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Autore Discussione: Safran Foer: "Noi ebrei, meglio lontano da Israele"  (Letto 2201 volte)
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« inserito:: Maggio 15, 2008, 11:08:13 am »

15/5/2008 (7:33) - INTERVISTA

Safran Foer: "Noi ebrei, meglio lontano da Israele"
   

FRANCESCA PACI
CORRISPONDENTE DA GERUSALEMME


George W. Bush celebra il 60° compleanno d'Israele brindando al Binyanei Hauma, il grattacielo a vetri all'ingresso di Gerusalemme sede della conferenza internazionale «Facing Tomorrow». Jonathan Safran Foer preferisce l'understatement raffinato del quartiere Yemin Moshe che in questi giorni ospita l'International Writers Festival, la versione israeliana della Fiera del libro. L'enfant prodige della letteratura americana, che a trent'anni vanta già due bestseller come Ogni cosa è illuminata e Molto forte, incredibilmente vicino, gioca sul prato con il figlio Sasha mentre la moglie, la scrittrice Nicole Krauss, firma autografi accanto ad Amos Oz. Prima di darle il cambio alla ribalta, Jonathan Safran Foer, Lacoste blu, jeans scuri e snikers come i suoi fan in attesa, racconta cosa significhi questo anniversario per lui, giovane ebreo di Brooklyn.

La festa, oggi, è qui. Si sente un po' padrone di casa o solo un ospite?
«È una senzazione forte, contrastastante come i miei sentimenti verso questo Paese. Sono venuto per i libri e non per la bandiera, ma è una bella esperienza. Ho molti legami con Israele, sono ebreo, parte della mia famiglia abita qui, non sono un qualsiasi americano in gita. Vado fiero della mia identità mista anche se è complicata, un caos di emozioni contraddittorie».

Oltre il 50% degli ebrei vive all'estero. Secondo il columnist del quotidiano Yedioth Ahronoth, Sever Ploker, la diaspora si sta allontanando da Israele, quasi rimpiangesse, in fondo, l'identità ebraica debole ma cosmopolita precedente allo Stato nazionale. Cosa rappresenta per lei il mito della Terra Promessa?
«La diaspora ebraica e gli ebrei d'Israele sono mondi lontani ed è vero che la distanza sta aumentando. È come portare due esemplari dello stesso animale in montagna e nel deserto, alla lunga diverranno animali diversi. In Israele respiri l'ansia della vittoria, la rivalsa, l'agonismo. Io, ebreo newyorkese, sono una minoranza negli Stati Uniti e ne traggo forza, ispirazione. Essere maggioranza assoluta è assai meno eccitante. Appena arrivo qui mi sento a casa, ma subito prevale il disagio. Credo che i veri eredi dell'umorismo ebraico e del senso della tragedia non siano in Israele ma in America. È come se nascendo, Israele avesse perduto qualcosa, come se il nazionalismo avesse prevalso sull'ebraismo. Un Paese costretto alla guerra perenne può produrre arte? Direi di no. Ho l'impressione che gli ebrei si coprano di gloria quando sono sparsi nel mondo: metterli tutti insieme nella stessa terra non è necessariamente una buona cosa».

Ha passato due mesi a scrivere a Gerusalemme. Verrebbe a viverci?
«Un anno forse, per sempre no. Non mi sento americano ma a New York c'è il mio mondo. L'idea di uno Stato ebraico mi piace, sarei pronto a costruirne uno con altri ebrei, ma non qui. Israele è troppo corrotto dalla storia: vorrei un Paese meno romantico, meno politico, più ordinario».

Che ne sarebbe delle radici in un altrove diverso da Israele?
«Le radici bibliche, certo. All'alba dei suoi 60 anni Israele deve scegliere tra il bello e il necessario, se essere un museo o un attore della storia reale. C'è un'altra via a questa trincea, accettare i compromessi, l'assimilazione, l'incontro con l'altro».

Una qualità e un difetto d'Israele.
«Amo la speranza di questa terra, l'unica al mondo che fa i conti ogni giorno con la minaccia d'essere annientata. Ma l'eccesso di speranza ha prodotto il suo opposto, un misto di malinconia e disperazione per quanto si è perso costruendo».

Israeliani e palestinesi paiono condividere la mancanza di una visione. Gliene dia una: cosa accadrà domani?
«Non credo che da queste parti manchi una visione: ce ne sono troppe. L'immagine del passato, il mito e la rivendicazione incombono sul futuro. Una pace che renda tutti felici è impossibile, il massimo sarebbe rendere tutti ugualmente infelici. Dovessi immaginare una storia qui, sarebbe interamente al presente».


da lastampa.it
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