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« inserito:: Luglio 08, 2007, 05:42:47 pm » |
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CULTURA
La profezia di Yehoshua di Wlodek Goldkorn
Yeremi che lascia Israele. Daniela che scopre la violenza della Bibbia. E l'amore di Amotz.
Un romanzo del grande scrittore. Che qui parla degli arabi, degli ebrei e delle sue paure
Colloquio con Abraham B. Yehoshua
Un salotto di casa borghese al quinto piano di una modernissima palazzina bianca sul Carmelo, a Haifa. Dalle porte vetrate che danno su un'ampia terrazza coi graziosi tavolini e sedie bianche in ferro battuto arriva una fresca aria di mare mescolata a quella di mezza montagna. Pure i mobili nel salotto sono moderni e belli. In casa di Abraham B. Yehoshua regna un'atmosfera di pace, tranquillità, sicurezza borghese che allude a una salda fede di stampo illuministico nel futuro, come lo era quella di Johann Buddenbrook senior, prima che la catastrofe della modernità travolgesse i valori della famiglia e ogni illusione di onestà. Eppure l'ultimo romanzo 'Fuoco amico' dello scrittore israeliano, che ha appena compiuto i settant'anni, tratta di temi, sentimenti, situazioni, dove dietro un'apparenza di sicurezza e di benessere della coppia protagonista del libro, c'è un enorme spazio di disperazione, di un lutto male elaborato, e traspare la paura dell'avvenire. 'Fuoco amico', grande successo editoriale in Israele (in Italia è in traduzione da Einaudi) è un romanzo scritto in un modo chiaro e lineare, con una ricchezza di linguaggio che lascia di stucco (si va da parole della Bibbia allo slang di Tel Aviv), e che riesce a tenere una tensione narrativa degna di una telenovela. I temi sono la vita coniugale, la morte in guerra, i venti e i fantasmi (in ebraico le due parole sono sinonimo), le origini dell'uomo, il sesso, l'identità: il mondo, insomma, racchiuso in 375 pagine.
La trama è semplice. Un giorno Amotz Yaari, 60enne ingegnere, proprietario di una ditta che progetta ascensori, si congeda all'aeroporto di Tel Aviv da Daniela sua moglie, che va a trovare in Africa Yeremi, marito di sua sorella morta poche settimane prima. Yeremi è un pensionato che lavora agli scavi nella valle del Rift per portare alla luce i resti della scimmia, anello di congiunzione con l'uomo primordiale. Soprattutto, è un uomo che non è riuscito a riprendere la vita normale dopo la morte del figlio Ayal, ucciso per errore dal 'fuoco amico' durante un'azione militare nei Territori. Daniela arriva in Africa durante le festività di Hanukkah, quando a dicembre gli ebrei celebrano per otto giorni il miracolo e la resistenza dei maccabei che nel II secolo a. C. non vollero arrendersi ai costumi 'pagani'. Arrivata in Tanzania, in aeroporto la accoglie Sigin Kwang, una sudanese animista, pagana, collaboratrice di Yeremi. Poche pagine dopo, Yeremi getta nel fuoco i giornali e le candele che Daniela gli ha portato da Israele. Lui con l'ebraismo non vuole avere più niente a che fare. Da lì parte il romanzo che racconta anche una tenera storia d'amore dell'anziano padre di Amotz con un'altrettanto anziana psicanalista di Gerusalemme, e narra con maestria degna di un Balzac la quotidianità della gente comune.
Prima di parlare di questo romanzo, Yehoshua ci tiene a dire che alla Scala, a novembre dell'anno prossimo, verrà presentato il 'Viaggio alla fine del millennio', tratto dal suo omonimo libro. A suonare e cantare sarà l'opera di Tel Aviv. Poi lo scrittore comincia un discorso in cui, come in tutta questa intervista, intreccia il romanzo con l'attualità politica: "La catastrofe dei palestinesi è un problema nostro", dice, "più la loro situazione è grave, peggiore è la nostra. Sono disperato. C'è una sensazione di impasse che si è accentuata, quando, dopo il nostro ritiro da Gaza, come risposta abbiamo ricevuto i missili Qassam e quando Hamas ha preso il potere. A volte, gli scrittori anticipano i tempi. In questo romanzo che cominciai a scrivere nel 2003, ho riversato la mia disperazione: soprattutto nel personaggio di Ayal, il soldato ucciso dal fuoco amico".
Ce lo può raccontare?
