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Autore Discussione: Marco DAMILANO -  (Letto 60518 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Maggio 24, 2014, 06:14:33 pm »

Anticipazione
Romano Prodi: "Battiamo la Merkel"
«Italia, Francia e Spagna devono unirsi per una politica di ripresa e di sviluppo». L'ex presidente del Consiglio parla degli scenari europei in vista del voto e del semestre italiano

Di Marco Damilano
22 maggio 2014

«Italia, Francia e Spagna devono unirsi per una politica di ripresa e di sviluppo. Preparare un piano di rilancio, discuterlo e proporlo insieme, così da arrivare al Consiglio europeo di ottobre come la sede in cui si prendono le decisioni, non come a un convegno di studio».

Romano Prodi in un'intervista a “l'Espresso” nel numero in edicola domani, descrive gli scenari per il voto europeo e per il semestre italiano. Su cui pesa l'effetto della crisi: «I governi sono stati danneggiati dalla cattiva gestione della crisi, non è colpa dell’Europa, ma dell’assenza di Europa. Tutto è stato deciso in base agli interessi dei singoli Paesi, il che nella situazione attuale significa che tutto è stato deciso dalla Germania. I Paesi più periferici sono stati danneggiati da una politica volutamente recessiva che ha favorito i tedeschi, con un gigantesco surplus commerciale».

I danni fatti dai tedeschi. L’alleanza da stringere con Francia e Spagna. L'assenza di leader con una visione di Europa. L'ex presidente del Consiglio parla della situazione politica attuale. E su di sè dice: "Non uso il social network, la politica è un'altra cosa"

E ancora:
«In Germania l’area del populismo e del nazionalismo è ricoperta dalla Merkel La difesa degli interessi nazionali tedeschi ha stroncato sul nascere qualsiasi possibile movimento interno anti-europeista, ma ha acceso i populismi in tutti gli altri Paesi. A Bruxelles negli ultimi anni ha comandato solo un Paese, la Germania si è permessa perfino di dare lezioni di morale, inaccettabili. Io da presidente della Commissione europea ho sempre trattato ogni Paese con rispetto, non ho mai dato lezioni a nessuno».

L'ARTICOLO INTEGRALE SU ESPRESSO +

Cosa resta della classe dirigente europea?
«Molto poco. Oggi non vedo leader visionari, solo politici nazionali. Le democrazie europee soffrono di mancanza di visione, di un accorciamento dell’orizzonte politico che non ti fa guardare oltre le prossime elezioni, i sondaggi, lo spazio del risultato istantaneo e immediato...»

Ma la crescita dei partiti populisti secondo Prodi obbligherà il parlamento europeo a una grande coalizione: «Quando parlo di grande coalizione più che all’Italia penso alla Germania, dove democristiani e socialdemocratici governano insieme...».

Da premier conquistò l’Expo 2015 per Milano. Come ha vissuto gli ultimi arresti?
«Come si dice nel linguaggio popolare, mi sono davvero cadute le braccia. C’erano già stati numerosi ritardi e problemi, ma mi ha fatto male anche sul piano personale vedere il ritorno in scena di personaggi di venti anni fa. La corruzione è difficilissima da inseguire, va prevenuta e debellata prima che si sviluppi. Dopo è troppo tardi. Mi auguro che le nuove misure ipotizzate siano efficaci, ma il danno per l’Italia c’è già».
© Riproduzione riservata 22 maggio 2014

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/05/22/news/prodi-battiamo-la-merkel-1.166476
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« Risposta #76 inserito:: Maggio 30, 2014, 07:39:30 pm »

Scenari
Il piano di Matteo Renzi dopo il trionfo Due mesi per realizzare le promesse
Enti locali. Magistrati. Burocrazia. Rai. È qui che il presidente del Consiglio deve intervenire prima dell’estate. Mentre pensa ad allargare la maggioranza anche a sinistra e cerca di conquistare posti importanti nella Commissione Ue

di Marco Damilano
30 maggio 2014
   
E adesso? «E adesso la rottamazione può iniziare, il bello deve ancora cominciare...». Lo ripete in pubblico come ha fatto nella notte di domenica 25 maggio, mentre dirigenti e candidati del Partito democratico esultavano come sopravvissuti a un disastro aereo, increduli. Il successo travolgente alle elezioni europee, oltre il quaranta per cento, è arrivato inaspettato anche per Matteo Renzi, che alla vigilia delle elezioni consultava i sondaggisti compulsivo, preoccupato. Il momento più incerto era stato l’ultimo incontro prima del voto al Quirinale con Giorgio Napolitano: un colloquio teso, a tratti drammatico, con lo spread in risalita e la minaccia di Beppe Grillo di organizzare una manifestazione di piazza contro il Presidente. Che fare, se lo scenario di un successo del Movimento 5 Stelle si fosse avverato?

Ora invece, finalmente, il governo può decollare. In appena sei mesi, una campagna d’Italia, Renzi ha conquistato il centro dell’elettorato italiano, da sindaco di Firenze a segretario del Pd a premier e leader di un partito votato da un italiano su quattro. Percentuali raggiunte in Italia solo dalla vecchia Democrazia cristiana.

Renzi rifiuta il paragone, ma del vecchio Scudocrociato intende ricalcare l’ossatura, la centralità, il blocco sociale, il ruolo nazionale, la capacità di essere il partito di tutti gli italiani. Forza Italia, in fondo, era stato l’ultimo slogan elettorale della Balena bianca prima di diventare il nome della creatura berlusconiana. «Voglio essere il presidente di tutti», rivela ora Renzi, improvvisamente ecumenico. Non in contrasto con l’identità precedente di rottamatore, anzi.

I due volti del premier, la calma forza tranquilla modello Mitterrand con cui si è presentato all’indomani del voto e l’irruenza con cui ha conquistato il potere, convivono nel momento decisivo, i prossimi due mesi, quando il governo dovrà trasformare in realtà i tanti annunci degli ultimi cento giorni. Con l’apertura di nuovi fronti. «La questione più rilevante resta la crescita economica. Le priorità sono ora la riforma della pubblica amministrazione e la riforma della giustizia, con un’esigenza di velocizzazione che va finalmente soddisfatta», spiega il sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio, «il metronomo di Renzi», l’ha definito il francese “Le Figaro”. «E poi l’Europa: Matteo non interpreterà il semestre di presidenza europea nel senso della gestione, soprattutto dopo il risultato del voto, ma nel segno della rinascita del sogno. Serve un rinascimento europeo». E se lo dice Delrio, campione di under statement, figuriamoci Supermatteo.

Il pubblico impiego e i magistrati, non solo la giustizia civile ma anche quella penale, sono i prossimi terreni di intervento (e di scontro), che vanno a sommarsi a quelli già previsti nel decreto Irpef degli 80 euro, volano della campagna elettorale renziana: i 700 milioni di tagli alla spesa pubblica che gli enti locali devono presentare prima dell’estate, i 700 milioni delle regioni e quelli dello Stato centrale, i 150 milioni che la Rai dovrà reperire dalla cessione di Raiway e dalla scure sulle sedi regionali. L’elenco dei potenziali obiettivi è destinato ad aumentare se si aggiungono l’obbligo di trasparenza per gli enti locali, con tutte le spese da pubblicare on line, e la cessione delle aziende municipalizzate che il governo punta a sfoltire da ottomila a mille. E poi le prefetture, da ridurre. Gli uffici provinciali della ragioneria centrale, via. Accorpamenti, fusioni, eliminazioni...

Per ogni passaggio, sono annunciati sindacati in rivolta, e poi sindaci magistrati, il partito di viale Mazzini, «anche se i segnali sono positivi», si dice fiducioso Delrio, «non sono i tagli lineari del passato, sono misure intelligenti, si sa che le risorse finiscono nelle tasche dei cittadini e nell’abbassamento delle tasse». Al momento della presentazione del decreto Renzi ha affrontato il primo scontro, con i tecnici della Ragioneria centrale: nei piani del premier c’è il progetto di spostarla dal ministero dell’Economia e portarla sotto il controllo diretto di Palazzo Chigi. Ora toccherà a ogni ministero indicare l’entità dei tagli. La più rapida, e per questo molto apprezzata da Renzi, è stata il ministro della Difesa Roberta Pinotti, che è riuscita a ridurre in poche ore 400 milioni di investimenti, per di più con il consenso della struttura.

Per trovare risorse per la crescita c’è la carta, per ora coperta, degli investimenti privati nelle infrastrutture pubbliche: convincere gli investitori internazionali, fondi pensione, grandi compagnie bancarie e assicurative che conviene investire in Italia, non solo nelle grandi opere. Il pessimo spettacolo delle tangenti sugli appalti dell’Expo non ha aiutato, ma il successo del Pd può rilanciare l’impegno personale del premier con gli operatori internazionali. Infine, la sfida più importante, voltare pagina in Europa, basta con l’austerità, via libera alle spese per gli investimenti. Si può fare grazie al credito accumulato da Renzi, «ha preso la testa della sinistra europea», ha scritto “Le Monde”, «con un mix di pragmatismo e di faccia tosta». Uno scenario italiano: Renzi ha conquistato partito e governo nel vuoto lasciato dalle precedenti leadership, in Europa guida l’unico partito di governo uscito indenne dalle elezioni, la sola formazione di centro-sinistra a vincere in un panorama disastroso.

Il premier si prepara a muovere all’attacco delle istituzioni europee: una casella di serie A nella Commissione europea, da affidare a un politico di peso e non a un tecnocrate e neanche a un notabile da sistemare, modello Antonio Tajani. Massimo D’Alema? Enrico Letta? Deciderà Renzi, professionista della politica, il primo che ha capovolto anni di retorica sugli imprenditori e i professori scesi (o saliti, nel caso di Mario Monti) in campo.

«Non ci siamo mai sottratti a rivendicare la dignità della politica», spiega Delrio. Nell’agenda del governo ci sono la legge elettorale e la prima lettura della riforma costituzionale del Senato, firmata dal ministro Maria Elena Boschi, in attesa al Senato: le modifiche sono già scritte, devono essere solo presentate. Il passaggio politicamente più delicato perché dal successo dell’operazione dipendono il proseguimento della legislatura e anche, in parte, le future decisioni di Giorgio Napolitano. Le elezioni europee rappresentano per il presidente un punto di svolta, la possibilità di guardare ai prossimi mesi con maggiore fiducia, dopo il fallimento del governo Monti e del governo Letta e la paralisi dei partiti sulle riforme. Sempre che non tornino a farsi sentire le resistenze trasversali della minoranza Pd e di Forza Italia. Al Senato i numeri sono risicati, nell’ultima votazione in commissione il testo Boschi è stato accompagnato da un ordine del giorno del leghista Roberto Calderoli che diceva il contrario.
Già finita la festa per Tsipras: Renzi strega un pezzo di Sel
Sel prosegue sulla via di un soggetto unitario nato dalla lista Tsipras ma si perde un pezzo. Il capogruppo Migliore propone il partito unico, sì, ma "con il Pd". La deputata Piazzoni pronta a lasciare

Per questo bisogna tornare all’idea originaria, ipotizzata al momento della nascita del governo Renzi e rinviato al dopo-elezioni europee. Allargare la maggioranza, a sinistra. Prima del voto era in incubazione un nuovo gruppo parlamentare con una parte di Sinistra e libertà di Nichi Vendola e transfughi grillini. Una gamba sinistra della maggioranza, da affiancare alla gamba destra, quella dell’Ncd di Angelino Alfano, uscito dal voto ai minimi termini e con potere contrattuale azzerato. Il progetto può riprendere con maggiore forza: quel che resta di Scelta civica, polverizzata dal voto, si dissolverà nel Pd, a sinistra la lista Tsipras ha superato il quorum del quattro per cento e ha dato un segno di vita, ma anche in Sel c’è chi vorrebbe confluire nel Pd. Con la possibilità di qualche new entry nel governo, se ad esempio il ministro Maurizio Lupi dovesse dimettersi per restare in Europa. Tasselli da inserire in un paziente mosaico, Renzi il rottamatore deve lasciare il posto al premier costruttore, per consolidare il suo quaranta per cento in un blocco sociale in grado di durare anni. Scomporre le macerie e ricomporre il nuovo, per trasformarsi in SuperMatteo, il presidente di tutti.

© Riproduzione riservata 30 maggio 2014

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/05/29/news/il-piano-di-matteo-renzi-dopo-il-trionfo-due-mesi-per-realizzare-le-promesse-1.167584?ref=HRBZ-1
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« Risposta #77 inserito:: Ottobre 28, 2014, 11:59:19 am »

Analisi
Matteo Renzi vuole un "nemico a sinistra". Mentre il Pd è già scomparso nel nulla
Nel fine settimana la piazza romana della Cgil e la Leopolda fiorentina del premier si sono dimostrati due mondi distanti. E da nessuna parte si sono visti i simboli dei democratici. Perché è già in atto il passaggio all'"oltre Pd" voluto da Renzi. Che non includerà la sinistra-sinistra

di Marco Damilano
26 ottobre 2014

«Siamo ai primi posti di Trending Topics con l'hashtag #Leopolda5, dobbiamo battere Matteo Salvini. Chiedo a tutti uno sforzo: diamoci sotto con gli hashtag!». Venerdì sera alla stazione Leopolda, invitando la platea a mobilitarsi, la deputata Lorenza Bonaccorsi aveva individuato il nemico e il terreno di gioco: la Lega e le citazioni su twitter. Ma si sbagliava. Tutto il fine settimana, l'Ottobre democratico, dimostra che la sfida è da tutta un'altra parte. Nessun avversario per Matteo Renzi, a destra. Il nemico è a sinistra.

Nessun nemico a sinistra. Era il dogma del Pci, attentissimo a non far germogliare nessun concorrente sul fianco sinistro, al punto di combattere una guerra di posizione perfino nelle aule parlamentari, per evitare che qualche gruppo di radicali o di demoproletari riuscisse a sedersi alla sinistra del grande partito della classe operaia.

Il dogma di Matteo Renzi è l'opposto: ben venga l'avversario a sinistra. Come si è visto questa mattina, quando in conclusione della Leopolda 2014 il premier-segretario ha sfidato la minoranza del Pd a lasciare il partito. «Lì c'è la nostalgia, qui il futuro. Lì c'è la sinistra che quando vede un iPhone chiede dove mettere il gettone, o se ha una macchina fotografica digitale prova a infilare il rullino. Io non ho paura se a sinistra si organizza qualcosa di diverso. Sarà bello vedere chi vincerà: decideranno i cittadini». Un esplicito invito alla scissione.

Nel discorso conclusivo alla Leopolda 5, Matteo Renzi spiega che "la sinistra di allora non votò" l'art. 18 e difenderlo oggi "sarebbe come pensare di prendere un iPhone e dire dove lo metto il gettone del telefono?". "Le forme di tutela - ha precisato - non devono valere solo per chi ha più di 15 dipendenti"      

La sinistra del gettone e del rullino, ieri, si era ritrovata in piazza San Giovanni, alla manifestazione della Cgil. Mai così tanti, negli ultimi anni. Volti di italiani perbene. Lavoratori sfiancati dalla crisi. Mani ruvide. Felpe logorate da mille cortei. Stanchezza negli occhi. Autolesionismo comunicativo puro, tipo Citto Maselli in carrozzina con una coperta sul palco, e gli antichi capi reduci da mille sconfitte, senza mai ammettere il dubbio.

Per esempio, la semplice consapevolezza che se Renzi è arrivato così facilmente a Palazzo Chigi c'è anche una responsabilità di una generazione a sinistra che ha sbagliato tutto, quando è stata all'opposizione e quando è stata al governo, quando per due volte ha fatto cadere Romano Prodi, per dire.

Una manifestazione più sfibrata che rabbiosa. E tutt'altro che bellicosa nei confronti del premier, in realtà. Certo, il coro «Matteo-Matteo vaffanculo», con in testa, chissà perché, quelli dell'Alpaa, il sindacato dei produttori agroalimentari e ambientali. E la pettorina di Staino per il servizio d'ordine: «Maledetti toscani». E il militante che estrae dal portafoglio la tessera del Pd con la scritta “Italia giusta”: «Eccomi, sono uno che ha votato Renzi ma non lo rifarà. Sono uno dei 400mila che non rinnoverà l'iscrizione». Ma anche un sentimento rarefatto, più di rassegnazione che di furore, più di attesa che di scissione. Un po' calma forza tranquilla, come la Cgil è sempre stata nella storia, un po' la paura di non essere più considerati un pezzo importante del Paese. E la voglia di dire: ci siamo.

