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Autore Discussione: FRANCO BRUNI  (Letto 36140 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Ottobre 21, 2009, 09:30:21 am »

21/10/2009

Una nuova cultura della mobilità
   
FRANCO BRUNI


L’affermazione che «il posto fisso è meglio della mobilità», fatta da Tremonti e ripresa dal capo del governo, ha una valenza politica e può avere un significato economico. Ma è soprattutto un messaggio culturale. Che evoca, con vaghezza ma qualche efficacia, dei «valori», come hanno detto sia il ministro che il presidente.

Per analizzarne il profilo politico occorrerebbe decifrare il politichese ed entrare nel tafferuglio trasversale in corso nel governo, fra la maggioranza e l’opposizione, all’interno di entrambe e del mondo sindacale. Per discuterne il significato economico occorrerebbe sapere quale preciso contenuto programmatico la frase vuole avere. E’ dunque più facile prenderla come provocazione culturale. Alle voci che stanno scegliendo questa strada, compresa quella giustamente contrariata e forse un poco sorpresa di Emma Marcegaglia, vorrei aggiungere due considerazioni.

La prima è che il mondo cambia, rapidamente e inesorabilmente. Reagire senza flessibilità è una difesa dell’esistente effimera, fallimentare e dannosa. Questo vale per i processi produttivi, le idee, i costumi, la distribuzione e l’equilibrio del potere globale, regionale, nazionale, aziendale e familiare. La crisi in corso, come le grandi crisi economiche del passato, deriva da cambiamenti di fondo, come l’entrata di intere nuove popolazioni nei mercati della produzione e del consumo, ai quali è difficile far fronte. La difficoltà consiste nel costo di adattarci costruttivamente a quei cambiamenti. Penso che, dal punto di vista culturale, il messaggio da dare alla gente in difficoltà, ai giovani che stanno cercando un orientamento, sia l’opposto di quello che viene evocato dall’inno al «posto fisso». Bisogna piuttosto incoraggiarli a cercare, individualmente e collettivamente, nuove forme di organizzazione del lavoro, della vita e delle idee. Qualunque irrigidimento è fonte di attrito improduttivo con le inevitabili novità, qualunque fissità diventa arretramento. A meno che l’obiettivo sia quello di approfittare delle paure che circolano per spargere speranze e illusioni che durano il breve periodo di un ciclo elettorale.

Il secondo punto, sempre considerando l’idea del «posto fisso» come simbolico, astratto ma importante messaggio culturale, è che a quest’idea è quasi inevitabile associare un risvolto di esclusione degli outsider, di quelli che il posto non lo hanno, soprattutto i giovani, soprattutto chi è in qualche modo «nuovo», nelle idee e nelle capacità. Può essere una persona, un’impresa o un altro genere di organizzazione, che vuole competere con la fissità dell’esistente, sfidando chi ha già «un posto», nel lavoro, nella società, nel mondo, a misurarne la validità con la novità che emerge. Se a chi è giovane e nuovo non si offre una «società aperta», mobile e flessibile, si blocca il progresso, cade la mobilità verticale dei redditi e delle responsabilità, cadono le speranze. Rimane l’arroccamento degli insider, dei «posti fissi», delle imprese antiche, dei salotti buoni, dei paesi vecchi, delle idee sorpassate, che man mano si rivela un assedio perdente e un cammino verso la povertà, economica e culturale. E’ uno scenario reazionario che dovremmo evitare venga evocato dalla crisi, col suo fardello di insicurezze.

La risposta culturale da dare alle insicurezze della crisi e, più in generale, agli choc da cambiamento che spesso percuotono il mondo, è quella che una società aperta, ben regolata e governata in modo progressivo e lungimirante può «gestire il cambiamento», offrendo a chi deve cambiare l’assistenza necessaria per farlo nel modo migliore, organizzando canali di mobilità dove la gente non si perde ma trova i punti di riferimento per un nuovo cammino. E’ un’assistenza costosa e occorre tassarci per procurare le risorse necessarie: risorse non solo economiche e politiche ma anche culturali, risorse di attenzione al futuro e non di nostalgia del passato.

La politica economica offre esempi importanti e attuali di questo atteggiamento. Che a tratti appare l’atteggiamento di alcuni membri di questo stesso governo, quando pensa a forme nuove per assistere la disoccupazione, a favorire la mobilità con contratti di lavoro più flessibili e decentrati, a riformare gli incentivi alle imprese, a responsabilizzare maggiormente la gestione del pubblico impiego, a rinnovare la scuola e rendere più flessibile, perché più decentrata, la finanza pubblica.

Gioverebbe alla credibilità di tutto questo avvolgerlo, con qualche entusiasmo, in un messaggio culturale di fondo che sia il contrario di un disdegno della mobilità. Anche perché, al di là dell’importanza e della concretezza dell’economia, la società aperta, progressiva, innovativa, mobile, solidale ma selettiva, è veramente un fatto di cultura, di espressioni verbali appropriate attorno alle quali raccogliere gli sforzi della politica e dell’economia.

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« Risposta #16 inserito:: Novembre 27, 2009, 11:49:37 am »

27/11/2009

Se nascono nuove bolle
   
FRANCO BRUNI


Le difficoltà finanziarie di Dubai rischiano di configurare un caso di grave insolvenza. Le ripercussioni internazionali possono mettere a tacere le fragili prospettive di ripresa sulle quali si esercita da qualche tempo l’ottimismo di non pochi operatori e politici. Oltre all’impatto diretto sulle banche creditrici, molte delle quali europee, il pericolo può diramarsi al sistema finanziario globale e a settori più o meno direttamente collegati all’economia degli emirati e al mondo immobiliare. Le Borse e i premi di assicurazione sui titoli di debito, compresi quelli «sovrani», cioè garantiti dai governi, hanno subito registrato la gravità del problema.

Il quale però non si limita alla potenziale diffusione del danno causato dal caso specifico di Dubai e dei suoi progetti in difficoltà. E’ vero che si tratta di un caso per molti versi particolare e davvero costruito sulla sabbia. Ma, per quanto gravi siano i suoi riflessi, limitandosi a guardarlo in sé e per sé si sottovaluta il significato di quanto sta succedendo. Lo scenario diventa più buio se il fatto di Dubai viene interpretato come un sintomo del permanere di squilibri e distorsioni nei mercati monetari e finanziari del mondo le cui malattie, emerse con la crisi cominciata nel 2007, sono ancor lungi dalla guarigione.
Purtroppo viene in mente che, per molti mesi, anche le gravi disavventure del mercato dei prestiti sub-prime americani sono state considerate un «caso particolare».

