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Autore Discussione: Due zar. Anzi uno  (Letto 2219 volte)
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« inserito:: Maggio 08, 2008, 06:40:11 pm »

Due zar. Anzi uno

Adriano Guerra


Da oggi la Russia ha dunque alla testa due zar. Non è la prima volta. Si pensi, senza andare ai tempi dei veri e falsi Dmitrij del ’600 o a quelli dell’avvicendamento al comando fra Nicola II e Rasputin, ai giorni dei “due presidenti”, quando Gorbaciov ed Eltsin si dividevano, ma non amichevolmente, il potere.
Possono convivere due zar? Putin è tranquillo. E del resto è stato lui a scegliere e a far eleggere con un voto plebiscitario Medvedev. Quanto a questi, in un’intervista al Financial Times, ha detto che non vi saranno problemi perché a decidere come e da chi devono essere prese le decisioni c’è la Costituzione.

Il che sulla carta è vero: ma Putin accetterà di vedere drasticamente ridotto il suo potere personale? I più a Mosca, e non solo a Mosca lo escludono e assicurano che il bastone di comando continuerà a restare nelle sue mani. Lo stesso Medvedev nei suoi discorsi pieni di omaggi al suo predecessore e di impegni sotto il segno della continuità, lo ha di fatto riconosciuto.
Non ci dovrebbero quindi essere dubbi. Lo zar è uno ed è Putin. È del resto lui - ed è opinione generale - l’uomo che ha rimesso in piedi la Russia togliendola dal periodo dei torbidi. Che ha ridato al Paese forza e dignità di grande potenza. Che ha detto agli Stati uniti e all’Europa - ma anche all’Ucraina e al la Georgia - che la pazienza dei russi ha un limite. Che ha sollevato l’economia, messo in riga, e in qualche caso in galera, un gruppo di oligarchi troppo politicizzati, ridato compattezza ad un Paese che pareva destinato a sciogliersi, «normalizzato» la Cecenia, trasformato un’armata di soldati sbandati in un esercito moderno, ridato il giusto ruolo al mercato e allo Stato, ecc. E chi dunque potrebbe sfidare un potere costruito su di un bilancio così impressionante e su di un consenso - come dicono i sondaggi - tanto vasto? Certo, come si dirà più avanti, altri e diversi fattori possono entrare in gioco, ma che oggi si possa parlare di Vladimir Putin come del capo supremo della Russia appare difficilmente confutabile.

Quel che con lui è venuta alla luce è la vecchia «ideologia russa»: quel sistema di volontà e di idee, e insieme di politiche e di meccanismi di consenso nonché di controllo e di liquidazione del dissenso, che ha sin qui impedito alla Russia di vivere anche un solo giorno semplicemente come «Stato dei russi», senza sentirsi in qualche modo impegnata ad essere altro, «Terza Roma», oriente ed occidente, modello, impero. E anche, senza sentirsi accerchiata, minacciata, invasa. Come è accaduto nel secolo scorso con l’«intervento» degli occidentali a fianco dei «bianchi» nel tentativo di liquidare la rivoluzione del 1917 e poi con l’«operazione Barbarossa» di Hitler. La vecchia «ideologia russa» dunque - patriottismo, nazionalismo grande russo, spinta imperiale e insieme sindrome dell’accerchiamento, consapevolezza di portare il peso di un arretratezza storica - che solo per qualche tempo, fra il 1905 e i primi anni 20, la rivoluzione democratica prima e quella d’Ottobre poi hanno bloccato, ma che è riesplosa con Stalin. Per entrare in una crisi che poteva apparire finale dopo il crollo dell’Urss, quando anche la Russia si è trovata ad essere per la prima volta soltanto uno Stato accanto agli altri dell’ex impero.

