine come Capone, Gambino o Luciano, per l'accento straniero, per la religione o la carnagione, sanno di essere perennemente giudicati. E sempre a un passo dal precipizio dello stereotipo negativo.
Obama non è snob e superbo perché è uscito da Harvard. Lo è perché e nero. Svelare l'anima dietro la maschera, diventare banale senza perdere la sua eccezionalita, è vitale per lui.
Per vincere un'elezione, ovviamente. Ma per sbriciolare finalmente, per tutti, quella parete di cristallo che ancora divide l'America da sè stessa.
(23 agosto 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 24, 2008, 06:46:43 pm » |
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ESTERI L'ANALISI
Il perfetto numero 2
dal nostro inviato VITTORIO ZUCCONI
Matrimonio politico tra speranza e prudenza, promessa rassicurante all'America, e a un mondo stanco di bullismi militari e di smargiassate ideologiche, di cambiamento senza avventure.
L'accoppiata fra Barak l'africano e Joe l'irlandese è in fondo la versione di sinistra dell'operazione che fecero a destra i repubblicani otto anni or sono quando affiancarono all'immaturo e inesperto Bush la navigata governante Cheney. Con l'augurio che, in caso di loro vittoria, i risultati siano migliori.
E' un'unione di opposti che essi sperano divengano complementari e formino un pacchetto capace di calmare le ansie degli scettici, senza deprimere gli entusiasmi dei convertiti, rassodando l'unità del partito. In linguaggio scacchistico, potremmo dire che Barack Obama, martellato come un novizio invaghito della celebrità, si è arrocato, scegliendo questo senatore che potrebbe essere suo padre (sessantasei anni contro quarantasette) che ha fatto della politica internazionale la propria specialità. E che in materia di pace e guerra, di ordine mondiale, di diritti civili per le donne e per i neri, di "sicurezza nazionale" come vuole lo slogan, sovrasta testa e spalle il repubblicano John McCain, le cui immaginarie credenziali di politica estera sembrano malinconicamente ridursi a quei cinque dolorosi anni trascorsi nelle celle di Hanoi trentacinque anni or sono, in un mondo leggermente diverso dal nostro. Celle nelle quali l'eterno reduce di professione sembra essere ancora imprigionato.
Joseph Biden è semplicemente tutto quello che Barak Hussein Obama non è. Quanto Barak appare snob, elitista, algido, intellettuale ("consumatore di rughetta", dicono rabbrividendo a destra, sintomo terminale di elitismo gastronomico) e distaccato dal mondo dei colletti blu democratici, dal popolo del cestino colazione in fabbrica (almeno in quelle che non sono già volate in Cina), tanto il vecchio Joe è amato nel vecchio cuore industriale dell'Est, dove potrebbe dare qualche aiuto elettorale negli stati in bilico. E' popolarissimo nel suo Delaware (lo staterello feudo della chimica Dupont de Nemours dove lui è senatore da 36 anni) nella vicina Pennsylvania, nell'Ohio, nel Michigan, nella "cintura della ruggine" che non si è convertita alla "Obamania". E' di famiglia, se non di particolare devozione, cattolica romana, contro il revivalismo messianico delle chiese battiste nere frequentate da Obama.
E' un formidabile manovratore di leve parlamentari, quanto il suo capocordata Obama è ancora "junior", essendo senatore al primo mandato. Ed è una linguaccia, con tendenza alla gaffe garrula e alla logorrea per autocompiacimento, il contrario dell'afro americano, incantevole nella enunciazione dei discorsi preparati, ma esitante nella battuta pronta. Vederlo sparare il suo sorriso stirando le labbra, un trucco che imparò per controllare i muscoli facciali e vincere la balbuzie che lo tormentava da ragazzo - e sparare una battuta ("Questo Giuliani - disse del noioso e monocorde ex sindaco di New York - conosce soltanto tre parole, un sostantivo, un verbo e il 9/11") contrasta radicalmente con l'espressione che raggela Obama quando deve uscire dal copione.
Per questo era stato lui, da sempre, il compagno di squadra che il candidato democratico aveva in mente, nascosto dietro i depistaggi organizzati per tenere alta la suspence fino alla vigilia del Congresso, della "Convention", che comincia domani a Denver. Nessun altro era stato considerato seriamente da Obama, che non poteva affiancare un'altra scelta arrischiata a se, essendo già lui il personaggio shock. O portarsi in casa residuati invadenti come Al Gore o Hillary Clinton, con Bill a rimorchio, mai inserita davvero nella lista dei possibili vice, come era ovvio che fosse. La promessa di cambiamento è lui, il figlio del Kenyano con quel nome strano e straniero, e raddoppiare la scommessa della novità l'avrebbe resa un azzardo.
Il problema Hillary, pensando al gioco di spariglio che la signora potrebbe essere tentata di fare contro l'usurpatore del propri diritti dinastico, l'odiato Obama, è un altro dei valori aggiunti che Joe Biden porta. "Old Joe", con quei suoi capelli trapiantati ma non pittati per nascondere le cicatrici di due interventi per aneurismi al cervello, è un "boss" di partito della vecchia scuola, e la frustrata signora Clinton, senatrice lei stessa, dovrà fare attenzione a non creare l'impressione che lei, e l'ingombrante coniuge, remino contro il duo Obama-Biden. Nel caso di una loro vittoria, lady Hillary sarebbe punita e marginalizzata in Senato, dove già non ha brillato. Nel caso di una loro sconfitta, la implacabile vendetta della politica le farebbe pagare lo sgarro, negandole, o rendendole assai dura, la candidatura del partito fra quattro anni.
La campagna di Barak Obama ha dunque fatto una scelta che, prima di essere giusta o sbagliata, come si vedrà soltanto il 4 novembre, era inevitabile. L'outsider con l'insider, venuto dal cuore dell'establishment politico. Il profeta del cambiamento temperato dalla esperienza di un cardinale di Washington. La voglia di rassicurare la nazione e di compattare un partito ancora dilaniato dallo strazio delle primarie, ma che riconosce in Biden un vero democratico dal pedigree antico e un difensore dei diritti delle donne, tra i pochi che votarono contro i giudici conservatori voluti da Bush alla Corte Suprema. E se qualcuno tenterà ancora di cantare il consueto refrain contro i Democratici insensibili alle virtù militari, il vecchio Joe potrà mostrare la foto del figlio maschio in divisa da capitano. E' in partenza per l'Iraq, dove la Casa Bianca ci grida che la guerra è vinta, eppure stranamente giovani americani come lui continuano a morire.