Un grave incidente con possibili conseguenze diffuse ma pur sempre un incidente specifico a quell’angolo del sistema economico-finanziario globale. E’ occorso molto tempo per capire che si trattava invece del sintomo di un vastissimo malessere radicato nell’eccesso di indebitamento dei più svariati tipi di operatori economici privati e pubblici, collocati un po’ dovunque nel mondo. Un incauto indebitamento incentivato da anni di politiche economiche imprudenti, soprattutto quelle monetarie, di carenze nelle regole dei mercati finanziari e nelle vigilanze delle autorità nazionali e internazionali. Il mondo non è stato contagiato da un virus fabbricato dagli ingegneri dei sub-prime: il mondo era già globalmente infetto e la crisi dei sub-prime era un sintomo.

Anche Dubai rischia di rendere più evidente quello che prima dicevamo in pochi ma negli ultimi tempi vanno dicendo in molti: che la crisi finanziaria iniziata nel 2007 è stata curata male e lentamente. Si è fatto troppo conto sulle iniezioni di liquidità e sui tassi di interesse superbassi. Gli intermediari e i mercati finanziari ne hanno approfittato per tornare a cercar rischi speculativi alimentati con fondi a basso costo. A questo atteggiamento, che ha gonfiato bolle di vario genere e spiega in parte notevole la ripresa dei corsi azionari e obbligazionari di questi ultimi mesi, va ricondotta anche la mancata cautela nei confronti dei pasticci di Dubai e delle autorità preposte a quella regione. Le iniezioni di liquidità e di debito pubblico e i tassi bassi dovevano servire a «comprare tempo» per fare le riforme delle regole e dei controlli finanziari, ristrutturare e ricapitalizzare banche e imprese, accelerare la centralizzazione regionale e mondiale della vigilanza finanziaria, rimettere le politiche macroeconomiche e l’economia mondiale su un sentiero di crescita più sostenibile. Sono passati due anni e mezzo dall’inizio della crisi e c’è un diffuso parlare di ripresa. Ma il processo di riforma, anche se ben abbozzato sul piano tecnico, stenta a trovare la forza politica e la cooperazione necessaria per venir messo in atto. Tutto è troppo lento, sta sparendo il senso dell’urgenza, il tempo comprato con la droga della liquidità a buon mercato e l’ingigantirsi dei deficit pubblici non viene usato con la dovuta intensità. Come ha osservato due settimane fa il presidente del Financial Stability Board, Mario Draghi, «il miglioramento della situazione accresce la forza dei gruppi di interesse che sono contrari a qualunque riforma sostanziale».

Bisognerebbe sperare che il guaio di Dubai rinfocoli la consapevolezza dell’urgenza di riforme, di nuove regole, di vertici internazionali più concreti nelle loro deliberazioni, di politiche economiche meno legate all’effimero miglioramento degli indici congiunturali. Ma ci sono due rischi. Il primo è che quel guaio ne faccia emergere altri, fabbricati in questo periodo di «ripresa» o residuati tossici rimasti nascosti dai tempi prima della crisi. Il secondo è che ci si limiti a reagire comprando ancora tempo con nuovi salvataggi, nuovi debiti, altra liquidità, tassi vicini allo zero per chissà quanto: che Dubai venga presentato come un incidente specifico in una piazza d’affari screditata, del quale occuparsi mettendo toppe a un sistema che non si fa toccare nella sostanza delle sue regole e dei suoi assetti di potere.

franco.bruni@unibocconi.it

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« Risposta #17 inserito:: Gennaio 26, 2010, 09:53:16 am »

26/1/2010

Il caso Grecia le colpe dell'Ue
   
FRANCO BRUNI

I problemi macroeconomici della Grecia preoccupano le autorità europee. La misura insostenibile del disavanzo e del debito pubblico, il grave deficit della bilancia dei pagamenti, la scarsa produttività e la cattiva organizzazione del settore pubblico, l’evoluzione scorretta della struttura dei salari, e molto altro ancora, aumentano la sfiducia nei confronti di un Paese che è arrivato al punto di fornire a Bruxelles, ripetutamente, dati falsi sulla propria economia. Il fatto che la Grecia sia parte dell’area dell’euro riduce la credibilità della moneta europea e delle autorità che le hanno consentito di farne parte e sono state poi incapaci di disciplinarne i comportamenti.

Occorre però distinguere due questioni. Da un lato c’è il pericolo di un’insolvenza della Grecia, divenuta incapace di ripagare i propri debiti, anche quelli dello Stato. Pericolo che può apparire moltiplicato dalla possibilità che l’insolvenza greca contagi la credibilità dei titoli di Paesi europei che hanno elementi di debolezza analoghi, anche se meno accentuati, come la stessa Italia. Su questa questione occorre evitare esagerazioni: la Grecia è una piccola economia, meno di un quinto dell’Italia, vi sono diversi modi di aiutarla a superare il momento acuto delle sue difficoltà, il suo caso è ora ben presente alla Commissione e le pressioni per la sua correzione sono molto forti. Di fatto il collocamento dell’emissione del governo di Atene ha registrato ieri un successo, anche se pagato con tassi alti e favorito dalla sovrabbondanza di liquidità internazionale, che dimostra fiducia nel rientro dell’emergenza, assistito dall’Europa. Quanto al rischio di contagio, esso è piccolo: a parte fasi temporanee di panico, i mercati finanziari sono in grado di distinguere la diversa qualità e quantità dei problemi dei vari Paesi.

Il vero problema è un altro: il caso greco è grave perché è un esempio concreto di come l’attuale organizzazione dell’Ue permetta che si perda, per un tempo piuttosto lungo, il controllo dell’economia di un Paese membro, consentendogli comportamenti fortemente divergenti dalle norme e dalle medie comunitarie, nonostante la moneta unica e l’azione di coordinamento macroeconomico svolta dalla Commissione e dal Consiglio. La vicenda greca è una prova di gravi lacune nel governo economico europeo che è stato debole, distratto e diviso, non abbastanza sovra-nazionale. Senza una conduzione centrale più autorevole e ambiziosa le politiche economiche dei diversi Paesi, lasciate a se stesse, consentono divergenze profonde fra i diversi Stati membri e le diverse regioni dell’Unione, nonché disordine e inefficienza dell’economia comunitaria, proprio in una fase in cui la crisi e la concorrenza globali richiedono comportamenti più virtuosi.

La consapevolezza di ciò emerge sempre più chiaramente a Bruxelles come a Francoforte. Si tratta di rafforzare drasticamente la disciplina e il coordinamento delle politiche economiche comunitarie nel loro insieme. Ciò risulta tanto più evidente quando si cerca di far funzionare sul serio il Patto di Stabilità e Crescita col quale si controllano comunitariamente i disavanzi e i debiti pubblici. Il Patto esiste da quando c’è l’euro ed è stato concepito proprio nella convinzione che la moneta unica non può sopravvivere se i debiti pubblici non vengono governati concordemente. La Grecia non è certo sola ad avere problemi col Patto: quasi tutti i Paesi membri sono oggi compresi nella cosiddetta «procedura di deficit eccessivo». Lo sforzo collettivo per riequilibrare e rendere sostenibili le finanze pubbliche europee è straordinario.

