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Autore Discussione: FRANCO BRUNI  (Letto 36012 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 31, 2012, 11:32:40 pm »

31/1/2012

Non basta un successo parziale

FRANCO BRUNI

Il vertice di Bruxelles di ieri sera ha cercato di raggiungere tre obiettivi: il rafforzamento della disciplina comunitaria dei bilanci pubblici, con un nuovo «patto fiscale» fra i Paesi dell'area dell'euro; il rilancio di politiche comunitarie di crescita, che si affianchino alla disciplina di bilancio e ne contengano gli effetti depressivi di breve periodo; l'istituzione di un fondo salva-Stati permanente, in grado di finanziare a medio termine i Paesi in difficoltà, dando loro tempo di riequilibrare i bilanci con buone riforme strutturali, in modi sostenibili, senza precipitazione controproducente.

Sui tre fronti c'è stato un successo parziale. Il patto fiscale è il testo di un Trattato che sarà sottoscritto anche dai Paesi che non hanno l'euro, salvo la Gran Bretagna e la Repubblica Ceca. Si sovrappone in modi non del tutto chiari alla legislazione sugli squilibri macroeconomici che l'Ue ha appena varato con un lavoro lungo e complesso; rischia di essere una complicazione che, nella sostanza, non aggiunge quasi nulla salvo imporre ai Paesi di introdurre alcune norme della disciplina fiscale nella propria legislazione, possibilmente a livello costituzionale.

L’ intervento dell'Italia è stato determinante per evitare clausole del patto formulate con severità controproducente. Il patto è soprattutto un risultato formale che Angela Merkel vuole esibire per giustificare ai suoi elettori gli aiuti e le attenzioni che il mantenimento della stabilità finanziaria europea richiede vengano riservati ai Paesi in maggiore difficoltà.

Il rilancio delle politiche per la crescita e l'occupazione rimane affidato a dichiarazioni di intenzioni (dalle quali si è sottratta la Svezia), la più concreta delle quali sembra per ora la mobilizzazione di fondi strutturali comunitari non spesi. Anche qui la spinta italiana, e quella personale di Mario Monti, è servita a evitare che questo tema fosse trascurato. Speriamo che il rilancio divenga presto concreto, che si trasformi in misure visibili per i progressi del mercato unico.

Quanto al fondo salva-Stati non è ancora chiaro quale dimensione potrà raggiungere e quale flessibilità operativa potrà avere. Il suo compito è fondamentale, soprattutto per sollevare la Bce dalla funzione di supplenza dei governi che l'ha costretta fino ad ora a sostenere i debiti pubblici dei Paesi in crisi con acquisti diretti o indiretti, attraverso le banche che lei finanzia, andando oltre il breve termine al quale i suoi interventi dovrebbero limitarsi.

Ora occorre perfezionare e completare gli accordi, rifinendoli entro il prossimo vertice di marzo.

Ma i tasti da toccare, per rafforzare durevolmente la stabilità finanziaria europea, sono anche altri. Innanzitutto tutti i Paesi devono mostrare una volontà nazionale, interna e indipendente dagli obblighi comunitari, dai diktat del «podestà forestiero», di aggiustare i loro squilibri e fare riforme strutturali importanti. Da questo punto di vista l'Italia è su una strada più promettente della Francia e della Spagna: sarebbe eroico ma sconveniente aver salvato l'Europa con i nostri sforzi ma vederci travolti con l'Europa per i mancato sforzi altrui.

In secondo luogo i meccanismi di credito del fondo salva-Stati devono venir precisati e attuati in modi tecnicamente efficienti, senza interferenze e lungaggini politiche, e devono permettere di affermare senza equivoci un «principio di solidarietà», senza il quale un'Europa profondamente interdipendente non sta in piedi. Inoltre, la regolamentazione e la vigilanza su banche e altri intermediari e mercati finanziari richiedono nuove messe a punto: hanno dato luogo a provvedimenti controversi, non hanno superato il nazionalismo con cui i singoli Paesi tendono a proteggere e nascondere i guai dei propri intermediari, è ancora inadeguato il loro coordinamento con l'azione della Bce. Infine, occorre mettere a punto procedure adeguate e omogenee in tutta l'Ue, per consentire senza traumi e contagi lo scioglimento di banche insolventi e il default, cioè la ristrutturazione, dei debiti dei governi.

Non ha senso negare il default quando proprio la sua eventualità è alla base della disciplina di mercato, cioè della pressione con cui l'attacco ai titoli di Stato dei Paesi più indebitati li ha portati a prendere importanti misure di correzione e, addirittura, a cambiare i governi. In un certo senso la disciplina di mercato, con tutte le sue esagerazioni speculative, la sua discontinuità, i suoi errori di prospettiva, è stata l'unico motore di aggiustamento che ha veramente funzionato finora in questa crisi. Ma è una disciplina che presuppone la possibilità di default: è indispensabile che, almeno nel caso della Grecia, un default ordinato e regolato possa aver luogo al più presto, scaricando così parte del costo di aggiustamento di Atene sui suoi creditori imprudenti e opportunisti. Non dobbiamo temere che ciò trascini l'Italia in default: stiamo dando prova di essere in decente salute e, soprattutto, di saper avviare la correzione delle nostre debolezze con determinazione politica e capacità tecnica.

Nel complesso non c'è ragione di pensare che l'Europa non ce la farà, ma il vertice di ieri non ha ancora tolto l'impressione di disordine che dà il governo dell'economia e della finanza europea. Il Consiglio di marzo avrà modo di migliorare.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9715
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« Risposta #46 inserito:: Febbraio 16, 2012, 03:56:28 pm »

16/2/2012

Una ricetta per spingere la crescita

FRANCO BRUNI

Le stime rese note ieri dall’Istat confermano che l’Italia è in recessione. Deve uscirne presto, anche per non compromettere l’aggiustamento della finanza pubblica. Per ridurre il peso del deficit pubblico sul Pil bisogna contrarre il deficit ma anche sostenere il Pil. In altre parole: le politiche per la crescita servono anche a migliorare la stabilità finanziaria. Fra l’altro, se il reddito nazionale accelera, sale il gettito delle imposte riducendo il deficit pubblico.

D’altra parte le politiche di bilancio restrittive frenano la crescita. Questo è quasi sempre vero nel breve periodo; guardando più lontano, dipende dalla qualità delle politiche restrittive che vengono fatte. Un riordino credibile e duraturo della finanza pubblica, che migliori anche l’utilità della spesa e la struttura delle imposte, può aumentare la produzione e l’occupazione.

Perciò non c’è contraddizione fra risanare la finanza pubblica e favorire la crescita. Basta fare le due cose nei modi e nei tempi giusti. Non troppo precipitosamente e con provvedimenti che migliorino l’organizzazione d’insieme dell’economia, pubblica e privata.

Invece in gran parte dell’Europa viviamo con l’incubo che il rigore finanziario non faccia attenzione alle politiche per la crescita. Il governo italiano è uno dei più attenti: ma in sede Ue manca determinazione su questo fronte. In che cosa possono consistere queste politiche?

Qualcuno parla di stimoli «keynesiani» alla domanda; in sostanza: moneta e credito più abbondanti e a buon mercato, meno imposte e nuova spesa pubblica. Ma è anche per un lungo periodo di espansione artificiosa ottenuta con stimoli del genere che il mondo intero è finito in crisi cinque anni fa. Se la soluzione fossero gli stimoli di bilancio, gli Usa non avrebbero avuto nemmeno un cenno di crisi, la Grecia starebbe ancora crescendo rigogliosamente, il Pil francese galopperebbe da tanti anni, eccetera. Se la soluzione fossero gli stimoli monetari e i tassi di interesse bassi, da tanti anni nessun Paese, sia al di qua che al di là dell’Atlantico, avrebbe problemi di scarsezza di investimenti, produzione e occupazione.

Lo stimolo macro, giustificato dal fatto che «manca domanda», non è una buona politica di crescita. Lo sono invece quelle riforme che, migliorando l’uso delle risorse, il funzionamento dei mercati e la distribuzione del reddito, correggendo gli incentivi e i criteri con cui vengono prese le decisioni dei consumatori, dei produttori e dei governi, rasserenando le aspettative sulla stabilità finanziaria dei prossimi anni, fanno crescere l’economia dal lato dell’offerta. Cioè aumentano le opportunità di produrre e le previsioni di trovare mercato delle persone e delle imprese, abbassano con la concorrenza i prezzi dei beni e dei servizi e quindi ne favoriscono l’acquisto, migliorano la quantità e la qualità dei servizi pubblici a parità di risorse impiegate.

C’è anche una via di mezzo, che può funzionare, fra politiche di domanda e di offerta: favorire spese di investimento, pubblico e privato, con grande selettività, cioè mirando a dove gli investimenti servono per far meglio le riforme, riorganizzare più efficacemente le produzioni private e la pubblica amministrazione. Sono stimoli alla domanda che hanno effetti soprattutto perché migliorano l’offerta, la capacità produttiva.

L’Ue deve riportare le buone politiche di crescita al centro degli indirizzi comunitari, con urgenza e concretezza e un po’ di enfasi. E’ anche una questione di immagine: l’Europa, soprattutto in un periodo di crisi, non può continuare a essere associata a un rigore che rischia di essere frainteso, come fosse fine a se stesso. Altrimenti finiranno per essere rifiutati insieme l’Europa e il rigore. Fra una settimana la Commissione pubblicherà un aggiornamento delle previsioni macroeconomiche: presumibilmente non sarà allegro. Credo che anche i mercati gradirebbero se, contemporaneamente, venissero a sapere che il Consiglio dell’1 marzo ha aggiunto all’ordine del giorno almeno un annuncio di concreta politica di crescita.

Fra gli annunci più desiderabili ci sarebbe quello di un vero avvio del programma di completamento del mercato unico, che è la principale opportunità di crescita per le imprese europee, soprattutto con la liberalizzazione di quei settori dei servizi che la Germania insiste nel proteggere. E’ un programma che il nostro attuale premier ha disegnato quasi due anni fa; venne accolto con i migliori complimenti ma ora, quanto ad attuarlo, sembra che persino la speciale persuasività di Monti si scontri contro l’insormontabile.