(24 agosto 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Agosto 24, 2008, 09:56:44 pm » |
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Obama, correzione di rotta Gian Giacomo Migone Con la scelta di Joseph («Joe») Biden a candidato alla vice presidenza degli Stati Uniti, Barack Obama ha confermato la tendenza della sua campagna elettorale che mira a occupare il centro del perimetro politico, rassicurando gli interessi e gli orientamenti che tradizionalmente lo dominano. Per entrambi i candidati si tratta di conquistare i voti dei numerosi incerti, circa un terzo dell´elettorato secondo i sondaggi, moderati, veri o presunti. Lo sono veramente? È questo l´interrogativo che grava sull´esito degli sforzi del ticket democratico. Nelle primarie Obama ha conquistato la candidatura democratica mobilitando una parte cospicua della popolazione solitamente riluttante a partecipare al voto che, nel caso delle elezioni presidenziali americane, oscilla tra il 50 e il 60 per cento degli aventi diritto. Soprattutto, giovani e afroamericani. Lo ha fatto con alcune scelte radicali come il netto e coerente rifiuto della guerra in Iraq, la disponibilità a negoziare anche con i peggiori nemici degli Stati Uniti, una impostazione profondamente innovativa della questione razziale (ciò che conta non è il colore della pelle, ma l´emarginazione sociale a cui porre rimedio), un rafforzamento del fragile welfare americano, il rifiuto della pena di morte. Ma, sopra ogni altra cosa, con un appello al cambiamento che ha catalizzato l´ostilità diffusa nei confronti della vecchia politica, non dissimile da quella presente nel resto dell´Occidente, in cui è affondata la candidatura, pur femminile e femminista, di Hillary Clinton. Lo ha fatto con l´appoggio di una parte cospicua dell´apparato di partito che, in misura sorprendente, lo ha seguito in queste scelte, grazie alla leadership di personalità in ascesa come Nancy Pelosi e Al Gore, oltre che dell´opinione liberal, intellettuale e mediatica. La difficoltà di Obama a distaccare il proprio rivale repubblicano nei sondaggi di opinione, malgrado la crescente impopolarità del presidente in carica (ultimamente con la guerra in Georgia), lo ha però costretto a una correzione di rotta. Anziché continuare a galvanizzare i propri sostenitori, consolidandone la partecipazione, Obama ha dovuto riportarsi entro parametri politici più tradizionali, annacquando le sue precedenti posizioni al punto di suscitare un severo editoriale del New York Times che ha sottolineato il pericolo di perdere partecipazione a sinistra più di quanto egli non possa guadagnare al centro con tale riconversione a favore della vecchia politica del flip-flop, dico e non dico, di marca washingtoniana. La scelta di Joe Biden, senatore di lungo corso, presidente in carica della commissione Esteri del Senato, corrisponde all´esigenza di rassicurare e conformarsi alle regole e ai valori bipartisan che dominano la politica della capitale americana. Ad esempio Biden ha gestito non certo in senso critico la fatidica impostazione della cosiddetta guerra al terrorismo e quella contro l´Iraq di Saddam Hussein, in sede parlamentare. Egli auspica certo un´impostazione più multilaterale della politica estera, ma senza una qualche riflessione critica su una leadership americana che la realtà di un mondo ormai multicultulare impone. Né Biden, senatore della Delaware, Stato storicamente dominato dalle grandi corporations, aggiunge nulla alle ricette per affrontare la recessione in atto e il crescente disagio economico e sociale del ceto medio, per non parlare di quelli tradizionalmente emarginati. È vero però che l´effetto rassicurante della figura e della collocazione politica di Biden potrebbe liberare Obama, consentendogli di recuperare la spinta innovativa originaria della sua candidatura, offrendogli il peso e la ponderatezza di cui egli, secondo i suoi critici, mancherebbe. Staremo a vedere. Come è anche vero che il suo rivale, John McCain, è stato costretto ad abbandonare il suo profilo originario, tutt´altro che conformista in senso tradizionalmente repubblicano, incline a prendere le distanze dall´ortodossia neoconservatrice, ma anche dai salotti buoni del suo partito. Lo ha fatto traendone giovamento nei sondaggi di opinione, contrariamente al suo rivale democratico che rischia di scontentare i suoi sostenitori senza conquistarne altri. Vedremo quale sarà l´effetto Biden, come anche la scelta del candidato repubblicano alla vice presidenza. Si parla con insistenza dell´ex democratico conservatore Joseph Lieberman che fu al fianco di Al Gore nel ticket democratico sconfitto da George W. Bush nelle elezioni del 2000. Come si vede, poco o nulla di nuovo sotto il sole un poco appannato di Washington. Un´avvertenza finale. Quella di vice presidente degli Stati Uniti, come è definita dalla sua Costituzione, è la carica politica più paradossale che possa immaginarsi. Scelto liberamente dal candidato vincente alla presidenza, a cui si affianca nelle elezioni a suffragio popolare, le sue competenze ne sono rigidamente definite e solitamente limitate. Il caso di Dick Cheney, vice presidente in carica, singolare tutor di George W. Bush e garante degli interessi che lo hanno espresso, è una rondine che non fa primavera (si perdoni la metafora particolarmente inappropiata). Tuttavia, il vice presidente si colloca, come dicono gli americani, a un battito di cuore dal presidente, sostituendolo automaticamente nel caso venisse meno, fisicamente o per altri motivi, nel corso del suo mandato. L´ipotesi non è peregrina, malgrado la differenza di età che, nel nostro caso, separa Obama da Biden, se si riflette sul fatto che, nel secolo scorso, ben cinque presidenti degli Stati Uniti sono stati sostituiti dai loro vice presidenti prima di concludere i loro mandati. g.gmigone@libero.itPubblicato il: 24.08.08 Modificato il: 24.08.08 alle ore 14.35 © l'Unità.