Ma perché questo sforzo abbia successo non può coinvolgere solo le decisioni sui saldi di bilancio. Gli andamenti della spesa pubblica e della tassazione riflettono il funzionamento d’insieme di un’economia e la qualità complessiva delle sue politiche economiche. Per esempio: un’economia dove il mercato del lavoro è male organizzato, non ci sono i giusti incentivi ad accrescere la produttività, nel pubblico e nel privato, non c’è adeguata concorrenza fra i gruppi industriali e finanziari, sarà un’economia senza competitività internazionale che vedrà fatalmente crescere sia il suo disavanzo con l’estero che il debito pubblico, la cui crescita tenta di nascondere temporaneamente le debolezze del meccanismo di crescita del Paese.

Perciò il bilancio pubblico non si sistema durevolmente votando una legge finanziaria che fissa un numero limite per il disavanzo: si può sistemarlo solo facendo riforme strutturali profonde che migliorino il funzionamento della pubblica amministrazione, del mercato del lavoro e del sistema finanziario e rilancino la produttività e la competitività globale del Paese. E se l’Europa vuole coordinare la sistemazione dei suoi disavanzi deve permettersi l’ambizione di coordinare il disegno e la realizzazione delle riforme strutturali. L’autonomia delle politiche economiche nazionali deve ridursi, gli indirizzi e i controlli comunitari rafforzarsi. Altrimenti, insieme alla disciplina finanziaria, si compromette il mercato unico e la solidità dell’euro. Sarebbe un guaio, molto costoso anche per quei Paesi che frenano l’accentramento delle politiche perché restii a rinunciare alla loro autonomia e convinti di non aver bisogno di «disciplina esterna».

da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Marzo 24, 2010, 11:23:28 am »

24/3/2010

Economia banco di prova della politica
   
FRANCO BRUNI

La sensazione che le indecenti baruffe connesse alle prossime elezioni amministrative distraggano dai problemi concreti dei quali la campagna elettorale avrebbe dovuto occuparsi è molto diffusa. Altrettanto diffusa è la convinzione che lo scontro politico nazionale che sta sullo sfondo sia pura lotta di potere per il potere, con un contenuto programmatico vago, a tratti surreale, gridato in modo scomposto, senza agganci a progetti alternativi per il governo del Paese. L’impressione è di un palcoscenico dove si azzuffano con colpi bassi e frasi a effetto eserciti di politici di ogni livello, troppo numerosi, poco competenti, convinti di poter continuare a prelevare la gravosa imposta con cui si mantengono, un’imposta troppo nobilmente chiamata «costo della politica», che sottrae risorse alle attività civili e produttive dei cittadini.

Astenersi dal voto, per manifestare queste sensazioni, è probabilmente sbagliato. Ma la «antipolitica» sta acquistando una sorta di nuova legittimità, che la pone un poco al di sopra del puro qualunquismo. Se anche non fosse la bassa partecipazione alle urne a imporne l’attenta considerazione, l’esperienza di queste elezioni è un’occasione, che le sfilacciate leadership della maggioranza e dell’opposizione non possono sprecare, per cambiar marcia, in vista dell’ormai famoso periodo di tre anni senza votazioni.

Il problema è generale, riguarda l’insieme della politica e la tenuta delle istituzioni. E non è credibile chi propone di risolverlo riformando le istituzioni senza mostrare sufficiente rispetto per quelle esistenti.

Si permetta però a un economista di osservare che la questione è particolarmente grave nell’ambito più delimitato della politica economica. Chi di noi se ne occupa, da mesi è confinato a riflettere e parlare di crisi finanziaria internazionale, di Grecia e di euro, di politiche e di riforme dell’Unione europea e di sanità statunitense, di bilancia dei pagamenti cinese e di mercato mondiale dell’energia. Il tema della politica economica italiana è talmente evanescente da impedire circostanziati contributi all’analisi e proposte costruttive. Il ministro Tremonti si è giustamente messo di traverso a tentativi più o meno espliciti di aumentare il disavanzo e il debito della finanza pubblica. Ma ciò ha finito per soffocare il dibattito sulla ricomposizione delle entrate e delle uscite del bilancio. I provvedimenti adottati sono minimali, poco trasparenti, sminuzzati in leggi e decreti omnibus e milleproroghe, sospetti di distribuire sussidi e aiuti di poco conto a chi cavalca meglio il turbinio delle lobby. Le proposte dell’opposizione non sono state precise e non appaiono affatto sfidanti. Su ciò si stende, da una parte, un ingiustificato ottimismo sulle condizioni relativamente migliori con cui il nostro Paese attraverserebbe la crisi internazionale e, dall’altra parte, un disordinato grido di dolore circa le ovvie condizioni di difficoltà del Paese e, in particolare, delle sue componenti più deboli.

Ma torniamo alle elezioni. La confusione del momento sembra aver partorito, a tratti, promesse di maggior concretezza appena passata la baraonda. Per fare solo un esempio, che potrebbe essere importante, si è persino parlato di una profonda riforma fiscale che arrivi ad articolarsi coerentemente con la realizzazione del federalismo. Accenni in questo senso del governo paiono aver addirittura ricevuto una curiosa attenzione di parte dell’opposizione. E c’è forse qualcosa che bolle in pentola anche in altre materie, dal mercato del lavoro, al Welfare, all’istruzione e alla ricerca. È evidente che si possono fare politiche ambiziosissime e preziose senza compromettere l’equilibrio del bilancio. Ed è evidente che c’è una domanda esasperata di indicazione delle priorità, di dibattito sulle priorità, di ristrutturazione delle entrate e delle uscite, di scelte che concentrino provvedimenti e spese in quantità significative là dove più occorrono, sopportando i costi politici di sacrificare il resto. Non è questo il luogo per entrare nel merito di tutto ciò. È solo il caso di insistere perché, nel dopo elezioni, si approfitti del fatto che la politica economica ha una sua speciale concretezza, che si può tradurre in statistiche, numeri, tabelle di piano e di previsione da discutere con trasparenza nel governo, nel Parlamento, nel Paese, sui giornali. Sarà la distorsione mentale di chi si occupa di economia: ma perché non sperare che sia proprio mettendo la politica economica in prima linea che governo e opposizione potrebbero recuperare rapidamente un poco di credibilità, da spendere poi in tutti gli altri campi della vita civile e istituzionale che richiedono l’azione di indirizzo e di riforma di una politica che si faccia rispettare?

da lastampa.it
« Ultima modifica: Maggio 11, 2010, 02:05:51 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #19 inserito:: Aprile 29, 2010, 10:43:06 am »

29/4/2010

Cosa serve davvero ad Atene

FRANCO BRUNI


L’evoluzione del problema del debito greco è grave e complicata. Molti danno la colpa alla Germania che ha impedito una decisione tempestiva e chiara sul sostegno dei governi dell’area dell’euro. Lo ha fatto per opportunismo elettorale. Le pressioni degli altri Paesi europei, della Bce e del Fmi la stanno convincendo a cambiare atteggiamento. Ma non è solo colpa della Germania. Ci sono alcune questioni che vengono trascurate nel dibattito internazionale.