Umori difficili da interpretare. «Il cielo è lo stesso di dodici anni fa, le bandiere anche, il governo è di un altro colore, questo è un problema», si lasciava andare Sergio Cofferati a confronti con la sua manifestazione al Circo Massimo del 2002 contro Berlusconi. La novità: sinistra contro sinistra, Cgil contro Pd. I dirigenti più lucidi politicamente erano già al dopo-manifestazione. «Abbiamo vinto la prova della piazza, ma ora dobbiamo riaprire il tavolo e dialogare. Non andiamo avanti con il muro contro muro o peggio fare finta di fare il muro contro muro», spiegava Carla Cantone. «È la piazza più affollata degli ultimi dieci anni», osservava Paolo Nerozzi, ex big di Corso d'Italia ed ex senatore del Pd. «Se Renzi è intelligente, oltre che furbo, la ascolterà».

L'unico ad aver sommato le due cariche, ex segretario della Cgil e ex segretario del Pd, Guglielmo Epifani, si proponeva come mediatore tra le due piazze, San Giovanni e la Leopolda: «Da ex sindacalista in quota socialista sono abituato a partecipare a manifestazioni contro il governo in cui c'era il mio partito...». Sul palco si stava sgolando la segretaria Susanna Camusso, senza il feeling con la piazza di altri leader carismatici. Gli altri, la minoranza Pd, i Cuperlo, i Fassina, i Civati, e poi i Vendola e le Pollastrini, occupano il ruolo di Gennaro Migliore e di Andrea Romano alla Leopolda, ceto politico in cerca di posizionamento, al più tollerati. Il carisma del Capo è tutto per il leader della Fiom Maurizio Landini, in felpa scura.

Tra le due piazze, San Giovanni e Leopolda, c'è una distanza più lunga di quella di un viaggio in treno Roma-Firenze. O di quello in pullman che questa mattina all'alba ha trasportato i lavoratori della Thyssen di Terni fino alle porte della grande ex stazione ferroviaria, tempio del renzismo. Dentro, il parterre affollatissimo delle ultime due edizioni. Carro del vincitore gonfio, strapieno all'inverosimile. La certezza di essere nel vento della storia, dalla parte dei vincenti. Arrivare primi come mito fondativo. La Leopolda raccontata come l'Apple di Steve Jobs, una start up di successo. Tutti in modalità «Stay foolish, Stay hungry», anche se poi l'Affamato è uno solo.

Dis-intermediazione alla Leopolda è una parola chiave, il contrario esatto dei delegati sindacali modello Cgil. La Leopolda è un gigantesco social network che si fa in carne e ossa, dove tutti si parlano per far vedere la loro conversazione agli altri (i tavoli di lavoro circolari con i ministri alla pari degli altri sono la materializzazione della fine delle gerarchie), dove i colloqui e gli incontri sono rapidi, veloci, leggeri, a volte profondi, altre superficiali, come nello spazio di un tweet. E si parla solo di una cosa: che fa Matteo? Ti è piaciuto Matteo? Quant'è bravo Matteo.

«Matteo Renzi questa mattina ha la camicia azzurra, tutti a cambiarsi», legge un tweet dal palco la solita Bonaccorsi. Simpatico, no? Il culto della personalità renziano si muove su linguaggi diversi dal passato, in un'identificazione totale, assoluta tra il Capo e il suo popolo, senza mediazione. Raccontano di telefonate di Renzi per riempire la sala all'inverosimile, forse preoccupato di un confronto con la piazza rossa. E delle future cene di auto-finanziamento con gli imprenditori: qualcuno aveva proposto che ai tavoli ci fossero anche i deputati del territorio, da Palazzo Chigi è arrivato il contrordine. C'è solo Matteo.

Parlano i neo-miglioristi, nel senso di Gennaro Migliore, il bertinottiano-vendoliano che ora è qui a vantare la sua coerenza e cita il ragù di Eduardo («'O rraù ca me piace a me m' 'o ffaceva sulo mammà...») per dire che, di destra o di sinistra, qualcuno il ragù dovrà prepararlo. Parlano i ministri al gran completo. Anche Dario Franceschini? Sì, anche lui. E un renziano della prima ora grida: «Ci vorrebbe il caterpillar!». Non ha capito che il vento è cambiato. Una sfilata, un congresso nel congresso, la Leopolda sembra già oltre il Pd, un partito di governo, anzi, il Partito Unico di Governo. Parla il Leader, Matteo-Uno-di-Noi, ti spiazza con l'Ucraina e la Russia e il Mozambico, un anno fa erano dossier fuori portata, oggi Renzi ci tiene a sollevarsi da terra, a presentarsi come uno statista internazionale, uno che va da Angela (Merkel) a dire: «ho preso più voti di te» e all'Europa ricorda «meno vincoli e meno austerità». Il cuore è un altro. Battere e ribattere sugli intellettuali che sembrano «il pensionato del cantiere», quello che scuote la testa perché non va mai bene nulla. E l'attacco alla sinistra, mai così diretto e violento.

"Il Pd ha portato a casa qualcosa come 11 milioni e rotti di voti" dice Matteo Renzi al pubblico della Leopolda. E aggiunge di essersi tolto una soddisfazione - "banale" - nel corso di uno degli ultimi Consigli Europei, dicendo in particolare ad Angela Merkel: "Io rappresento il partito più votato. Tu hai preso 10,6 milioni di voti, noi 11,2: sono cose che capitano. Quindi abbiate rispetto per il mio paese e per il mio partito". Il premier, poco prima, si era espresso sulle divisioni in atto nel Pd: "Noi siamo quelli delle porte aperte, non quelli che buttano fuori"
      
Nel lungo fine settimana, tra San Giovanni e Leopolda, spariscono i due soggetti politici che hanno monopolizzato la politica italiana degli ultimi due decenni. Il primo è il Cavalier Silvio Berlusconi, insieme al suo centrodestra. Nessuno lo nomina, né la piazza rossa né la platea in camicia bianca di Firenze, è un pezzo di passato. L'unico a evocarlo è Franceschini, quando dice: «Dobbiamo superare il modello televisivo degli ultimi vent'anni». Nessuno lo ha avvertito, ahilui, che Barbara D'Urso, nel pantheon renziano, è ben più considerata di Mario Luzi.



Il secondo scomparso nel nulla è il partito che Renzi formalmente guida, il Pd. Nessuna bandiera del partito, né di qua né di là. Non c'è il Pd nella piazza rossa, non c'è il Pd alla Leopolda, inteso come simboli, parole d'ordine, classe dirigente. E così l'Ottobre del centrosinistra consegna un ultimo paradosso. Nell'Italia di Renzi la destra non c'è più, polverizzata, disintegrata (dis-intermediata?), non c'è l'anti-politica e il Movimento 5 Stelle.

E non c'è più neppure il Pd così come è stato nell'ultimo decennio, il soggetto politico del centro-sinistra. Al loro posto potrebbero nascere, in un tempo neppure troppo lungo, due nuovi partiti. Un partito di sinistra-sinistra, magari guidato da Landini e aperto a spezzoni dell'attuale Pd, per dare risposta a una domanda di rappresentanza politica e sociale che arriva dalla grande piazza di ieri. E un nuovo partito, la grande coalizione renziana, un nuovo centro di governo che spazia da destra a sinistra, da Che Guevara a Madre Teresa come nella canzone di Jovanotti citata da Andrea Romano, uno che Veltroni lo odiava, e invece.

Tra le due formazioni non ci sarebbe partita. Renzi è l'unico leader generalista in campo, in grado di parlare alle famiglie Rai e Mediaset, gli altri sono al massimo canali tematici, che parlano solo al loro pubblico: gli operai, gli intellettuali, gli impauriti da una modernità percepita soprattutto come perdita di diritti e non espansione di possibilità. Resta da vedere se tutta l'Italia possa esaurirsi in queste due piazze. E se si possa fare un partito della Nazione senza dare rappresentanza alla sofferenza, al dolore, alla capacità di riscatto e di speranza che abitava in piazza San Giovanni. Lì c'è un apparato in via di estinzione, del gettone e del rullino. Ma anche un'energia etica senza cui non si fa il partito di tutti, ma solo di qualcuno. Magari i soliti.

© Riproduzione riservata 26 ottobre 2014
Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/10/26/news/matteo-renzi-vuole-un-nemico-a-sinistra-mentre-il-pd-e-gia-scomparso-nel-nulla-1.185552?ref=HEF_RULLO
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« Risposta #78 inserito:: Gennaio 31, 2015, 04:42:54 pm »

Sergio Mattarella Presidente della Repubblica
Quell'uomo invisibile della Dc. Ma non incolore
Nessuna rissa nei talk show, nessuna presenza televisiva, pochissime foto recenti: il nuovo inquilino del Colle è lontanissimo dalla politica recente. Una riservatezza che ha le sue radici nella sinistra cattolica democristiana di cui è stato esponente e figlio. E che lo porterà, si spera, ad essere un inflessibile custode della Repubblica

Di Marco Damilano
31 gennaio 2015

«Non ci sono le immagini». Nelle ultime ventiquattr'ore uno spettro si aggira per gli studi televisivi e le redazioni dei giornali. Il fantasma del nuovo presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Non esistono sue dichiarazioni televisive, risse in un talk show, foto sotto l'ombrellone. Disperazione tra i cronisti. Ieri, a quanto raccontano, si era concordato un set in una via del centro di Roma, al riparo dai curiosi, per scattare qualche foto del nuovo Capo dello Stato da spedire sui circuiti internazionali alla grande stampa estera. Niente da fare, il candidato ha fatto sapere che preferiva aspettare.

Un silenzio più forte di tante vacuità, un'assenza che riscatta da sola l'ansia di visibilità di un'inutile classe dirigente. Leggerà una pagina dell'Ecclesiaste, pronosticano gli amici, nel suo primo discorso da presidente in Parlamento: «Vanità delle vanità, tutto è vanità...». Oppure, laicamente, potrebbe anche citare il siciliano Franco Battiato, per dire come sarà la sua presidenza: «Ne abbiamo attraversate di tempeste e quante prove antiche e dure ed un aiuto chiaro. Da un'invisibile carezza di un custode».

Ha saputo martedì, ufficialmente, di essere candidato alla presidenza della Repubblica, quando l'ha chiamato il numero due del Pd Lorenzo Guerini. Con il grande elettore Matteo Renzi si è sentito due giorni dopo. Non ha chiesto nulla, non ha fatto nulla per ricevere la carica. Com'era successo nel 2008, quando era stato escluso dalle liste per il Parlamento. Non aveva chiesto deroghe nel nuovo Pd e i suoi colleghi di partito che oggi si spelleranno le mani lo avevano escluso. Ha continuato a lavorare all'ultima sentenza nella foresteria della Corte costituzionale dove è andato a vivere due anni fa dopo la morte della moglie Marisa. La sua Santa Marta, come quella in Vaticano di papa Bergoglio, in linea con quanto disse anni fa a proposito dell'occupazione del potere: «Un partito, un politico, nelle istituzioni si deve sentire ospite, anche se protagonista». Sarà ospite, in punta di piedi, e non un padrone di casa, anche nel palazzo di fronte. Il Quirinale.

«C'è l'amico Mattarella che farà il suo intervento...». È il 28 febbraio 1984, sono le nove del mattino quando Amintore Fanfani invita alla tribuna il primo iscritto a parlare della giornata al XVI congresso della Dc, nel grande catino del Palaeur. «Prima di dargli la parola ci consentirà di ricordare, nel suo nome, un uomo che si è sacrificato nell'interesse dell'Italia, della Sicilia e del Partito». I non molti presenti si alzano in piedi in omaggio di Piersanti Mattarella, il presidente della regione Sicilia ucciso da un delitto politico-mafioso quattro anni prima. Sul palco, davanti alla nomenclatura del partito, c'è un uomo di quasi 43 anni, gli occhiali spessi, i capelli già candidi sul volto ancora da ragazzo. Comincia a parlare: «La ringrazio, ben sapendo che questi applausi, ovviamente, non riguardano assolutamente me...». E conclude: «Non voglio essere né illusorio, né fuori dalla realtà: tanti hanno in questi giorni ricordato saggi greci, antichi filosofi, io vorrei più modestamente richiamare la preghiera di Francesco che non chiedeva tanto di essere aiutato quanto di aiutare, che non chiedeva tanto di ricevere quanto di dare, che non chiedeva tanto di essere compreso quanto di comprendere...»

Non ha mai parlato in pubblico di quel giorno che gli ha cambiato la vita, il 6 gennaio 1980, il giorno dell'Epifania. Il massacro del fratello Piersanti davanti alla sua famiglia, quel corpo che Sergio prova a soccorrere mentre la vita scivola via. Fino a quel momento Sergio Mattarella era stato un tranquillo professore universitario di diritto parlamentare con studio in via della Libertà, la stessa del fratello, davanti a casa. A sparare è il killer dagli occhi di ghiaccio e dalla strana andatura, che cammina a balzi, «un robot che sparava come se sparasse a una pietra o una sedia», testimoniò la vedova Irma Chiazzese. «Zio, corri giù, c'è stato un incidente a papà», lo chiama il nipote Bernardo. «La scena che gli si para davanti, con quell'auto crivellata di colpi e piena di sangue, è violenta, allucinante, insostenibile», scrive Giovanni Grasso in "Piersanti Mattarella. Da solo contro la mafia" (Edizioni San Paolo). «È come se avessimo accompagnato papà fino alla fine», racconta la figlia di Piersanti Maria. È quel giorno di violenza inaudita, di vittoria della politica sporca e della mafia che eliminano la migliore classe dirigente negli anni Settanta e Ottanta, il sentimento di quelle ore, sempre custodito con pudore, che spinge Sergio all'impegno politico. «Senza la guerra io sarei rimasto un intellettuale...», scriveva il 28 novembre 1943 Giaime Pintor al fratello Luigi. La vita, i fratelli, il sangue, la politica. La nuova Resistenza, la chiama Sandro Pertini in quegli anni drammatici.

In uno dei rarissimi testi in cui parla del fratello, pubblicato sul sito del Movimento studenti di Azione cattolica, Sergio Mattarella scrive: «Piersanti non aveva la vocazione a diventare un eroe. Era una persona normale che amava la vita e il futuro, amava sua moglie e i suoi figli, era aperto di carattere, allegro nei rapporti personali, anche sul lavoro. Ma avvertiva fortemente il senso della dignità propria e di quella del ruolo che rivestiva; si rifiutava di piegarsi alla prepotenza, alla sopraffazione della mafia o alla minaccia della violenza; non aveva intenzione di far finta di non vedere. Era consapevole del pericolo che poteva aver di fronte ma sapeva che si deve vivere in maniera decorosa, potendo essere sempre orgogliosi delle proprie scelte... Ricordare le persone che affermavano il rispetto delle regole per il bene di tutti, il bene comune, e il cui assassinio ha punteggiato dolorosamente la storia del nostro paese, significa condividerne valori e criteri di comportamento: il messaggio che riceviamo da Piersanti Mattarella risiede nella convinzione che la vita va impiegata spendendo bene, evangelicamente, i talenti che si sono ricevuti».

Vale come un auto-ritratto. I talenti ricevuti da spendere, i valori da rimettere in gioco, sono la stella polare del giovane Mattarella, figlio del ministro Bernardo, uno dei fondatori della Dc, membro dell'Assemblea Costituente, eletto il 2 giugno 1946 con 38.764 voti. Studiano a Roma, nel collegio di San Leone Magno. Il fratello Piersanti è uno dei giovani dirigenti dell'Azione cattolica negli anni Cinquanta, Sergio è un ventenne che negli anni del Concilio, il rinnovamento della Chiesa, è responsabile degli studenti cattolici del Lazio con l'assistente don Filippo Gentiloni (futura firma del "Manifesto" per le questioni religiose e zio di Paolo, il ministro degli Esteri), conosce preti come don Luigi Di Liegro, che sarà il carismatico e amatissimo direttore della Caritas romana, e don Alessandro Plotti, futuro vescovo di Pisa. «Erano gli anni di papa Giovanni XXIII e di Paolo VI, gli anni del Concilio: anni di entusiasmo, di speranza, di innovazione», scrive. Sono gli anni della Meglio Gioventù versione cattolica, letture, incontri, amicizie, «gli anni della mia formazione: hanno disegnato il mio senso della vita e la mia fisionomia come persona», scrive Mattarella.

La politica è sempre stata di casa. Il padre è un notabile della Dc, accusato negli anni Sessanta di vicinanza alla mafia da Danilo Dolci che viene condannato per diffamazione. Accuse poi riprese dagli esponenti del Psi craxiano negli anni Ottanta quando Sergio dà vita alla prima giunta Dc-Pci a Palermo con il sindaco Leoluca Orlando (l'attuale), suo grande amico prima di una rottura dolorosa. «In Italia tutti sanno che i cognomi di Orlando e Mattarella erano indicati in una precedente generazione come autorevoli amici degli amici», scrive don Gianni Baget Bozzo sull' "Avanti!".