Ma potrebbe esserci altro: perché non risuscitare i piani di forte ricapitalizzazione della Bei ed emettere project bond per infrastrutture comunitarie? Perché non decidere che alcune spese di investimento, che rientrino in progetti comunitari ben definiti, saranno considerate fra i fattori attenuanti nel giudizio della Commissione sui disavanzi pubblici? Perché non accompagnare fin d’ora i terribili tagli di spesa ordinati ad Atene con qualche programma di medio-lungo periodo che contempli corposi investimenti mirati e speciali dell’Europa in quel Paese, mostrando considerazione per il potenziale della sua economia, una volta aggiustata e riformata, e per offrire ai greci, oltre a tagli e salvagente, un po’ di speranza?

franco.bruni@unibocconi.it

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9778
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« Risposta #47 inserito:: Febbraio 16, 2012, 04:03:49 pm »

10/2/2012

Ma le colpe sono anche a Bruxelles

FRANCO BRUNI

Con l’accordo politico di Atene e la riunione dell’eurogruppo, ieri hanno fatto un passo avanti le trattative attorno al debito della Grecia, ma la soluzione rimane sul filo del rasoio, come sempre da quando sono emersi i suoi guai. C’è la frusta della scadenza del 15 febbraio, dopo la quale, si dice, è inevitabile un default disordinato e pericoloso per tutta l’eurozona. Non sarà semplice mettere al sicuro per tempo gli impegni del governo sulle nuove misure di austerità, la procedura per l’erogazione degli aiuti europei e la ristrutturazione "volontaria" del debito pubblico, che accolla una parte del riequilibrio ai creditori che hanno investito in titoli greci rischiosi e molto redditizi.

La tattica del filo del rasoio, dell’allarme crescente con l’avvicinarsi di scadenze presentate come fatali, ha la sua logica, per rompere le resistenze delle parti contraenti e far funzionare la pressione dei mercati. In realtà il problema greco non è abbastanza grande da rendere impossibile rinviare le scadenze, se fosse opportuno farlo.

Sono evidenti le responsabilità della Grecia. Ma sono gravi i difetti del modo con cui l’Ue ha gestito la crisi.

Fin dal 2009, si sono chiesti ai greci aggiustamenti troppo rapidi per esser fatti bene ed essere digeribili politicamente e socialmente. Sarebbe servita più cura nel disegnare riforme strutturali e scadenzarle su un periodo realisticamente lungo, assicurando il finanziamento necessario, anche a progetti specifici orientati alla crescita, di scadenza in scadenza, senza consentire ai tassi sulle nuove emissioni di titoli di Stato di raggiungere i livelli che hanno toccato. Si è preferito giustificare una certa tracotanza dell’Europa col fatto che i greci avevano imbrogliato i conti; si è data l’impressione che la Grecia contasse per l’Ue solo perché poteva contagiare la finanza di Paesi «più importanti», come il nostro; l’Europa avrebbe dovuto impegnarsi di più, anche sul fronte della comunicazione e dell’immagine, a valorizzare le potenzialità della Grecia e aiutare la sua popolazione a capire e accettare le riforme.

Le autorità europee hanno inoltre permesso che si creassero equivoci e confusione su diversi fronti. Innanzitutto non sono riuscite a filtrare le troppe controparti con cui i greci devono trattare. La Commissione ha svolto un ruolo notarile; un complesso insieme di aiuti bilaterali ha lasciato spazio ai particolarismi di diversi governi nazionali; in particolare, i premier tedeschi e francesi si sono mossi come battitori liberi con sollecitazioni e minacce, giocando a rimpiattino con procedure e scadenze; la Bce è stata chiamata a un improprio ruolo di supplenza dei governi nell’assicurare i finanziamenti a medio-lungo termine; è stato coinvolto il Fmi, suscitando non poche controversie, dando l’idea che senza Washington ci manchino soldi e competenze per gestire il problema greco; gli aiuti ufficiali sono stati considerati crediti privilegiati, accrescendo i rischi dei creditori privati, ma si è lasciato che la trattativa dei lobbisti privati, per la ristrutturazione «volontaria» del debito, si sovrapponesse confusamente ai rapporti fra autorità greche e comunitarie.

Altra confusione si è fatta sulla questione del default. Prima lo si è escluso completamente, con dispregio del mercato che, chiedendo tassi alti, mostrava di considerarlo possibile. Si voleva evitare che il panico contagiasse il debito di altri Paesi. Ma escludere il default implica una garanzia di salvataggio che non si voleva dare: sicché il contagio non è stato evitato. Poi si è favorita una trattativa con i creditori privati per un default parziale e volontario assicurando, non si sa bene su quali basi, che sarebbe stata un’assoluta eccezione. Nel frattempo si sono fatti gravi pasticci con le regole di contabilizzazione dei debiti sovrani nel bilancio delle banche: si è passati da stress-test permissivi, che consideravano quasi tutti i titoli di Stato non svalutabili, all’obbligo di valutarli ai prezzi stracciati che quota il mercato. Dopodiché non si sa più se il vero problema sia la solvibilità del governo greco o quella delle banche creditrici.

Non è stata presa in considerazione l’idea di accelerare l’adozione di una procedura erga omnes per ristrutturare i debiti pubblici insostenibili con tempestività, cioè quando ancora non si è accelerato il circolo vizioso fra il debito e gli interessi che su di esso maturano, e in modo ordinato, giusto e tale da evitare panico e contagi. Si è anzi detto che la presenza di una procedura del genere renderebbe il contagio più probabile. Ma non sarà la sua assenza a evitare il rischio che, dopo aver concluso in qualche modo il pasticcio greco, ne riprenda uno, per esempio, portoghese.

Non è mancata anche, più per colpa di molti economisti che delle autorità comunitarie, la confusione fra default e uscita dall’euro. Mentre il default ordinato riduce realmente il debito di un Paese, uscire dall’euro significa selvagge svalutazioni subito neutralizzate dall’inflazione e dall’emarginazione del Paese nei mercati internazionali.

Quando si insiste nel dire che l’aera dell’euro è troppo disomogenea e che almeno la Grecia non dovrebbe farne parte, sarebbe bene tener conto di come le cose sarebbero andate se l’Ue avesse evitato tutte queste ragioni di disordine e confusione.

franco.bruni@unibocconi.it

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9756
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« Risposta #48 inserito:: Febbraio 27, 2012, 11:29:59 am »

27/2/2012

Spesa pubblica una riforma è possibile

FRANCO BRUNI

Il ministro Passera ha ribadito ieri che il governo non annuncia «tesoretti» prima di averli incassati. Monti aveva già rinviato la predisposizione di un fondo per gli sgravi fiscali a quando la sua alimentazione assumerà consistenza. Ciò non smentisce l’intenzione di utilizzare i proventi della lotta all’evasione e agli sprechi per aiutare la crescita, anche abbassando le tasse.

Dati i vincoli di bilancio, è meglio per ora non pensare a ridurre il gettito complessivo delle imposte, mentre è sacrosanto cambiarne la composizione e la distribuzione: far pagare di più chi evade o elude, sgravare chi paga troppo, tassare di più il capitale e alleviare gli oneri fiscali e parafiscali che gravano sull’occupazione, sia dal lato delle imprese che da quello dei lavoratori. Sarebbe meglio farlo nel quadro di un’armonizzazione fiscale europea. Quanto alla spesa pubblica, è vero che la sua riduzione consente di accelerare gli sgravi fiscali; ma è anche vero che i risparmi sulle spese meno utili, i soldi buttati via, sono chiamati ad alimentare le spese più preziose e scarse, come quelle che oggi servirebbero per facilitare la riforma degli ammortizzatori sociali e quindi dei contratti di lavoro.

Il governo Monti ha un mandato a termine e compiti urgenti e precisi. Può mettere in sicurezza il saldo fra entrate e uscite e razionalizzarle un poco entrambe. Ma il suo lavoro di emergenza può servire alle forze politiche anche per prepararsi ad affrontare una scelta strategica più di lungo termine: con un bilancio in equilibrio, quanto è bene siano grandi le entrate e le spese?

Affiora a tratti l’idea che la vera crescita si possa attuare solo con un forte ridimensionamento dello Stato, sia della spesa totale che delle imposte. Come è noto ci sono al mondo esempi differenti e non mancano i Paesi che crescono bene con settori pubblici tutt’altro che piccoli. È comunque opportuno che la questione rimanga sullo sfondo, che la si discuta con crescente consapevolezza e trasparenza.

L’opinione di chi scrive è che è sempre più difficile che un’economia cresca in modo sostenibile e sano, rispettando i valori attorno ai quali si è andata costruendo l’integrazione europea, con uno Stato economicamente «minimo». I bisogni pubblici dei tempi moderni sono immensi e crescenti. Il loro soddisfacimento è indispensabile perché le produzioni private siano competitive e la loro profittabilità non sia instabile e illusoria o, addirittura, frutto di rapine dei prepotenti. Si possono privatizzare alcune produzioni pubbliche ma occorre spendere per regolare e controllare ciò che si è privatizzato. Si devono assolutamente ridurre i tanti sprechi nella pubblica amministrazione, ma sono pronti tanti capitoli di spesa dove ridirigere le risorse risparmiate. Carceri, scuola, sanità, ricerca e patrimonio culturale (che, lungi dall’esser superfluo, aiuta a sfamarci e a crescere), difesa del territorio, che ci crolla addosso e persino ci uccide perché sempre più dilaniato dalla privatizzazione, sia formalmente legale che criminale, degli spazi pubblici. Servono molti soldi e un grande sforzo politico e amministrativo.

Più che tagliare la spesa totale occorre fissare le priorità in una lunga lista di bisogni pubblici pressanti, con grande cura e dettaglio e un buon dibattito politico. E occorre mettere a punto i metodi organizzativi perché la spesa a essi dedicata sia fatta bene, rendicontata con rigore, senza sprechi e privilegiando ciò che abbiamo deciso essere più importante. È un compito che va oltre la «spending review» di emergenza che in pochi mesi può fare il governo attuale. È una strategia politica a lungo termine che può rivoluzionare interi settori della pubblica amministrazione. Non è un compito facile: ma scegliere le priorità e assicurare l’efficienza delle spese non è facile nemmeno nel settore privato: gli esperti di governo societario sanno bene quanto nelle imprese sia complicato controllare i costi, impedire gli sprechi e le appropriazioni indebite. Occorre la disponibilità al cambiamento, soprattutto di chi oggi è impiegato nella pubblica amministrazione.

Il taglio della spesa pubblica complessiva non è una soluzione. Il taglio cieco e trasversale è insostenibile e dannoso e ora tutti sanno che ci vogliono «riforme strutturali». Le riforme debbono ridurre le spese inutili e cattive, ma non devono lesinare quelle buone. E non per un presunto «effetto espansivo sulla domanda aggregata». Ma perché contribuiscono alla crescita dal lato dell’offerta, cioè aumentando la capacità produttiva dell’economia e la sua qualità.