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« Risposta #9 inserito:: Agosto 26, 2008, 11:16:41 am » |
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PRESIDENZIALI AMERICANE
Obama-McCain i due outsider
di Massimo Gaggi
A Denver le facce scure dei delegati pro Hillary costretti a inneggiare a Obama. A Minneapo-lis, la prossima settimana, l'adunata di un partito chiamato a incoronare McCain, un candidato che non ama. Quelle del 2008 sono le convention del mal di pancia. Ma il malessere degli apparati è anche una bella prova di vitalità della democrazia americana.
Se ne parla poco perché i due leader non hanno interesse a sottolineare questa circostanza, ma adesso che parte lo scontro finale e che tutti cercano i punti di contrapposizione tra personaggi con storie e profili molto diversi, vale, invece, la pena di sottolineare il dato che più li accomuna: Obama e McCain non sono i rappresentanti di un potere consolidato, ma due outsider che l'hanno spuntata sui rispettivi establishment grazie al voto popolare. Non è poco in un mondo nel quale si vota sempre di più, ma le democrazie troppo spesso sono solo formali o «limitate». All'ombra della globalizzazione si diffondono oligarchie, leader che mescolano populismo e paternalismo autoritario: regimi spesso sorretti dai centri di potere economico o da qualche istituzione forte (come la rete degli ex agenti del Kgb in Russia).
Ma anche nei Paesi con una struttura democratica consolidata e un efficace sistema di garanzie, al potere si arriva spesso per cooptazione o sulla base dei rapporti di forza nella dirigenza centrale dei partiti. Basti pensare, restando in Italia, alle primarie «pilotate» del Pd o al centrodestra solidificato attorno al potere economico e alle capacità mediatiche di Silvio Berlusconi.
Rispetto a quello che accade nel mondo, il senatore nero dell'Illinois e il maverick dell'Arizona, imprevedibile e insofferente di ogni disciplina di partito, sono due significative diversità: due battitori liberi che i rispettivi partiti hanno a lungo osteggiato.
L'establishment democratico voleva Hillary Clinton. Obama l'ha spuntata sfruttando la sua popolarità, il rapporto coi giovani e usando i circuiti di Internet al posto di quelli del partito. Qualcuno sostiene che il «regicidio» non sarebbe stato possibile senza l'appoggio di un potere nuovo: quello dell'industria hi-tech, che sarebbe il nuovo establishment. Non è proprio così: la Silicon Valley ha sicuramente appoggiato Obama, l'ha aiutato a sfruttare il web in modo più efficace, ma i giovani imprenditori libertari e un po' anarchici dell'informatica non rappresentano (ancora) un gruppo di potere coeso, capace di condizionare davvero la politica di Washington.
Quanto ai capi repubblicani, su una cosa erano d'accordo: non volevano uno come McCain, sempre pronto a prendere le distanze dal partito, ad attaccare Bush e a fare accordi col «nemico» democratico. Pur di sbarrargli la strada, la Casa Bianca era arrivata ad appoggiare il mormone Mitt Romney. Anche la lobby industriale gli era ostile perché McCain si professa «mercatista», ma in Senato per anni ha bastonato le imprese che secondo lui hanno abusato della loro libertà, comportandosi in modo rapace: farmaceutica, tabacco, petrolieri e le aziende aerospaziali che hanno cercato accordi «sottobanco» col Pentagono. Ma gli elettori delle primarie hanno sconfitto gli apparati che si sono dovuti rassegnare all'inevitabile. Se alle convention verrà rilevato un deficit di entusiasmo, se ci sarà qualche contestazione, prendetelo per un segno di forza, non di debolezza, della democrazia americana.
26 agosto 2008
da corriere.it
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« Risposta #10 inserito:: Agosto 26, 2008, 06:47:29 pm » |
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Il pendolo di Obama e del suo vice Biden
John Nichols
Bastava un po’ di vecchio buon senso per capire chi sarebbe stato il candidato alla vicepresidenza di Barack Obama. Alla fin fine Obama ha scelto la persona che durante le primarie democratiche ha sottolineato, più di ogni altro, ripetutamente e con durezza che Obama non era esperto abbastanza per ricoprire la carica di presidente degli Stati Uniti. È stato Biden nell’agosto del 2007 a dire nel corso di un dibattito: «Penso che Obama potrebbe essere pronto, ma al momento non credo lo sia. La presidenza non è un corso di apprendistato. Quando al senatore Biden è stata ricordata questa dichiarazione, ha risposto che la confermava.
Commenti come questo appariranno sicuramente nei manifesti pubblicitari del repubblicano John McCain. La macchina repubblicana è già al lavoro e ha sfornato la prima stilettata di veleno. Alle ore 1,22 del mattino (ora della costa orientale) è uscito il seguente comunicato stampa dello staff di McCain: «Joe Biden è stato sicuramente quello che ha maggiormente criticato la mancanza di esperienza di Barack Obama. Biden ha sottolineato la scarsa capacità di valutazione di Barack Obama in materia di politica estera e con parole sue ha detto quello che gli americani stanno rapidamente cominciando a capire: Barack Obama non è pronto per fare il presidente». Non aspettatevi che i tentativi di McCain di usare Biden contro Obama facciano troppi danni. I democratici, e in ultima analisi gli americani in genere, non dovrebbero avere difficoltà ad accettare i commenti secondo cui il n. 2 Biden riteneva che Obama non fosse pronto a fare il n. 1.
Come? Riconoscendo che oggi sulla scena politica i partiti finiscono per presentare un volto unitario. Sebbene si sia scioccamente detto che tutto il parlare del candidato alla vicepresidenza fosse irrilevante, la verità è che la scelta del vicepresidente conta - vuoi per l’unità del partito vuoi per l’elettorato. Il candidato alla presidenza e quello alla vicepresidenza si presentano come una squadra completandosi l’un l’altro e cercando di colmare le lacune e le vulnerabilità l’uno dell’altro. Con la prospettiva di una nuova guerra fredda e tutta una serie di sfide e conflitti globali, Obama non poteva eludere i punti interrogativi riguardanti la sua capacità di ricoprire la carica di Presidente degli Stati Uniti. Aveva bisogno di rinforzarsi sul fronte della politica estera. Per questa ragione sono usciti di scena candidati più in linea con lo slogan di Obama «il cambiamento in cui possiamo credere», come ad esempio il governatore della Virginia Tim Kaine.