Anche il numero due del Psi Claudio Martelli picchia duro sulle famiglie Mattarella e Orlando «consigliori» dei mafiosi. «Mattarella ha scritto la replica su un foglietto: disgusto e disprezzo...», scrive sul suo diario l'allora capo ufficio stampa della Dc Giuseppe Sangiorgi. Tanto più che le minacce della mafia continuano. «Dovete proteggere Sergio», implora il segretario della Dc Ciriaco De Mita, il leader di riferimento, la moglie Marisa, sorella della moglie di Piersanti. «Mattarella è andato un attimo in casa sua prima di una cena ufficiale. A casa ha trovato la moglie in lacrime. Pochi minuti prima aveva ricevuto una telefonata anonima: suo marito, le hanno detto, con la lista che sta facendo per le elezioni di Palermo farà la stessa fine del fratello Piersanti».

Piersanti era il più promettente e intelligente tra gli allievi di Aldo Moro, aveva rotto con la Dc di Vito Ciancimino e di Salvo Lima e aperto al Pci siciliano negli anni della solidarietà nazionale, era già stato deciso che sarebbe tornato a Roma come deputato quando l'omicidio di Moro lo convinse a restare in Sicilia. Una scelta che gli costò la vita. Anche Sergio, eletto alla Camera nell'83, milita nella piccola corrente morotea. I suoi amici sono tutti nella Lega democratica, si chiamano Tina Anselmi, Maria Eletta Martini, lo storico Pietro Scoppola, il costituzionalista Leopoldo Elia con cui ingaggia a cena epiche gare di nozionismo. Sugli articoli della Costituzione tedesca? No, su chi conosce più formazioni di calcio a memoria, testimonia l'amico Pierluigi Castagnetti. Moro doveva diventare presidente della Repubblica già nel 1971, fu bruciato a voto segreto dalla destra Dc che gli preferì Giovanni Leone. E nel 1978, come disse Sandro Pertini, "lui, non io, vi parlerebbe da questo posto, se non fosse stato barbaramente assassinato".

Mattarella al Quirinale è una silenziosa rivincita. Da Moro Mattarella sembra aver ereditato la timidezza davanti alle telecamere («Moro deve compiere un sovrumano sforzo di eroica volontà per presentarsi alla televisione», scriveva Vittorio Gorresio). La riservatezza: entrate nella leggenda di Moro con il soprabito d'estate sul lungomare di Terracina fotografato da Vezio Sabatini per un servizio di Guido Quaranta su "Panorama".

L'ispirazione politica: l'apertura a sinistra, l'idea della fragilità della democrazia italiana, attraversata da nemici occulti. Le mafie, le massonerie, le P2. «Occorre recuperare credibilità e questo vuol dire soprattutto moralità», dice Mattarella in quel lontano discorso al congresso della Dc del 1984. «Moralità significa uno sforzo intenso e particolare contro la corruzione. Moralità significa, in alcune zone del Paese ma ormai in tutto il Paese, una lotta intensa, seria, autenticamente rigorosa, nei confronti della mafia, della camorra e di tutte le altre forme di criminalità organizzata. Significa avere una continua attenzione per evitare che si ripetano infiltrazioni o presenze e inquinamenti come quella che ci ha dolorosamente colpiti e preoccupati e inquieti, la scoperta delle trame della loggia P2». Ma la questione morale, come già avvertiva Berlinguer, non è solo lotta alla corruzione e alla mafia: «Significa avere rispetto della articolazione della società, liberando e risparmiando spazi da una eccessiva presenza del pubblico e della politica. Significa che alla frammentazione del Paese non si dà soltanto una pur necessaria risposta istituzionale ma anche una risposta di linea politica, far rivivere nel nostro Paese un più intenso, più completo, più vasto senso della convivenza, del pubblico interesse, dell'interesse generale: il bene comune».

Un democristiano anomalo, l'ha presentato Renzi. E qualcuno già lo chiama «un presidente alla memoria». Mattarella, piuttosto, è un rappresentante tipico del cattolicesimo democratico e della sinistra dc, sinistra a pieno titolo inserita nelle culture progressiste del Paese, la via democristiana alla democrazia. Una cultura politica fortissima che è moderazione, equilibrio, dialogo con l'avversario, senso delle istituzioni e dello Stato. In una parola: mediazione. Parola-chiave della politica anni Sessanta-Settanta che funzionava quando la Dc e i partiti rappresentavano il collegamento privilegiato tra il Palazzo e la società. Ma che si trasforma in immobilismo e infine palude quando il sistema è ormai paralizzato e non c'è più nulla da mediare.

La sinistra Dc che era stata la parte più avanzata e riformista del partito diventa alla fine degli anni Ottanta sinonimo di irresolutezza, indecisione, mancanza di coraggio, di generali senza truppe incapaci di strappare. Mattarella non fa eccezione. E questo spiega all'inizio degli anni Novanta la separazione, la rottura tra i maestri del cattolicesimo democratico che appare estenuato e le generazioni più giovani che si impegnano nei movimenti anti-mafia, nella Rete di Orlando uscito dalla Dc o nei comitati per i referendum elettorali o del nascente Ulivo.

La Dc va in crisi quando il Paese si disgrega sotto mille spinte populiste e territoriali, vedi la Lega al Nord. Mattarella resta fedele alla sua vecchia impostazione, ma appare quasi un sopravvissuto, un politico d'altri tempi. Il suo cattolicesimo adulto, tormentato, inquieto, vicino alla sensibilità del cardinale Carlo Maria Martini che incontra più volte, «la spiritualità del conflitto», come la chiama Scoppola, è minoritario nella stagione dei meeting di Comunione e liberazione a Rimini. E non ha niente a che fare con la politica personalizzata, urlata, ammiccante. «La sobrietà di vita è una delle cifre degli statisti», ha detto nel mese di luglio ricordando l'amico Giovanni Goria alla Camera che fu il premier più giovane della storia repubblicana (fino a Renzi) e morì prematuramente. Ma la sua non è una sobrietà alla Mario Monti, non si traduce in un loden, neppure la sobrietà è esibita. È un uomo in grigio. Un uomo invisibile. Ma non spento, per nulla incolore o malinconico.

Potrebbe sottoscrivere quanto disse Enrico Berlinguer a Giovanni Minoli: «La cosa che mi infastidisce di più è quando scrivono che sarei triste, perché non è vero». Di ironia sottile, fredda, anglosassone. Di passione contenuta, intransigente. Per questo temuto da Silvio Berlusconi. Il suo anti-berlusconismo non è politico, va molto al di là della decisione di dimettersi da ministro per protestare contro la legge Mammì sulle tv nel 1990. È un anti-berlusconismo etico, una scala di valori contrapposta, inconciliabile con l'Arcore style. È (anche) a lui che si riferiva quando attaccava «Il bombardamento commercializzato dei modelli di vita che ha accentuato il pericolo del conformismo». Alternativo antropologicamente al berlusconismo, al fighettismo, al libertinismo, specie quello intellettuale.

Sembrava destinato a un tranquillo notabilato, lui che leader non è mai stato, «cammina nella penombra», lo descrive l'amico Angelo Sanza. Invece a richiamarlo in servizio per la politica attiva è stato un leader molto lontano da lui, per stile, mentalità, cultura, anche se non per origine e provenienza. Si è sempre detto che Renzi era l'erede di Berlusconi, ma la scelta di Mattarella fa intuire un'altra parentela, un'altra famiglia di provenienza, anche se misconosciuta. Il cattolicesimo democratico, che ha sempre militato dalla parte opposta del berlusconismo. Una stirpe fondata esattamente un secolo fa, con il discorso di Caltagirone del 1905 di un altro siciliano, don Luigi Sturzo. Potenza delle culture politiche, capaci di sopravvivere alle stagioni, agli inverni più rigidi, alle tempeste più violente. Alle prove antiche e dure. Un secolo dopo, ecco un altro cattolico, siciliano, il primo al Quirinale. Proiettato verso il futuro.

Il figlio della Repubblica si affida a un padre. L'uomo del Selfie fa eleggere l'uomo senza immagini. Nel modo opposto allo stile dell'eletto. Mai e poi mai Sergio Mattarella avrebbe usato i metodi di Renzi: forzature, spintoni, spallate, rovesciamenti di campo. L'irruenza, il contrario della prudenza mattarelliana. Renzi usa uno dei migliori esponenti della Prima Repubblica per chiudere per sempre con la stagione della Seconda e prepararsi a fondare la Terza.

Sergio Mattarella, eletto presidente questa mattina di un sabato, il 31 gennaio 2015, potrebbe essere il capo dello Stato che celebrerà nel settantesimo anniversario dalla nascita della Repubblica insieme al referendum popolare che ne dichiarerà il (parziale) mutamento. Garante della Costituzione in vigore e di quella che verrà, come ha detto Renzi. E forse mostrerà al premier nato trentacinque anni dopo le parole del grande storico cattolico francese Henri-Irénée Marrou sulla conoscenza storica, il senso di ciò che accade, la piccola politica delle miserie quotidiane e la grande storia: «non viviamo soltanto per costruire e distruggere questi edifici provvisori, come una generazione di termiti, ma per dare un senso, riconoscere un valore al pellegrinaggio, a volte trionfale, a volte doloroso, che l'umanità compie da sempre attraverso il corso della sua storia». Sarà il mite, invisibile custode della Repubblica. Anche inflessibile (speriamo).

© Riproduzione riservata 31 gennaio 2015

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2015/01/31/news/sergio-mattarella-presidente-della-repubblica-quell-uomo-invisibile-della-dc-ma-non-incolore-1.197194?ref=HRBZ-1
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« Risposta #79 inserito:: Giugno 27, 2015, 10:27:19 am »

Campidoglio

Rosy Bindi: «E' ora di una Svolta Capitale Marino e il Pd facciano un passo indietro»
Il Partito Democratico e il sindaco di Roma hanno reagito alle inchieste.
Ma non basta. Occorre un cambiamento di sistema. A cominciare dai finanziamenti ai partiti.
L'intervista alla presidente della Commissione parlamentare Antimafia

Di Marco Damilano
18 giugno 2015

Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare Antimafia, in una lunga intervista a Marco Damilano su “l'Espresso” in edicola domani chiede «una reazione di sistema» dopo le inchieste di Mafia Capitale. «Va affermata l’autonomia tra i partiti e le istituzioni. Faccio un esempio: Matteo Orfini è il commissario del Pd di Roma, non il commissario del Comune. Deve spiegare come vuole cambiare il Pd di Roma, facendo tesoro del rapporto di Fabrizio Barca, ma non spetta a lui indicare di quante commissioni debba essere composto il consiglio comunale del Campidoglio. La prima qualità del cambiamento è la netta distinzione tra partito e istituzioni. Le risposte sul funzionamento del Comune io le voglio sentire da Marino e dai suoi assessori».

Le risposte di Marino le sono sembrate sufficienti?
«Marino rivendica giustamente di non essere parte del sistema e ha avuto problemi anche per questo motivo. Ha tentato di cambiare, gli va riconosciuto, la reazione è stata forte. Ora però dovrebbe riconoscere lui stesso di non avere avuto modo di rendersi conto di dove si trovava, senza invocare il fattore tempo come attenuante. Deve riflettere sull’opportunità politica delle scelte da fare che non sono dettate da responsabilità personali che Marino non ha. Non è l’onestà, è la sua capacità di controllare gli appalti che è in discussione».

Dovrebbe dimettersi?
«Se ci fosse la consapevolezza che con una scelta politica si può evitare la vergogna dello scioglimento della Capitale d’Italia per mafia, il sindaco e il Pd dovrebbero fare un passo indietro».

Rosy Bindi: «Il Pd e Marino facciano un passo indietro»
Il Partito Democratico e il sindaco di Roma hanno reagito alle inchieste. Ma non basta. Occorre un cambiamento di sistema. A cominciare dai finanziamenti ai partiti. Parla il presidente della Commissione parlamentare Antimafia

Ci sono gli estremi per sciogliere Roma per mafia? Per Renzi no...
«Non so su quali elementi possa fare questa affermazione. Io mi rifiuto di parlare senza aver potuto leggere la relazione prefettizia... Ma una risposta va data anche se non ci sono elementi evidenti per sciogliere. Perché comunque la situazione non può restare così com’è. Non si può interpretare un eventuale mancato scioglimento come un’assoluzione. Non si può dire: tutto a posto, non siamo inquinati... La politica deve immaginare soluzioni innovative». La Bindi pensa a «una sorta di “amministrazione controllata”. Non si scioglie il Comune, non si manda a casa il sindaco, ma si pongono condizioni molto stringenti e si nomina una commissione di garanzia che affianchi e controlli l’amministrazione con precise competenze tecniche».

Un commissariamento della politica?
«Al contrario: l’amministrazione eletta democraticamente resta al suo posto e la politica viene affiancata dagli organi dello Stato. Se io fossi il sindaco di Roma sarei la prima a chiederlo. Un bagno di umiltà sarebbe utile per tutti».

ESPRESSO+ LEGGI L'INTERVISTA INTEGRALE

Analizzando il quadro emerso dalle indagini, la Bindi spiega: «Non ci sono partiti. Ci sono i potentati, i capi bastone, le carriere personali, le cordate. Non c’è militanza, c’è il professionismo della politica. E c’è l’inganno ipocrita del finanziamento lecito. Dice Alemanno: quanto ho ricevuto da Buzzi era tutto dichiarato. Anche Marino dice: finanziamenti puliti, tutti dichiarati. Ma mi domando: nessuno si è chiesto l’origine di quei soldi? Io credo che vada rivista la legge sul finanziamento dei partiti che il Parlamento ha appena approvato. Almeno in un punto fondamentale: non si può permettere a una cooperativa o a un’azienda di finanziare gli esponenti politici di un’amministrazione con cui ci sono interessi economici e si partecipa a gare d’appalto. Finisce per essere qualcosa che droga la politica e il mercato».

Prima dell’arresto Buzzi partecipò a una cena di auto-finanziamento con Renzi.
«È stato assicurato che quei soldi saranno restituiti e va benissimo, questa è la risposta. Ma poi devi conoscere chi sono i tuoi finanziatori, prima di invitarli. Lo stesso è avvenuto a Venezia, con lo scandalo Mose. Bisogna ricostruire una comunità politica rispetto al modello del partito comitato elettorale, perché americani non lo saremo mai. Formare una leva di politici che non scambino la politica per un mestiere che dà da vivere grazie al meccanismo delle nomine e dell’occupazione delle istituzioni. Devono essere i militanti che scelgono i loro dirigenti, non i dirigenti che creano i loro militanti».

Bindi spiega di non avere sentito Renzi dopo l’inserimento di Vincenzo De Luca nella lista di impresentabili dell’Antimafia. E di non essersi pentita di quella scelta. Lei ha chiesto le scuse del Pd. «Vedo che ora si preferisce il silenzio. Posso capire, ma io mi rivolgerò a un organo di garanzia del mio partito. In sede politica voglio che mi sia riconosciuto che non ho mai usato la mia carica istituzionale per una lotta politica interna. Come si è potuta pensare una cosa del genere? È l’offesa più infamante. La mia formazione e i miei maestri mi hanno educato al rispetto delle istituzioni. Non posso vivere questo valore in conflitto con l’appartenenza al mio partito».

L'intervista integrale su l'Espresso in edicola venerdì 19 giugno e, da oggi, online su Espresso+

© Riproduzione riservata
18 giugno 2015

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2015/06/18/news/rosy-bindi-e-ora-di-una-svolta-capitale-marino-e-il-pd-facciano-un-passo-indietro-1.217654
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« Risposta #80 inserito:: Agosto 09, 2015, 11:11:31 am »

Matteo Renzi è caduto dal cavallo della Rai
Da sempre le svolte politiche maturano in Parlamento e nei partiti, ma poi si sperimentano nella tv pubblica.
Così le sue nomine, dai consiglieri a Campo Dall'Orto, mostrano l'invecchiamento precoce della rivoluzione renziana

Di Marco Damilano
06 agosto 2015

«Sono dolente che per il modo con cui si svolgono le cose non mi sia possibile darle le consegne e porgerle di persona il mio saluto augurale: voglia credere che questo, anche se dato per lettera, è fervidissimo e che per l'affetto che ho preso alla Rai in 15 mesi di Presidenza mi dà una sincera soddisfazione di sapere che passa nelle sue mani esperte...». Era l'inizio di agosto anche allora, quasi settant'anni fa. Il 2 agosto 1946: con un biglietto su carta intestata dell'Eiar corretta a macchina con la scritta "Il Presidente Rai", il primo presidente dell'azienda dopo la Liberazione del 1945 Arturo Carlo Jemolo salutava il suo successore, Giuseppe Spataro.

Jemolo era uno storico e giurista insigne, fuori dai partiti. Spataro era uno dei fondatori della Dc (le prime riunioni clandestine del partito si erano svolte nella sua casa romana), il sottosegretario per la stampa e l'informazione, un notabile potente che per tutta la sua presidenza (1946-1950) resterà deputato e nella direzione di piazza del Gesù.