Non dobbiamo rassegnarci all’idea che il settore pubblico sia comunque inefficiente e vada quindi ridotto alle minime dimensioni. Se non possiamo sperare che produca abbondanti servizi collettivi con giusti incentivi e in modi efficienti e corretti, come possiamo sperare che vigili bene il traffico dei privati e impedisca loro di farsi del male a vicenda? Si tratta di dedicarsi al compito con qualche entusiasmo, mobilitando l’opinione della gente con un messaggio di impegno collettivo che superi la sensazione di impotenza che provano i singoli individui di fronte a compiti che richiedono azione collettiva. Un messaggio che metta da parte ideologie superate e contrapposte, gli infruttuosi, astratti dibattiti fra chi si autoproclama liberale e chi demonizza i mercati privati. Un messaggio che lascerà forse spazio per qualche utile dialettica fra «destra» e «sinistra», sui metodi da usare; ma che vuole convergenza sull’obiettivo di fondo: la cura speciale dei beni e dei servizi pubblici e dei modi per produrli in quantità adeguata e senza sprechi.

franco.bruni@unibocconi.it

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9821
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« Risposta #49 inserito:: Marzo 26, 2012, 06:27:50 pm »

26/3/2012

Doppia sfida per il viaggio di Monti

FRANCO BRUNI

Monti ha insistito perché gli accordi per la riforma del mercato del lavoro si concludessero prima della sua partenza per l’Oriente. Credo che la conclusione sia stata meno rassicurante di quanto sperasse. Ma il premier non ha esitato a sottolineare il collegamento fra il suo viaggio e i risultati dell’azione che il governo conduce da quando è in carica: un «road show», alla ricerca di consensi degli investitori globali per come l’Italia sta riordinando i suoi conti e mettendo a punto le riforme strutturali.

Ciò fa riflettere sull’espressione «ce lo chiedono i mercati», spesso usata, dai commentatori e dallo stesso governo, per motivare i provvedimenti che vengono proposti.
Qualcuno, critico nei confronti delle proposte, usa l’espressione polemicamente, la affianca al «ce lo chiede l’Europa» nel presentare i provvedimenti come imposti dal di fuori, anche contro i nostri interessi. Chi sono questi «mercati» che chiedono, interferiscono, giudicano, premiano e puniscono?

Non sono un insieme omogeneo. Non si tratta, soprattutto, di un compatto gruppo di speculatori spregiudicati che vogliono accumulare guadagni di breve periodo a costo di sospingerci su strade dove staremo peggio. Non manca chi specula sulle nostre vicende e prospettive a corto termine. Ma sono più importanti coloro che, ad esempio, guardano ai nostri titoli pubblici come a un investimento, da prendere o lasciare, nella loro ricerca di rendimenti limitati ma sicuri, nel lungo termine, come i grandi fondi pensione nordeuropei e asiatici. I loro interessi collimano con quelli degli italiani nel loro insieme. Cercar di convincerli ad avere fiducia nell’Italia è un buon esercizio per lucidare gli argomenti che dobbiamo usare per convincere noi stessi che stiamo facendo il nostro bene in modo durevole. In altri termini: ci sono parti dei «mercati» globali che aiutano a guardarci nello specchio e a far l’esame di coscienza.

Questo è ancor più vero per gli investimenti diretti, cioè per chi non si limita ad acquisti finanziari ma rischia avventure imprenditoriali nel nostro Paese, il cui risultato dipende dalla qualità della nostra burocrazia e dei servizi pubblici, del mercato del lavoro, della vigilanza bancaria, del sistema giudiziario, del contrasto alla criminalità organizzata. Scottato dalla crisi globale, chi fa investimenti diretti internazionali è oggi più attento di prima alla qualità di fondo delle istituzioni e del funzionamento dei Paesi dove rischia, alla loro capacità di assicurare profitti sostenibili e vantaggi condivisi con i cittadini degli stessi Paesi. La regione dove andrà Monti questa settimana ha, più del mondo angloamericano, la reputazione di saper guardar lontano nelle decisioni economiche e di saper valutare l’impatto degli investimenti sull’interesse collettivo, non solo sugli utili dei singoli investitori.
Convincere cinesi, coreani e giapponesi della bontà delle nostre prospettive, oltre ad aiutare a chiarire a noi stessi le ragioni delle nostre riforme, oltre ad attrarre da noi i loro capitali, facilita l’accoglienza dei nostri investimenti e prodotti nei loro sistemi economici, dove la crescita e la modernizzazione continueranno a costituire, nei prossimi decenni, opportunità indispensabili per le nostre imprese.

Il viaggio di Monti si svolge in un periodo delicato per l’estremo oriente. La maturazione di quelle economie è giunta a un punto tale da richiedere un cambio di marcia al loro sviluppo, che andrà articolandosi in modo diverso e procederà un poco più piano. A loro, come a noi, servirebbero più di prima relazioni internazionali cooperative, coerenti con la continuazione ben governata della globalizzazione. In effetti l’approfondimento della cooperazione «sovrannazionale» è stato il primo rimedio entrato nelle agende del mondo quando è scoppiata la crisi globale. Ma, dopo quasi cinque anni, nonostante la crisi sia tutt’altro che finita, sembra si sia perso lo spirito della prima reazione dei leader mondiali.
Il G20 è diventato più sterile. Invece di trovare modi migliori per stare insieme, i Paesi e le regioni del mondo paiono dividersi, accrescendo le controversie.
C’è una pericolosa tensione protezionistica: anziché aggredire insieme la crisi, ciascuno cerca di difendersi in modo divisivo.

Fra i tre blocchi che ruotano attorno a Usa, Ue e Cina crescono, insieme a temibili attriti geo-strategici e militari, tensioni commerciali e finanziarie. Siamo al punto che gli aerei europei rischiano di vedersi limitare i permessi di sorvolo in Asia, come ritorsione contro le tasse ecologiche che l’Ue vuole far pagare agli aerei di chi non è stata ancora capace di convincere ad adottare le stesse regole a protezione dell’ambiente. È una china che non va scesa ulteriormente: occorre al più presto tornare ad ambiziosi progetti di cooperazione globale da perseguire con atteggiamenti diplomatici coerenti, lungimiranti, innovativi. Credo non sia scorretto leggere nel viaggio di Monti, che include anche la conferenza sulla sicurezza di Seul, con i massimi leader mondiali, qualcosa che va oltre gli affari italiani. Cioè un piccolo contributo nella direzione del rilancio urgentissimo della concertazione mondiale, da parte di un personaggio rappresentativo dell’Europa più convinta dei suoi valori e, insieme, più aperta e attenta alla costruzione di regole globali, capo del governo di un Paese che da un mondo più unito e cooperativo ha solo da guadagnare.

franco.bruni@unibocconi.it

DA - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9926
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« Risposta #50 inserito:: Marzo 31, 2012, 10:26:55 pm »

31/3/2012

Ma l'Italia resta in balia dello spread

FRANCO BRUNI

Le decisioni dell’Eurogruppo di ieri avvicinano la creazione del fondo permanente per il contrasto delle crisi dei debiti pubblici dell’area dell’euro: il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), finanziato dai governi. E’ ora più chiara la relazione fra il Mes e i fondi provvisori già utilizzati per aiutare l’Irlanda, il Portogallo e la Grecia. Nell’insieme raggiungeranno una capacità di intervento di 800 miliardi di euro. I governi hanno anche deciso di accelerare il versamento al Mes del capitale sulla base del quale potrà indebitarsi sui mercati globali e intervenire a favore dei Paesi in difficoltà; vi è poi l’impegno dell’Eurogruppo a ulteriori contributi a favore degli interventi anti-crisi del Fmi, che collaborerà col fondo europeo.
È opinione diffusa che il Mes non aggiunga abbastanza alla dimensione potenziale degli interventi anti-crisi. Speriamo che i mercati si convincano invece che la dimensione è sufficiente a rafforzare la stabilità dell’area dell’euro nel medio termine.

Solo allora la speculazione sarà scoraggiata e gli interventi effettivamente necessari saranno minori di quelli possibili. Ma l’attenzione dei politici, degli operatori e dell’opinione pubblica si è finora concentrata troppo sulla questione del volume di fondi a disposizione, trascurando altri importanti aspetti del Mes. Guardiamone due, uno positivo, l’altro negativo.

In positivo va detto che il Mes concretizza un vero e proprio meccanismo di solidarietà fra i governi dell’area dell’euro. Essi mettono a rischio i soldi dei loro contribuenti per acquistare quote di capitale di un singolo, grande intermediario, che aiuterà gli stessi governi quando avranno difficoltà nel rifinanziamento dei loro debiti. E’ un rischio che i governi corrono congiuntamente e senza che siano predeterminati i futuri beneficiari degli aiuti. Chi è più grande rischia di più: la Germania verserà più di un quarto del capitale del fondo, la Francia un quinto, l’Italia il 18%. Non solo: se un governo avrà difficoltà a versare la sua quota, gli altri subentreranno temporaneamente al suo impegno.

Il principio di solidarietà, indispensabile per la stabilità finanziaria europea, non si è mai concretizzato in modo così esplicito. Occorrerà prima o poi andare oltre, fino a organizzare un grado di accentramento delle decisioni di finanza pubblica che consenta l’emissione di veri eurobond. Ma la costituzione del Mes è un passo politicamente cruciale. Ancor meglio sarebbe se almeno parte dei prestiti del fondo non godessero del privilegio di essere rimborsati prima dei creditori privati nel caso di default dei governi: infatti il privilegio attenua la solidarietà e aumenta il rischio dei titoli pubblici in mani private.

Fra gli aspetti negativi del Mes viene troppo poco discusso il fatto che il fondo potrà intervenire solo in supporto di singoli governi le cui crisi debitorie mostrino specifiche debolezze e che prendano l’impegno di correggerle. Non potrà invece decidere interventi di sua iniziativa a sostegno di titoli di Stato di Paesi le cui difficoltà non derivino tanto da loro manchevolezze quanto da turbolenze speculative che colpiscano i mercati internazionali nel loro insieme, cioè un sistema molto interconnesso dove la stabilità di tutti dipende da quella di tutti gli altri.

Questo aspetto è particolarmente importante per l’Italia. Supponiamo di riuscire ad annullare presto il nostro deficit e a mantenere disciplina di bilancio: ciononostante l’ammontare di debito pubblico italiano rimarrà ingente per più di un decennio. I nostri titoli restano perciò fra quelli acquistati meno volentieri quando nel mondo succede qualcosa che fa diminuire la propensione al rischio degli investitori. Gli speculatori possono allora esasperare l’aumento del nostro «spread». Anche senza alcuna nostra colpa: per esempio, se il Portogallo si avvicina al default, se la Francia litiga con la Germania sui Trattati dell’euro, se ci sono violente uscite di capitali dall’Est Europa, se fallisce una banca inglese, se la politica Usa mette in crisi il dollaro, se precipita la congiuntura cinese, e così via.

All’Italia servirebbe un fondo autorizzato, sulla base di una sua analisi dell’intrecciarsi dei rischi internazionali, a intervenire a sostegno dei nostri titoli pubblici, senza che il nostro governo, per ipotesi virtuoso e coi conti in ordine, debba far la figura del debole indisciplinato chiedendo aiuto al Mes promettendo chissà quale maggior virtù. Invece il Mes potrà concedere linee di credito preventive, ma in forme inadeguate ad affrontare tempestivamente le turbolenze sistemiche.