Vero è che Obama avrebbe potuto raggiungere lo scopo affiancando al suo nome quello della senatrice di New York Hillary Clinton con la quale avrebbe potuto condurre una ottima campagna elettorale. Ma il punto è che non poteva fare campagna insieme a Bill Clinton e allora l’ipotesi Hillary Clinton è stata definitivamente accantonata. Ad Obama non è rimasto che Biden. Ed è stata una conclusione accettabile, persino soddisfacente di questa lunga caccia al tesoro. Malgrado i difetti di Biden - una accusa di plagio politico risalente a venti anni fa, la reputazione di uomo logorroico, una collezione di gaffe e il voto a favore del presidente Bush e della sua guerra in Iraq - il presidente della Commissione Esteri del Senato dà ad Obama ciò di cui ha bisogno.
Si aggiunga a questo che Biden ama la politica. Ne adora l’aspetto agonistico. È un eccellente oratore. È bravo nei dibattiti - infatti quando nelle primarie era in corsa per la nomination, Biden si è aggiudicato diversi dibattiti. E si trova a suo agio nel fare campagna elettorale sia nelle città industriali che nelle regioni rurali. Dopo un picco di popolarità a favore di Obama verso la metà dell’estate, il pendolo stava paurosamente oscillando a favore di McCain. Ma con Biden al suo fianco, il pendolo potrebbe oscillare nuovamente dalla parte di Barack Obama e del Partito Democratico. Forse Biden non sarà la scelta perfetta. Forse non è quello che avremmo preferito. Ma, almeno agli occhi di Obama, Biden era la scelta necessaria.
John Nichols è corrispondente da Washington della rivista «The Nation» © 2008, The Nation
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Pubblicato il: 26.08.08 Modificato il: 26.08.08 alle ore 12.45 © l'Unità.
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« Risposta #11 inserito:: Agosto 27, 2008, 07:45:29 pm » |
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Kerry Kennedy: «Ce la faremo, Bush ha fatto troppi errori»
Gabriel Bertinetto
Kerry, figlia dello statista Robert Kennedy assassinato il 5 giugno 1968 a Los Angeles, è a Denver per la convention Democratica. Al telefono Kerry confida i suoi timori per l´esito delle presidenziali. «Ma alla fine ce la faremo, perché gli elettori rifletteranno sul disastro Repubblicano di questi ultimi otto anni».
Che clima si respira alla Convention in vista del voto di novembre, signora Kennedy? Entusiasmo, speranza, preoccupazione? «Si ha l´impressione che sarà una gara molto difficile. I sondaggi danno i due candidati alla pari. Dovremo tutti lavorare assai duramente per vincere. È diffuso il senso della serietà dello scopo per cui ci si batte. Il nostro partito è diviso. Sostanzialmente la realtà è che Obama ha ottenuto appena più della metà delle preferenze e Hillary Clinton appena meno. Il risultato è una forte contrapposizione di appartenenza politica. La nostra sfida più grande è ora quella di unirci. Storicamente noi Democratici quando abbiamo dovuto rimettersi insieme dopo esserci spaccati, abbiamo perso. Ricordo benissimo cosa accadde nel 1980 con la frattura fra Ted Kennedy e Jimmy Carter. Vedo segnali allarmanti ma anche segnali positivi. Proprio Ted Kennedy nel suo intervento davanti ai delegati ha dato una spinta verso l´unità, mettendo l´accento sulla storia e sugli ideali comuni a tutto il partito. Anche Michelle, la moglie di Barack, ha fatto esattamente ciò che era necessario, presentandosi non solo ai Democratici ma alla nazione come una donna concreta, che ha a cura i valori americani, ama il suo Paese e sa parlare con partecipazione emotiva e forza».
Joseph Biden è il candidato alla vicepresidenza. La scelta per qualcuno è un segno di debolezza da parte di Obama, quasi l´ammissione di avere bisogno di una balia politicamente più esperta. Ma è così che gli americani la percepiscono? «Il senatore Biden ha una lunga esperienza parlamentare e una formidabile conoscenza della politica internazionale. Non credo che la nomina sia percepita come un segno di debolezza. Quel segnale Obama l´avrebbe dato, al contrario, scegliendo una persona inesperta, e dimostrando così scarsa capacità di giudizio. Siamo un Paese complesso alle prese con eventi internazionali importanti. Abbiamo bisogno di esibire tutta l´energia di cui siamo in possesso. Tenendo presente tutto ciò, la scelta di Biden è positiva».
E tuttavia ancora c´è chi ritiene sbagliato non avere optato per una donna, e per una in particolare, Hillary. Che ne pensa? «È un argomento valido. Hillary ha avuto quasi metà dei consensi alle primarie, ha idee, carisma, capacità di guida. Era la candidata ideale da molti punti di vista. Ma una volta preso atto del suo accantonamento, allora Biden è una scelta molto forte».
Molti ancora non capiscono perché mai i Democratici abbiano rinunciato al «dream ticket», che secondo molti analisti avrebbe spianato loro la strada verso una probabilissima vittoria. Lei l´ha capito? «Non lo so. Stando ai sondaggi l´accoppiata Obama-Clinton garantiva grande presa sull´elettorato democratico. Non è chiaro quale appeal avrebbe avuto sui simpatizzanti repubblicani. Dobbiamo comunque ricordare che la contesa fra i due fu accesissima ed era quindi davvero arduo tornare assieme. Ma oso credere che lo staff di Obama non abbia valutato le cose da quel punto di vista, ma in una prospettiva più ampia e dunque il criterio sia stato quello di trovare la persona più adatta al nostro Paese, e che solo per questa ragione Biden sia stato preferito a Hillary».
Come spiega il recupero di McCain, che ora viene accreditato della stessa percentuale di consensi rispetto ad Obama? «Benché l´apparenza sia che negli Usa non ci si occupi d´altro che del voto, la verità è, lo si creda o no, che la gente comincia solo ora ad interessarvisi davvero. Tradizionalmente l´elettorato per l´85% si schiera con fedeltà con i Democratici o i Repubblicani. Il restante 15% si muove da un campo all´altro a seconda delle circostanze e dei temi che emergono nella campagna».