"Non voglio svelare la trama ai futuri lettori italiani. Dico solo che Ayal viene ucciso per errore a Tul Karem, in Cisgiordania, mentre è appostato sul tetto di una casa. Muore perché, pur essendo un soldato delle forze di occupazione, vuole dare il seguente messaggio agli abitanti: io vi opprimo, ma non voglio portarvi sporcizia, cerco di rimanere pulito e fedele ai miei principi di uomo dei Lumi".
Il padre, Yeremi, che poi scappa in Africa, indaga sulla morte del figlio...
"Va più volte a Tul Karem in quella casa. E quando finalmente gli raccontano come e perché è stato ucciso il figlio, Yeremi non accusa l'esercito, cerca invece l'empatia dei palestinesi. Ho preso a prestito quest'idea da un racconto della scrittrice Shulamit Har Even (in Italia edita da Giuntina, ndr) in cui un soldato israeliano entra nel 1948 in una casa abbandonata di palestinesi, e porta con sé un libro di Shakespeare. Nel 1967 rintraccia il proprietario in un campo profughi e gli riporta il libro. Ma quello lo caccia via schifato: mi hai preso la casa e ora mi riporti un oggetto inutile".
Nel suo romanzo, un abitante della casa dov'è morto Ayal dice a Yeremi: o ci trasformate in cittadini a pieno diritto o ve ne andate via. In altre parole: non è possibile una occupazione pulita e illuminata?
"Esatto. Qui c'è anche la questione di uno Stato binazionale. Ha mai pensato cosa ci sia dietro ai Qassam sparati da Gaza? È un messaggio: noi non vogliamo un ritiro unilaterale, noi e voi siamo legati gli uni agli altri. Ma poi c'è il fattore tempo".
Ce lo spiega?
"Si tratta dell'idea del tempo che hanno gli arabi. La riassumo così: noi siamo parte di questa terra e abbiamo molta pazienza. Voi siete venuti da fuori, e un giorno ve ne andrete comunque, ecco perché è meglio che nel frattempo stiamo insieme".
Yeremi, protagonista di 'Fuoco amico', cosa pensa di tutto questo?
"Le confesso una cosa. Quando mi sono messo a scrivere questo romanzo avevo molta paura a raccontare il personaggio di Yeremi. Mi sembrava troppo radicale per essere credibile. Va in Africa, dove non ci sono sinagoghe né tracce di scrittori come Kafka o Bruno Schultz. Non piange l'etos dei pionieri perduto. Stacca la spina. Non ne vuol sapere di Israele. È una dimensione nuova e radicale nella cultura israeliana. E ho scoperto, con sorpresa, che con quella dimensione la gente si identifica. È una dimensione che i miei lettori conoscono bene, perché è presente nelle loro vite e nei loro sentimenti".
Yeremi porta il nome del profeta biblico Geremia e rilegge i testi a lui attribuiti dove erano previste la caduta del regno di Giudea e la vittoria di Nabucodonosor e dei babilonesi. A un certo punto lo gettarono in prigione per questa sua predicazione. Era disfattista, traditore, o invece genio di geopolitica, che sapeva che per gli ebrei non c'era posto in Palestina?
"Geremia della Bibbia ha capito bene la geopolitica, ma non è questa la cosa importante. Prima di tutto era il profeta dell'ira. Non diceva mica: non combattete i babilonesi, arrendetevi a loro, per ragioni di realpolitik. No. Aveva una mentalità totalitaria, era convinto di parlare a nome di Dio, contro il proprio popolo che avrebbe appunto tradito il verbo di Dio e di conseguenza avrebbe meritato la più severa delle punizioni: la distruzione. Quando una madre ripete al figlio, stai attento perché verrai investito da una macchina, il bambino finisce per essere investito. In modo analogo le profezie della distruzione del popolo ebraico si sono avverate, c'è stata la Shoah".
Dove vuole arrivare?
"Noi abbiamo interiorizzato il fanatismo e l'odio per noi stessi. Ne abbiamo fatto il fondamento della nostra identità. E anche qui in Israele sento gente che dice: siamo alla vigilia della catastrofe, Israele non sopravvivrà. È come costruire un'identità con dentro la catastrofe".
Perché succede questo?
"Lei ha mai provato a leggere la Bibbia? Nel mio libro io la faccio leggere a Daniela, la cognata di Yeremi, in inglese, non in ebraico, per costringerla ad affrontare il testo per quello che dice e non per come viene elaborato metaforicamente nella nostra tradizione. Daniela scopre come i libri dei profeti siano una scarica di odio contro il proprio popolo. È un'eredità pesante, di cui spesso non ci rendiamo conto".