Intanto c’è la violenza, la concentrazione in tre anni del piano di aggiustamento delle politiche economiche richiesto alla Grecia e al rispetto del quale è legata la disponibilità del sostegno finanziario internazionale. Per quanto formulato con un eccellente lavoro di dettaglio della Commissione, del Fmi e del governo greco, è difficile credere che si tratti di un piano realistico e fattibile, politicamente ed economicamente.

Il che ha portato Atene a esitare prima di ammettere di non poter fare a meno degli aiuti e porta i mercati a dubitare che la Grecia sia in grado davvero di mantenere la fiducia di chi la deve aiutare. Le misure che la Grecia dovrebbe adottare sono recessive e rischiano di peggiorare la situazione politico-sociale del Paese, riducendo la sua disponibilità a disciplinarsi e ostacolando lo stesso aggiustamento del disavanzo pubblico. Occorrerebbe mirare a un risultato più graduale ma più sicuro: dare alla Grecia più tempo per correggere i suoi squilibri e, in cambio, essere più certi di controllarne le decisioni.

Nel frattempo si potrebbe riformare il Patto di Stabilità europeo dal quale dipende la disciplina della finanza pubblica di molti altri Paesi. Il Patto deve diventare più severo, più invasivo delle autonomie nazionali, più attento all’insieme delle politiche economiche e quindi agli squilibri che vanno oltre quello della finanza pubblica. Ma deve chiedere aggiustamenti graduali e credibili. Con un Patto più efficace, mentre si aggiusta la Grecia, i mercati guarderebbero con meno preoccupazione al Portogallo, alla Spagna, ma anche all’Italia e a tutti gli altri Paesi che sono comunque oggi ufficialmente in condizioni di «disavanzo eccessivo». Facciamo un esempio inconsueto, la Francia: secondo gli ultimi documenti del Patto di Stabilità il deficit pubblico francese, che è stato l’8,3% del Pil nel 2009 ed è previsto all’8,2% nel 2010, dovrebbe tornare sotto il 3% nel 2013. Siamo sicuri che la Francia possa e, soprattutto, voglia farlo? O stiamo sfogando la nostra severità con la Grecia mentre continuiamo a prenderci in giro con un Patto che non funziona e nell’ambito del quale non si è riusciti nemmeno a controllare la veridicità dei conti che la Grecia ha comunicato negli ultimi anni?

Un’altra ragione di aggravamento del problema greco è che non c’è un piano per far pagare una parte del guaio ai creditori esteri della Grecia che hanno, anche recentemente, comprato i suoi titoli a tassi elevati contando sul suo salvataggio. Servirebbe più trasparenza, in particolare, sulla posizione di alcune delle banche e degli altri investitori internazionali, soprattutto europei e soprattutto tedeschi, che sono esposti in misura notevole con la Grecia.

Attraverso di loro un’insolvenza greca diffonderebbe e aggraverebbe i suoi danni al sistema internazionale. I crediti di questi operatori andrebbero comprati con forte sconto da un «fondo» dove i governi europei concentrerebbero i loro finanziamenti a supporto della Grecia. Anche attraverso questo fondo le autorità comunitarie diverrebbero contropartita dei greci nel monitorarne il ritorno alla solvibilità. Sarebbe come cancellare una parte del debito greco portandola subito a deduzione, limitata ma certa, dei crediti di chi ha assunto rischi speculativi. Aver voluto salvare a tutti i costi i creditori imprudenti è una delle ragioni che, fin dai «subprime» americani del 2007, ha aggravato la crisi finanziaria globale.

Se non c’è una rapida svolta nella gestione del caso greco, l’Italia non è fra i primi candidati al contagio. Il nostro debito pubblico è molto alto ma il suo aumento è relativamente sotto controllo e può ancora contare su un abbondante risparmio privato. Inoltre non c’è notizia di importanti intermediari italiani molto esposti con la Grecia. Dobbiamo però mantenere la nostra situazione politica in grado di gestire, in condizioni internazionali difficilissime, un programma pluriennale che, oltre a riequilibrare credibilmente la finanza pubblica, rilanci la competitività e la crescita del Paese. Inoltre, per quanto può contare la nostra proposta e la nostra diplomazia, ci conviene impegnarci molto nel favorire una gestione comunitaria corretta e decisa del problema greco, insieme a una coraggiosa riforma del Patto di Stabilità.

franco.bruni@unibocconi.it

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« Risposta #20 inserito:: Maggio 17, 2010, 06:50:46 pm »

17/5/2010

Troppa enfasi sull'euro in difficoltà

FRANCO BRUNI

La settimana si apre con l'euro debole. Contro il dollaro, a parte il confuso periodo dopo il fallimento di Lehman, non è mai stato così basso dall'aprile del 2006. L'enfasi sulla crisi del cambio europeo è però esagerata: quand’era solo un poco più forte, si diceva fosse sopravvalutato. Misurato in dollari, il prezzo dell’euro è del 6% più alto del suo valor medio da quando esiste.

Ed è meno dell'8% più basso di un anno fa e della media degli ultimi 5 anni. Non è dunque il caso di drammatizzare dimenticando, fra l'altro, che c'è una crisi del valore delle monete nel loro complesso: nell'ultimo anno il valore del dollaro in oro è sceso del 25%.

Un ripiegamento temporaneo del cambio dell'euro è naturale. I provvedimenti a sostegno dei debiti pubblici di alcuni Paesi hanno allungato il periodo durante il quale i tassi di interesse della Bce sono attesi rimanere molto bassi, rendendo l’euro meno attraente. Inoltre, se verranno effettivamente varati tagli di bilancio in diversi Paesi, il cambio un poco più basso può avere qualche utilità per l'insieme dell'area dell'euro, aiutando la competitività di breve e facilitando la sostituzione della diminuita domanda pubblica con maggiori esportazioni nette.