Contro le quali rimane dunque solo la Bce. Ma lo scopo del Mes è anche quello di sollevare la Bce dal compito improprio di pagare i conti dei governi. Il problema è che, per aver poteri di iniziativa autonoma, il fondo dovrebbe essere un organo sovrannazionale con un profilo di autonomia simile a quello della Bce. I politici degli Stati membri non sono ancora pronti a questo genere di delega, che implicherebbe l’amministrazione di capitale versato con soldi dei contribuenti. Speriamo che ciò non significhi sacrificare anche l’autonomia della Bce obbligandola a mettere i problemi sotto il tappeto col trucco della creazione di moneta.

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« Risposta #51 inserito:: Aprile 13, 2012, 11:50:41 am »

13/4/2012

La fase due comincia dai partiti

FRANCO BRUNI

Da tempo il governo è entrato in una fase di attenzione alla crescita, preparando i provvedimenti di promozione della concorrenza, le semplificazioni normative, la riforma del mercato del lavoro.

E’ una strada difficile anche perché va cercato il necessario consenso politico su ciascuna misura.

Inoltre l’economia internazionale non va bene, manca la spinta delle politiche europee che occorrerebbero, i flussi finanziari dell’area dell’euro sono inceppati e tengono alto il costo e bassa la disponibilità del credito, sia per il settore pubblico che per imprese e famiglie.

Per crescere meglio servono decisioni accurate e incisive, che richiedono tempo sia per essere varate che per avere effetti tangibili. Danno risultati anche a breve solo se incidono sulle aspettative delle imprese, dei consumatori, dei mercati finanziari. Il governo ha aperto cantieri importanti ma non è in grado di garantire che rimangano attivi per il tempo necessario a costruire una vera ripresa economica del Paese. E’ una garanzia che può dare solo la politica, mostrando di essere pronta a impegnarsi a lungo per favorire l’interesse collettivo, superando le divisioni per cercare le convergenze necessarie a vincere le resistenze degli interessi particolari colpiti dalle riforme. A volte Monti sembra non far pesare abbastanza la parzialità delle cose che gli sono possibili e la radicalità di ciò che va fatto nel più lungo periodo.

Oltre alle fasi dell’azione del governo in carica è ormai ora di considerare quello che verrà dopo. Senza essere rassicurati sul dopo non può instaurarsi il circolo virtuoso che migliora le aspettative fin da quando si affrontano riforme preziose ma difficili. Sono i partiti della «maggioranza» a dover dare la rassicurazione. Stanno accennando qualche passo sui fronti che a loro spettano più direttamente, come la legge elettorale, la riforma del Parlamento e quella dei partiti. Ma procedono troppo piano, ventilando idee minimaliste. La credibilità della loro concertazione è poi ridotta dal fatto che la lealtà con cui collaborano col governo è discontinua. Pare insistano a non guardare più lontano delle prossime mete elettorali e vogliano perciò accentuare i loro profili di parte più che il desiderio di convergere per rifondare la politica e riguadagnare reputazione presso i cittadini. Si parla di «fase due» del governo ma servirebbe subito una fase due dei politici che lo appoggiano, con un discorso che consideri anche il «dopo Monti», in modo credibile e rassicurante.

Comunque si facciano le elezioni e con qualunque risultato, è essenziale che la prossima legislatura garantisca la convergenza programmatica su punti essenziali per la ripresa del Paese. Sono punti che vanno oltre le «regole del gioco» e investono la politica economica. Vanno stabiliti adesso e su di essi la propaganda dei partiti deve essere consonante. E’ importante per il Paese ma anche per i politici, che non riacquistano credibilità bisticciando per mettere in mostra differenze che l’opinione pubblica guarda con scetticismo, ma mostrando di volere davvero realizzare, ciascuno con i suoi accenti ma con una concordia di fondo, i cambiamenti che tutti sanno utili al Paese. Non c’è un solo modo per fare le riforme: ma c’è un grande nocciolo comune a tutti i modi di fare sul serio quelle importanti. Se serve promettere una «grande coalizione» lo si faccia; se si preferisce garantire una convergenza dei partiti limitata a punti prefissati ci si impegni in questo senso. Si sta discutendo se adottare un sistema elettorale che comporti coalizioni programmatiche prima o dopo le elezioni. E’ un dibattito surreale se sulle cose essenziali i partiti non garantiscono di convergere sia prima che dopo.

E’ nella ricerca di queste convergenze che va inquadrato il tema della spesa pubblica, che è cruciale per la crescita. Nella sua intervista a «La Stampa» il ministro Giarda è stato esplicito: non basta la «spending review» in corso, occorre un progetto che si estenda a tutta la prossima legislatura. E’ solo nell’econometria accademica che basta «tagliare la spesa», comunque e alla svelta, per far riprendere l’economia tagliando poi le tasse. E’ un meccanicismo macroeconomico che nella realtà non funziona: i governi devono entrare nel groviglio micro delle inefficienze e delle ingiustizie di un immenso settore pubblico, chiarire le priorità, rivoluzionare le burocrazie, ridurre molto certe spese e aumentarne altre, spostare persone e disturbare interessi, anche nel settore privato che con le inefficienze pubbliche ha molte complicità. E’ fra l’altro urgente che la riforma del mercato del lavoro investa anche i dipendenti pubblici.

Un piano di riordino della spesa pubblica va precisato presto nelle sue linee di fondo, in modo generale ma impegnativo. E’ un cantiere squisitamente politico; se se ne coglie il significato d’insieme per l’interesse generale, non è un cantiere impopolare. I partiti possono usarlo non solo per rendere sempre più concreta la loro collaborazione col governo attuale ma anche per «legarsi le mani» promettendo all’elettorato di unire le forze anche dopo le elezioni e fare dell’amministrazione pubblica un vero motore per la crescita, efficiente, equo e trasparente.

franco.bruni@unibocconi.it

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« Risposta #52 inserito:: Maggio 14, 2012, 04:08:42 pm »

14/5/2012

Crescere nel rigore

FRANCO BRUNI

Il governo tedesco, la Bundesbank e persino la Commissione europea, hanno detto alla Grecia che l’euro e l’Ue possono anche fare a meno di lei.

Dichiarazioni sfidanti ma non molto credibili, pensate come pressioni perché i greci facciano giudizio. Un modo di fare che da tempo ha mostrato di non funzionare.

Non sarebbe meglio interagire diversamente con un momento difficilissimo per la democrazia greca? Perché non mettere l’accento sul fatto che l’Ue è pronta ad aiutare Atene, che per sostenerla non mancano fondi e misure, già decise e in programma, in accordo col fatto che sta crescendo in Europa, anche in Germania, la preoccupazionedella crescita?

E il minaccioso battibecco fra il nuovo presidente francese e i tedeschi sulla ratifica del «fiscal compact»? La discussione non sembra impostata coi toni più opportuni per preparare una trattativa che, tutti riconoscono, deve far giungere a concretezza anche un «patto per la crescita».

Non dobbiamo rassegnarci a un codice muscolare per la diplomazia europea. La gestione della lunga e costosa crisi economica ha gettato l’Europa nel disordine politico: il prestigio sovrannazionale della Commissione, la sua funzione di regista propositivo dell’integrazione e di garante delle regole del gioco, di calmiere delle tensioni intergovernative, si sono adombrati, nonostante gli eccezionali progressi che negli ultimi tre anni il lavoro di Bruxelles ha assicurato perché maturino nuovi schemi di governo per l’economia europea. Prevalgono gli umori mediatico-elettoralistici dei Paesi membri. Fiorisce un antigermanismo di maniera, in gran parte infondato, ma che trova alimento in frequenti atteggiamenti poco costruttivi di Berlino e Francoforte.

Oggi e domani il nostro premier sarà alle riunioni dell’Eurogruppo. È fra le persone più adatte a aiutare l’Europa a cambiare tono, a dare un’impressione diversa all’insieme dei suoi Stati membri, ai suoi cittadini, al resto del mondo e ai mercati finanziari. È urgente, il periodo a disposizione è breve: non va molto oltre i Consigli europei di fine giugno ed è tempestato di elezioni e complicazioni specifiche di diversi Paesi. Occorre uno sforzo di concertazione eccezionale. L’Italia può aiutare molto, anche per la speciale sovrapposizione che da noi si verifica fra l’interesse nazionale e quello comunitario. La nostra diplomazia è credibile ed è già al lavoro da qualche tempo.

Il punto di partenza deve essere la convinzione che rigore e crescita sono complementari. Basta che siano correttamente intesi: il rigore non deve tradursi in pretesa di aggiustamenti a velocità insostenibili e slegati da riforme strutturali; la crescita non si ottiene con stimoli generici alla domanda e nuove spese in disavanzo. Il testo attuale del «fiscal compact», per molti il simbolo del troppo rigore di marca germanica, non è necessariamente recessivo, è orientato al medio-lungo periodo e ricco di elementi di flessibilità. Qualche critico superficiale con occhiali ideologici dovrebbe almeno dargli un’occhiata. E smettere di considerare il vincolo di bilancio in Costituzione come una sorta di violenza teutonica di sapore quasi antidemocratico. Dovrebbe notare che il principio del vincolo, che è formulato in modo tutt’altro che rigido e stupido, è proprio quello di difendere democraticamente l’interesse dei giovani e delle generazioni che non hanno ancora diritto di voto ma sopporteranno per tanti anni l’onere di debiti fatti non per sostenere il ciclo ma per garantire consenso politico con deficit strutturali e improduttivi.

È però vero che l’equilibrio dei bilanci non basta. Oltre a una più celere unificazione dei mercati dei beni e servizi privati, la crescita chiede politiche comunitarie che entrino nella qualità dei bilanci pubblici, delle spese e delle imposte. Va accresciuta l’armonizzazione fiscale e accentrata la strategia di alcune spese pubbliche. Le quali sono a volte più utili e produttive di certe spese private, come quegli investimenti immobiliari che in questi anni si sono rivelati inutili, imprudenti e dannosi.

Per riqualificare la spesa pubblica europea, indirizzandone una parte in modo strategico e accentrato, possono servire progetti gestiti direttamente in sedi comunitarie e finanziati con emissione di eurobond. Ma sarebbe anche utile formulare i vincoli di bilancio in modo da favorire le spese che rientrano in programmi comunitari temporanei e ben definiti. I deficit tollerabili, nel medio termine, verrebbero calcolati al netto di tutte o parte delle spese che rientrano in tali programmi. È possibile farlo senza violare i principi fondanti del «fiscal compact». Mario Monti sostiene il trattamento speciale degli investimenti pubblici fin da prima che nascesse l’euro. Un’Europa che si occupi più direttamente della strategia dei servizi e degli investimenti pubblici apparirebbe anche con un’immagine migliore ai suoi cittadini.

