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Autore Discussione: Il dio Congo  (Letto 2773 volte)
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« inserito:: Luglio 08, 2007, 05:50:13 pm »

Il dio Congo
di Federica Bianchi


Sulle sue acque sono scivolate alcune delle pagine più tragiche della storia del Continente Nero. Dal colonialismo alla Prima guerra mondiale africana. Oggi è il principale mezzo di sopravvivenza per milioni di persone. E la vera spina dorsale della Repubblica Democratica del Congo 
Il giorno comincia presto nel cuore d'Africa. Alle sei del mattino le provviste di biscotti secchi e acqua minerale sono già sistemate all'interno della piroga in legno. Una luce indecisa colora le increspature che le chiatte scolpiscono nel loro andirivieni tra una sponda e l'altra di quello che un secolo fa il marinaio Joseph Conrad definì "un fiume possente che sulla carta si snoda come un gigantesco serpente, con la testa nel mare, il corpo ripiegato su un immenso territorio, la coda perduta nel cuore del Continente". Lungo la banchina di terra rossa, venditori di arance dalla buccia verde e caschi di banane rigate di nero si affollano intorno ai futuri passeggeri dalla pelle slavata. Donne con gli sguardi duri come gherigli di noce offrono uova sode avvolte in panni umidi. E, all'occorrenza, sgozzano una gallina seduta stante.

Da Kisangani a Isangi il viaggio in piroga a motore - circa un centinaio di chilometri - non dovrebbe superare le dieci ore. Salvo imprevisti. La partenza, come ogni partenza in Africa, è meravigliosa: decine di ombre nere affollate sugli argini terrosi alzano le braccia per salutare gli sconosciuti che si affidano al fiume. Il rollio delle loro mani si trasmette all'imbarcazione come augurio di buon viaggio.

Si allontanano le cinque grandi gru innalzate sulla banchina, vestali di un impero imploso troppo in fretta. Due funzionano ancora, e aiutano a recuperare provviste di cibo e macchinari per la lavorazione del legno che risalgono il Congo dall'estuario atlantico fino alle viscere della Provincia Orientale. Le altre sono rotte e nessuno ha soldi e interesse sufficienti a ripararle. Sono abbandonate a un futuro che si spera migliore e si accetta peggiore, come le ville coloniali che decorano le sponde del fiume poco fuori città. All'inizio del secolo scorso formavano un'ordinata cittadina europea nel cuore del Continente Nero. Oggi, abbandonate, sono degna dimora di milioni di anime diventate fantasmi sotto i colpi del macete.

Fondata nel 1883 dal giornalista inglese Henry Morton Stanley e prevedibilmente chiamata Stanleyville, Kisangani è stata in epoche successive protagonista delle tragedie di attori diversi. Subito dopo la nascita, divenne centro schiavista per gli africani-musulmani provenienti dalla costa orientale. Poi si trasformò nella Stazione Interna del rapace commercio d'avorio del Belgio coloniale raccontato da Conrad e, qualche decennio più tardi, nella macabra tavola dove ribelli vestiti con pelle di scimmia divoravano i loro nemici. Infine, tra il 1999 e il 2002, divenne uno dei principali campi di battaglia della 'Prima guerra mondiale d'Africa', in cui l'ex ribelle Laurent Kabila, aiutato da Angola, Zimbabwe e Namibia, affrontò eserciti di ribelli congolesi armati da Rwanda e Uganda. Una guerra civile ufficialmente terminata solo l'anno scorso, con le prime elezioni democratiche del Paese. In palio, giacimenti infiniti di oro, coltan e diamanti. Numero di vittime: quattro milioni. Ovvero il conflitto più cruento dalla Seconda guerra mondiale.

Oggi - Kabila Junior al potere - Kisangani è la terza città della Repubblica Democratica del Congo. In realtà è poco più di un avamposto appena ripopolato nell'immenso Far West della sterminata Provincia Orientale, dove municipi, scuole e ospedali sono solo segni di vernice rossa su muri scrostati e la guerra è sempre in procinto di ricominciare. Il suo cuore è un lungo vialone in terra battuta ai cui lati si ergono ampi portici di legno e mattoni rivestiti di bianco. Di notte, complice l'assenza di traffico e luce elettrica, ti aspetti che ombre nere sfilino improvvisamente le pistola dai jeans in una sfida a duello tra gli edifici di questa Tucson africana. Di giorno, sei abbagliato da innumerevoli insegne azzurrine - Zidane Diamonds, Christ is Rich, Kisangani Pearl - che indicano le borse di diamanti dei commercianti libanesi. Senza licenza o un amico in politica non si può acquistare. Ma chiunque può vendere. Soprattutto uomini come Joseph, prima elementare, il viso solcato da marchi profondissimi, le membra rinsecchite ripiegate su uno sgabello. Ha passato una vita nei rigagnoli del Congo, sfuggendo alla fame e alle milizie, per qualche pietruzza avvolta nella carta da giornale, il cui valore è meno legato alle quotazioni dei laboratori di Jaipur e Dubai e molto di più al livello d'istruzione dell'acquirente.