Ci sono poi strani sussurri: che l'euro è debole perché potrebbe disfarsi. Ricomparirebbero le monete più deboli che lo hanno costituito, ma potrebbe anche sdegnosamente risuscitare il marco tedesco. Si tratta di scenari la cui plausibilità tecnica e politica è di gran lunga sopravvalutata da chi ne parla, di solito senza sufficiente competenza. Ma quel che più importa è tener presente che da evoluzioni del genere non ci sarebbe da guadagnare proprio per nessuno. Tutti i Paesi dell'area dell'euro e, in prospettiva, tutti i Paesi dell'Ue, hanno interesse a integrare sempre più le loro produzioni, i loro commerci e le loro finanze: è l'unico e naturalissimo modo con cui possono sfidare la concorrenza globale. Sostituire l'euro con monete che tornano a svalutarsi e rivalutarsi darebbe forse qualche effimero vantaggio, per pochissimo tempo, alla competitività di Paesi deboli e all'immunità di qualche Paese forte dal contagio di problemi internazionali di illiquidità e insolvenza. Ma tutto finirebbe presto in grande disordine, stile Anni 70: aumento dell'indisciplina monetaria, cambi in altalena violenta, inflazioni alte e diverse, taglio dei salari reali, contrazione dei flussi commerciali, disincentivo a migliorare le produzioni, speculazioni più destabilizzanti di oggi, reintroduzione di divieti ai movimenti internazionali di capitali. All'ombra di quei divieti i grandi debitori, soprattutto i governi, sarebbero facilitati a succhiare il risparmio dei creditori, soprattutto delle famiglie. Se l'area dell'euro, da quando esiste, è cresciuta meno di come avrebbe potuto, non è certo colpa dell'euro, ma della mancanza di flessibilità dei cambi delle monete nazionali.

Per quanto riguarda il rapporto col dollaro, gli Usa hanno il vantaggio di un governo unico dietro il loro debito pubblico e la loro moneta e possono più liberamente stampare tanti dollari per rimborsare i titoli di Stato in scadenza, anche perché il mondo pare ancora accettarli come moneta di riserva e come lo strumento di pagamento internazionale di gran lunga più utilizzato. Ma le prospettive della loro finanza pubblica sono peggiori di quelle medie dell'area dell'euro. La quale non ha squilibri di rilievo nei pagamenti col resto del mondo, mentre in Usa il commercio estero ha da più di due decenni un grande deficit strutturale e le produzioni non si sono ancora riorganizzate per ridurlo entro limiti sostenibili. Lo stimolo monetario e fiscale non accenna a diminuire e sta tornando a far crescere l'economia americana in modo artificioso. Dopo il crollo nella prima parte dell'anno scorso, le importazioni Usa sono aumentate al tasso annuo di quasi il 25%, molto più svelto delle esportazioni. E' difficile dimostrare che il dollaro non è sopravvalutato, almeno rispetto alla media delle altre monete del mondo.

Dalla scorsa settimana l'Europa ha dato netti segni di voler affrontare la crisi con un piglio nuovo e aumentare molto il coordinamento delle sue politiche economiche e della sua finanza. Ha varato il progetto di un grande fondo comune per sostenere la finanza pubblica dei Paesi più indebitati e meno competitivi, ha ottenuto l'impegno di questi ad accelerare i tagli e le riforme, ha preparato un piano per il rilancio del mercato unico, ha impostato una riforma radicale del Patto di Stabilità e Crescita, ha accelerato la discussione sulle riforme della regolamentazione e la vigilanza finanziaria. L'obiettivo è di concretizzare molti di questi cambiamenti prima della fine dell'anno. Nel frattempo la Bce sostiene la liquidità dei mercati cercando di evitare accelerazioni inflazionistiche della quantità di moneta. Nonostante lo stile scomposto di alcuni leader politici e finanziari, è difficile immaginare una ripresa più netta della coesione economica e politica europea. E' una ripresa che arriva tardi e per ora è più un'intenzione che una realizzazione. Occorre dimostrare subito che si fa sul serio, sia ai tavoli di Bruxelles sia nei governi e nei Parlamenti nazionali. L'agenda delle autorità europee è piena di urgenze, fitta e ambiziosa: merita di essere seguita, anche dal mercato dei cambi, con attenzione critica ma, per ora, con fiducia.

franco.bruni@unibocconi.it

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« Risposta #21 inserito:: Giugno 01, 2010, 11:39:35 am »

1/6/2010

Mobilitazione per le riforme

FRANCO BRUNI

Il brusco taglio dei deficit pubblici è inevitabile, perché «le nuove condizioni di mercato», come le ha delicatamente chiamate Draghi, non consentono di lasciar crescere i debiti. Ma il Governatore ricorda «che questa crisi è soprattutto una crisi di competitività». Scarseggia la competitività reale della macchina produttiva europea, che stenta più di altre a riprendere a crescere. Mancano di efficienza i mercati e i governi dell'area dell'euro.

Crisi siffatte si superano solo nel medio-lungo periodo, con le famose riforme strutturali. Che cosa sono? Sono riorganizzazioni dei sistemi economici, sia nel comparto pubblico che in quello privato. Sono modi per assumerne un controllo più informato e autorevole, da parte dei governi nazionali e di un più forte «governo economico dell'Europa». Si tratta di usare più produttivamente le risorse di capitale, lavoro e tecnologia, spostandole e reindirizzandole, misurandone meglio il rendimento. Fare riforme strutturali significa anche far diventare più efficaci gli incentivi, i premi e le punizioni della classe dirigente, la verifica dei suoi risultati.

Quelle imprese italiane che hanno saputo riformare a fondo la propria struttura, prima della crisi, ha sottolineato Draghi, prevedono di uscirne prima e meglio. Come loro deve fare l'intero sistema economico italiano e, con una regia sempre più unitaria, quello europeo. Gli esempi di riforme necessarie sono innumerevoli e partono dal riassetto dei servizi pubblici, soprattutto scuola, giustizia, sanità e politica della ricerca; nonché dalla riorganizzazione dei mercati dei capitali e del lavoro, dei sistemi pensionistici e del prelievo fiscale. Il federalismo fiscale non deve essere fine a se stesso ma un modo per aumentare la disciplina della finanza pubblica e la sua azione di stimolo alle riforme strutturali.

L'Europa ha una funzione cruciale. Non deve disciplinare solo i conti pubblici degli Stati membri ma entrare, con severità invasiva, nei progetti di sviluppo di lungo periodo dei governi. Fra le nuove ambizioni europee, nel controllo delle politiche nazionali, Draghi sceglie due esempi significativi: la promozione della «partecipazione al mercato del lavoro di giovani e anziani e la concorrenza nei mercati dei servizi».

Controlli e sanzioni, sui governi nazionali e locali, sulle imprese e sui singoli, sul rispetto trasparente dei programmi e delle regole, sono parte cruciale delle riforme. Le quali richiedono a tutti la disponibilità a cambiare e a sopportare i costi del cambiamento. A volte chi critica le politiche di tagli al bilancio chiedendo "provvedimenti per la crescita" sembra domandare che insieme alle spine ci sia qualche rosa. Ma anche il rilancio della competitività e dello sviluppo è faccenda di spine, severa e politicamente amara, fatta di faticose ristrutturazioni e disciplina.