Ad essere favorite dovrebbero essere spese «infrastrutturali». Ma, attenzione: non solo strade, gallerie e bande larghe. L’Europa deve adeguare le proprie infrastrutture sociali alle esigenze e alle fragilità che derivano da rivolgimenti tecnici e competitivi di scala globale. Come osserva Maurizio Ferrera in un’editoriale sul «Corriere» di sabato scorso, l’Europa deve occuparsi anche di asili, scuole, ospedali, spese e sussidi di Welfare. Se vogliamo davvero difendere, modernizzare e rendere coerente il modello economico europeo, non possiamo lasciare le spese sociali alle sole iniziative nazionali, incentivando una perversa concorrenza al ribasso e minacciandole continuamente con la disciplina dei bilanci.

Il governo italiano ha appena varato un primo piano per il Sud, con spiccate caratteristiche di coesione e inclusione sociale. Cerchiamo di disegnare insieme alcuni progetti comunitari su linee analoghe e complementari; facciamo in modo che le spese che vi rientrano, sotto un adeguato controllo comunitario, siano contabilizzate con favore nelle regole che disciplinano i bilanci pubblici.

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« Risposta #53 inserito:: Giugno 02, 2012, 10:16:48 am »

1/6/2012

Efficienza e rigore devono partire dalle banche

FRANCO BRUNI

Fin dalla seconda riga, le prime Considerazioni finali di Ignazio Visco ricordano che nei periodi difficili «ciascuno deve applicarsi a svolgere il proprio compito». Dopodiché il governatore dice la sua senza divagare, asciutto, parlando dei compiti specifici della Banca centrale: il contributo al disegno della politica monetaria comune, la regolamentazione e la supervisione finanziarie.

Il vortice della crisi è l’insufficiente coesione dei governi europei nell’assicurare la tenuta dell’unione monetaria. Il rimedio principale sarebbero «manifestazioni convergenti della volontà irremovibile di preservare la moneta unica», orientando decisamente in questo senso le opinioni dei mercati. Non sta andando così. Lo stillicidio di semiintenzioni dei politici europei cui assistiamo in queste settimane deve finire: se, come speriamo, nasconde un difficile ribollire di progetti importanti, vogliamo vederli al più presto in chiaro.

Un nuovo fondo salva-Stati permanente, ampio e diretto anche ad aiutare la ricapitalizzazione delle banche? Si smetta di parlarne e lo si faccia subito. Visco sembra desiderare un fondo capace di «agire tempestivamente sui mercati con procedure flessibili»: se si volesse dargli ascolto il progetto attuale andrebbe cambiato, perché prevede un’istituzione intergovernativa lenta e incapace di intervenire di sua iniziativa contro instabilità sistemiche.

Gli spread sui titoli di Stato, quello italiano in particolare, non riflettono gli sforzi di aggiustamento di alcuni governi e, cosa della quale troppo poco si tiene conto, trasferiscono risorse reali ai Paesi, come dice il governatore, «percepiti più solidi»: in poche parole sono in parte una tassa implicita prelevata dalla Germania sui Paesi sui quali i mercati sfogano l’incertezza che leggono nell’europeismo franco-tedesco. È urgente provvedere a riportare ordine con misure appropriate, compreso un «fondo dove trasferire i debiti sovrani eccessivi». Non si può più minimizzare, non bastano la Bei e i project bonds. «Serve un cambio di passo».

Si parla di organizzare un’assicurazione europea centrale dei depositi bancari e, contestualmente, di accentrare i poteri di vigilanza sulle banche, approntando fondi e procedure europee per gestire banche illiquide o insolventi. Sarebbero provvedimenti decisivi, che aiuterebbero a tener distinta la rischiosità di una banca da quella del debito pubblico del Paese dove ha sede. Guai però se, dopo averne parlato anche ai massimi livelli, come ha fatto Draghi in questi giorni, non si decidesse rapidamente. Guai se dopo aver parlato di vigilanza accentrata si rimanesse, ad esempio, con applicazioninazionali molto diverse delle regole sul capitale minimo delle banche. La perdita di credibilità dell’area dell’euro sarebbe deprimente, insopportabile.

Nel corso della gestione delle crisi il ruolo delle banche centrali rimane quello di dare ai mercati la liquidità necessaria, nel breve periodo. I prestiti della Bce a tre anni sono operazioni eccezionali: Visco spiega come siano state preziose per rimettere in moto i flussi di pagamenti, come il rideposito presso la stessa Bce dei fondi da essa prestati non sia sintomo di inutilità degli interventi, poiché avviene dopo che quei fondi sono circolati fra diverse banche e diversi Paesi. Occorre che la Bce vada più in là, che diventi garante ultima dei debiti pubblici di tutti? Secondo qualcuno solo allora avremmo una «Banca centrale normale»: non è vero, non c’è nulla di normale in una Banca centrale che garantisce di pagare i debiti dei governi, senza riguardo alla necessità di ancorare i prezzi, di contenere il credito per evitare che venga usato male, di limitare la creazione di moneta per difenderne il potere d’acquisto e con esso quello dei risparmi e dei redditi più bassi e indifesi. In proposito Visco è stato molto sintetico: «L’uscita dall’attuale assetto è oggi del tutto prematura». Possiamo salvare l’euro senza distruggerelo spirito della costituzione monetaria europea.

Perché vi sia stabilità finanziaria, alle buone regole e alla buona vigilanza delle autorità deve corrispondere la buona gestione delle singole banche. La qualità del credito, sotto i colpi della crisi, peggiora. I rischi vanno controllati anche contenendo i profitti che le banche pretendono nel breve periodo; l’equilibrio fra impieghi e fonti stabili di raccolta delle banche deve irrobustirsi, l’orizzonte dei modelli di business bancario deve allungarsi. Inoltre le banche devono guardare con severità al livello e alla struttura dei loro costi: è forse la prima volta che un governatore è così chiaro nel richiamare questo aspetto, menzionando esplicitamente il costo del lavoro e le remunerazioni degli amministratori e dell’alta dirigenza. E ricordando che non val la pena di fondere fra loro banche solo per farle diventare più grandi, senza riorganizzarle sul serio, risparmiando risorse e ottenendo processi decisionali snelli e responsabilizzanti e dunque, anche, consigli di amministrazione meno affollati e pletorici, più snelli e funzionali. La Banca d’Italia, più di altri vigilanti europei, ha notevoli poteri per influenzare la qualità della gestione delle singole banche: sembra intenzionata a continuare a usarli. Farà il suo compito, per dirla con Visco. Siano puntuali nel farlo anche gli intermediari.

È urgente richiamare al loro dovere i politici europei: ma non ha senso farlo se le difficoltà del momento non sono vissute da tutti, anche dai singoli cittadini, da ogni banca e impresa, come l’occasione per diventare più precisi e attenti nel fare i compiti che a ciascuno spettano. Il nostro istituto di emissione ha il prestigio necessario per essere il luogo dove si richiama questa semplice verità.

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« Risposta #54 inserito:: Giugno 15, 2012, 11:58:32 pm »

14/6/2012

Il conto salato di un'Unione senza euro

FRANCO BRUNI

C’ è chi ha il terrore di morire anche se vive senza convinzione e contentezza. C’è chi teme la fine dell’euro anche se lo sopporta male. Non manca chi ricorda l’enorme costo di spezzare l’unione monetaria. È più raro sentir parlare del costo di «fare a meno dell’euro» nel più lungo andare, passato il trauma della sua rottura. Si ha l’impressione che non siano pochi coloro che temono i disastri immediati di una disintegrazione dell’euro, soprattutto nel bel mezzo di una crisi economica mondiale, ma considerano la moneta unica più un problema che una soluzione, non sono convinti del vantaggio netto che i Paesi europei traggono dalla sua esistenza. Per avere la forza di fare quello che occorre alla salute dell’euro dobbiamo invece convincerci che senza la moneta comune l’Europa sarebbe più povera e tribolata.

Cominciamo a dire che se finisse l’unione monetaria finirebbe l’Ue, almeno nella forma e con le prospettive che ha oggi. Non a caso i Trattati ammettono l’uscita dall’euro solo insieme all’abbandono dell’Ue. Senza la moneta comune il pilastro del mercato unico perderebbe senso e con esso quello sforzo per coordinare e accentrare alcune fondamentali decisioni politiche che costituiscono l’essenza dell’Unione.

Anche mantenendo qualche forma debole di cooperazione, un’Europa senza euro non potrebbe che essere un’area dove i Paesi maggiori, Francia, Germania, Italia, Spagna, vivrebbero avventure economiche e politiche sostanzialmente autonome e potenzialmente ostili. Non vale l’esempio del Regno Unito, che da sempre è nell’Ue e non nell’euro: si tratta di un caso speciale, per diverse ragioni, che forse verranno meno col tempo, costringendo Londra ad aderire all’euro o a uscire dall’Ue.

Perciò il costo della mancanza dell’euro finirebbe a diventare quello che, prima che l’euro nascesse, si chiamava il «costo della non Europa»: ci convincemmo che sarebbe stato un costo elevatissimo e ne traemmo stimolo per fare molta più Europa. La stragrande maggioranza dei popoli e dei politici europei deve riaffermare questa convinzione: è condizione essenziale perché non si torni indietro, più o meno precipitosamente.

Ma proviamo a rimanere alle questioni monetarie e finanziarie. Senza euro ci sono due scenari: nel primo i Paesi con monete diverse rimangono aperti e integrati l’uno con l’altro, commercialmente e finanziariamente; nel secondo ciascuno aggiunge al ritorno della moneta nazionale dosi più o meno massicce di protezionismo, chiusura, disintegrazione dagli altri.

È facile comprendere come, nel primo scenario, le differenze fra le politiche monetarie e di bilancio dei Paesi crescerebbero, i tassi di inflazione e di interesse divergerebbero, i capitali si muoverebbero speculando sulle differenze di rendimento e sulle aspettative di svalutazioni e rivalutazioni dei cambi che inevitabilmente seguirebbero, continuamente, con un perenne disordine monetario. Le condizioni di finanziamento dei settori pubblici e delle imprese private di ogni Paese sarebbero instabili. Non ci sarebbe prevedibilità macroeconomica, il rischio di cambio ostacolerebbe i commerci e gli investimenti internazionali; ne soffrirebbero la crescita e l’occupazione, travolgendo qualunque vantaggio derivante agli esportatori da svalutazioni competitive che avrebbero vita breve, subito neutralizzate dai differenziali di inflazione. E, quel che è peggio, diverrebbe forte l’attrattiva del secondo scenario: come negli Anni 70, per proteggerci dal disordine internazionale verrebbe chiesta l’introduzione di vincoli alla libera circolazione internazionale dei risparmi e dei capitali; per compensare la variabilità dei cambi si cercherebbe di ostacolare la libertà del commercio internazionale. Risuscitate le monete nazionali, magari con l’aspettativa di accrescere l’autonomia delle politiche di ciascun Paese, si scoprirebbe che l’autonomia data dal cambio fluttuante è illusoria, soprattutto quando c'è mobilità dei capitali fra i Paesi, a meno di non interpretare l’autonomia come nazionalismo protezionista.