Confermata la giornalista come presidente della Rai ora tocca alla casella del direttore generale, che sarà Antonio Campo Dall’Orto. Sorvolando sui debiti lasciati a La7

Eccolo tracciato, una volta per tutte, il DNA della Rai. Regola numero uno: le nomine da sempre si fanno in estate, all'inizio di agosto. Regola numero due: le svolte politiche maturano in Parlamento e nei partiti, ma si sperimentano prima nelle stanze della grande azienda del servizio pubblico.

Di cosa parliamo, quando parliamo di Rai? Le nomine in viale Mazzini eccitano la fantasia di politici, giornalisti e operatori del settore più di Sanremo, campionato di calcio e premio Strega messi insieme ma raccoglie l'indifferenza del pubblico. Sbagliando, però. La Rai anticipa e riflette la politica, più che lo schermo e uno specchio.

Il Tesoro indica la direttrice di Rainews. Per il Dg, invece, Renzi vuole Antonio Campo Dall’Orto, ex La7. Il sindacato dei giornalisti Rai protesta: «Non spetta al governo fare il nome». Per il Cda polemiche sui pensionati eletti, per la legge Madia dovranno lavorare gratis

Nel 1945-46 l'epurazione di Jemolo e l'arrivo di Spataro anticipa in Rai la lunga stagione politica dell'egemonia democristiana. Nel 1961 viene nominato direttore generale un fiorentino di 41 anni che si chiama Ettore Bernabei. Direttore del “Popolo”, uomo di Amintore Fanfani, sembra l'ennesimo democristiano parcheggiato in Rai in vista di altri incarichi. Invece durerà fino al 1974. E sotto la sua guida da «tiranno illuminato», come lo definirà molti anni dopo Andrea Barbato, la televisione diventerà uno dei motori della modernizzazione italiana e strumento decisivo di lotta politica.

Nel 1975, quarant'anni fa, c'è la prima riforma della Rai. Viene limitato il potere del governo e della Dc (con gli alleati minori, i socialisti, i famelici socialdemocratici) di nominare i vertici di viale Mazzini. La nomina del Cda Rai viene consegnata al Parlamento, alla commissione parlamentare di vigilanza in cui c'è anche il Pci di Berlinguer che quell'anni stravince le elezioni amministrative e aspira a diventare forza di governo. «La Rai comincia a riflettere la dialettica culturale e sociale del Paese e la sua articolazione diventa più complessa, meno monopolitica e centralizzata», esulta il giovane responsabile stampa del Psi che si chiama, indovinate?, Fabrizio Cicchitto. E nasce la sequenza Fibonacci di viale Mazzini, il numero magico 732111: sette consiglieri Dc, tre socialisti, 2 comunisti, uno a testa al Psdi, Pri e Pli. Un anno dopo partono il Tg1 democristiano (direttore il moroteo Emilio Rossi, ferito alle gambe dalle Br nove mesi prima della strage di via Fani) e il Tg2 laico, con la direzione di Andrea Barbato.

Lo spin doctor di Matteo Renzi e quello di Fitto. L’ex deputato forzista Mazzuca. La storica dell’arte vicina a Orfini. L’ex presidente della Fnsi. La commissione di Vigilanza elegge il Cda Rai. E l’unico che viene dalla tv è Freccero, eletto dai 5 stelle e da Sel

Una breve stagione di libertà e di concorrenza, la professionalità del Tg1, il più autorevole canale di informazione e il Tg2 corsaro di Barbato, nell'Italia degli anni Settanta delle radio libere, dei primi esperimenti di tv via cavo e della scalata di Silvio Berlusconi. Alla fine di luglio 1977, sempre in estate, il Pci rientra per la prima volta nella lottizzazione: direttore dell'informazione regionale è il dc irpino Biagio Agnes, il condirettore è il capo della Federstampa, appena assunto in Rai, il “compagno scomodo” Sandro Curzi. «Lottizzano anche i comunisti», titola il “Corriere” (29 luglio 1977).

Domenica 7 dicembre 1986 è un'altra data storica per la tv italiana: per la prima volta l'Auditel fotografa i rapporti di forza tra la Rai e la Fininvest, il cavallo di viale Mazzini ne esce agonizzante, l'audience del servizio pubblico è appena tre punti sopra quella del Biscione. «La Rai era in gravissima crisi, doveva cercare una fetta di pubblico molto fedele ma che fino a quel punto era rimasto escluso dalla yv», ha ricordato Enrico Menduni, all'epoca consigliere di amministrazione in quota Pci.

«Gli unici erano i comunisti. Furono loro i nostri “taxi della Marna”, gli arruolati dell'ultima ora che ci fecero vincere la battaglia decisiva». Decidono in tre, a tavola, nella saletta riservata di un ristorante del centro di Roma: il dc Agnes, il socialista Enrico Manca (quello che ha cacciato Beppe Grillo dalla tv di Stato) e il comunista Walter Veltroni, giovane responsabile informazione di Botteghe Oscure.

Al Pci va la direzione di Raitre con Angelo Guglielmi e la direzione del tg3 con Curzi: le due anime, l'intellettuale di avanguardia e il giornalista di partito. Il Pci riporta una paradossale vittoria nel momento del suo minimo elettorale, alla vigilia del crollo del muro di Berlino e del cambio del nome. Per il sistema politico la tripartizione Dc-Psi-Pci è la lottizzazione perfetta. E invece è vicina la fine, Tangentopoli e la Seconda Repubblica. I partiti tradizionali spariscono dalla scena in pochi mesi. Al loro posto i due super-partiti che si sono formati sulle guerre mediatiche ed editoriali degli anni Ottanta-Novanta: il partito Rai, la sinistra Dc, il Pci. E il partito Fininvest di Berlusconi, Gianni Letta, Confalonieri, i socialisti, la destra dc. Il bipolarismo all'italiana, prima che dalle leggi elettorali, nasce dalla televisione. Ancora pensate che la tv non c'entri nulla con il resto del Paese?

Nel 1993 c'è un ritorno all'antico modello Jemolo, la Rai dei professori fuori dai partiti. Dura pochissimo. E nel 2005 la legge Gasparri consacra il ritorno in grande stile della lottizzazione partitica, con la vigilanza che elegge il cda e il governo che sceglie il direttore generale. A ciascuno il suo: ex direttori di giornali di partito, ex parlamentari, ex capi uffici stampa. E tutti contenti.

Arriviamo, finalmente, a oggi. Cosa dice questa tornata di nomine in viale Mazzini dello stato di salute del governo Renzi e della politica italiana? Il premier gioca a dire che non è colpa sua se è stato costretto a scegliere i nomi con i metodi del passato perché la legge Gasparri non è stata eliminata: la colpa è sempre colpa degli altri. Ma se non cambia la musica, cambiano i suonatori. E il concerto, già mediocre, rischia di trasformarsi in un'assordante cacofonia. Partiamo dalle dichiarazioni di principio: «Fuori i partiti dalla Rai.
La governance della Tv pubblica dev’essere riformulata sul modello Bbc (Comitato Strategico nominato dal Presidente della Repubblica che nomina i membri del Comitato Esecutivo, composto da manager, e l’Amministratore Delegato). L’obiettivo è tenere i partiti politici fuori dalla gestione della televisione pubblica».

Recitava così il punto numero 17 del programma dei cento punti presentato da Renzi alla stazione Leopolda nel 2011. In quell'edizione l'economista Luigi Zingales (nominato in seguito dal governo Renzi nel cda Eni da cui si è di recente dimesso) era stato travolto dagli applausi quando aveva tuonato contro i premiati per fedeltà al boss partitico di turno: «L’Italia è governata dai peggiori. L’80 per cento dei manager dichiara che la principale strada per arrivare al successo è la conoscenza di una persona importante, poi ci sono lealtà e obbedienza, la competenza arriva solo quinta».

Conoscenza o competenza? Guelfo Guelfi, per provenienza geografica, si presenta dal nome e dal cognome. La sua unica competenza, pare, sono le campagne di comunicazione della provincia di Firenze presieduta da Renzi. Ex lottacontinuista di piazza, testimone al processo Sofri-Calabresi, ma i giudici credettero a Leonardo Marino e non a lui, oggi è stato collocato nel cda Rai, una perfetta parabola craxiana.

Rita Borioni, nominata dal giovane turco Orfini, confessa di candidamente di non vedere Sky e ha all'attivo in tv il programma Stendhal per Red-tv, la rete di D'Alema che ha seguito il destino di tutte le iniziative del leader massimo, cioè il disastro. E di lei si potrebbe dire quello che gridava nel 1958 il capogruppo del Pci Pietro Ingrao nell'aula di Montecitorio chiedendo di sapere «a che titolo» il ministro delle Finanze Giulio Andreotti avesse nominato il suo collaboratore Franco Evangelisti nel cda della Rai: «Per quale merito? Nessuno riesce a saperlo. Per capacità giornalistiche? Non risulta a nessuno. Per doti particolari di amministratore? Non abbiamo notizie. Almeno informateci su questo punto!». Chissà cosa risponderebbe oggi Orfini. Perché sulla Rai, ahinoi, le domande sono sempre le stesse. Solo che cala la qualità delle risposte.

Il merito? Ciascuno può giudicare: i successi del sindacato giornalisti guidato da Franco Siddi, la qualità dei consigli di Paolo Messa all'Udc e al ministro Corrado Clini, gli ascolti di Rainews 24 della neo-presidente, la bravissima Monica Maggioni, le copie vendute dai giornali del simpaticissimo Arturo Diaconale e di Giancarlo Mazzuca, il bilancio di La7 diretta da Antonio Campo Dall'Orto, altro uomo della Leopolda.

Nel 2011 si chiedeva al raduno renziano: «Chi sono le persone che ispirano i giovanissimi?», con una risposta esattamente all'insegna dell'innovazione: «Le ricerche dicono: gli amici, il papà, la mamma». Rimane Carlo Freccero, indicato dal Movimento 5 Stelle (e da Sel) che ha compiuto la prima vera operazione politica della legislatura, semplice, pulita: votare il migliore. Perché c'è il merito, non sempre uno vale uno, Freccero per genio e sregolatezza vale tutti gli altri consiglieri messi insieme. Ed è stato lui a definire il renzismo in un'intervista a Daniela Preziosi sul "Manifesto" (30 ottobre 2014) come «fanfanismo digitale»: «Renzi fa un racconto consolatorio, una storia a lieto fine, come una soap opera. C'è la crisi e la gente non vuole essere angosciata. Il politico oggi ha il compito di tranquillizzare, infondere fiducia. Come le monarchie di una volta».

In ogni caso, come si dice, non è colpa dei nominati ma di chi ce li ha messi. E le nomine Rai mostrano l'invecchiamento precoce della rivoluzione renziana. Più che fanfanismo digitale è craxismo terminale. Non si vede per ora un disegno, un progetto, un'idea. Orfini vorrebbe essere il nuovo Togliatti, ma qui non ci sono le masse proletarie da portare nei luoghi di potere per combattere i comitati d'affari della borghesia. Non c'è la borghesia e neppure i partiti, ma piccoli circuiti di amici che si auto-assegnano qualche identità di circostanza per coprire il vuoto. Dalla grande massoneria alle loggette di provincia. Dalle sezioni del grande Pci al potere spartito con la playstation, davanti a un bigliardino. Dai potenti sindacati anni Settanta ai professionisti della (s)concertazione. Dai grandi quotidiani alle gazzette senza lettori e forse senza redattori. Dai poteri forti alle micro-lobby romane. Dal professionismo al rampantismo...

L'ennesima spartizione agostana dal 1946 a oggi, il delitto di mezza estate del 2015 è l'auto-rappresentazione di un potere in crisi, di una classe dirigente evaporata. E Matteo Renzi che si era candidato a fare la rottamazione, ancora una volta, dimostra che è più facile galleggiare sul nulla, cullarsi sui vizi del passato piuttosto che provare a costruire una nuova classe dirigente. Questa nuova-vecchia Rai è per paradosso la più anti-renziana che si possa immaginare, nel senso del Renzi prima maniera che sfoggiava autonomia, coraggio, capacità di dire di no al capo. Mentre ora il Renzi 2 sta per mettere la faccia e la firma su una nuova stagione di conformismo. L'ideologia delle buone notizie, come si chiamava ai tempi di Bernabei e della Dc, che però, almeno, sapevano raccontare il Paese.

Il cavallo di bronzo dello scultore Francesco Messina di fronte al palazzo del potere Rai di viale Mazzini è piazzato lì a testimoniare le tristi sorti dei conquistatori della tv di Stato. Nelle intenzioni dovrebbe rappresentare un destriero rampante, ma nell'immaginario si è capovolto nel suo opposto: l'ippogrifo che non riesce ad alzarsi in volo, il cavallo morente. Un simbolo rovesciato. Come il renzismo di oggi.

© Riproduzione riservata
06 agosto 2015

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2015/08/06/news/renzi-e-caduto-dal-cavallo-della-rai-1.224479?ref=HRBZ-1
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« Risposta #81 inserito:: Dicembre 04, 2015, 07:07:38 pm »

Retroscena

Vatileaks, la rete di Francesca Chaouqui: tutti i nomi dietro la scalata della Papessa
L'ascesa della donna oggi al centro degli scandali vaticani si fonda anche su una lunga serie di amicizie, reali o millantate, all'interno del mondo dei salotti romani e della politica.
Ecco chi sono i suoi contatti


Di Marco Damilano
03 dicembre 2015

È l’Italia delle trame e delle truffe, delle millanterie e delle vanità, delle amicizie che si capovolgono in ricatti, delle fraternità e delle maschere. Il processo in Vaticano scaturito dall’uscita dei libri sui soldi della Santa Sede dei due giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi si sta avvitando in un labirinto di contraddizioni. E nel cuore del groviglio, come nella visione apocalittica, c’è una giovane donna. Con un talento naturale per occupare il centro della scena, come racconta l'Espresso nel suo articolo di copertina in edicola da venerdì 4 dicembre e già online su Espresso+. 

Salì su un vero palcoscenico il 15 gennaio 2014, al teatro Parioli, nel ruolo di Marion Holmes, la segretaria di Winston Churchill. Lo spettacolo si intitolava “Colpevole o innocente?”. Profetico: colpevole o innocente Francesca Immacolata Chaouqui? La Papessa, la chiama il marito Corrado Lanino, informatico, indagato con lei dalla procura di Roma per associazione a delinquere: avrebbero ricattato Paolo e Silvio Berlusconi, e non solo. Con la sua feroce determinazione a emergere, Francesca è soprattutto un personaggio che racconta l’Italia di oggi. Un mondo di faccendieri, spioni, nobili, cardinali, rampanti, carrieristi.

Nella rete della Papessa e personaggio-chiave per la sua ascesa è la contessa Marisa Pinto Olori del Poggio. La contessa è figura importante del panorama romano. Il marito Luigi, scomparso molti anni fa, stampatore del “Sole 24 Ore”, aveva in confidenza Gianni Agnelli e Andreotti. Amica della regina di Giordania e di re Juan Carlos, nominata grand'ufficiale della Repubblica da Ciampi, nel suo club Diplomatia si riuniscono ambasciatori, docenti, imprenditori: Umberto Vattani, Rocco Cangelosi, Vittorio Grilli.

Gianni Letta è un amico. Luigi Bisignani più ancora: «Gigi è il re di questo mondo», raccontano. Più amico di tutti è il cardinale francese Jean-Louis Tauran, per tredici anni (dal 1990 al 2003) ministro degli Esteri vaticano. Il 13 marzo 2013 sarà lui ad annunciare al mondo dalla basilica di San Pietro l’elezione a papa di Bergoglio. Oggi Tauran è il Camerlengo della curia, il solo a restare in carica in caso di morte del papa. Immancabile commensale nella villa di Bel Poggio della contessa. Anche lui è personaggio decisivo: il vero sponsor della nomina a sorpresa di Francesca nella Cosea, la ristretta commissione vaticana di otto persone che studia gli affari economici del Vaticano su incarico di Bergoglio. Insieme ad altre amicizie importanti come monsignor Robert Murphy, assistente del cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato. Finora nessuno di loro è stato tirato in ballo nel processo vaticano.

Vatileaks, la rete di potere della papessa Francesca Immacolata Chaouqui
Faccendieri, spioni, finanzieri, cardinali. Un circolo che si estende dal Vaticano fino ai nuovi potenti italiani. Tra millanterie e assalto al cielo ecco la storia della PR cosentina

Nella rete ci sono l’avvocato dai mille rapporti Patrizio Messina, Paolo Messa, animatore della fondazione “Formiche”, ora nel cda della Rai in quota centrista. E un pezzo di mondo renziano.