Perché il Governatore della Banca d'Italia, come quello della Bce, insiste sulle riforme strutturali? Perché non si limitano a parlare di finanza, di banche, di moneta, di cambi? Forse che, parlando di capitale umano, procedure giudiziarie o appalti pubblici, escono dall'ambito dei loro compiti e responsabilità? La risposta deve essere senza dubbi: sono completamente nel loro campo. Non solo perché, sui temi più vari, il contributo di studio, ricerca e consulenza delle banche centrali è sempre stato prezioso per i governi. E' proprio il perseguimento degli obiettivi specifici delle banche centrali, la stabilità dei prezzi e la salute degli intermediari e dei mercati finanziari, che richiede di censire con cura e ottenere che migliorino le capacità produttive del sistema economico, la sua efficienza nell'allocare le risorse reali e nel generare occupazione di qualità, benessere, crescita.

Per fabbricare bene la moneta e il credito bisogna guardare a fondo come si muove l'economia reale che li utilizza. Per curare la liquidità e la solvibilità del sistema creditizio, occorre assicurarsi della qualità delle imprese e delle pubbliche amministrazioni ai quali il sistema fa prestiti. L'autorità monetaria non deve supplire all'inefficienza dell'economia reale, creando liquidità per spingerla a tutti i costi o non lasciarla fallire. Le droghe monetarie nutrono crescite effimere e stabilità fragilissime: prima o poi arriva l'inflazione, la stagnazione, l'insolvenza. E' dunque fisiologico che i banchieri centrali insistano sui provvedimenti che fanno funzionare meglio l'economia reale che sono chiamati a finanziare.

Draghi ha detto che sulle riforme strutturali la Banca d'Italia organizzerà una conferenza. Ma per decidere meglio quali riforme fare e per aiutare a farle meglio, sarebbe naturale che tutti unissimo gli sforzi, dai politici più potenti ai cittadini più umili, con una presa di coscienza, una mobilitazione collettiva. Ciascuno può contribuire all'agenda del cambiamento e rinunciare al bisticcio fazioso, all'ottica ristretta del proprio interesse di breve, per guardare con fiducia a un grande processo di miglioramento dell'interesse generale.

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« Risposta #22 inserito:: Agosto 07, 2010, 10:01:51 am »

7/8/2010

Una politica economica ci vuole

FRANCO BRUNI

Fra i modi per ricucire la sua maggioranza, il governo farebbe bene a considerare una forte concentrazione sulla politica economica. Se l’economia va male non si riescono a rafforzare le istituzioni e la stabilità politiche. Quando le prospettive economiche migliorano è più facile guardare oltre l’economia. L’attenzione all’economia aiuta anche a sanare la frattura di credibilità che oggi allontana l’opinione pubblica dalla classe politica e dai suoi complessi bisticci. I dati congiunturali dell’Istat, come quelli europei commentati giovedì dalla Bce, hanno aspetti positivi ma non sgombrano l’orizzonte dal pericolo che la crisi continui e torni a peggiorare. La ripresa che qualcuno assaggia è in parte l’effetto artificioso di politiche monetarie e fiscali molto espansive.

Sono in tensione alcuni prezzi di materie prime. Non mancano investimenti finanziari arrischiati, favoriti nuovamente da un periodo troppo lungo di tassi di interesse troppo bassi: il sistema finanziario internazionale potrebbe rivedere illiquidità e insolvenze. Se invece arriva l’inflazione o la vera ripresa, i tassi verranno alzati e per qualche tempo sarà più complicato far fronte all’onere dei debiti.

L’economia italiana ha molte debolezze strutturali, compreso un grande debito pubblico. Perché non soffra più degli altri delle comuni difficoltà, la nostra politica economica deve essere attiva e convincente. Il governo ha avviato alcune azioni promettenti: è di lì che deve partire e insistere per mantenere i suoi consensi, in Parlamento e nel Paese. Arrivare a elezioni sarebbe economicamente costoso e pericoloso ma, anche in quel caso, è sulla politica economica che si dovrebbero impostare i programmi. I temi su cui la maggioranza sta litigando, per quanto importanti, non hanno un impatto diretto sull’economia e sfiorano l’incomprensibile per chi, nella crisi, spera di salvare un posto di lavoro, un’impresa, un progetto, e nella politica cerca aiuti e orientamenti.

Il premier ha individuato pochi punti su cui chiedere il rilancio dell’azione di governo: federalismo, fisco, Mezzogiorno e giustizia. Sono tutti rilevanti per l’economia. Ma l’importante è come li si affronta. Se davvero si cerca un solido consenso su cose concrete si possono aggiungere altri punti. Perché, per esempio, non sfruttare una buona riforma impostata dal governo, quella dell’Università, rendendola più completa e precisa e integrandola con un impegno a lungo termine per il finanziamento della ricerca, che è invece una delle lacune più gravi dell’attuale politica economica? Perché non definire una strategia di politica industriale e una riforma dei contratti collettivi di lavoro? Se invece si privilegiano gli annunci di bandiera e i proclami faziosi, non sarà l’agenda di pochi punti solenni a far ritrovare la fiducia in Parlamento; e la gente continuerà a non capire. Un pericolo speciale lo corre il capitolo «giustizia», se ci si irrigidisce sulle consuete fissazioni di Berlusconi invece di insistere sulle riforme tecniche necessarie per aumentare l’efficienza che alla giustizia chiede, fra gli altri, il mondo degli affari.

Quanto al federalismo fiscale, come ha osservato ieri Ricolfi su queste colonne, rimangono ancora da decidere le sue principali caratteristiche: senza accelerare lo studio e il dibattito su come realizzarlo, rimarrà un feticcio per alimentare retoriche divisive. D’altra parte è condivisibile l’idea di Tremonti: il federalismo è la vera prospettiva strategica per sposare le riforme con la disciplina della finanza pubblica. Una disciplina che è il successo economico più decantato del governo. Molti lamentano che sia avvenuta con l’immobilismo, senza cambiare, a parità di saldo, le entrate e le uscite in modo da stimolare la crescita e difendere i più deboli dalla crisi.

Ma se vogliamo far sul serio col federalismo e non correre il rischio di accrescere il disavanzo, è difficile ristrutturare entrate e uscite pubbliche prima di avviare i meccanismi della nuova finanza federale. La quale non riduce necessariamente il potere di regia del governo nazionale; anzi: il federalismo si può costruire in modo da fornire alla regia dati e strumenti più incisivi, non solo per controllare i disavanzi aggregati, ma per far sì che la geografia della finanza pubblica incentivi il miglioramento dell’efficienza delle amministrazioni e la pulizia della politica, oltre a riflettere il giusto grado di solidarietà. Il federalismo fiscale è una riforma difficile e ancora ai primissimi passi: ma ufficialmente gode da tempo dell’approvazione di quasi tutte le forze politiche ed è al centro dell’agenda del governo. Il quale può dunque usarlo per rendere costruttivo il dibattito nella maggioranza, con l’opposizione e nell’opinione pubblica.