Sarebbe allora il secondo scenario, con costi ancor più alti, economici e civili. Senza libertà di investire e prendere a prestito all’estero, i risparmi e gli investimenti dei cittadini sarebbero prigionieri delle sole opportunità nazionali e vittime dell’arbitrio con cui i politici li governerebbero. Crediti e prestiti sarebbero assoggettati a provvedimenti dirigistici. I grandi debitori, cioè i governi e le imprese loro amiche, potrebbero remunerare poco i risparmi, impiegarli a favore di interessi particolari e svalutarli con l’inflazione. Minimizzati i vincoli e riferimenti europei, in ogni Paese i prepotenti avrebbero più facilmente la meglio. Nei rapporti internazionali, diradati dal protezionismo, non ci sarebbe ragione per competere facendo funzionare meglio la propria economia: anche fra Paese e Paese sarebbe la prepotenza a dominare. Prepotenza ben più grave e perniciosa dell’«egoismo» che alcuni attribuiscono oggi alla leadership tedesca.

Più del disastro finanziario del giorno dopo, la rottura dell’euro comporterebbe dunque il rischio di pagare i «costi della non Europa», cioè di un’Europa segmentata, disordinata, litigiosa, debole e con molte meno ambizioni e possibilità di incivilimento. È vero che dopo tanti anni di euro i nazionalismi sono tutt’altro che finiti. Ma è inutile insistere che prima avremmo dovuto unire l’Europa e poi metterle l’euro come una corona sul capo; abbiamo tentato coraggiosamente di strumentalizzare l’euro anche per unire l’Europa e farla migliore: conviene continuare lo sforzo.

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« Risposta #55 inserito:: Giugno 24, 2012, 09:03:35 am »

23/6/2012

Piccoli passi di una nuova Europa

FRANCO BRUNI

Il significato dell’incontro di Roma è soprattutto politico. Quattro diventa più del doppio di due: si è rotta la strana diarchia franco-tedesca, che si era autonominata leader, e i quattro maggiori Paesi dell’area dell’euro si presentano meglio, col tono più legittimo di un gruppo di lavoro che prepara la discussione del Consiglio. Un gruppo che manca del tutto di arroganza e la cui azione è parallela a quella dell’altro quartetto più tecnico (i presidenti del Consiglio, della Commissione, della Bce e dell’Eurogruppo) che, come ha ricordato Monti, sta stendendo un progetto di integrazione politica a lungo termine. I dossier-proposte su cui decidere davvero, sul tavolo del Consiglio di fine mese, potrebbero così risultare talmente ricchi da rendere impossibile un nulla di fatto.

L’utilità del quartetto riunitosi a Roma, che non pretende di guidare l’Europa, è paradossalmente accresciuta dal fatto che si tratta di Paesi in condizioni molto diverse e con approcci e priorità di vedute che richiedono un confronto serio e faticoso per trovare conciliazione. E’ da questi confronti faticosi, da estendere subito a molti altri Paesi membri, che deve uscire l’Europa di domani, non da bacchette magiche o solidarietà improvvisata.

Il fatto che Monti abbia potuto ribadire che le regole della disciplina finanziaria sono state rotte nel 2003, in modo clamoroso, proprio da Francia e Germania, è significativo: vuol dire che è un gruppo dove ci si confronta con franchezza e non ci si limita a voler dar messaggi miracolistici ai mercati. E’ un gruppo dove alla Germania, che comincia a vedere nella sua stessa congiuntura i segni della crisi europea, si offre l’opportunità di attenuare l’impressione di essere un misto di paese-fenomeno, potenziale solutore dei problemi altrui e stopper dei progressi dell’integrazione. E’ un gruppo dove al nuovo presidente francese si offre l’opportunità di smentire, sia pur gradualmente, l’idea che sia proprio la Francia a ostacolare cessioni di sovranità nazionale.

L’incontro è stato breve ma è possibile che, tenuto conto anche dei lavori riservati che circondano i quattro leader, il loro avvicinamento su proposte condivise sia andato oltre i punti che hanno voluto esternare nella conferenza stampa finale. D’altro canto sarebbe stato inopportuno che i quattro, proprio per il diverso spirito con cui si riuniscono rispetto al Merkozy di prima, avessero preceduto la discussione con gli altri Paesi membri cercando di influenzare i mercati con la comunicazione di decisioni «precise e concrete». Qualche commentatore le voleva o se le attendeva. Ma precise e concrete le decisioni non avrebbero comunque potuto esserlo, se non discusse e condivise con gli altri Paesi membri, calate in una prospettiva più comunitaria che intergovernativa e raccordate al piano di lungo termine cui stanno lavorando i quattro presidenti.

Ciò detto non va taciuto che l’incontro di Roma non è stato senza conclusioni ma ha lasciato l’impressione che il lavoro da fare prima del Consiglio di fine mese è ingente e il contributo dei quattro per ora molto piccolo. Fra le conclusioni, le più significative sono due: l’impegno sull’irreversibilità dell’euro, che solennizzato da quei quattro, con l’euroscetticismo e gli strani piani B che ciascuno di loro sente mormorare a casa sua, non dovrebbe restare senza conseguenze; e l’impegno a mobilitare ingenti fondi per la crescita che, seppur con modalità ancora da precisare, non potrà non influenzare fortemente i lavori del Consiglio.

Quanto alle cose da fare, vanno distinte quelle per il breve da quelle per più tardi. Sul breve è cruciale che la sostanza della proposta fatta da Monti fin dal Messico venga in qualche modo accolta. La sostanza è che, per godere di interventi di stabilizzazione degli spread con acquisti di titoli pubblici con fondi europei, compresa in un primo tempo la Bce, non occorra essere sull’orlo del disastro e pronti a forme eccezionali di extradisciplina. Se un Paese riceve l’approvazione e il monitoraggio della Commissione sui suoi piani di riequilibrio finanziario, ciò deve bastare. Se i mercati, ad esempio, sovra-reagiscono al problema greco facendo salire molto lo spread italiano, nonostante i nostri conti rimangano buoni e approvati da Bruxelles, è opportuno che con fondi comunitari si metta riparo alle esasperazioni. L’iniziativa di intervenire dovrebbe essere degli stessi responsabili dei fondi, senza che l’Italia prenda altri impegni e senza che nemmeno lo richieda.

Per l’orizzonte più lungo, pare di capire che il quartetto dei presidenti punti a una prima tappa di cosiddetta unione bancaria, una seconda di unione fiscale, una terza, più lontana, di unione politica. L’essenziale è partire davvero, con molta concretezza e debita urgenza, con la prima tappa. Il sistema bancario europeo è paurosamente segmentato lungo confini nazionali, incapace di far circolare il credito, disseminato di sospetti e sfiducie reciproche nonché di protezioni opache delle autorità nazionali, ciascuna a favore dei «suoi» banchieri: nonostante il supporto della Bce, non può più aspettare una drastica riforma . Le banche di qualche rilievo devono essere «europee», non nazionali: devono essere regolate e vigilate in modi omogenei, mettendo in comune le informazioni sui rischi che corrono, riversate presso un unico vigilante centrale, con ovvie articolazioni nazionali, che non sarebbe male fosse la stessa Bce. Questa riforma dovrebbe essere gradita anche a Merkel. La quale, nei confronti delle banche tedesche, non ha mancato, in passato, di mostrarsi a tratti giustamente severa. E le banche tedesche sono fra quelle che necessitano di una vigilanza meno di favore di quella che hanno finora avuto. Anche la gestione della crisi e l’eventuale salvataggio di una banca europea devono essere comunitari, con fondi comunitari, perché i guai delle banche spagnole, per esempio, non sono senza conseguenze per i contribuenti italiani. A proposito, perché non trasformare la Tobin tax, che rimane una vaghezza poco realizzabile, in una tassa per contribuire a finanziare un fondo europeo comune per l’assicurazione dei depositi bancari?

franco.bruni@unibocconi.it

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« Risposta #56 inserito:: Luglio 11, 2012, 11:19:27 pm »

11/7/2012

La solidarietà che può servire all'Italia

FRANCO BRUNI

Fra le numerose decisioni dell’Eurogruppo di ieri c’è stata anche quella di confermare il semaforo verde al cosiddetto «fondo antispread», per il quale Monti si è adoperato. Dopodiché, secondo alcuni analisti, i mercati hanno reagito con una perplessità che ha frenato il miglioramento dello spread, quando Monti ha ammesso che sarebbe «arduo» escludere che l’Italia abbia bisogno dell’intervento del fondo. Finora aveva detto non solo che l’Italia non ne chiedeva l’intervento ma che questo non sarebbe servito, visto che la stessa esistenza del fondo avrebbe calmierato lo spread sui titoli italiani. C’è un equivoco?

Proviamo a chiarire. La sostanza della richiesta italiana è stata che il fondo possa intervenire per contenere i tassi sui titoli di Stato di Paesi in regola coi programmi di riforme e di aggiustamento del deficit concordati con la Commissione. Per questi Paesi, fra i quali è l’Italia, occorrono difese speciali per frenare attacchi speculativi che non sono giustificati dalla loro indisciplina o dai loro squilibri ma sono il riflesso di disordini finanziari che investono l’eurozona come sistema.

Per il contagio di problemi radicati altrove, dalle banche spagnole ai guai di Atene, ma anche, un domani, di Parigi o del dollaro. Il debito pubblico italiano, anche se noi rimarremo virtuosi nel fermare il deficit, sarà elevato ancora per diversi anni, durante i quali, nei momenti di tensione e di maggior avversione al rischio dei mercati, i titoli italiani saranno sfavoriti. Nella misura in cui sapremo rimanere «virtuosi» con le nostre politiche economiche, è interesse di tutta l’eurozona che la solidarietà europea faccia sì che i rischi sistemici non si moltiplichino contagiando i titoli italiani. Anche perché, oltre a diminuire per noi l’incentivo alla virtù, il contagio rimbalzerebbe dappertutto complicando la vita di tutti.

Questo tipo di aiuto è diverso da quello richiesto da un Paese che ha bisogno di prestiti e di tempo per ridurre il proprio deficit o avviare le riforme, cioè da un Paese che non può ancora rispettare gli indirizzi di disciplina comunitari. E’ un aiuto che, essendo nell’interesse dell’eurozona e volendo rimediare a conseguenze di problemi altrui, dovrebbe avere due caratteristiche: non essere nemmeno richiesto dal Paese, bensì deciso autonomamente dal fondo responsabile della stabilità sistemica dell’eurozona, e non essere condizionato all’adozione di programmi speciali di aggiustamento, visto che si tratta di Paesi che rispettano i piani di stabilità convenuti con la Commissione.