Si è trattato però di un passaggio di breve durata. Fra umiliazioni, frustrazioni, cadute paurose di tutti gli indici, con la «privatizzazione selvaggia» è tornata la vecchia Russia. E con essa sono tornati i vecchi luoghi comuni che si aveva ragione di ritenere dispersi: quelli secondo i quali la Russia non sarebbe tale senza l’Ucraina e l’oltrecaucaso, e ancora senza uno zar che sappia, quando è il caso, usare la frusta. (Perché la democrazia - recita il corollario - non è un prodotto per la Russia) Putin è il restauratore della «ideologia russa». Qui sta la sua forza. Con la «democrazia sovrana» e l’introduzione del «potere verticale» - per usare le formulazioni da lui impiegate per definire le politiche adottate per ridare forza al potere centrale di Mosca - ha unificato il paese ridandogli forza, dignità e orgoglio. Bloccando contemporaneamente però quel che era nato, sia pure in modo caotico, sul terreno della costruzione di un sistema democratico.

Non mancano tuttavia punti deboli che potrebbero, anche rapidamente, cambiare il quadro.
Quelli vecchi, ampiamente noti, derivanti dal fatto che alla base della straordinaria crescita economica e sociale del Paese vi è ancora sostanzialmente il boom del prezzo del petrolio e del gas. Vi è cioè una scommessa sul futuro che alla lunga potrebbe risultare perdente se non verranno nel frattempo costruite basi più sicure per lo sviluppo.
Quelli, ancora, connessi ad una politica estera che per molti aspetti - si pensi agli atteggiamenti assunti nei confronti del Kosovo nonché delle crisi dell’Ucraina e della Georgia - potrebbe aprire situazioni di crisi anche gravi.

Punti di debolezza sono senz’altro infine quelli che nascono da una stabililtà del potere che - come si è accennato all’inizio - potrebbe essere messa in discussione dall’aprirsi di un conflitto fra i due zar. Si parla - è vero - di Medvedev come del «delfino» di Putin, dell’amico leale che avrebbe accettato di buon grado di ridurre il suo ruolo di Presidente a quello di semplice notaio e di ufficio di rappresentanza della Russia così da permettere a Putin di dirigere lo Stato dal suo ufficio di capo del governo (nonché di capo di Edinaja Rossija, il partito che domina la Duma). Ma davvero Medvedev è soltanto una creatura di Putin? L’esistenza, se non di divergenze, di discordanze tra i due è stata da tempo rilevata dagli osservatori. E si tratta di discordanze di un certo peso che riguardano sia la politica estera (sin dal suo primo discorso elettorale Medvedev si è presentato più aperto verso il dialogo con l’Occidente) che quella interna.

Non vi è dubbio che affermazioni sui temi della libertà quali quelle pronunciate da Medvedev («Le libertà, la democrazia, lo stato di diritto sono obiettivi che necessitano del rafforzamento della società civile») si cercherebbero invano - mentre i diritti degli oppositori, e le libertà di stampa e di riunione vengono quotidianamente colpiti - nei discorsi di Putin. È certo poi che seppure Putin abbia ridotto in parte i poteri del Presidente per aumentare quelli del premier (al quale spetterà ad esempio d’ora in poi di controllare i poteri locali delle regioni) è al capo dello Stato che la Costituzione assegna il compito di «stabilire gli orientamenti principali della politica interna ed estera» (art. 80), di «presiedere le riunioni del governo» (art.83), di «dirigere la politica internazionale» (art. 86), di «esercitare il ruolo di “comandante in capo”» (art. 89).

Molti sono dunque gli interrogativi aperti dal solenne scambio di consegne avvenuto ieri al Cremino. Forse siamo all’inizio di un secondo tempo della gestione Putin. Forse all’avvio di una nuova tappa nella lunga fase di transizione della Russia. Se questa fase porterà alla costruzione di uno stato di diritto e di un sistema democratico tale da permettere al Paese di vivere senza uno zar dipenderà certo dalle scelte che prevarranno nella Russia, e non solo nei palazzi del potere. Ma anche in parte da quel che farà l’Occidente chiamato a riflettere sui danni che possono provocare scelte certamente del tutto legittime come quelle che spingono verso Est le basi della Nato, ma che danno di fatto vigore alla sindrome d’accerchiamento, all’esasperazione nazionalistica e alla vocazione imperiale della «ideologia russa».

Pubblicato il: 08.05.08
Modificato il: 08.05.08 alle ore 11.42   
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