La concretezza delle politiche e delle riforme economiche: ci si concentri su questo; non si tema di entrare nei dettagli, anche nei dibattiti televisivi. La gente è in grado di capire e vuol farsi coinvolgere su questioni di cui vede chiaramente l’importanza. Alle discussioni sul diverso modo di intendere il garantismo e la democrazia di Fini rispetto a Berlusconi, preferisce quelle su come cambiare le imposte, i trasferimenti dalla Lombardia alla Calabria, i finanziamenti alla ricerca, la disciplina dei contratti collettivi di lavoro. E con più attenzione e più rispetto da parte degli elettori, gli eletti possono anche ritrovare più facilmente le convergenze per assicurare un governo stabile al Paese.

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« Risposta #23 inserito:: Agosto 14, 2010, 04:06:01 pm »

14/8/2010

La cultura cinese non deve fare paura
   
FRANCO BRUNI

Gli economisti hanno sempre più bisogno di antropologi. Per capire dove va il mondo globalizzato occorre la geo-economia, cui serve la geo-politica. Ma entrambe richiedono «geo-cultura», dove siamo più indietro.

L’aspetto più rilevante, anche sul fronte culturale, è il ruolo dei Paesi emergenti e, in particolare, della Cina, con la quale l’Occidente sta cercando il giusto modo per rapportarsi. Si è parlato a sproposito di G2: un mondo governato da Cina e Usa. Mentre le relazioni sino-occidentali registrano continue incomprensioni e incidenti: dai diritti umani alla libertà del global web, da questioni strategico-militari, come Iran e Corea, a quelle ecologiche, ai bisticci nel Wto e sul tasso di cambio. Frattanto si rafforza l’influenza della finanza e della politica cinese in tutto il mondo. Se la qualità del dialogo fra Occidente e Cina non migliora saranno guai economici e politici.

Ed ecco la geo-cultura: il nostro atteggiamento verso la cultura cinese deve maturare più svelto. A volte sembra inceppato e sciocco. È come se pensassimo che, visto che ci imitano nelle forme dello sviluppo economico, che hanno abbandonato i loro vestiti per i nostri, che studiano nelle nostre università, i cinesi gareggino solo sul nostro stesso terreno e inseguano un adeguamento completo alla nostra cultura, lasciando la loro, millenaria, al folclore antiquario. È l’idea che la globalizzazione può avvenire solo sotto l’egida di una cultura essenzialmente occidentale. L’idea, insieme timorosa e arrogante, che la concorrenza di Pechino sia una minaccia dannosa ma che soccomberà se i cinesi non accetteranno del tutto, fra l’altro, la nostra concezione della democrazia.

Conviene provare a pensare diversamente. La Cina adotta strumentalmente nostri costumi e infrastrutture culturali, ma la cultura globale del futuro conterrà elementi irriducibili di quella cinese, che l’Occidente deve individuare e condividere per tempo, nutrendo così la sua disponibilità a un vero dialogo fra pari, a una diplomazia economica e politica, privata e pubblica, spogliata di paure aggressive, a una collaborazione senza supponenze con quello che potrebbe tornare a essere, come l’etimo del suo nome, il «paese centrale».
Gli elementi della cultura cinese ai quali fare attenzione fanno riferimento a quelli che, fin dai secoli lontanissimi, sono giunti in Europa dall’Oriente, per vie traverse e mediate, con una contaminazione certo non nuova, ma che va rinnovata e rafforzata. Alcuni di questi elementi, importanti per l’economia e la politica, impressionano chi, come me, è lungi dall’essere un sinologo.

A cominciare dalla densità di concetti e messaggi contenuta in ogni «mattone» del linguaggio con cui i cinesi si esprimono e ragionano. La scrittura ideografica è solo l’aspetto più evidente di un modo di pensare e comunicare più «quantistico» del nostro, dove il singolo carattere-vocabolo ha significati diversi persino a seconda della calligrafia e si collega agli altri con un’algebra più complessa di quella con cui le nostre lettere formano le parole e le frasi. Il linguaggio cinese ha una maggiore predisposizione del nostro a trattare le sfumature e la complessità e meno pretese di trasmettere messaggi neutri, oggettivi, adatti a una razionalità aristotelica. A ciò non è estranea la ritrosia con cui i cinesi accettano l’alternativa secca fra affermazione e negazione, vero e falso, bianco e nero, la loro grande confidenza coi vari toni di grigio.

E non è solo il confine fra il sì e il no che la logica cinese tende a sfumare, ma tanti altri confini che noi pretendiamo di considerare netti. Il confine, per esempio, fra individuo e collettività che il confucianesimo presenta in modo diverso dall’individualismo occidentale. Il confine fra l’oggi e il domani, con la maggior propensione dei cinesi a guardar lontano anche quando sembrano concentrati con avidità sul presente, anche quando soddisfano con impeto il loro piacere per l’azzardo, per il gioco, per la graziosità dell’effimero, anche quando cavalcano con apparente imprudenza cambiamenti rivoluzionari, subitanei e bruschi. E, ancora, a sfumare è il confine fra sostanza e apparenza: un confine che a noi dà ansia e sensi di colpa, mentre i cinesi accettano la legittimità della sovrapposizione-confusione fra forma, estetica, galateo, rito, mito, cerimonia, e ciò che apparenze e simboli vogliono significare. È sfumato anche il confine fra il diritto e le relazioni amicali e gerarchiche, personali e di gruppo. In molti modi la sfumatura dei confini investe poi quello fra vita e morte.

Un’iniezione di questo genere di elementi nel tessuto della cultura occidentale può generare contrasti e traumi. Ma può anche arricchirci e dar luogo a una mescola più adatta per affrontare i problemi con cui ci misuriamo. Una mescola più potente per gestire le complessità che la razionalità occidentale si sforza di semplificare in schemi cartesiani, con risultati sovente inadeguati. Proviamo ad accennare un elenco disordinato di possibili utilizzi di una cultura iniettata di cineserie. Servirebbe, innanzitutto, ad apprestare qualche cura alla nostra democrazia, che è in crisi per tante ragioni. Riusciremmo forse a: maneggiare meglio la compatibilità fra pubblico e privato, fra interessi individuali, corporativi e collettivi; trovare nuova forza per esaltare la complementarità fra i meccanismi di alternanza, tipo destra-sinistra, e convergenze e mobilitazioni indispensabili per grandi azioni collettive; accettare e, insieme, superare, i limiti sempre più clamorosi della legittimazione elettorale del potere; impostare relazioni internazionali meno muscolari e riconoscere sostanziali poteri sopranazionali per un mondo globale, prima ancora di averli legittimati all’occidentale; riaffermare lo stato di diritto e l’indipendenza del potere giudiziario, comprendendo con più sereno realismo che non sono fini assoluti ma strumenti imperfetti.