L'unica persona che pensa positivo nel suo romanzo è la pagana infermiera Sigin Kwang. È sudanese, ha perso l'intera famiglia nella guerra civile. Però è serena. Parla coi venti, alberi, fantasmi. Voleva dire che il paganesimo è fonte di serenità mentre il monoteismo ha sempre un fondamento di fanatismo?
"Sigin Kwang dice a un certo punto di Yeremi: 'È un uomo viziato'. Mi sono sorpreso a leggere queste parole che io stesso ho scritto. Sì, il monoteismo contiene forti elementi di fanatismo: a partire dall'idea di un dio unico e quindi assoluto".
E allora, che fare con Gerusalemme?
"A Gerusalemme gli assoluti, per fortuna, sono tre: l'ebraico, il cristiano e l'islamico. Nella natura stessa di Gerusalemme è insita quindi la soluzione del problema. La retorica di 'Gerusalemme capitale eterna dello Stato d'Israele' è solo retorica, in realtà, questa città ci costringe ad accettare il pluralismo religioso e ad aprirci ad altre identità. Mica possiamo essere la Serbia del Medioriente. Quando incontro italiani o francesi, dico loro: intervenite nei nostri affari, Gerusalemme è anche vostra. E se ai cristiani si potesse aggiungere la Lega araba, i musulmani, si potrebbe aprire un vero processo di pace. Del resto l'Europa grazie a Prodi e all'Italia ha dimostrato in Libano di avere coraggio e immaginazione".
Nei suoi romanzi parla spesso dei confini. Cosa è per lei il confine?
"È il fondamento dell'esistenza. Il confine definisce chi sono. Prima del 1967, sulla carta d'Israele le città della Cisgiordania non erano neanche segnate. Dopo la guerra del 1967 tutto invece è cambiato e oggi nessun bambino in Israele è capace di disegnare la carta geografica del nostro Paese. Sono 40 anni che non sappiamo quali sono i nostri confini. Ma se non sai le dimensioni della tua casa, come fai a difenderla e ad amarla? Per me questa mancanza di identità territoriale è la negazione di ogni idea sionista, è il contrario della normalità auspicata da Herzl".
In 'Fuoco amico' scrive che l'ebraico nella bocca degli arabi è dolce. In 'La sposa liberata', gli arabi sono sinonimo della poesia. In 'L'amante' l'arabo è oggetto del desiderio. Per lei chi sono gli arabi?
"Dei parenti. Sono figli della stessa mia terra. Quando parlano l'ebraico li voglio bene. E spesso li trovo politicamente inconcludenti e quindi irritanti".
Nel romanzo parla molto di vita coniugale.
"È la cosa che più mi interessa nella vita e nei romanzi. Daniela e Amotz non possono vivere l'una separata dall'altro. Lei lo lascia per una settimana, ma mentre lei è in Africa, lui è sempre presente nei suoi pensieri, le sta accanto. Lui la lascia andare sola e le dice: 'Tu vai via per parlare della tua sorella morta, non ti voglio disturbare'. Ma poi la distanza, la lontananza trasformano i due in complici".
Il tempo annulla la distanza?
"Non è il tempo. È che i due fanno cose parallele. È il duetto. Lei torna e gli dice: 'Hai fatto una bella vita'. Lui risponde: 'Ti sei riposata'. Ma lei ribatte: 'No, io ho combattuto contro la morte'. In realtà, in sette giorni, lui ha creato la vita, mentre lei ha scacciato via la morte. Hanno lavorato insieme, nonostante la lontananza, hanno cantato insieme l'inno alla vita". n In principio fu il 1967
È intitolato '1967'. L'autore è Tom Segev che ha scritto altri saggi sulla storia d'Israele. Sono 673 pagine che gettano una luce nuova su quell'anno cruciale che trasformò
un piccolo Stato, quasi socialista, in una società alle prese con la gestione di un'occupazione militare di territori abitati da un altro popolo. La tesi di Segev è questa: la guerra del
1967 è scoppiata perché in Israele si è verificata un'ondata di panico, la gente pensava davvero che Gamal 'Abd Nasser, il presidente egiziano, fosse in grado di compiere un nuovo Olocausto. E anche se i politici erano consci della superiorità militare israeliana, si sono lasciati influenzare pure loro dall'atmosfera della catastrofe imminente. Inoltre, c'era un'ondata di nostalgia per la parte 'mancante' della Terra d'Israele, per Gerusalemme Est e le
città della Cisgiordania. I generali, poi, premevano per una guerra preventiva, come mezzo
di deterrenza a lungo termine. Segev sostiene che Shimon Peres propose allora che Israele, anziché attaccare l'Egitto, la Siria e la Giordania, eseguisse un test nucleare.
da espressonline
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