Purtroppo il Trattato che costituisce il fondo europeo di stabilità non gli consente di fare operazioni non richieste esplicitamente dal Paese del quale vengono acquistati i titoli, come se l’aiuto fosse giustificato da guai suoi; né consente aiuti non specificamente condizionati all’adozione di discipline speciali. Credo che lo sforzo di Monti sia stato quello di convincere i colleghi europei a interpretare il Trattato nel modo più prossimo possibile a quel che occorrerebbe per questo genere di «aiuto ai virtuosi». E penso che lo sforzo abbia avuto successo: la richiesta di intervento, che pur ci deve essere, sarà limitata alla semplice e rapida sottoscrizione di un documento predisposto in modo da servire al caso; e, soprattutto, non sarà richiesta altra misura speciale di aggiustamento per il Paese «aiutato» se non il proseguimento del rispetto dei programmi concordati con la Commissione, cioè il tipo di programmi che esistono sempre per tutti i Paesi dell’eurozona.

E’ quindi ora di smettere di domandarsi se l’Italia chiederà o no l’intervento del fondo antispread. Dipenderà da come vanno le cose attorno al nostro Paese, dai pericoli di contagio, dagli atteggiamenti più o meno lungimiranti degli speculatori. E se lo chiederà sarà solo perché, per ora, ogni intervento va formalmente richiesto: ma la richiesta sarà nell’interesse di tutta l’eurozona e nel quadro della gestione di problemi «sistemici» che non sono causati dai nostri specifici squilibri. Per godere dell’«aiuto», inoltre, basterà continuare a rimanere nelle regole comunitarie. Questo è importante anche perché rivaluta la disciplina comunitaria che altrimenti sarebbe sminuita da speciali superdiscipline dettate da istituti intergovernativi quali il fondo europeo di stabilità dove, fra l’altro, rischia di prevalere la logica del Paese più forte o di quello che, per fare il furbo, scambia favori o commina punizioni agli altri in cambio o in vista di altre decisioni su terreni diversi.

L’insistenza del nostro governo sembra avere ottenuto un risultato importante: concordando annualmente con Bruxelles, come tutti i Paesi membri, un programma di politica economica adeguato a farci crescere in modo equilibrato ed efficiente e a contribuire alla convergenza e alla stabilità dell’Ue e attenendoci a tali programmi, avremo diritto anche a una speciale forma di solidarietà comunitaria, quella «del secondo tipo», come ha detto Monti nella conferenza stampa, quella garantita non a chi ha un aggravamento di problemi suoi ma a chi soffre temporaneamente di problemi del sistema dell’eurozona nel suo complesso. Fra gli altri Paesi che potrebbero approfittare presto di questo tipo di aiuto c’è la Francia che rischierebbe di entrare nel mirino speculativo proprio quando riconoscesse con più trasparenza i suoi squilibri e diventasse più evidentemente virtuosa nell’affrontarli.

Ieri è arrivata anche la diagnosi del Fmi: l’Italia è sul cammino virtuoso degli aggiustamenti e delle riforme: basta che il suo scenario politico interno sia in grado di mantenerla nella virtù anche dopo il governo «strano». Per come stiamo camminando, i rischi per noi provengono dal possibile contagio di un’eurozona che è lungi dall’avere tutto in ordine e manifesta ancora qualche incertezza su come affrontare il disordine. Un’incertezza che però gli ultimi vertici europei paiono veramente intenzionati a rimuovere.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10319
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« Risposta #57 inserito:: Agosto 11, 2012, 10:32:18 am »

11/8/2012

Cina, il collo di bottiglia della crescita

FRANCO BRUNI

In questa fase difficile per l’economia del mondo, è cruciale l’andamento della congiuntura in Cina. Ieri hanno preoccupato dati e stime che mostrano debolezza sia nelle esportazioni che nelle importazioni cinesi. Meno export è un brutto segno per l’Europa e gli Usa: è un riflesso della loro crisi, che li fa comprare meno, anche dai cinesi. Meno import ricorda il pericolo che il quadro globale si aggravi perché si inceppa il motore dei Paesi emergenti e, in particolare, dell’estremo oriente.

Le debolezze dei due opposti flussi commerciali cinesi ci ricordano quanta interdipendenza ci sia nell’economia mondiale e come sarebbe bene riprendere gli sforzi per governarla insieme. Dopo la crisi del 2008-2009 si era avviata una fase promettente di cooperazione globale, molta attività del G20 e di un tentativo di G3 informale, per rafforzare i rapporti fra Cina, Ue e Usa. Ma quella fase si è interrotta: le regioni e le nazioni si sono ripiegate su se stesse, chiuse in difesa. E’ cresciuto dappertutto il protezionismo, più o meno esplicito; la Cina lo ha subito e lo ha usato aggressivamente; il mondo, anche quello emergente, si è andato segmentando anziché integrarsi; invece di rafforzare la cooperazione nelle sedi multilaterali, come il Wto, si sono moltiplicati accordi bilaterali, che spesso ruotano attorno a relazioni politiche nocive allo sviluppo globale.

Non è questo il modo migliore per beneficiare delle straordinarie potenzialità dell’economia cinese, né per indurre la Cina a fare quel che deve per rendere la sua crescita più solida e sostenibile nel tempo. Va rilanciata la diplomazia economica globale, rinfrescandola con nuove idee. Sia gli Usa che la Cina designeranno i loro numeri uno in autunno: speriamo che i nuovi leader, insieme ad un’Ue più unita, rilancino subito il triangolo dello sviluppo globale.
D’altro canto, non c’è per ora alcuna chiara evidenza che la congiuntura cinese stia franando.

Sono quasi sette trimestri che il Pil rallenta, ma la crescita prevista per i prossimi due anni è ancora attorno all’8%. Le stime sull’import-export di luglio sono provvisorie e basta guardare giugno per trovarle molto migliori. L’aumento della produzione industriale comunicato ieri rimane prossimo al 10% annuo. I consumi delle famiglie crescono più del 13% e gli investimenti fissi più del 20%. C’è allarme perché il credito interno è cresciuto meno del previsto, ma in parte si tratta di un fenomeno voluto, per frenare bolle speculative immobiliari che, fra l’altro, la Cina sta mostrando di controllare abbastanza bene. La sua politica macroeconomica è attenta, ha lo sguardo lungo, precede i problemi, mira alla sostenibilità. Le autorità hanno ben presenti i problemi strutturali del Paese, compresa la formidabile corruzione e l’immane inquinamento.

L’eccesso di surplus commerciale con l’estero è stato corretto: l’avanzo corrente è sceso in quattro anni da più del 10% del Pil a meno del 3%. E’ così sbollita la polemica sulla sottovalutazione dello yuan con la quale, soprattutto da parte degli Usa, si sono create a lungo inutili tensioni diplomatiche e confusa la natura delle questioni da affrontare insieme.
Il vero problema macroeconomico cinese non è la congiuntura del Pil: fra l’altro le condizioni della finanza pubblica sono tali che Pechino potrebbe compensare in ogni momento crolli dell’attività nel resto del mondo con forti aumenti di spesa in disavanzo. Il problema cinese è invece la composizione del Pil: consiste nella necessità di accelerare molto i consumi interni, riducendo il risparmio e frenando l’eccessiva spesa in investimenti.

L’avanzo con l’estero si è ridotto soprattutto perché si sono ancor più accresciuti gli investimenti fissi, giunti a sfiorare la metà del Pil. Ciò ha beneficiato i Paesi specialisti nell’esportare beni d’investimento, come la Germania: si stima che il 10% in più di investimenti in Cina aumenti dell’1% il Pil tedesco. Ma troppi investimenti accumulano capitale e infrastrutture inutili e rendono più fragili le prospettive della crescita cinese.
Vanno invece aumentati i consumi, soprattutto di servizi, come i trasporti e le assicurazioni, ma anche di beni durevoli di qualità medio-bassa. Ciò cambierebbe la natura e la provenienza delle importazioni cinesi: un fenomeno da monitorare e gestire a livello globale. Sarebbe inizialmente un problema, ma potrebbe divenire un’opportunità, anche per l’Ue.

Per la Cina aumentare molto i consumi interni è anche un problema politico. Vuol dire aumentare i salari nei molti settori dove sono ancora troppo bassi, ridistribuire profondamente il reddito, rimediare a quello che è ormai un clamoroso eccesso di vari generi di diseguaglianza. Significa accrescere i consumi pubblici, soprattutto migliorando il welfare (pensioni, sanità, scuole), la cui scarsezza è una delle ragioni per cui le famiglie cinesi risparmiano tanto. Ma tutto ciò cambia delicati rapporti di potere fra centro e periferia, fra gruppi politici e burocratici, fra modernizzatori e innovatori. Basti pensare alle grandi imprese pubbliche dove hanno radici molti degli squilibri interni e, nello stesso tempo, forti poteri conservatori.

Ieri, assieme alle notizie congiunturali, c’è stata quella della lettera al comitato centrale del partito comunista dei 1600 dirigenti e intellettuali conservatori che chiede immediate dimissioni del premier. Probabilmente vuol dire che il premier sta operando attivamente per la modernizzazione della Cina e che ciò crea forti tensioni politiche. Potrebbero essere queste il vero collo di bottiglia della crescita cinese? E’ difficile rispondere, ma è naturale supporre che un forte aumento della cooperazione globale aiuterebbe i leader cinesi più capaci e pronti alla modernizzazione. Mentre un Occidente che con la Cina è fra il distratto, il sospettoso e il difensivo, aumenterebbe i problemi dello sviluppo economico e politico, sia cinese che mondiale.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10420
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« Risposta #58 inserito:: Agosto 18, 2012, 10:19:02 pm »

18/8/2012

Dai partiti un impegno sul rigore

FRANCO BRUNI

Dopo le brevi ferie d’agosto la politica vedrà da un lato lo sforzo del governo per avanzare nella sua agenda di riforme e di riequilibrio finanziario, dall’altro quello dei partiti per preparare le elezioni dell’anno prossimo. I due sforzi potrebbero risultare d’aiuto l’uno per l’altro o, all’opposto, potrebbero ostacolarsi, danneggiando il Paese, se il sostegno parlamentare all’azione di governo si indebolisse nel tentativo dei partiti di distinguere le loro posizioni a fini elettorali o, addirittura, di anticipare le elezioni. Almeno in materia di politica economica, questo tentativo risulterebbe goffo e poco credibile e l’elettorato lo punirebbe, aumentando i voti di protesta e le astensioni. La reputazione dei politici scenderebbe ancora, compromettendo il funzionamento delle istituzioni.