È errato dire che se l´attenzione si concentra sulla crisi economica si avvantaggia Obama, se irrompono in primo piano le tensioni internazionali, guadagna McCain? «Non credo proprio. McCain ha dichiarato che potremmo restare in Iraq altri cent´anni. Obama assicura che il ritiro inizierà dal primo giorno in cui metterà piede alla Casa Bianca. Ora accade che non solo lui, ma perfino Bush, ponga la questione di indicare una scadenza alla missione, spiazzando così del tutto McCain. Quanto all´economia, è in condizioni terribili proprio a causa delle politiche Repubblicane. Benché loro s´affannino a dire di avere agito bene, la realtà è sotto gli occhi di tutti: dai prestiti per l´acquisto delle case alla sanità, all´aumento dei prezzi petroliferi, all´inquinamento, ai diritti femminili violati, questa amministrazione ha prodotto un disastro. Ora se compari le iniziative di Bush con i programmi di McCain, le trovi identiche, e solo con il microscopio puoi scovare qualche diversità. Dare potere ai Repubblicani significa premiare chi ha distrutto il Paese nell´arco degli ultimi 8 anni. I cittadini rifletteranno su questo. Ecco perché alla fine vinceremo. Ma sarà una battaglia serrata, e dovremo faticare molto per esprimere in maniera articolata la nostra proposta».
Pubblicato il: 27.08.08 Modificato il: 27.08.08 alle ore 12.48 © l'Unità.
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« Risposta #12 inserito:: Agosto 27, 2008, 11:30:38 pm » |
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27/8/2008 - INTERVISTA Spike Lee "Assomiglia all'Italia: non puoi non amarlo" FRANCESCO SEMPRINI DENVER Barack Obama sul grande schermo? «Yes we can», ma se lo interpreta Denzel Washington. L’idea d’un film sul candidato democratico piace a Spike Lee, regista cult di Hollywood, primo tra i vip Usa a credere nel candidato afroamericano. Superata la soglia dei 50, Shelton Jackson Lee detto lo «Spike di Brooklyn» grida «Yes we can» con la stessa passione che mette nei film e per questo è giunto sino a Denver. Lo incontriamo di buon’ora sulla 16esima, via che di notte si ubriaca di musica, pub e giovani e di giorno sonnecchia per smaltire la sbornia. «È il momento ideale per girare - spiega il regista - si respira un’aria agro-dolce, quasi surreale, e mi aiuta a pensare». Scarpe «All Star», jeans, al collo una catena con il crocefisso e occhiali gialli, Spike indossa una polo con il tricolore e la scritta «Miracolo a Sant’Anna».
Come mai quella maglietta? «È il titolo del mio nuovo film sulla guerra, ambientato nella Toscana del 1944».
L’Italia è sempre la sua passione? «È come Obama, non puoi non amarla».
Non tutti nel partito sono d’accordo. «Entro giovedì lo saranno. Del resto gli interventi di questi giorni alla «convention» fanno ben sperare».
Come quello di Michelle? «Un grande discorso, ha fatto quello che doveva, far sentire la gente a suo agio e dimostrare a sua volta d’essere a suo agio in mezzo alla gente. Non ha preteso di parlare in nome dell’intera America, né ha fatto la parte dell’attivista infiammata, è stata se stessa, una madre e una moglie che vede il marito coronare il sogno d’una vita… scusatemi un attimo».
Il regista interrompe la conversazione e si gira verso una ragazza lì vicino. È una giovane volontaria della campagna, con la spilla «Obama 2008» all’occhiello della giacca: i suoi occhi non si staccano un attimo da Lee. In mano regge una macchina fotografica ma non ha il coraggio di chiedere una foto insieme al suo mito. «Come ti chiami? Vuoi una foto? Anche un album intero», dice Lee. Poi torna a noi. «Scusa ma le fan meritano attenzione».
Tornando alla politica, cosa pensa di Joe Biden come vice, proprio lui che criticò Obama dopo la «nomination»? «Si sta sollevando un inutile polverone. Biden allora voleva la «nomination». Se Barack lo ha scelto vuol dire che ci crede ed io credo in lui, inoltre è una voce grossa, perfetta per tenere testa a John McCain».
Non teme ritorsioni dei Clinton? «Spero che Hillary faccia la cosa giusta, anzi ne sono sicuro».
Qual è il messaggio dei democratici agli alleati europei? «Il più importante lavoro al mondo è fare il presidente degli Stati Uniti: le scelte politiche di Washington hanno ricadute globali. Tutti possono vedere i risultati disastrosi di 8 anni di amministrazione Bush. Per questo ritengo che anche il resto del mondo voglia cambiare. Sono sicuro che l’Europa capisce il valore di queste elezioni e la portata del messaggio di cambiamento di Obama. Con lui alla Casa Bianca si aprirà una nuova fase nelle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico».
Obama riuscirà ad andare d’accordo anche con l’Italia di Silvio Berlusconi? «Berlusconi? Credo voglia McCain».
Allora teme un allontanamento? «No, assolutamente no. Barack saprà gestire bene anche i rapporti con Silvio Berlusconi, sarà un presidente pragmatico».
Un soggetto perfetto per un film, diretto da Spike Lee. Chi sceglierebbe per la parte di Obama? «Ecco, ora tutti si aspettano che io dica Will Smith»
E invece? «Invece dico Denzel Washington, è perfetto dentro e fuori».
Vuol dire che ci ha pensato? «Per ora penso a vincere le elezioni e rivedere i democratici alla Casa Bianca». da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 29, 2008, 07:09:59 pm » |
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Il discorso di Obama
È con profonda gratitudine e grande umiltà che accetto la vostra nomination per la presidenza degli Stati Uniti.Lasciate anzitutto che ringrazi i miei avversari nelle primarie e in particolare colei che più a lungo mi ha conteso la vittoria – un faro per i lavoratori americani e fonte di ispirazione per le mie figlie e le vostre – Hillary Rodham Clinton. Grazie anche al presidente Clinton e a Ted Kennedy, che incarna lo spirito di servizio, e al prossimo vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden.
Il mio amore va alla prossima First Lady, Michelle Obama e a Sasha e Malia. Vi amo e sono fiero di voi. Quattro anni fa vi ho raccontato la mia storia, la storia di una breve unione tra un giovane del Kenya e una giovane del Kansas, persone qualunque e non ricche, ma che condividevano la convinzione che in America il loro figliolo potesse realizzare i suoi sogni. È questa la ragione per cui mi trovo qui stasera. Perchè per 230 anni ogni qual volta questo ideale americano e’ stato minacciato, gli uomini e le donne di questo Paese – studenti e soldati, contadini e insegnanti, infermieri e bidelli – hanno trovato il coraggio di difenderlo.