A partire da Marco Carrai, vertice del sistema Leopolda, ambasciatore di Matteo Renzi tra i poteri economici e internazionali, desideroso di accreditarsi in Vaticano. «Con Marco non c’è un rapporto professionale, è un amico...», ha detto la Chaouqui in tv a “Ballarò”. Dopo la messa-party in terrazza che fa infuriare il papa, a Palazzo Chigi arrivano informazioni riservate: meglio non frequentare la Chaouqui. Il sottosegretario Luca Lotti interrompe ogni contatto, Carrai no. Cinque mesi dopo Francesca e il marito sono tra gli invitati al matrimonio di “Marchino” a San Miniato a Firenze con Francesca Campana.

Non è l’unico contatto con il mondo renziano. Per l’accusatore e co-imputato nel processo vaticano monsignor Vallejo Balda la Chaouqui chiede soldi per gli incontri dell’associazione per bambini down di Andrea Conticini, cognato del premier.

Vatileaks, che tentazione copiare il bavaglio
C’è il rischio che l’Italia segua il cattivo esempio vaticano. E diventi più “braghettone” della Chiesa

Dal maggio 2014 il suo incarico alla Cosea è finito, arriva il momento di far fruttare le relazioni, gli amici di governo, come li chiamano Francesca e il marito in privato. Con Bisignani la frequentazione si fa assidua. Ora l’inchiesta della procura di Roma, ben più del processo in Vaticano, dovrà stabilire chi sia davvero Francesca Immacolata Chaouqui: una millantatrice o una ricattatrice? Colpevole o innocente? Apparenza o realtà?


Il dossier integrale su l'Espresso in edicola da venerdì 4 dicembre e già online su Espresso+
© Riproduzione riservata
03 dicembre 2015

Da - http://espresso.repubblica.it/archivio/2015/12/03/news/vatileaks-la-rete-di-francesca-chaouqui-tutti-i-nomi-dietro-la-scalata-della-papessa-1.241997
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« Risposta #82 inserito:: Novembre 05, 2016, 11:00:42 am »

ANALISI

Referendum, la grande assenza del M5S
I pentastellati si battono ma senza troppo clamore: niente piazze, niente dibattiti in tv, niente contaminazioni con gli altri oppositori.
E a un mese dal voto sono il grande assente dalla campagna sulla modifica della Costituzione

DI MARCO DAMILANO   
02 novembre 2016

C’è un buco vistoso nella campagna referendaria del No, un’assenza che pesa perché non riguarda un partitino dello schieramento politico o un’associazione che rappresenta solo se stessa. Il Movimento 5 Stelle è dato dai sondaggi testa a testa con il Partito democratico, vincente in un ipotetico ballottaggio con la legge elettorale Italicum, è considerato il punto di riferimento naturale di tutti gli oppositori del governo guidato da Matteo Renzi.

E dunque dovrebbe essere scontata la leadership grillina del fronte che vuole sconfiggere il premier il 4 dicembre. E invece no. È come se questo scontro M5S non lo sentisse suo. Il Movimento lotta, si batte, ma senza troppo clamore. Resta in un ruolo laterale, se non marginale. Sorprendente, per un soggetto politico ormai abituato in tre anni di vita a occupare il centro del ring.

Sul sito beppegrillo.it negli ultimi giorni l’unico voto che davvero ha occupato i pensieri dei capi del Movimento Beppe Grillo e Davide Casaleggio è stato quello per il regolamento e per il "non statuto" di M5S, per cui era previsto un quorum di votanti elevatissimo, il 75 per cento degli aventi diritto su 130mila iscritti. E poi la proposta parlamentare per dimezzare l’indennità dei deputati, portata dai dal gruppo M5S nell’aula di Montecitorio e rispedita in commissione fino a data da destinarsi. Per assistere allo spettacolo, martedì 25 ottobre, si è scomodato Beppe Grillo, in tribuna sopra i seggi del Pd, meno di trenta minuti per assistere a schermaglie regolamentari, fischi, applausi e infine il rinvio scontato.

Il Comico lì, incuriosito, divertito, le mani giunte, composto, docile alle severe regole che imbrigliano gli invitati ad assistere alle sedute della Camera, se n’è andato in punta di piedi, senza nessuna concessione alla piazza, anche perché la folla dei militanti convocata per l’occasione era ridotta a pochi intimi.

L’immagine di un Movimento non più extra-parlamentare, quasi istituzionale, con Grillo in tribuna e Luigi Di Maio a presiedere l’aula. Anche in questo caso, il riferimento al No referendario è stato ridotto al minimo sindacale. Più preoccupati i deputati del Pd, che temevano la trappola. Inseguire i grillini sulla strada dei tagli allo stipendio dei parlamentari? Oppure schierarsi contro, con il rischio però di indebolire l’argomento più forte con cui Renzi sta girando l’Italia per chiedere un voto favorevole al referendum: il taglio delle poltrone e la cancellazione dell’indennità per i futuri senatori-consiglieri regionali?

Tutto rinviato al dopo 4 dicembre. Fino a quella data l’agenda di Renzi e del Pd è piena. Quella di Grillo e di M5S è vuota. Al momento non è in programma nessuna grande manifestazione di M5S a favore del No referendario, o almeno qualcosa di paragonabile allo Tsunami Tour di Grillo che nel 2013 cambiò il corso delle cose, trascinando il Movimento al risultato di otto milioni di voti alle elezioni politiche (da zero). L’unica iniziativa resta finora il giro in moto coast-to-coast, tra spiagge, stabilimenti, bagnini e ombrelloni del deputato romano Alessandro Di Battista, modello Che Guevara: ma appartiene a una stagione finita, un’altra canzone, «un’estate fa». Nella versione autunnale, il Movimento ha abbandonato le strade e i mercati, ha dovuto affrontare le spine del governo, lo psicodramma di Roma con Virginia Raggi, l’addio di Federico Pizzarotti a Parma, il misto di ammirazione e sospetto che nel Movimento circonda la sindaca di Torino Chiara Appendino. E rifiuta di farsi trascinare troppo nella battaglia referendaria. Anche nei match in tv sul referendum finora gli esponenti del Movimento spiccano per assenza. Al punto che Renzi ha provato a sfidare Grillo al duello nel salotto di Bruno Vespa a "Porta a Porta". Un invito speculare a quello arrivato dal fronte opposto, dal capo leghista Matteo Salvini, che ha provato a coinvolgere i grillini in una giornata del No, con tutti i leader in campo senza distinzione di partito o di schieramento. Nessuna risposta.

Nei prossimi giorni il silenzio finirà. E anche M5S si mobiliterà massicciamente per il No: nessun dubbio. La prospettiva di far perdere Renzi vale l’impegno di qualche comizio e di qualche uscita televisiva. Ma l’assenza di questi mesi racconta qualcosa di significativo sull’identità attuale del Movimento. E sulla sua sotterranea ma visibile conversione alle tattiche e alle strategie di Palazzo, il calcolo delle convenienze di parte, l’odiato politichese.

Nella vittoria del No c’è qualcosa che conviene al M5S e qualcosa che non conviene. Conviene, naturalmente, la sconfitta di Renzi. Le cancellerie europee temono il rovescio del premier e del Sì al referendum non tanto per il blocco del cammino delle riforme, con le attuali istituzioni l’Italia è rimasta nel club delle maggiori potenze per decenni, ma perché la considerano l’anticamera di un possibile governo grillino. Dentro M5S, però, sono molto più prudenti. Di Battista l’ha già detto in pubblico: se i Sì dovessero perdere, dovrebbe nascere un governo di scopo per fare una nuova legge elettorale che potrebbe contare sulla benevolenza del Movimento.

Di Maio, il vice-presidente della Camera, dato fino a pochi mesi fa come il sicuro candidato premier dei grillini alle prossime elezioni, è altrettanto circospetto. Nessuno, per ora, ha chiesto la fine anticipata della legislatura e nuove elezioni. Conviene non identificarsi totalmente con la campagna del No perché in ogni discussione di merito l’elettorato e la base di M5S tendono a dividersi: così è stato sulle unioni civili o sull’immigrazione, così potrebbe essere anche sulla riforma della Costituzione, come dimostrano i sondaggi che danno una parte di elettori grillini tentati dal voto favorevole. Non conviene partecipare alla campagna referendaria mescolandosi agli altri leader del No: Salvini, Renato Brunetta e Massimo D’Alema. Per fedeltà al dogma del Movimento, mai fare alleanze con altri partiti, e perché non si partecipa a un fronte così trasversale e variegato se la vittoria non è poi così sicura. Si sa, meglio vincere da soli che perdere insieme ad altri.

Combattere l’avversario negando la sua dignità. È una china italiana e mondiale. Che uccide la democrazia
Conviene, infine, ma nessun grillino lo confermerà mai, tenere in vita la legge elettorale Italicum, piuttosto che assistere a una modifica che avrebbe l’obiettivo di rendere impossibile una vittoria elettorale di M5S, anzi, di consegnarlo all’irrilevanza parlamentare. A differenza di Renzi, che è condannato a vincere pena la catastrofe politica, il Movimento ha due risultati a disposizione: vincere, ovviamente, ma anche arrivare secondo, egemonizzando però tutto ciò che sta all’opposizione del premier.

Il successo del Sì spingerebbe Renzi a blindare l’attuale sistema: legge elettorale a doppio turno, premio di seggi al partito che arriva primo, un largo numero di eletti per chi arriva secondo, le elezioni che si trasformano in un duello tra due listoni nazionali. In questo momento ne esistono solo due: il partito di Renzi e i Cinque Stelle. Per questo, l’atteggiamento di M5S in questa campagna referendaria sembra ripercorrere quello tenuto da Renzi durante le elezioni amministrative. Il premier si fece vedere in campagna elettorale, a Roma e a Torino, per lo spazio di una serata: per non mettere la faccia su un risultato che prevedeva negativo per lui e per il suo partito, certo, ma soprattutto perché riteneva di giocarsi la partita decisiva sul referendum.

Allo stesso modo i grillini si sono spesi allo stremo in primavera sulle elezioni amministrative e appaiono molto meno appassionati ora che si vota sulla riforma della Costituzione. Il Movimento che dice no è riluttante ad assumersi la leadership del No, ancora vacante. Il Movimento che è nato nelle piazze e sulla Rete sposta le sue battaglie nelle aule parlamentari e attende il 4 dicembre con apparente noncuranza. Il Movimento che disprezzava le alchimie della politica si muove con un occhio al No e uno al Sì, per tenere unito il suo elettorato e preparare lo scontro finale, alle elezioni politiche. In altri tempi, si sarebbe definita posizione agnostica. M5S gioca di attesa. E il fronte del No, privato dell’onda d’urto grillina, teme di scoprirsi più debole.

© Riproduzione riservata 02 novembre 2016

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« Risposta #83 inserito:: Gennaio 06, 2017, 02:36:52 pm »

Politica   
Preferivate Renzi o la grande bonaccia?
Al posto del temuto Giudizio Universale del dopo-referendum arriva a sorpresa la Grande Restaurazione: il congresso di Vienna dopo la caduta del Napoleone di Rignano sull’Arno

Di Marco Damilano   
03 gennaio 2017
   
«Ricostruire da zero Stromboli. Ricostruire da zero l’Italia. Un nuovo modo di vivere, una nuova luce, nuovi abiti, nuovi suoni, un nuovo modo di parlare, nuovi colori, nuovi sapori... Tutto nuovo!». Era il 1993, Nanni Moretti affidava al personaggio del sindaco di Stromboli in “Caro Diario” il manifesto ideale degli anni che sarebbero venuti: fare tabula rasa del vecchio, ricostruire da zero, tutto nuovo. E vennero i sindaci e la fantasia al potere nelle città, e poi l’Imprenditore con il suo nuovo modo di parlare in politica, i nuovi suoni, i nuovi inni: «Forza alziamoci, il futuro è aperto entriamoci...».

E ora invece il futuro si chiude, con il 2017 si avverte inconfondibile l’atmosfera dell’indietro tutta, il cambiare verso ma in retromarcia, la nostalgia dell’antico, il fascino imprevisto della conservazione. Sigillato il 20 dicembre dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo discorso nel Salone dei Corazzieri del Quirinale alle alte cariche dello Stato, finora il più importante del suo settennato. Quando al tirar le somme di un anno drammatico, vissuto sullo scontro da fine-mondo sul voto referendario, il Capo dello Stato ha soavemente sepolto trenta, forse quarant’anni di progetti, propositi, velleità di Riforma costituzionale. «Il testo vigente - conservato inalterato dal voto popolare - costituisce la Costituzione di tutti gli italiani, che tutti dobbiamo amare e rispettare», ha scandito con mitezza Mattarella. Allitterazione a parte (costituisce la Costituzione), sono parole definitive, pronunciate di fronte a una platea di ministri, parlamentari, vertici militari, prefetti, magistrati, alte burocrazie: il Contesto che regge e governa lo Stato. «Il testo conservato inalterato dal voto popolare». Quella riga (il testo conservato, anzi, di più, inalterato, ovvero non alterato, non adulterato, integro, intatto, per di più con il voto popolare), avverte che siamo giunti all’ultima stazione di un lungo percorso che non ha portato da nessuna parte. La transizione italiana, per ora, si ferma qui, al punto di partenza. Addio nuovo.

Per capire quale sia lo stato d’animo degli inquilini del Palazzo devi raccogliere le confessioni di un ministro, riconfermato nel governo Gentiloni: «Con Matteo Renzi il Consiglio durava un quarto d’ora, parlava solo lui. Quando qualcuno di noi si dilungava a presentare un provvedimento veniva subito interrotto: “Faccio io la sintesi!”. I minuti finali li dedicava a darci i compiti mediatici: “Tu vieni con me in conferenza stampa. Tu invece vai questa sera in tv, da Vespa. E domani fai un’intervista con un quotidiano del Nord...”. Da quando c’è Paolo, abbiamo ripreso a parlare tutti...». O quelle del dirigente di un’importante azienda pubblica: «C’è un clima di sollievo. Fino a qualche settimana fa ogni iniziativa doveva essere comunicata a Palazzo Chigi e se Renzi decideva di partecipare doveva essere mediaticamente trasformata in un evento, “senza precedenti”, si capisce. Ora siamo tornati alla normalità...».

Al posto del temuto Giudizio Universale del dopo-referendum arriva a sorpresa la Grande Bonaccia. La Tregua. La Restaurazione, forse: il congresso di Vienna dopo la caduta del Napoleone di Rignano sull’Arno. «I vostri sovrani, nati sul trono, possono lasciarsi battere venti volte e rientrare sempre nelle loro capitali», aveva confidato l’Imperatore francese al conte di Metternich nel 1813. Una lezione destinata a durare: il leader che non è «nato sul trono» per rimanere al potere è costretto al movimento perpetuo, alla destabilizzazione di ciò tutto che è ordine costituito, istituzione. A essere sempre nuovo: il Nuovo.

Il referendum del 4 dicembre ha sconfitto, anzi, ha travolto questa idea di cambiamento perenne provocato dall’alto, da una leadership personalistica e ambiziosa. Ma il ritorno al Vecchio non riguarda solo la politica italiana. Perché anche la novità più dirompente di questo tempo, l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, «non è tanto sisma quanto sismografo dei mutamenti sociopolitici in corso. I quali, almeno in America e in Occidente, si profilano come tecnicamente reazionari», si legge nell’editoriale dell’ultimo numero di “Limes” (11/2016). Una reazione contro la globalizzazione che «negli anni Novanta era asso pigliatutto, misura di tutte le cose». Oggi invece si indeboliscono i flussi finanziari, i traffici internazionali, gli investimenti esteri. Tornano gli interessi nazionali: come prima, più di prima.

In Italia il fenomeno significa la chiusura di una lunga stagione che ha preceduto il Pd renziano, il Movimento 5 Stelle, e anche il berlusconismo. L’ideologia del Nuovo (le nuove istituzioni, i nuovi partiti, le nuove leadership, i nuovi comportamenti politici) ha modellato tutte le identità politiche degli ultimi decenni: la sinistra, la destra, il centro. Nuova la Grande Riforma istituzionale lanciata nel dibattito da Bettino Craxi con un articolo sul quotidiano del Psi “L’Avanti” intitolato “Ottava legislatura” il 28 settembre 1979: «Una legislatura già nata sotto cattivi auspici vivrà con successo se diventerà la legislatura di una grande Riforma che abbracci l’ambito istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale». Parole riprese in modo letterale da Renzi durante la presentazione del suo governo al Senato il 24 febbraio 2014: «Propongo a questo Senato di essere la legislatura della Svolta». Nel frattempo però le legislature erano diventate diciassette.