La piroga scivola oltre le ville abbandonate verso gli ultimi 1.600 chilometri dell'enorme serpente d'acqua, tra canneti, palmeti e liane tropicali. Il tratto tra Kisangani e Kinshasa è l'unico davvero navigabile. Più a nord il fiume Congo si spezza in una serie di rapide invalicabili, le sette cascate di Stanley, su cui più di un esploratore ha lacerato i sogni e perso la vita.

Lungo gli argini, alcune donne fregano le pentole in rame mentre le bambine si allontanano con taniche di plastica bianca caricate in testa. Senza sosta, marinai dai lunghi bastoni spingono controcorrente canoe in legno ricolme di legna, frutta e cassava verso il mercato della capitale provinciale. "Siamo in viaggio da 20 giorni", spiega un ragazzo robusto, "due di mercato e poi altre due settimane per tornare a casa". In una terra devastata da guerre continue, il fiume e la rete dei suoi affluenti ritagliano 14.500 chilometri di vie navigabili all'interno della seconda foresta più grande al mondo, dopo quella amazzonica. Non esistono alternative. Strade, ferrovie e ponti sono omaggi arrugginiti dell'epoca coloniale.

In questo lembo di giungla per avventurieri, anche i coccodrilli e gli ippopotami non sono altro che ricordi. Per salvare i gorilla lungo il confine con il Rwanda c'è voluto l'intervento personale dell'attuale ministro della Difesa. "A parte i frutti e i vermi della foresta, spesso non abbiamo altro da mangiare", spiega il timoniere della nostra strana imbarcazione a motore: "La foresta è la nostra ultima chance di sopravvivenza". Spariti sono pure gli elefanti, preda della cupidigia e della fame di migliaia di tribù che vivono alla giornata. Di un intero governo che vive alla giornata. "Chi ha la fortuna di diventare ministro o anche solo ufficiale provinciale, sfrutta tutto quello che può nel più breve tempo possibile, perché non sa mai quanto durerà il suo mandato e quando dovrà abbandonare di corsa il suo ufficio e fuggire nella boscaglia", racconta, come se la cosa non lo riguardasse, un deputato provinciale accoccolato sul fondo della canoa, una birra Primus in mano.

La piroga approda a una punta di terra che si estende lunga nell'acqua. È un posto di blocco. Le guardie presidenziali ricevono il pedaggio e, ridendo, si omaggiano, senza chiedere, di qualche litro di benzina, già ubriache alle dieci di mattina. Diamanti e birra sono le due uniche industrie della regione. Unica eccezione è una fabbrica di tessuti africani che, temporanemanete libera da ribelli di ogni sorta, resiste a fatica alla concorrenza delle stoffe cinesi.

Il sole è forte. L'aria è afosa. La foresta infinita. La piroga riprende il suo viaggio in discesa verso Isangi, poco dopo il punto in cui il fiume Lomami si getta nel Congo e, insieme, proseguono per Kinshasa. Qualcuno sonnecchia sull'argine. Uomini per lo più. Le donne, dopo avere lavato le loro bacinelle, cominciano a pestare la manioca in enormi tamburi di pietra.

Il fiume si anima davvero solo dopo le cinque del pomeriggio, quando nugoli di bambini si tuffano ridendo dalle piroghe parcheggiate nelle insenature e le loro madri afferrano un pezzo di sapone bianco per lavarsi semivestite sotto gli occhi della gente del fiume. Intanto, gli uomini raccolgono le reti per la pesca distese ad asciugare sotto il sole. E da qualche capanna cominciano a uscire fiocchi di fumo grigio.

Anche il cielo si oscura. Enormi nuvoloni si addensano, gonfi di acqua e di terrore. D'improvviso scende la notte. È questione di pochi minuti. Si spengono i fuochi. La piroga è ancora in mezzo alle acque diventate del colore di un'immensa colata di lava fredda. Nel buio sembra allargarsi in un oceano. Poi brilla un lampo. E un altro. Un altro ancora. Contemporaneamente. Come se centinaia di crepe luminose avessero infranto la volta celeste. Come se l'enorme ciotola della Terra stesse per sbriciolarsi da un momento all'altro. I passeggeri non parlano più. Si aggrappano all'imbarcazione, impigliatasi senza volerlo in quella ragnatela elettrica sospesa tra aria e acqua. Qualcuno chiede di fermarsi, scendere, passare la notte in una capanna, con le zanzare e gli scarafaggi. Ma non piove ancora e la speranza di raggiungere la missione di Isangi prima del temporale costringe a proseguire il viaggio.

Finalmente la piroga si ferma. I passeggeri s'infilano nel cono di luce di un bar in mattoni dove litri di birra e di musica a tutto volume colmano gli istanti che, lungo le rive del fiume Congo, separano la vita dalla morte.

Federica Bianchi

da espressonline
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