Attraversiamo un momento difficile, un momento in cui il Paese e’ in guerra, l’economia e’ in crisi e il sogno americano e’ stato ancora una volta minacciato. Oggi molti americani sono disoccupati e moltissimi sono costretti a lavorare di più per un salario inferiore. Molti di voi hanno perso la casa. Questi problemi non possono essere tutti imputati al governo. Ma la mancata risposta e’ il prodotto di una politica fallimentare e delle pessime scelte di George W. Bush. L’America è migliore della nazione che abbiamo visto negli ultimi otto anni.
Il nostro Paese è più generoso di quello in cui un uomo in Indiana deve imballare i macchinari con i quali lavora da venti anni e vedere che vengono spediti in Cina e poi con le lacrime agli occhi deve tornare a casa e spiegare alla famiglia cosa è successo. Abbiamo più cuore di un governo che abbandona i reduci per le strade, condanna le famiglie alla povertà e assiste inerme alla devastazione di una grande città americana a causa di un nubifragio. Stasera agli americani, ai democratici, ai repubblicani, agli indipendenti di ogni parte del Paese dico una cosa sola: basta! Abbiamo l’occasione di rilanciare nel ventunesimo secolo il sogno americano. Siamo qui stasera perchè amiamo il nostro Paese e non vogliamo che i prossimi quattro anni siano come gli otto che abbiamo alle spalle.
Ma non voglio essere frainteso. Il candidato repubblicano, John McCain, ha indossato la divisa delle forze armate degli Stati Uniti con coraggio e onore e per questo gli dobbiamo gratitudine e rispetto. Ma i precedenti sono chiari: John McCain ha votato per George Bush il 90% delle volte. Al senatore McCain piace parlare di giudizio, ma di quale giudizio parla visto che ha ritenuto che George Bush avesse ragione più del 90% delle volte? Non so come la pensate, ma a me il 10% non basta per cambiare le cose.
La verità è che su tutta una serie di questioni che avrebbero potuto cambiare la vostra vita – dall’assistenza sanitaria all’istruzione e all’economia – il senatore McCain non è stato per nulla autonomo. Ha detto che l’economia ha fatto «grandi progressi» sotto la presidenza Bush. Ha detto che i fondamentali dell’economia sono a posto. Ha detto che soffrivamo unicamente di una «recessione mentale» e che siamo diventati una «nazioni di piagnucoloni». Una nazione di piagnucoloni. Andatelo a dire ai metalmeccanici del Michigan che hanno volontariamente deciso di lavorare di piu’ per scongiurare la chiusura della fabbrica automobilistica. Ditelo alle famiglie dei militari che portano il loro peso in silenzio. Questi sono gli americani che conosco.
McCain sarà in buona fede ma non sa come stanno le cose. Altrimenti come avrebbe potuto dire che appartengono al ceto medio tutti quelli che guadagnano meno di 5 milioni di dollari l’anno? Come avrebbe potuto proporre centinaia di miliardi di sgravi fiscali per le grandi aziende e per le compagnie petrolifere e nemmeno un centesimo per oltre cento milioni di americani? Da oltre due decenni McCain è fedele alla vecchia e screditata filosofia repubblicana secondo cui bisogna continuare a far arricchire quelli che sono già ricchi nella speranza che qualche briciola di prosperità cada dal tavolo e finisca agli altri. Perdi il lavoro? Pura sfortuna. Non hai assistenza sanitaria? Ci penserà il mercato. Sei nato in una famiglia povera? Datti da fare.
È ora di cambiare l’America. Noi democratici abbiamo del progresso una idea completamente diversa. Per noi progresso vuol dire trovare un lavoro che ti consenta di pagare il mutuo; vuol dire poter mettere qualcosa da parte per mandare i figli all’università. Per noi progresso sono i 23 milioni di nuovi posti di lavoro creati da Bill Clinton quando era presidente. Noi misuriamo la forza dell’economia non in base al numero dei miliardari, ma in base alla possibilità di un cittadino che ha una buona idea di rischiare e avviare una nuova impresa. Vogliamo una economia rispettosa della dignità del lavoro.
I criteri con cui valutiamo lo stato di salute dell’economia sono quelli che hanno reso grande questo Paese e che mi consentono di essere qui stasera. Perchè nei volti dei giovani reduci dell’Iraq e dell’Afghanistan vedo mio nonno che andò volontario a Pearl Harbour, combattè con il generale Patton e fu ricompensato da una nazione capace di gratitudine con la possibilità di andare all’università. Nel volto del giovane studente che dorme appena tre ore per fare il turno di notte vedo mia madre che ha allevato da sola mia sorella e me e contemporaneamente ha finito gli studi. Quando parlo con gli operai che hanno perso il lavoro penso agli uomini e alle donne del South Side di Chicago che venti anni fa si batterono con coraggio dopo la chiusura dell’acciaieria.
Ignoro che idea abbia McCain della vita che conducono le celebrità, ma questa è stata la mia vita. Questi sono i miei eroi. Queste sono le vicende che mi hanno formato. Intendo vincere queste elezioni per rilanciare le speranze dell’America. Ma quali sono queste speranze? Che ciascuno possa essere l’artefice della propria esistenza trattando gli altri con dignità e rispetto. Che il mercato premi il talento e l’innovazione e generi crescita, ma che le imprese si assumano le loro responsabilità e creino posti di lavoro. Che il governo, pur non potendo risolvere tutti i problemi, faccia quello che non possiamo fare da soli: proteggerci e garantire una istruzione a tutti i bambini; preoccuparsi dell’ambiente e investire in scuole, strade, scienza e tecnologia.
Il governo deve lavorare per noi, non contro di noi. Deve garantire le opportunità non solo ai più ricchi e influenti, ma a tutti gli americani che hanno voglia di lavorare. Sono queste le promesse che dobbiamo mantenere. È questo il cambiamento di cui abbiamo bisogno. E sul tipo di cambiamento che auspico quando sarò presidente voglio essere molto chiaro.