Il Nuovo è stato il mito fondativo delle leadership degli ultimi decenni. Ciriaco De Mita, combattivo, orgoglioso (e alla fine vincente) sostenitore della conservazione della Carta con Renzi nello studio tv di Enrico Mentana, spiegò l’11 aprile 1983 in un colloquio con Eugenio Scalfari su “Repubblica” la novità della Democrazia cristiana da lui guidata: «Destra e sinistra sono schemi mistificanti. Non ci si distingue più in quel modo. La vera dialettica è tra vecchio e nuovo». (Intervista lungimirante, perché De Mita consegnava a Scalfari un suo tormento: «Temo il rifiuto della politica per colpa dei politici. Badi, il qualunquismo di trent’anni fa riguardava gruppi sociali culturalmente impreparati, ma oggi il rifiuto della politica è un campanello d’allarme molto più preoccupante perché proviene da gruppi sociali avvertiti, culturalmente e professionalmente qualificati». L’anti-politica sembrava lontana, Beppe Grillo faceva il comico. E commentò negli studi Rai qualche settimana dopo il tracollo elettorale della Dc di De Mita, due milioni di voti persi, in un’atmosfera da lutto televisivo nazionale: «Calma, ci sono gli ultimi seggi di Lourdes e Fatima, chissà, un miracolino...»).

Nuova fu la Svolta di Achille Occhetto, la Cosa post-comunista, nata dopo il crollo del muro di Berlino nel 1989. «Un nuovo inizio che ha in sé il meglio della nostra tradizione», la definì con un capolavoro di illusionismo verbale (il nuovo è il meglio del vecchio) il leader di fronte al Comitato centrale del Pci inferocito per aver appreso del cambio del nome e del simbolo senza una discussione. Al successivo congresso di Bologna, nel 1990, Occhetto volò ancora più in alto, citando l’Ulisse di Alfred Tennyson: «Venite amici/ che non è mai troppo tardi per scoprire un nuovo mondo./Io vi propongo di andare più in là dell’orizzonte conosciuto...». Oltrista, fu definita la creatura di Occhetto, la Quercia che per fare il partito nuovo si apriva alla società civile e si batteva per la riforma del sistema politico, il triangolo magico del rinnovamento a sinistra negli anni Novanta e Duemila, dall’Ulivo fino al Pd. Svoltista, anzi, nuovista, neologismo inventato dal “Manifesto” e fatto proprio dai nemici del leader. «Sei tecnicamente obsoleto», gli dirà Massimo D’Alema al momento di spodestarlo dalla segreteria nel 1994, ma il discorso con cui il lider Maximo lancia la sua candidatura alla segreteria è una requisitoria contro «il nuovismo esteriore di chi sostiene che è finita l’epoca dei partiti politici e che essi hanno un senso soltanto come partito del leader». Notazione destinata a una certa fortuna. E anche D’Alema userà la categoria del Nuovo quando toccherà a lui la conquista del potere: «la nuova Italia per la nuova Roma», fanno scrivere sotto la sua foto da candidato al consiglio comunale di Roma nel 1997 gli spin Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino (nella battaglia referendaria del 2016 iper-renziani). E la riforma costituzionale della Bicamerale da lui presieduta è, inutile dirlo, la «Grande occasione». Perduta.

Nuovo è, e figuriamoci, il Cavaliere dell’eterno presente che dal 1994 scende in campo in politica, lui il nuovo che avanza preconizzato da Michele Serra. Il mix perfetto dell’impresario: serialità e novità, essere sempre uguali e sempre nuovi, ricominciare sempre da zero, il berlusconismo non ha mai un passato, declina i tempi al futuro, è un eterno presente, è il colpo di lifting permanente che restituisce come nuovo il leader al suo popolo. E nuovi, nuovissimi gli ultimi arrivati, il grillismo che vuole aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno, il renzismo della rottamazione dove tutto è inedito, mai visto, mai udito, «siamo quelli che non c’eravamo prima», ripete il sindaco di Firenze al momento della scalata al potere nazionale. L’anagrafe come garanzia di novità e di purezza. Conclusa nel rovescio del 4 dicembre.

Nessun Paese ha consumato tante leadership nuove, e in così poco tempo, come l’Italia. Esaurita l’analisi del voto referendario bisognerà pur chiedersi se dopo tanto discorrere, ci sia qualcosa di più profondo nella vittoria massiccia del No. La diffidenza, se non il rifiuto, verso la parola Riforma, che negli anni Settanta e Ottanta significava miglioramento delle condizioni di vita e oggi per molti si è capovolta in un annuncio di peggioramento: meno diritti, più precarietà. E la bocciatura del Nuovo e dei novatori, all’interno di una situazione troppo grande per loro. «Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un rovesciamento semantico per cui con rivoluzione si intende in realtà il suo contrario, la distruzione di ogni progetto, di ogni sviluppo coerente di visione del futuro. Una specie di anti-rivoluzione o rovesciamento del pensiero rivoluzionario concepito come passaggio da 2.0 a 2.1...», ha scritto lo storico Paolo Prodi appena scomparso in uno dei suoi ultimi libri, “Il tramonto della rivoluzione”. È il nuovo senza progetto che consuma se stesso e provoca le cause della sua dissoluzione.

Tornerà nel 2017, forse, la legge elettorale proporzionale. E i governi di coalizione. E il manuale Cencelli per fare le nomine (ammesso che sia mai caduto in disuso). E i ministri senza portafoglio. E i vertici notturni. E le verifiche programmatiche. E i caminetti dei capicorrente, che possono lasciarsi battere venti volte e sempre rientrare, come monarchi decaduti. Tutto questo, però, non basterà a restituire all’Italia la felicità perduta. E di tutto questo, almeno in parte, porta la responsabilità il nuovo avanzato, che non avanza più.

© Riproduzione riservata
03 gennaio 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2016/12/29/news/preferivate-renzi-o-la-grande-bonaccia-1.292509?ref=HRBZ-1

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« Risposta #84 inserito:: Giugno 11, 2017, 05:58:20 pm »

AMMINISTRATIVE 2017

Quattro leader stanchi per le città al voto
Le elezioni di domenica, che coinvolgeranno nove milioni di italiani, sembrano non interessare i partiti, che dopo il naufragio del sistema tedesco pensano solo all'appuntamento nazionale.
Domenica 11 dalle 23 analisi e commenti sul voto

DI MARCO DAMILANO
09 giugno 2017

Nel bel mezzo di uno scontro politico termo-nucleare, la tela del Gbr (il Grillo-Berlusconi-Renzi) che si lacera nell'aula di Montecitorio, l'Accordone sulla legge elettorale tedesca strappato con un giro di valzer all'italiana, di quelli che durante le guerre ottocentesche e novecentesche hanno fatto impazzire austriaci e germanici, l'Italia che non conclude mai un conflitto con gli stessi alleati con cui l'ha iniziato, ecco – ce lo siamo tutti dimenticato – arriva anche il turno delle elezioni amministrative.

Nulla in confronto alle elezioni inglesi con la resurrezione della sinistra, la new old left di Jeremy Corbin, o il primo turno delle legislative francesi con la leadership di Emmanuel Macron, d'accordo. Ma in ogni caso nove milioni di elettori al voto, sessantaquattromila candidati, oltre mille comuni, venticinque di capoluogo: tra questi Genova, Palermo, Parma, Verona. E poi Padova, la Taranto dell'Ilva, la Trapani degli scandali politico-mafiosi, L'Aquila del dopo-terremoto mai iniziato. E Lecce, Frosinone, Lucca, Piacenza, Gorizia...

Verona al voto, divisa più che mai
La Lega ha perso il suo ruolo centrale. E il risultato è del tutto imprevedibile. 
Con sei possibili ballottaggi

Elezioni quasi dimenticate dai leader. Troppo impegnati a Roma, a organizzare la data del voto nazionale, il 24 settembre molto gettonato è naufragato alla Camera con il voto segreto del Trentino. Pochissimi comizi: ancora una volta, come successe nel 2013, in piazza si è visto quasi unicamente Beppe Grillo, in Sicilia e in Piemonte, a Taranto dove si era avventurato in solitudine nel gennaio 2013. Ma le piazze non sono piene come allora e il comico trasformato in capo-partito se n'è lamentato.

Federico Pizzarotti
Parma, le elezioni comunali dell'incertezza: tra ex grillini, Pd spaccato e destra nel caos

Pizzarotti e la sua lista di fuoriusciti del M5S. I democratici divisi. Il centrodestra in mezzo al guado e i grillini ridotti a poca cosa. Nella città emiliana le prossime comunali sono un vero terno al lotto
Cinque anni fa furono proprio le elezioni amministrative nelle stesse città in cui si torna a votare domenica 11 giugno a lanciare il Movimento 5 Stelle. Vittorioso al ballottaggio a Parma, città simbolo, nell'Emilia rossa ma governata da un centro-destra spendaccione e indagato, con il debuttante assoluto Federico Pizzarotti. Una vittoria clamorosa, in quel 2012 che funzionò da incubatore di tanti fenomeni: governava Mario Monti con i suoi tecnici, i partiti della maggioranza, l'Abc (Alfano-Bersani-Casini, che potenza evocativa questi acronimi!) aspettava anche allora, come oggi, la data del voto. E intanto M5S conquistò Parma. Quel pomeriggio, alla conferenza stampa post-voto, il segretario del Pd Pier Luigi Bersani si presentò nella sala di largo del Nazareno. Non lo dirà, pensai quando entrò sotto le telecamere, non farà l'errore di dirlo... E invece lo disse: «Non è vero che il Pd perde ovunque contro Grillo. A Garbagnate e a Budrio abbiamo vinto». Soddisfazioni.

Qualche mese fa, lanciando la sua candidatura a premier del centrosinistra contro Bersani, il sindaco di Firenze Matteo Renzi spiegò: «Ho deciso di candidarmi dopo la sconfitta di Parma. Non voglio che succeda anche a livello nazionale: sogno un Pd che vince con il 40 per cento, non uno che perde contro Grillo con il 25».

Le elezioni dell'11 giugno non avranno lo stesso significato e le stesse conseguenze, ma sono importanti per valutare lo stato di salute dei quattro partiti che avevano firmato il patto sul sistema elettorale tedesco, tradendolo alla prima curva. Grillo non è più un outsider, rischia di non andare ai ballottaggi nei comuni più importanti, amara rischia di essere Parma, dove Pizzarotti nel frattempo uscito dal Movimento dopo essere stato sospeso minaccia di vincere senza il Movimento (c'è vita fuori da M5S), amarissima forse la sua Genova, dove il fondatore del Movimento è arrivato a capovolgere il risultato della Rete per portare al comune la candidatura di Luca Pirondini.

Genova, corsa a tre per la poltrona di sindaco: tra Pd e M5s, la destra gode
Il tribunale dà ragione alla candidata esclusa dal Movimento 5 Stelle, che ora dovrà affrontare il problema. E mentre anche la sinistra si spacca, a poter fare il colpaccio nella roccaforte rossa è la destra
Berlusconi corre con il centrodestra unito a Genova con Marco Bucci (competitivo), in apparenza unito a Padova con l'uscente leghista Massimo Bitonci che però fu sfiduciato dai forzisti, sotto mentite spoglie e trainato da Totò Cuffaro a Palermo, con Marco Ferrandelli (che cinque anni fa era il candidato del Pd di Bersani). Salvini deve difendere le roccaforti leghiste e sconfiggere il fuoriuscito e nemico Flavio Tosi che a Verona corre con la candidatura della fidanzata Patrizia Bisinella, senatrice che a Roma appoggia il governo Gentiloni, o comunque non vota la sfiducia.

Renzi è alla sua prima vera prova elettorale da semplice segretario del Pd, senza la presidenza del Consiglio, senza il doppio incarico. Non si è dedicato molto alla campagna elettorale: pochi i tweet, le comunicazioni social, i discorsi indirizzati all'elettorato. Forse perché nelle grandi città al voto è rispuntata la cara vecchia coalizione di centrosinistra. A Genova, per sostenere Gianni Crivello, assessore del Pd, uomo del cuore rosso antico della città, più Corbin che Macron, si sono mobilitati Bersani e Massimo D'Alema, gli scissionisti: è uno di loro, della Ditta.
Elezioni comunali a Palermo: i partiti cambiano ma i candidati restano gli stessi

Cinque anni dopo, i sondaggi per le amministrative danno ancora per favoriti Leoluca Orlando e Fabrizio Ferrandelli. Stesse facce ma con casacche diverse, come nell'Opera dei pupi
A Palermo il Pd è sparito nelle accoglienti liste civiche che appoggiano l'eterno Leoluca Orlando, sindaco già nel 1985 con la Dc, quando Renzi aveva dieci anni. In qualche altra città si sperimenteranno alleanze spurie con pezzi di Forza Italia, ma al ballottaggio. E c'è l'attesa di un risultato positivo per il Pd che rilanci il partito dopo le batoste di un anno fa (Roma e Torino alle sindache di M5S) e del referendum elettorale. C'è aria di macchine stanche, di apparati arrugginiti, di leader svogliati. Di sciogliete le righe in vita di elezioni nazionali che sembravano vicine e che si sono all'improvviso allontanate. E poi ci sarebbero le città con i loro problemi, le speranze, le sofferenze, il territorio nazionale cicatrizzato a stento dopo mille ferite e da ricostruire. Ma di questo quasi nessuno ne ha parlato. E dopo la notte di domenica si tornerà alla Camera. A ricominciare la guerriglia sulla legge elettorale.

AMMINISTRATIVE 2017
© Riproduzione riservata 09 giugno 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2017/06/09/news/quattro-leader-stanchi-per-le-citta-al-voto-1.303814?ref=HEF_RULLO
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« Risposta #85 inserito:: Settembre 25, 2017, 11:31:09 am »

PALAZZO
Elezioni 2018, la carica dei micro partiti
In vista delle politiche del prossimo anno si moltiplicano le piccole formazioni. Che erodono i voti alle grandi. Ecco perché costruire una maggioranza diventa sempre più difficile.

DI MARCO DAMILANO
21 settembre 2017

Il 29 settembre si ricomincia, con tutta la solennità che merita l’evento. Istituto Luigi Sturzo, nel cuore di Roma, tra la Camera e il Senato, nel palazzo in cui riposano le carte e sono conservati gli archivi di alcuni tra i più importanti leader democristiani, compreso Giulio Andreotti. Qui si ritroveranno Paolo Cirino Pomicino, classe 1939, e Ciriaco De Mita, che il 2 febbraio compirà 90 anni e intende festeggiar li come ha trascorso quasi tutta la sua esistenza: in campagna elettorale, a contatto con la sua gente, forse addirittura da candidato, a caccia di voti. In una formazione che dovrebbe pescare in quell’area indistinta tra quello che fu l’Udc di Pier Ferdinando Casini e l’Ncd-Ap di Angelino Alfano, in via di sbriciolamento a destra e a sinistra. E poiché partito chiama partito e corrente chiama corrente, ecco la riunione, il giorno dopo, dei cattolici democratici che militano nel Pd e nel centrosinistra riuniti attorno all’associazione Argomenti 2000 e al deputato Ernesto Preziosi.

Dopo un quarto di secolo rinasce la Dc e questa forse è la volta buona, dopo tanti tentativi falliti negli ultimi venti anni. C’è la legge proporzionale, e poi una soglia di sbarramento quasi impercettibile, del tre per cento alla Camera, se non ci sarà nessuna riforma elettorale, e in tanti sperano di superarla. Perfino Matteo Renzi parla di alleanze da fare in Parlamento dopo il voto. E allora perché mai non dovrebbe presentarsi, anzi concorrere, si usava dire nel linguaggio dei cavalieri antichi, un partito dichiaratamente democratico-cristiano, proprio ora che dopo la parentesi chiamata Seconda Repubblica quel modo di fare politica torna prepotente e vincente?

Sono le foto di gruppo che arrivano dalla Sicilia, dove le liste per le elezioni del 5 novembre si moltiplicano e un creativo come l’ex presidente della regione poi condannato per favoreggiamento alla mafia Totò Cuffaro immagina il voto disgiunto, Vittorio Sgarbi per la presidenza della regione e la formazione dell’ex rettore dell’università di Palermo Roberto Lagalla che corre per il centrodestra per i candidati all’Assemblea regionale. E la moltiplicazione dei partiti che sul piano nazionale si sta già sviluppando a destra, a sinistra, al centro, l’effetto classico del formicaio impazzito. Il risultato è stato fotografato dai primi sondaggi della ripresa autunnale, firmati da Ilvo Diamanti e da Nando Pagnoncelli. Sarebbero almeno sei i partiti a superare la soglia di sbarramento del tre per cento prevista alla Camera dall’attuale legge elettorale: M5S (primo partito virtuale), Pd, Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia, Mdp. E altri tre o quattro sono quelli compresi tra il due e il tre per cento, con l’ambizione dunque di superare il muro che divide il paradiso dell’accesso in Parlamento dall’inferno dell’esclusione: Alternativa popolare di Angelino Alfano, Sinistra italiana di Nicola Fratoianni, Campo progressista di Giuliano Pisapia, da solo, senza allearsi con Mdp.