Come ha osservato Luca Ricolfi nel suo editoriale di Ferragosto, si può essere «diversamente montiani». Ma non sono diversità sufficienti ad alimentare una competizione elettorale credibile.

Proviamo a immaginare Bersani che si sbraccia per sostenere stimoli «keynesiani» alla domanda, contro Alfano che fa il paladino del liberismo e dello stato minimo, o una sinistra che vuol ridurre il debito pubblico «tassando i grandi patrimoni» e una destra che vuol farlo privatizzando le spiagge, l’Eni e tutto quanto. Ne uscirebbe una commedia di cattivo gusto, con proposte confuse, contraddittorie, prive di numeri a supporto e che la gente non capirebbe. E dopo aver collezionato brutte figure, tutti finirebbero per dire, con accenti retorici diversi e virulenti, che bisogna tornare a detassare la casa e ad aumentare le pensioni.

I diversi modi e le differenti possibili velocità con cui risanare i conti e fare le riforme sono modulazioni di un programma che non ha alternative: la mancanza di rigore, di controlli e disciplina normativa e finanziaria, il disordine indecente delle pubbliche amministrazioni, sono evidenti e chiedono provvedimenti facilmente condivisibili, da studiare con intelligenza tecnica e con la capacità politica di vincere le resistenze degli interessi particolari e battere la spregiudicatezza di chi cerca effimero consenso tornando a caricare il futuro di debiti. E’ vero: le ricette precise possono differire, ma scegliere quella giusta è una questione di equilibrio, buon senso, migliori informazioni sui numeri che quantificano i problemi e sullo stato delle cose, solidità del sostegno politico al programma di fondo. Non è una scelta che giustifichi litigi ideologici, scontri fra bandiere di partito.

Sicché la destra e la sinistra non hanno più significato in politica economica? Chissà: certamente non è questo il momento per esaltarne le differenze; e il momento non tornerà prima di alcuni anni, poiché la crisi è ancora grave, nel Paese e nel mondo. Il dramma di Taranto, dove occorre contemperare due valori che di solito sono presentati entrambi come «di sinistra», l’ecologia e l’occupazione, dovrebbe insegnare. E’ dunque il momento del «centro»? In effetti il rischio che sia destra che sinistra corrono, se competono faziosamente e perdono credibilità, è di alimentare, oltre ai populismi estremisti, le più improbabili interpretazioni del «centro». Non è questione di centro ma di convergenza verso il riconoscimento onesto dei problemi e lo sforzo comune per cercare di risolverli.

Nella convergenza ciascun partito potrebbe mantenere l’identità necessaria per sopravvivere nella chimica di un’alleanza, estraendo al momento opportuno le sue preferenze caratteristiche per fertilizzare il dibattito col quale il Parlamento sarebbe chiamato a contribuire ai dettagli dei provvedimenti. Ma dovrebbe emarginare quelli, fra i propri esponenti, che nascondono l’incompetenza, l’inconsistenza delle idee e la losca protezione delle clientele, dietro l’esibizione della loro capacità di litigare. E dovrebbe esser pronto a far blocco con i partiti alleati per affrontare le proteste delle potenti minoranze che sono inevitabilmente sfavorite dalle buone riforme.

Serve dunque un accordo ufficiale e trasparente sul continuare la strategia che questo governo ha avviato e concordato con l’Ue. Un impegno solenne, possibile anche se i partiti dell’attuale maggioranza non si presentano come «coalizione», come ciò è inteso dall’attuale legge elettorale, anche se non designano un candidato premier comune. Un impegno che sarebbe più credibile se unito alla capacità di accordarsi per una riforma elettorale.

Perché il programma generale possa diventare, nella prossima legislatura, un’agenda dettagliata, serve un’altra promessa: quella di affidarsi a un esecutivo fatto di persone che uniscano competenza e reputazione di indipendenza dalle faziosità che ci hanno travolto per anni. Un governo che può essere meno «strano» e più politico di quello attuale, ma al quale non deve mancare la capacità di «guidare» il Parlamento nel realizzare il programma, rimanendo a distanza di braccio dai partiti e imponendo loro la coerenza quando sono tentati dall’opportunismo. E’ ovvio che il profilo umano e professionale dei ministri è la chiave di questa leadership.

Un impegno del genere ridurrebbe il famoso «spread» e aumenterebbe la considerazione dell’Italia nello scenario internazionale. Ma la migliore novità sarebbe prender l’impegno anche indipendentemente dai desideri dell’Europa e dei mercati, per le ragioni tutte nazionali che il Paese va rimesso in ordine e i suoi politici vogliono recuperare la stima dei cittadini. L’elettorato deve sentire che chi si coalizza è convinto di quel che fa, della bontà del programma di base e dell’opportunità di affidarne la realizzazione a un governo autorevole e capace di tener distinte le responsabilità dell’esecutivo da quelle dei partiti e del Parlamento. E’ un passo avanti che l’Italia può fare nei prossimi mesi: il prossimo passo da fare, dopo quelli che ha saputo fare dallo scorso autunno.

franco.bruni@unibocconi.it

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« Risposta #59 inserito:: Settembre 08, 2012, 09:58:10 pm »

7/9/2012

Continuare sulla via del rigore

FRANCO BRUNI

La Bce ha mantenuto la promessa. Ha confermato il programma di acquisto di titoli dei Paesi con spread ingiustificati e ha precisato le modalità con cui procedere. Ha rinviato la palla ai governi e all’Ue, che devono attivare i meccanismi della «condizionalità»: infatti la Bce interverrà solo se i Paesi faranno richiesta di assistenza al fondo salva-Stati intergovernativo e si impegneranno a dar corso alle politiche da esso richieste.

Ieri Draghi ha cercato di essere convincente sulla questione delle «due gambe». Che è la seguente: le aspettative dei mercati, che esagerano gli spread e temono che l’euro si rompa, vanno domate dalla Bce, che fornisce una delle gambe necessarie. Senza la sua disponibilità a intervenire, i governi, per quanto virtuosi, non riescono a vincere le aspettative, che tendono ad auto-realizzarsi. Ma serve l’altra gamba: i governi che correggono le cattive politiche che hanno acceso le speculazioni; se si sono già disciplinati, assicurano che lo rimarranno; e le autorità europee controllano che la disciplina sia messa in pratica.

Senza la disciplina dei Paesi, la Bce non può curare durevolmente l’instabilità dell’area dell’euro. I suoi interventi saranno dunque «condizionati» al fatto che i governi chiedano assistenza e controllo.

Le colpe dei governi, passate o presenti, sono indiscutibili. Ma Draghi avrebbe potuto aggiungere che i guai dell’euroarea derivano anche dalle esitazioni con cui la cooperazione europea li ha affrontati. E’ mancato troppo a lungo, soprattutto da parte della Germania, il chiaro riconoscimento che la solidarietà finanziaria è indispensabile alla salute complessiva dell’economia e della finanza europee dove, a fronte di chi ha fatto troppi debiti, c’è chi ha accumulato troppi crediti e li ha investiti imprudentemente, incassando peraltro alti interessi sui titoli dei debitori. Le istituzioni europee sono state lente nell’organizzare il giusto misto di disciplina e solidarietà. Serve la terza gamba per sostenere il tavolo: la cooperazione europea nel suo insieme. Che in effetti sta prendendo nuova consistenza e ha finalmente programmi ambiziosi per accrescere l’unità economica e politica.

Draghi ha detto che ora la questione è «nelle mani dei governi». Per l’Italia ciò significa, fra l’altro, decidere se e quando chiedere l’aiuto dei fondi europei, sottoscrivere gli impegni necessari e con ciò permettere anche alla Bce di intervenire. Intendiamoci: l’Italia sta già seguendo un serio programmadiaggiustamentoediriformachehaformulato con convinzione, per essere più stabile e tornare a crescere. Se non darà l’impressione di voler tornare indietro e svincolarsi da una disciplina che, per quanto concordata con l’Europa, è in primo luogo nel suo interesse nazionale, non è escluso possa fare a meno di chiedere aiuto. Anche perché i mercati potrebbero accontentarsi del fatto che la Bce è ora pronta a intervenire, e noi siamo sulla strada dell’aggiustamento e delle riforme: lo spread potrebbe ridimensionarsi durevolmente da solo, senza bisogno di nuovi impegni, controlli e interventi.

Ma ciò non avverrebbe se la mancata coerenza delle nostre politiche e delle promesse elettorali tornasse ad alimentare il rischio-Italia. Oppure se fossimo colpiti più gravemente dal contagio dei guai di altri Paesi. O se si indebolisse la «terza gamba», il cammino verso una più profonda unione comunitaria: il che succederebbe, per esempio, se in Germania, anch’essa con elezioni in avvicinamento, prevalessero i nemici dell’integrazione e della solidarietà. Attorno alla Bundesbank si respira un’aria che sarebbe preoccupante se non fosse ai limiti dell’assurdo.

Perciò potremmo «non farcela da soli». Conviene preparare un modo giusto per chiedere l’assistenza europea. A far ciò ci aiuta una cosa che ha detto Draghi: la Bce interverrà anche a favore dei Paesi che chiederanno il cosiddetto «aiuto precauzionale». Il che significa non dichiarare una situazione fuori controllo ma ammettere precauzionalmente che, anche senza propria colpa, la situazione potrebbe peggiorare e si chiede solo, con i debiti impegni a comportarsi bene, di star pronti ad aiutarci. Qualche difficoltà verrebbe invece dal fatto che, come è stato precisato ieri, nel definireecontrollareladisciplinadeidebitori, potrebbe essere coinvolto il Fmi. A torto o a ragione ciò rischierebbe di aggiungere al quadro un tono di più invadente imposizione dall’estero che aumenterebbe il costo politico della nostra richiesta di aiuto.

In ogni caso non mi sembra possano esservi dubbi su come dobbiamo cominciare. E’ stato già detto e ripetuto da più parti: le forze politiche che appoggiano il governo devono impegnarsi solennemente a non abbandonare, anche dopo le elezioni, i programmi di aggiustamento e riforma che il governo ha disegnato e concordato con l’Ue. Lo scrivano nero (ma chiaro) su bianco. La propaganda elettorale sia con ciò coerente.

Legarsi le mani così, per non tornare a farci del male, è un’iniziativa nazionale. Nel caso chiedessimo l’aiuto dei fondi europei e della Bce, sarebbe facile tradurre il testo dell’impegno in un accordo con gli organi europei. I quali finirebbero per far poco più che recepire e approvare le intenzioni che manifestiamo nel nostro interesse. Anche i mercati applaudirebbero subito. Senza un impegno del genere, invece, la richiesta di aiuto sarebbe più traumatica e gli interventi di Draghi meno efficaci. E’ inutile perder tempo a discutere se chiedere o meno aiuto all’esterno se prima non troviamo modo di prendere un impegno serio al nostro interno.

franco.bruni@unibocconi.it

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