Cambiamento vuol dire un sistema fiscale che non premi i lobbisti che hanno contribuito a farlo approvare, ma i lavoratori americani e le piccole imprese. Il mio programma prevede tagli fiscali del 95% a beneficio delle famiglie dei lavoratori. In questa situazione economica l’ultima cosa da fare e’ aumentare le tasse che colpiscono il ceto medio. E per l’economia, per la sicurezza e per il futuro del pianeta prendo un impegno preciso: entro dieci anni sarà finita la nostra dipendenza dal petrolio del Medio Oriente. Da presidente sfrutterò le nostre riserve di gas naturale, investirò nel carbone pulito e nel nucleare sicuro. Inoltre investirò 150 miliardi di dollari in dieci anni sulle fonti energetiche rinnovabili: energia eolica, energia solare, biocombustibili. L’America deve pensare in grande.
È giunto il momento di tenere fede all’obbligo morale di garantire una istruzione adeguata a tutti i bambini. Assumerò un esercito di nuovi insegnanti pagandoli meglio e appoggiandoli nel loro lavoro. È giunto il momento di garantire l’assistenza sanitaria a tutti gli americani. È giunto il momento di garantire ai lavoratori il congedo per malattia retribuito perché in America nessuno dovrebbe scegliere tra mantenere il lavoro o prendersi cura di un figlio o di un genitore ammalato. È giunto il momento di realizzare la parità salariale tra uomini e donne perché voglio che le mie figlie abbiano esattamente lo stesso trattamento dei vostri figli.
Molti di questi programmi richiederanno grossi investimenti ma ho previsto la copertura finanziaria per ogni progetto di riforma. Ma realizzare le speranze americane comporta qualcosa di più del denaro. Comporta senso di responsabilità e la riscoperta di quella che John F. Kennedy definì «la forza morale e intellettuale». Ma il governo non può fare tutto. Nessuno può sostituire i genitori. Il governo non può spegnere il televisore nelle vostre case per far fare i compiti ai figli e non è mpito del governo allevare i figli con amore. Responsabilità personale e collettiva: è questo il senso delle speranze americane.
Ma i valori dell’America vanno realizzati non solo in patria, ma anche all’estero. John McCain dubita delle mie capacità di fare il comandante in capo. Mi ha sfidato a sostenere un dibattito televisivo su questo tema. Non mi tirerò indietro. Dopo l’11 settembre mi sono opposto alla guerra in Iraq perché ritenevo che ci avrebbe distratto dalle vere minacce. John McCain ama ripetere che è disposto a seguire bin Laden fino alle porte dell’inferno, ma in realtà non vuole andare nemmeno nella grotta in cui vive. L’Iraq ha un avanzo di bilancio di 79 miliardi di dollari mentre noi sprofondiamo nel deficit eppure John McCain, testardamente, si rifiuta di mettere fine a questa guerra insensata. Abbiamo bisogno di un presidente capace di affrontare le minacce del futuro e non aggrappato alle idee del passato. Non si smantella una rete terroristica che opera in 80 Paesi occupando l’Iraq. Non si protegge Israele e non si dissuade l’Iran facendo i duri a parole a Washington. Non si può fingere di stare dalla parte della Georgia dopo aver logorato i rapporti con i nostri alleati storici. Se John McCain vuol continuare sulla falsariga di Bush, quella delle parole dure e delle pessime strategie, faccia pure, ma non è il cambiamento che serve agli americani.
Siamo il partito di Roosevelt Siamo il partito di Kennedy. E quindi non venitemi a dire che i democratici non difenderanno il nostro Paese. Come comandante in capo non esiterò mai a difendere questa nazione. Metterò fine alla guerra in Iraq in maniera responsabile e combatterò contro Al Qaeda e i talebani in Afghanistan. Rimetterò in piedi l’esercito. Ma farò nuovamente ricorso alla diplomazia per impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari e per contenere l’aggressività russa. Creerò nuove alleanze per vincere le sfide del ventunesimo secolo: terrorismo e proliferazione nucleare; povertà e genocidio; cambiamento climatico e malattie. E ripristinerò la nostra reputazione morale perchè l’America torni ad essere per tutti il faro della speranza, della libertà, della pace e di un futuro migliore. È questo il mio programma.
Sono tempi duri, la posta in gioco è troppo alta perchè si continui a demonizzare l’avversario. Il patriottismo non ha bandiere di partito. Amo questo Paese, ma lo ama anche John McCain. Gli uomini e le donne che si battono sui campi di battaglia possono essere democratici, repubblicani o indipendenti, ma hanno combattuto insieme e spesso sono morti insieme per amore della stessa bandiera. Il compito che ci aspetta non è facile. Le sfide che dobbiamo affrontare comportano scelte difficili e sia i democratici che i repubblicani debbono abbandonare le vecchie, logore idee e la politica del passato. Negli ultimi otto anni non abbiamo perso solamente posti di lavoro o potere d’acquisto; abbiamo perso il senso dell’unità di intenti.
Possiamo non essere d’accordo sull’aborto, ma certamente tutti vogliamo ridurre il numero delle gravidanze indesiderate. Il possesso delle armi da fuoco non è la stessa cosa per i cacciatori dell’Ohio e i cittadini di Cleveland minacciati dalle bande criminali, ma non venitemi a dire che violiamo il secondo emendamento della Costituzione se impediamo ai criminali di girare con un kalashnikov. So che ci sono divergenze sul matrimonio gay, ma sono certo che tutti siamo d’accordo sul fatto che i nostri fratelli gay e le nostre sorelle lesbiche hanno il diritto di fare visita in ospedale alla persona che amano e hanno il diritto a non essere discriminati. Una grande battaglia elettorale si vince sulle piccole cose.
So di non essere il candidato più probabile per questa carica. Non ho il classico pedigree e non ho passato la vita nei Palazzi di Washington. Ma stasera sono qui perchè in tutta l’America qualcosa si sta muovendo. I cinici non capiscono che questa elezione non riguarda me. Riguarda voi. Per 18 mesi vi siete impegnati e battuti e avete diffusamente parlato della politica del passato. Il rischio maggiore è aggrapparsi alla vecchia politica con gli stessi vecchi personaggi e sperare che il risultato sia diverso. Avete capito che nei momenti decisivi come questo il cambiamento non viene da Washington. È Washington che bisogna cambiare. Il cambiamento lo chiedono gli americani.