Il dato più importante e nuovo, però, non è l’elenco dei partiti in aumento, tutti attratti dal miraggio di superare la soglia di sbarramento, ma il consenso per le liste maggiori che si va assottigliando di mese in mese. Il Pd era al 30 per cento un anno fa, prima della sconfitta al referendum costituzionale del 4 dicembre e della scissione di Pier Luigi Bersani, è sceso al 28 per cento a maggio, ora supera di poco il 26. M5S si appresta a scegliere Luigi Di Maio come candidato premier, fino a pochi mesi fa sarebbe stato un passaggio che i poteri politici e economici avrebbero seguito con attenzione spasmodica, provando a capire se i post-grillini avevano davvero le carte in regola per Palazzo Chigi. Ora la nomina di Di Maio è stata assorbita con uno sbadiglio, si parla di un partito che oscilla tra il 28 e il 26 per cento, in discesa, comunque lontano dalla prospettiva di governare da solo. Numeri che rivelano come, dopo una legislatura di scontri furibondi su ogni aspetto dello scibile e del vivere umano, dal maltempo ai vaccini, i due principali partiti italiani siano tornati più o meno alle percentuali di cinque anni fa, il punto di partenza. Insieme Pd e M5S arrivano a stento a rappresentare la metà dell’elettorato. Alle loro spalle la situazione non cambia: c’è il derby nel centrodestra tra Forza Italia e la Lega di Matteo Salvini, ma a quote modeste. I due partiti mettono insieme tra un quarto e un terzo dell’elettorato, soltanto uniti a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni superano il 30 per cento e si avvicinano al 35. In ogni caso, molto lontani dal premio di maggioranza che tocca a chi supera il 40 per cento del voto di lista per la Camera nell’attuale legge elettorale.

Aiuto, mi si sono ristretti i partiti. I grandi sono diventati piccoli. I medio-grandi sono scesi a medio-piccoli. E i piccoli sono decisamente troppi. Ad ammetterlo è il testimone più inaspettato, il segretario del Pd Renzi: «Il nostro zoccolo duro è tra il 20 e il 25 per cento. Partiamo da lì», analizza l’ex premier studiando i sondaggi. Si può crescere, certo, ma sono le percentuali che aveva il Pd di Bersani e che il sindaco rottamatore Renzi all’epoca considerava misere. La metà, in ogni caso, dell’ormai mitologico 40 per cento conquistato alle elezioni europee del 2014.

È la fotografia di uno stallo dell’elettorato che spiazza sia i fautori del maggioritario - quelli che la notte delle elezioni bisogna sapere chi ha vinto al primo exit poll - sia i pasdaran della Grande coalizione, quelli che tifano per un nuovo patto del Nazareno, l’accordone tra Pd e Forza Italia, tra Renzi e Berlusconi, in nome delle riforme, da fare in Parlamento, lontano dagli elettori. Il caos italiano mette fuori gioco sia gli anglosassoni, che sognavano di trasformare Montecitorio in Westminster (è quasi avvenuto il contrario: il Parlamento inglese rischia di somigliare a quello italiano), sia i presidenzialisti alla francese o all’americana, sia gli innamorati del modello tedesco e delle grandi coalizioni della Germania di Angela Merkel.

Il sistema maggioritario, infatti, non esiste più, il bipolarismo è stato cancellato dall’avvento del terzo incomodo, il movimento di Beppe Grillo e di Davide Casaleggio che impedisce la sfida a due centrosinistra-centrodestra, e non ritornerà senza una legge che premi il primo classificato o riduca a due nel ballottaggio i contendenti come succede nella Francia del sistema elettorale a doppio turno, e come prevedeva l’Italicum bocciato dalla Consulta (e non dal voto degli italiani, come ripetono gli ultrà renziani). Anche in Francia, nel primo turno delle elezioni presidenziali, il voto si era diviso: Emmanuel Macron aveva raccolto il 24 per cento, Marine Le Pen il 21. Ma fa parte del gioco, le alleanze si fanno nelle urne nel secondo turno e sono gli elettori a dare le carte e a confluire sui due candidati che sono rimasti nella partita. Il sistema presidenziale, cui si allude da almeno dieci anni con l’introduzione delle primarie per la scelta del candidato-premier, o con l’inserimento del nome del leader nel simbolo elettorale, non esiste in Italia e non ci sarà nelle prossime elezioni: fasullo il problema del candidato premier, in un sistema proporzionale Renzi, Di Maio, Salvini o il nome prescelto da Berlusconi per guidare Forza Italia al posto suo, Antonio Tajani o Paolo Del Debbio o Mara Carfagna, possono essere al massimo capilista, volti mediatici da spedire nei talk, ma non possono aspirare a una legittimazione diretta dell’elettorato. Non lo prevede la Costituzione, che assegna il potere di designare il presidente del Consiglio al presidente della Repubblica, e neppure la logica numerica e politica dell’attuale legge elettorale.

I grandicoalizionisti, i sostenitori del Nazareno-bis tra Renzi e Berlusconi, sono invece smentiti nei desideri di una nuova alleanza Pd-Forza Italia dall’aritmetica: la sommatoria di una coalizione Renzi-Berlusconi si ferma nel migliore dei casi al 42 per cento. Se un simile partito si presentasse alle urne, per ipotesi di scuola, prenderebbe a malapena il premio di maggioranza. Ma poiché nella realtà questa alleanza elettorale non esiste, bisogna rassegnarsi all’evidenza che senza fatti nuovi i due partiti insieme controlleranno solo un pezzo minoritario di Parlamento. Per arrivare alla maggioranza dovranno trovare nuovi compagni di strada, cioè fare le alleanze che sono odiate da Renzi almeno quanto da M5S. Per ora la grande coalizione di cui si parla non è grande e non è neppure coalizione. È piccola, piccolissima.

È l’effetto della difficoltà dei partiti principali, ma anche della proliferazione dei micro-partiti che erodono il consenso alle forze più grandi. La nascita al centro di un partito neo-democristiano, con o senza Alfano, minaccia di togliere qualche altro voto prezioso a Forza Italia e perfino al Pd. La marcia su Roma minacciata da Forza Nuova per l’anniversario dell’avvento del fascismo, o le azioni di Casa Pound, sono il segnale che la campagna elettorale è cominciata anche per le forze di estrema destra: vanno anche loro a caccia del tre per cento, strappano consensi a Giorgia Meloni, ma potrebbero anche pescare nell’elettorato più arrabbiato e radicale del Movimento 5 Stelle.

A sinistra, infine, tutti a parole giurano di voler sostenere Giuliano Pisapia, ma a indicare la strategia ci pensa Massimo D’Alema: scontro voto su voto, casa su casa, per portare voti da Pd e Mdp, utili per eliminare Renzi. Anche l’ex sindaco di Milano è ormai rassegnato a questo esito: «Con la proporzionale il nostro ruolo è quello di sfidanti del Pd. Siamo antagonisti con Renzi», ripete Pisapia davanti alle platee delle feste del Pd. Qualche sera fa si è confrontato con Graziano Delrio alla festa di Reggio Emilia, un duello felpato tra due personaggi simili (due ex sindaci, medico il ministro, avvocato il leader di Campo progressista, amici di Romano Prodi, sobri e solo in apparenza dimessi). È stata «una fumata grigia», ha scritto la “Gazzetta di Reggio”, la tonalità preferita dai due, che però potrebbe tornare utile nello scenario post-elettorale, quando «sarà la coalizione a decidere chi è il premier», ha detto Pisapia e «Renzi sceglierà per il bene del Paese», si è smarcato Delrio, ammettendo che la questione di chi sarà il nome per Palazzo Chigi dopo il voto c’è e non è affatto scontato che la scelta sia quella del segretario del Pd. Anche perché un presidente del Consiglio c’è, Paolo Gentiloni, e altri nomi potrebbero aggiungersi, da Marco Minniti allo stesso Delrio.

Di certo il maggioritario è morto e anche la grande coalizione non sta molto bene. E chi vorrà fare un governo nella prossima legislatura, con la benedizione del Quirinale, dovrà armarsi di pazienza e di microscopio. Incollare i pezzetti, come un collage, incastrare i tasselli, come un mosaico. Nella nuova stagione dei micro-partiti le maggioranze si faranno così. E chi pensava di essere autosufficiente, termine che in politichese allude alla pretesa di onnipotenza, di comandare da soli, è destinato ad accelerare la frantumazione. La complessità di una politica composta di piccoli partiti e forse anche di piccole idee, piccoli leader. Il caos.
POLITICHE 2018

© Riproduzione riservata 21 settembre 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2017/09/21/news/elezioni-2018-la-carica-dei-micro-partiti-1.310201?ref=HEF_RULLO
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« Risposta #86 inserito:: Novembre 07, 2017, 11:56:46 am »

ANALISI

L'occasione perduta
Dal voto siciliano escono una destra risorta e un Pd a pezzi.
Ma anche le elezioni del 2018 rischiano di trasformarsi per il partito di Renzi in un naufragio

DI MARCO DAMILANO

I dati delle elezioni regionali in Sicilia non sono ancora definitivi, ma già qualcuno azzarda a proiettarli sullo scenario nazionale. Con questi risultati, analizza Youtrend, 12 o 14 collegi siciliani andrebbero al centrodestra, 6 o 8 al Movimento 5 Stelle, zero al Pd. Nell'isola la somma dei voti conquistati da Nello Musumeci (centrodestra) e Giancarlo Cancelleri (M5S) fa settantacinque per cento. E la situazione del X municipio di Roma, Ostia, è riassunta così dal titolo di Repubblica.it : «Casapound decisiva per il ballottaggio M5S-Fratelli d'Italia». Un tempo l'ago della bilancia erano i centristi, i moderati alla Pier Ferdinando Casini, oggi l'equilibrio lo deciderà il neo-fascista Simone Di Stefano, chiamato a scegliere se appoggiare la candidata del movimento anti-politico o quella della formazione post-fascista.

La sinistra non è pervenuta, in tutte le sue molteplici e litigiose forme. Le elezioni del 5 novembre ricordano per certi versi le consultazioni amministrative dell'autunno 1993. Si votava a Roma, Napoli, Genova, Venezia, per l'ultima volta prima del voto politico dell'anno successivo, con una nuova legge elettorale appena approvata per fotografare gli equilibri esistenti, il Mattarellum, con la Dc in via di trasformazione verso il Ppi che puntava a essere il perno del nuovo assetto politico. Invece nel voto amministrativo il centro scomparve dai radar, escluso dai ballottaggi nelle principali città. A Roma la Dc si era affidata al prefetto Carmelo Caruso, che si piazzò distante dal verde progressista Francesco Rutelli e dal segretario del Msi Gianfranco Fini, ammesso per la prima volta al ballottaggio. Qualche giorno dopo Silvio Berlusconi dichiarò che se fosse stato un elettore romano avrebbe votato per Fini, e nacque il centrodestra italiano. La Dc, invece, restò fuori da tutto e dichiarò che a Roma avrebbe votato scheda bianca, così come oggi il Pd rifiuta di prendere posizione a Ostia. In Sicilia il rettore Fabrizio Micari è il nuovo prefetto Caruso.

«Dio si è voltato dall'altra parte», fu sentito mormorare il segretario della Dc dell'epoca Mino Martinazzoli. Chissà se Matteo Renzi farò altrettanto. Di certo è da un anno che per il leader del Pd non ne va bene una. Il referendum del 4 dicembre, la madre di tutte le sconfitte. Le elezioni amministrative, con la sconfitta di Genova. Le elezioni regionali in Sicilia. E, prima ancora, il voto del 2016 in cui il Pd perse Roma e Torino e restò fuori dal ballottaggio a Napoli. Più grave delle sconfitte elettorali, c'è il disorientamento strategico. Il Pd di Renzi, versione 40 per cento del 2014, puntava a raccogliere voti in tutte le direzioni: nel centrodestra lasciato orfano da Silvio Berlusconi, nel voto del 2013 per il Movimento 5 Stelle che ancora non si era consolidato, tra i moderati e i centristi. Scontando la possibilità di perdere qualche elettore a sinistra, anzi, sperando che questo potesse avvenire.

Oggi quella prospettiva è sparita: Renzi rientra nei confini del Pd 2012-2013, quello di Pier Luigi Bersani che l'allora sindaco di Firenze voleva rottamare. La destra è risorta, in tutte le sue incarnazioni. Forza Italia ha preso ieri una percentuale più alta del Pdl del 2012 guidato da Angelino Alfano. Matteo Salvini oltrepassa lo stretto. Il Movimento 5 Stelle in Sicilia è un partito di massa, l'unico in circolazione. A Ostia e non solo avanza una destra ancora più brutta e inquietante di quelle già conosciute.

In questa situazione diventa complicato giocare l'unica carta realisticamente a disposizione di Renzi: fare un passo indietro, rinunciare a correre da candidato premier e costruire una coalizione più grande, dal centro alla sinistra, guidata da Paolo Gentiloni. Perché il Pd sta male, ma anche la coalizione di centrosinistra dal voto siciliano esce a pezzi. Alfano perde in casa e non entrerà in Assemblea regionale. La sinistra di Claudio Fava anche se sommata al Pd non basterebbe per risalire dal terzo posto in Sicilia e probabilmente anche fuori. E così anche le elezioni del 2018 rischiano di trasformarsi per il Pd in un naufragio con spettatore, la metafora dell'esistenza di Hans Blumernberg. Laddove gli spettatori sono gli elettori del Pd, della sinistra, di Renzi, costretti ad assistere a un'inedita gara elettorale centrodestra-Movimento 5 Stelle, impotenti. E il quadriennio di Renzi assomiglia sempre di più a una grande occasione perduta.

© Riproduzione riservata 06 novembre 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2017/11/06/news/l-occasione-perduta-1.313585?ref=fbpe
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« Risposta #87 inserito:: Novembre 12, 2017, 12:31:15 pm »

Centrosinistra, Prodi si tira fuori dalla contesa: "Una tragedia, Italia al baratro"
Il retroscena. L'ex premier resiste a tutti i tentativi di coinvolgerlo nello scontro.
Il gelo con Renzi, il pessimismo sulla durata della nuova legislatura e quel richiamo a Ciampi: "Lui sapeva mettersi in discussione"

Di MARCO DAMILANO
09 novembre 2017

IERI mattina alle 12, quando Romano Prodi è sceso dal Frecciargento che lo portava da Bologna a Roma, ad accoglierlo al binario 3 ha trovato un operaio in tuta arancione che lo ha inseguito speranzoso: "Professo', così nun potemo annà avanti...". Il lavoratore è in buona compagnia, è solo l'ultimo a strattonare l'ex premier, il fondatore dell'Ulivo, a chiedergli un impegno diretto per evitare che il Pd e il centrosinistra si infrangano alle elezioni del 2018 sulla catastrofe della divisione annunciata.

Prodi è a Roma, ieri un giro intorno alla Camera, una tappa dal barbiere, qualche incontro riservato. Oggi parteciperà a un dibattito sull'Europa con il ministro Carlo Calenda e il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, aperto da Paolo Gentiloni. Convegni, seminari, presentazioni di libri. Niente politica, però. Il Professore resiste, è sfuggito al pressing della minoranza Pd di Andrea Orlando che gli chiedeva una presa di posizione dopo il risultato delle elezioni siciliane: "Se dicessi anche una sola sillaba verrebbe interpretato come un mio desiderio di tornare in campo". In privato, confida la sua preoccupazione. "È una tragedia", dice agli amici più stretti. Parla dell'Italia, non del Pd, ma chissà che le due cose non coincidano. "Quale progetto ha l'Italia in Europa, nel Mediterraneo? Ne parlerà qualcuno nella prossima campagna elettorale? Qualche giorno fa un investitore di un importante fondo di Singapore mi domandava notizie su quello che succederà, ma tutto questo nel dibattito non entra, non esiste".

La tenda prodiana resta piantata lontana dalle vicende interne del centrosinistra. Almeno in apparenza. In realtà, c'è stato un momento prima dell'estate che sembrava potesse realizzarsi l'operazione nuovo Ulivo: un listone con il Pd di Matteo Renzi, la formazione di Giuliano Pisapia e gli scissionisti di Mdp (escluso D'Alema) per puntare al premio di maggioranza che sarebbe scattato superando la soglia del 40 per cento, prevista nella legge elettorale in vigore in quel momento, il Consultellum. Del nuovo Ulivo Prodi avrebbe fatto il padre nobile. Di questo avevano parlato il Professore e Arturo Parisi con Renzi il 16 giugno, l'ultimo faccia a faccia tra l'ex premier e il segretario del Pd. Renzi si era impegnato a tentare, poi è calato il gelo. La tenda di Prodi si è allontanata. E il Professore ha cominciato ad assistere con pari disincanto agli altri tentativi di cui pure qualcuno gli attribuisce la paternità: Pisapia e la sua lunga assenza dalla scena, Bersani e la sua voglia di rivalsa su Renzi, un'ipotetica lista europeista di Emma Bonino. L'approvazione del Rosatellum ha fatto il resto: "Non ci saranno coalizioni, ma al massimo apparentamenti ", osserva deluso Parisi. "Ci riproveranno a chiedere l'appoggio di Romano. Ma non c'è più tempo. E non c'è fiducia. Renzi non si fida troppo di noi e noi non ci fidiamo di lui", dice un prodiano di rango. Per ora, dunque, Prodi resta fuori. Al pari degli altri nomi che contano del ristretto club dei fondatori del Pd: Walter Veltroni, Enrico Letta.