Ma sono convinto che il cambiamento di cui abbiamo bisogno è alle porte. L’ho visto con i miei occhi. L’ho visto in Illinois dove abbiamo garantito l’assistenza sanitaria ai bambini e dato un posto di lavoro a molte famiglie che vivevano con il sussidio di disoccupazione. L’ho visto a Washington quando con esponenti di entrambi i partiti ci siamo battuti contro l’eccessiva invadenza dei lobbisti e quando abbiamo presentato proposte a favore dei reduci. E l’ho visto nel corso di questa campagna elettorale. L’ho visto nei giovani che hanno votato per la prima volta, nei repubblicani che non avrebbero mai pensato di poter scegliere un democratico, nei lavoratori che hanno scelto di auto-ridursi l’orario di lavoro per non far perdere il posto ai compagni, nei soldati che hanno perso un arto, nella gente che accoglie in casa un estraneo quando c’è un uragano o una inondazione.
Il nostro è il Paese più ricco della terra, ma non è questo che ci rende ricchi. Abbiamo l’esercito più potente del mondo, ma non è questo che ci rende forti. Le nostre università e la nostra cultura sono l’invidia del mondo, ma non è per questo che gente di ogni parte del mondo viene in America. È lo spirito americano – quella promessa americana – che ci spinge ad andare avanti anche quando il cammino sembra incerto. Quella promessa è il nostro grande patrimonio. È la promessa che faccio alle mie figlie quando rimbocco loro le coperte la sera, la promessa che ha indotto gli immigranti ad attraversare gli oceani e i pionieri a colonizzare il West, la promessa che ha spinto i lavoratori a lottare per i loro diritti scioperando e picchettando le fabbriche e le donne a conquistare il diritto di voto. È la promessa che 45 anni fa fece affluire milioni di americani a Washington per ascoltare le parole e il sogno di un giovane predicatore della Georgia.
Gli uomini e le donne lì riuniti avrebbero potuto ascoltare molte cose. Avrebbero potuto ascoltare parole di rabbia e di discordia. Avrebbero potuto cedere alla paura e alla frustrazione per i tanti sogni infranti. Ma invece ascoltarono parole di ottimismo, capirono che in America il nostro destino è inestricabilmente legato a quello degli altri e che insieme possiamo realizzare i nostri sogni. «Non possiamo camminare da soli», diceva con passione il predicatore. «E mentre camminiamo dobbiamo impegnarci ad andare sempre avanti e a non tornare indietro». America, non possiamo tornare indietro. C’è molto da fare. Ci sono molti bambini da educare e molti reduci cui prestare assistenza. Ci sono una economia da rilanciare, città da ricostruire e aziende agricole da salvare. Ci sono molte famiglie da proteggere. Non possiamo camminare da soli. In questa campagna elettorale dobbiamo prendere nuovamente l’impegno di guardare al futuro. Manteniamo quella promessa – la promessa americana. Grazie. Che Dio vi benedica. Che Dio benedica gli Stati Uniti d’America.
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Pubblicato il: 29.08.08 Modificato il: 29.08.08 alle ore 13.10
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« Ultima modifica: Agosto 30, 2008, 09:22:57 am da Admin »
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« Risposta #14 inserito:: Gennaio 18, 2009, 11:49:02 am » |
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18/1/2009 Lettera alle mie figlie BARACK OBAMA
Care Malia e Sasha, so che vi siete divertite parecchio negli ultimi due anni di campagna, andando a picnic, sfilate e fiere, e mangiando ogni sorta di cibo spazzatura che io e vostra madre probabilmente non vi avremmo dovuto dare. Ma so anche che non è stato sempre facile per voi e per la mamma, e per quanto siete emozionate per l’arrivo del vostro nuovo cucciolo, non riuscirà a ricompensare tutto il tempo che non abbiamo passato insieme.
Mi siete mancate e ho deciso di dirvi le ragioni per cui ho voluto portare la nostra famiglia in questo viaggio. Quando ero giovane, pensavo che la vita ruotasse intorno a me, alla strada che mi sarei fatto nel mondo, al successo che avrei avuto, ottenendo quello che volevo. Ma poi siete arrivate voi due, curiose e biricchine, e con quel sorriso che mi ha sempre riempito il cuore. All’improvviso, tutti i miei grandi progetti non sembravano più importanti. Ho scoperto che la più grande gioia della mia vita era vedervi gioire. La mia vita non sarebbe valsa molto se non fossi stato capace di darvi ogni opportunità di essere felici e realizzate.
In fondo, ragazze, ho corso per la presidenza per quello che desidero per voi e per ogni bambino della nostra nazione. Voglio che tutti vadano in una scuola all’altezza del loro potenziale, che abbiano l’opportunità di andare al college, anche se i loro genitori non sono ricchi, e di avere un lavoro pagato bene e con benefit come la sanità, che permetta loro di stare con i figli e avere una pensione dignitosa.
Certe volte ci tocca mandare i nostri giovani in guerra per proteggere il nostro Paese. Voglio che ogni bambino capisca che i benefici per i quali questi coraggiosi americani combattono non sono regalati, che il grande privilegio di essere cittadino di questa nazione è accompagnato da grande responsabilità. E’ la lezione che vostra nonna cercò di insegnarmi, leggendomi le prime righe della Dichiarazione d’indipendenza e raccontandomi di uomini e donne che avevano marciato per l’eguaglianza perché credevano che queste parole di due secoli prima avessero un significato. Mi aiutò a capire che l’America è grande non perché è perfetta, ma perché può sempre migliorare, e il lavoro infinito di perfezionarla ricade su ognuno di noi.
Voglio vedervi crescere in un mondo che non ponga limiti ai vostri sogni, dove non ci siano obiettivi fuori dalla vostra portata. E’ per questo che ho trascinato la nostra famiglia in questa grande avventura. Sono molto orgoglioso di voi due. Vi amo più di quanto potete immaginare. E vi sono grato per la pazienza, l’equilibrio, la grazia e l’umorismo che mostrate ogni giorno mentre stiamo per cominciare la nostra nuova vita insieme alla Casa Bianca. Con amore, papà.
da lastampa.it
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