Una sfiducia partita almeno un anno fa. Il 14 novembre 2016, nella Sala della Maggioranza in via XX Settembre, nel cuore del ministero dell'Economia, per commemorare Carlo Azeglio Ciampi a due mesi dalla scomparsa si riunì un parterre di relatori composto da Prodi, Mario Draghi, Giorgio Napolitano, Giuliano Amato, il ministro Pier Carlo Padoan, il governatore di Banca d'Italia Ignazio Visco, di fronte a Sergio Mattarella. C'era ancora il governo Renzi, ma nessun renziano di rango era presente in sala, nessun ministro tranne il padrone di casa Padoan e l'allora sottosegretario Claudio De Vincenti. Dal tavolo una commemorazione non formale. "Per decidere bisogna conoscere, per discutere bisogna accettare di essere messi in discussione ", disse Prodi. "Chiesi a Ciampi di entrare nel governo con profondo imbarazzo, perché era già stato presidente del Consiglio, lui accettò di scendere uno scalino, cosa non facile". Draghi elogiò il metodo Ciampi di leadership, "un particolare modo di gestire il governo, di lealtà e di rispetto tra i ministri", esaltando i risultati raggiunti dal governo Prodi. E Amato "la competenza tecnica e l'acume politico ".

Al referendum sulla Costituzione mancavano ancora due settimane, ma in quegli interventi c'era già il passo successivo, l'identikit e il profilo di un governante molto lontano da Renzi, più simile semmai a quello di Gentiloni, come se la vittoria del No fosse già stato acquisita. Lo strappo tra Renzi e un pezzo di establishment legato al centrosinistra e i padri fondatori del Pd si è consumato in quelle settimane. È prevedibile che nei prossimi giorni il pressing su Prodi si farà asfissiante, da parte di Renzi e dei bersaniani che lanciano Pietro Grasso. Ma la coalizione per ora non si vede ed è lontanissima dal nuovo Ulivo vagheggiato mesi fa. Non c'è un candidato premier e non c'è un'alleanza. E in tanti scommettono che la prossima legislatura sarà breve, brevissima, forse più corta di quelle 1992-94, 1994-96, 2006-2008. È più opportuno restare in attesa di un secondo giro, che potrebbe portare il nome di Mario Draghi. L'operaio del treno, insomma, dovrà ancora portare pazienza, e non solo lui. Sempre che, intanto, non venga giù tutto.

© Riproduzione riservata 09 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/09/news/centrosinistra_prodi_si_tira_fuori_dalla_contesa_una_tragedia_italia_al_baratro_-180622305/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S1.8-T1
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« Risposta #88 inserito:: Dicembre 04, 2017, 11:17:35 pm »

EDITORIALE

Yalta 2018, il nuovo muro, l’Italia che non c’è
Il mondo ha vissuto in questi anni un nuovo conflitto mondiale. Combattuto non più con gli eserciti e con le truppe di occupazione, ma con i mercati e con il terrorismo globale. Ha vinto la finanza, ha perso il ceto medio.
E oggi siamo alla ricerca di un nuovo ordine. Ma di tutto questo non si ha traccia nel nostro dibattito politico

DI MARCO DAMILANO
01 dicembre 2017

L’Italia fu il paese occidentale in cui gli effetti della Guerra fredda si fecero sentire più in profondità, assieme alla Germania. Come disse il presidente della Repubblica Francesco Cossiga in un’intervista a The Independent, era il 23 ottobre 1990, rilasciata alla vigilia della sua visita in Inghilterra: «Due paesi sono stati spaccati da una cortina di ferro: la Germania sul piano territoriale, e l’Italia politicamente, moralmente, ideologicamente. Io non so dove la cortina di ferro sia caduta più pesantemente. Non viene mai sottolineato che il crollo del muro di Berlino è anche il crollo di un muro invisibile. Oltre alla Germania, anche noi siamo stati liberati e riunificati. Anche per noi la guerra è quasi finita».

C’era un muro immateriale che tagliava in due il Paese. Nel 1945, nella grande spartizione del mondo tra le potenze anglo-americane e l’Unione sovietica di Stalin all’Italia, nazione sconfitta e devastata, era toccata la collocazione occidentale. Un’intera classe dirigente, politica, economica, imprenditoriale, culturale, Alcide De Gasperi e Raffaele Mattioli, Aldo Moro e Enrico Cuccia, Giulio Andreotti e Guido Carli, si abituò a muoversi per decenni all’interno di questo perimetro, chiedendosi quale ruolo potesse avere l’Italia in un campo di gioco ristretto ma strategico. Un ruolo importante, fondato sulla posizione geografica, la doppia frontiera tra est e ovest, l’Oriente interno rappresentato dal Pci, e tra nord e sud, tra l’Europa e il Mediterraneo. Chiara era la direzione di marcia, il modello sociale, il progetto in cui svolgere manovre, scontri di potere, richieste di voto. Così l’Italia che aveva perso la guerra vinse il dopoguerra, sviluppando un sistema industriale moderno che non aveva mai avuto e il sistema democratico garantito dai partiti e dalle istituzioni repubblicane e costituzionali. Una democrazia fragile, a sovranità limitata, perché gli accordi di Yalta non ammettevano forzature. E quando qualcuno provava a oltrepassare il confine, il muro invisibile, la reazione era immediata e brutale. Vedi il misterioso incidente di Enrico Mattei o le influenze esterne nei giorni del sequestro di Aldo Moro.

Appare indubitabile che il mondo abbia vissuto in questi anni un nuovo conflitto mondiale. A pezzetti, come ha detto Papa Francesco, asimmetrico, combattuto non più con gli eserciti e con le truppe di occupazione, ma con i mercati e con il terrorismo globale. Ha vinto la finanza, ha perso il ceto medio, in tutto l’Occidente. E oggi siamo alla ricerca di un nuovo ordine, una nuova Yalta, con i nuovi protagonisti raccontati sul numero dell'Espresso in edicola da domenica 3 dicembre da Dario Fabbri, Orietta Moscatelli e Federica Bianchi.

Nel 1945 i leader di Regno Unito, Unione Sovietica e Stati Uniti si riunirono per dividere il mondo in zone di influenza. Oggi altri tre grandi stanno provando a creare un nuovo ordine: Putin, Jinping e Trump. E c'è un grande assente: l'Europa e con lei l'Italia, dove questi temi non sono neppure sfiorati dalla campagna elettorale. La "nuova Yalta" è la copertina del nuovo numero dell'Espresso, che dedica ampio spazio ai ritratti dei nuovi potenti e alle loro idee e strategie. Poi l'inchiesta sulla commissione delle banche e i suoi silenzi; la caccia agli outsider da parte dei partiti; il reportage dalla Polonia, dove il movimento femminista è in prima linea per la difesa della democrazia da governo e fascisti. E infine l'intervista allo scrittore americano Lansdale realizzata da Gianni Cuperlo
   
L’America, potenza egemone del precedente assetto, vive una crisi interna, di identità e di missione nel mondo, simile a quella dell’Impero inglese settant’anni fa. Mantiene il suo status ma è avviluppata a Donald Trump come «marinai incatenati alla nave che affonda: non possono liberarsi e non ammetteranno mai che hanno un idiota al potere», lo dice Joe R. Landsdale a Gianni Cuperlo in un'intervista ospitata nel nuovo numero del nostro settimanale.

La Cina di Xi Jinping avanza la sua candidatura alla conquista perfino dell’immaginario globale, oltre che della tecnologia, della ricerca, della robotica. E Vladimir Putin occupa stabilmente il posto che fu dell’Urss, alla guida di una nuova «Internazionale dei regimi autoritari», come scrive Bernard Guetta. Alle loro spalle, anzi, al fianco, c’è l’immenso continente indiano del premier Modi.

C’è l’Africa che è il terreno di contesa tra le nuove superpotenze. Il rimescolamento delle alleanze in Medio Oriente porta a convergenze inaspettate: per Israele la Siria e Assad non sono più nemici, a mediare ci pensa Putin, che a Mosca riceve per la prima volta il monarca saudita Salman d’Arabia.

E poi c’è l’Europa con le sue divisioni.

Francia e Germania fanno sistema, uniscono le forze. Non è più un asse fondato su leadership e carismi personali, sulla memoria tragica del conflitto mondiale, come avvenne con Helmut Kohl e François Mitterrand, i due paesi mettono insieme le loro strutture statuali e economiche, si attrezzano a reggere urti e incertezze, come quella che ora avvolge il governo di Angela Merkel. Mentre il giovane Emmanuel Macron prova a dettare i tempi e i modi della nuova Europa: più protezione per i cittadini, perché l’Europa non può più essere avvertita come una matrigna lontana e cattiva, disinteressata alle sorti dei suoi cittadini, più sicurezza, con il progetto della difesa comune, più opportunità di ricerca e di investimenti tecnologici. Solo alla fine di questo percorso si può pensare a una riforma dei trattati, a cambiare il soffitto, il vertice della costruzione europea. Intanto Francia e Germania marciano unite in Africa, alla conquista di nuovi mercati e di nuove sfere di influenza.

Parliamo di questo in Italia? No. Di tutto questo non si ha traccia nel nostro dibattito politico, alla vigilia del voto 2018. Nelle cancellerie internazionali si guarda con interesse e curiosità, e con qualche preoccupazione, all’esito delle elezioni, «anche se sappiamo che gli italiani sono campioni nell’arte della resilienza», scherza un ambasciatore europeo di lungo corso spedito dal suo paese nella prestigiosa sede diplomatica a vigilare e informare su quanto si muove a Roma. È vero, ma l’assenza di dibattito sul ruolo dell’Italia nella nuova spartizione dovrebbe spaventare ben più dell’eventualità di restare senza un governo dopo il voto. Nel quadro della vecchia Yalta, in fondo, i governi andavano e venivano e poteva capitare che le crisi ministeriali durassero mesi, in modo indolore. Ma il sistema reggeva, all’ombra delle superpotenze e della presenza sul territorio nazionale del Vaticano e del papato, inteso non come guida della Chiesa universale ma come papa italiano, attore insieme globale e locale.

È un’altra carta che non c’è più. Il piemontese-argentino Jorge Mario Bergoglio è il meno italiano dei papi stranieri e dopo quarant’anni di assenza di italiani dal soglio di Pietro si prepara un conclave futuro dove i cardinali della penisola conteranno ancora di meno.

La vecchia Yalta attraversava sistemi politici e economici, la nuova Yalta è assente dai radar, gli attori della campagna elettorale oscillano tra la ricerca di punti di riferimento esterni (Renzi con Macron, Berlusconi con la Merkel, i 5 Stelle e la Lega con Putin) e l’incapacità di interrogarsi su dove si colloca il nostro paese e la sua classe dirigente diffusa nell’ordine mondiale che si sta costruendo. Perfino la polemica sulle fake news, da questo angolo visuale, ha qualcosa di fastidioso e di retrò. Vengono tirate in ballo le grandi potenze, le agenzie di spionaggio e di manipolazione come quelle mosse dallo zar di Mosca, e non ci si accorge che è finita la stagione in cui l’Italia, al pari della Germania, era popolata da spie e agenti degli apparati internazionali. All’epoca il nostro paese presidiava un confine strategico e centrale, oggi è finito nell’angolo marginale della foto di gruppo, non aspira più a una parte di protagonista nel nuovo assetto. Abbiamo perso (ancora una volta) la guerra, ma questa volta stiamo perdendo anche il dopoguerra.

E perde di senso anche continuare a chiedere a quale schieramento appartieni, se stai con Berlusconi o con Di Maio, se con Renzi o con la formazione che sta nascendo alla sinistra del Pd. In passato le coalizioni si facevano tra chi era al di qua o al di là del muro. Più facile, o più scomodo, a seconda dei punti di osservazione. Ma se si evade la domanda, se si rimuove il contesto in cui cade lo scontro elettorale italiano, se i personaggi del teatrino si agitano come burattini senza filo e senza progetto, qualunque alleanza e qualunque schieramento diventa possibile. E l’Italia potrebbe diventare il laboratorio di inedite formule politiche, una strana democrazia.

Nell’indifferenza verso il nuovo muro invisibile che ci attraversa: «C’è una linea immaginaria eppure realissima, una ferita non chiusa, un luogo di tutti e di nessuno di cui ognuno, invisibilmente, è parte: è la frontiera che separa e insieme unisce il Nord del mondo, democratico, liberale e civilizzato, e il Sud, povero, morso dalla guerra, arretrato e antidemocratico. È sul margine di questa frontiera che si gioca il Grande gioco del mondo contemporaneo». Lo scriveva Alessandro Leogrande, che ci ha lasciato troppo presto, maledizione.

© Riproduzione riservata 01 dicembre 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/12/1/news/yalta-2018-il-nuovo-muro-l-italia-che-non-c-e-1.315177?ref=HEF_RULLO
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« Risposta #89 inserito:: Dicembre 06, 2017, 08:59:34 pm »

EDITORIALE

Attacco di Forza Nuova, libertà di stampa e antifascismo coincidono, oggi ancora di più
Ci vogliono mettere sotto assedio per le nostre idee e per le nostre inchieste. Per questo non è possibile nessuna timidezza: bisogna schierarsi

DI MARCO DAMILANO
06 dicembre 2017

Abbiamo il senso delle proporzioni e in prima battuta volevamo evitare di ricorrere alla terminologia anni Settanta, tipo “vile attacco fascista contro la stampa democratica”. Perché noi giornalisti dell'Espresso e di Repubblica siamo contemporanei, viviamo e raccontiamo questa mondo, condividiamo le speranze e le inquietudini dei nostri lettori, lanciamo domande più che offrire risposte preconfezionate. E invece Forza Nuova, CasaPound e i loro camerati vivono in un'altra epoca, fatta di chiusure, confini, muri, difesa della sacra razza e del sacro suolo, intolleranza verso le critiche, le inchieste.

Neppure una riga di pubblicità per chi sbandiera lugubri simbologie del passato, avevamo pensato in un primo momento. Ma poi scorrono quelle immagini di uomini con il volto coperto che urlano in un luogo di lavoro, nel cortile di ingresso di una redazione. Quel post su facebook di Forza Nuova, partito che fu rappresentato in Parlamento europeo, il cui leader Roberto Fiore provò a candidarsi nel 2006 con quel Berlusconi che oggi definiscono «falsa opposizione», quelle parole che esaltano apertamente la violenza («Roma e l'Italia si difendono con l'azione, spalla a spalla, a calci e pugni...»). E allora no, non si può accettare di banalizzare anche questo episodio, come accade con le parole in libertà degli squadristi da tastiera. Quando lo squadrismo supera il virtuale e non si vergogna di toccare materia incandescente, tipo intimidire l'uscita di un giornale, è un livello che si alza, un confine che viene abbattuto.

Ci vogliono mettere sotto assedio, come hanno impunemente scritto, perché siamo giornalisti. Ci attaccano per le nostre idee, sullo ius soli, e per le nostre inchieste, quella firmata da Giovanni Tizian, Stefano Vergine e Andrea Palladino sui finanziamenti e sulle origini delle fortune economiche dell'estrema destra . Provano a intercettare un clima di intolleranza e di odio più ampio nei confronti di chi fa il nostro lavoro, il mestiere di informare. In un paese in cui la stampa e i giornalisti sono stati sotto il tiro, e spesso vittime, di terroristi rossi e neri, logge occulte, mafia e camorra. Ce lo siamo dimenticati, in questa Italia immersa nel presente, senza memoria. Eppure i nemici della libertà intuiscono istintivamente dove devono colpire, sanno che ogni attacco alla stampa è un anticorpo che viene meno, una parte di convivenza civile che viene eliminata, un pezzo di democrazia ferita. Per questo non è possibile nessuna timidezza, nessuna esitazione, bisogna schierarsi. Libertà di stampa e antifascismo coincidono, oggi ancora di più.

© Riproduzione riservata 06 dicembre 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/12/06/news/attacco-di-forza-nuova-liberta-di-stampa-e-antifascismo-coincidono-oggi-ancora-di-piu-1.315643?ref=fbpe
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