Capiremmo inoltre meglio: come guardare al lungo periodo nelle nostre decisioni, pubbliche e private; come sposare l’anonimità del mercato economico, aperto a tutti, con gli affari basati su relazioni esclusive, personali e di gruppo; come accettare le inevitabili mescolanze del laico col religioso; come fare affari e politiche che sono davvero multiculturali, non perché usiamo algoritmi occidentali per evitare «scontri di civiltà», ma perché abbiamo un concetto meno arrogante dei confini di una cultura. L’impressione è che i cinesi siano da tempo al lavoro per studiarci, cercando la fusione culturale dove lasceranno il loro potente imprinting. Abbassiamo le difese e le paure e mettiamoci a lavorare anche noi per accelerare la scoperta della formula migliore per la mescola. C’è da guadagnare per tutti: non occorre fare i conti all’occidentale per esserne sicuri.

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« Risposta #24 inserito:: Ottobre 06, 2010, 05:31:10 pm »

6/10/2010

Monete stabili per fare le riforme
   
FRANCO BRUNI

Nei suoi incontri dei giorni scorsi con le autorità europee il premier cinese non ha incoraggiato la richiesta di rivalutare di più e più in fretta la moneta cinese. Una richiesta su cui insistono da tempo anche gli Usa, che sperano di recuperare competitività e ridurre il loro deficit commerciale se i prodotti cinesi diventano più costosi da importare. L’insistenza americana può divenire pericolosa perché, per vendicarsi della mancata rivalutazione cinese, minaccia una guerra con dazi e altri ostacoli alle importazioni, una guerra che potrebbe diffondersi e compromettere il commercio mondiale. In questa fase di rafforzamento dell’euro, anche l’Ue è diventata più sensibile al tema del cambio cinese, che vorrebbe più forte per favorire la continuazione dell’exploit delle esportazioni tedesche in Cina e per rendere possibili simili successi anche nel resto d’Europa. Ma Wen Jiabao non ha lasciato adito a troppe speranze e ha detto che la Cina vuole «cambi stabili».

Può essere che, ciononostante, nei prossimi mesi la rivalutazione del renmimbi (o yuan che dir si voglia) abbia luogo. Infatti i cinesi non vogliono mostrare di decidere sotto pressione ed è comunque meglio che l’aumento del valore del renmimbi avvenga un po’ a sorpresa, per non incoraggiare la speculazione che, se potesse contare su quell’aumento, rovescerebbe sulla moneta cinese quantità eccessive di capitali alla ricerca di facili guadagni.

D’altra parte, quella che gli economisti chiamano «rivalutazione reale» del renmimbi sta già di fatto avvenendo, abbastanza celermente. La rivalutazione reale è quella che tiene conto anche dell’aumento dei prezzi in renmimbi dei prodotti esportati dai cinesi e dei salari pagati per produrli: se in Cina salgono i prezzi e i salari, anche se il cambio sta fermo i prodotti cinesi diventano più cari. E ciò sta succedendo, tant’è che le esportazioni cinesi stanno cambiando natura, crescono di qualità, divengono più sofisticate, mentre le produzioni la cui competitività è più legata ai costi bassissimi vengono gradualmente lasciate a Paesi più arretrati della Cina. Se il renmimbi si rivalutasse troppo e troppo in fretta, molti esportatori cinesi, comprese le multinazionali occidentali che producono là, frenerebbero prezzi e salari. Il che compenserebbe la rivalutazione senza incidere granché sulla loro competitività. Ma il rallentamento dei salari ridurrebbe i redditi e i consumi dei cinesi: il contrario di quello che occorre per completare la modernizzazione della Cina e ridurre il suo avanzo commerciale.

La difficoltà di un accordo valutario con la Cina diffonde il timore di una gara al ribasso fra le monete: tutte tese a non salire di valore per non sfavorire i propri esportatori, tutte create in quantità superiori al necessario perché siano a buon mercato. Lo scenario di una simile gara è quello del disordine speculativo, di denaro sovrabbondante e impiegato in modi rischiosi e inefficienti, di un clima teso e improduttivo nelle relazioni commerciali internazionali, di continua incertezza, di gravi pericoli di inflazione e di nuove crisi finanziarie. Uno scenario da scongiurare. Ma i principali responsabili del disordine monetario globale sono gli Usa, che insistono nel promettere tassi di interesse vicini allo zero per chissà quanto tempo e spargono sovrabbondante liquidità in dollari in tutto il mondo. La Bce ha un atteggiamento un filo più prudente ed è anche per questo che l’euro tende a rafforzarsi e a preoccupare gli esportatori europei. Ieri anche i giapponesi hanno abbassato i tassi di interesse fino a zero per sfavorire il rafforzamento dello yen.

Per uscire da questa pericolosa trappola dei tassi a zero e delle monete deboli, una trappola dove politiche monetarie superespansive finiscono, oltretutto, per finanziare deficit pubblici eccessivi, occorre accelerare la concertazione multilaterale. Occorre una sede sovrannazionale forte, dove tutti si impegnino credibilmente a non usare le monete per risolvere problemi di competitività che vanno invece affrontati con riforme strutturali, politiche industriali, accordi sul fisco, sulle regole del libero commercio e sul Welfare. Una sede che favorisca politiche monetarie abbastanza disciplinate e uniformi per dar luogo a un giusto grado di stabilità dei cambi fra le diverse monete. Per creare questa concertazione e costituire questa sede sono cruciali il lavoro del G20, il prossimo vertice di Seul, i progetti di riforma del Fmi. E’ un cammino dove occorre leadership: la Francia sembra avere l’atteggiamento giusto per ispirarla. E il premier cinese ha confermato la sua disponibilità a lavorare per un assetto stabile dei cambi. Speriamo in bene.

franco.bruni@unibocconi.it

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« Risposta #25 inserito:: Dicembre 12, 2010, 08:58:08 am »

11/12/2010

Mercato unico salvezza dell'Europa

FRANCO BRUNI

La crisi dei debiti pubblici dell’eurozona sta creando una nevrosi politica che distorce la prospettiva d'insieme dei problemi europei. Un commento EuropEos-Ceps (No. 6, www.ceps.eu) raccomanda l'intervento di uno psichiatra. Speriamo sia sufficiente qualche ritrovata saggezza al Consiglio di Bruxelles della settimana prossima.

Intendiamoci: l'affanno delle finanze pubbliche e gli attacchi speculativi sui titoli di Stato sono questioni serie e difficili. Anche perché bisogna affrontare pragmaticamente l'emergenza mentre si disegnano le regole del futuro. E mentre l'emergenza non vuole si parli di «fallimento» di Paesi o banche, le nuove regole devono per forza ammettere, in una forma o nell’altra, l'ordinato «fallimento» di Stati, cioè la ristrutturazione del loro debito con costi anche per i creditori esteri, nonché l'insolvenza delle banche che, oltre ad altri investimenti imprudenti, hanno troppi titoli di Stato rischiosi. E l'attuale sovrapposizione fra l'aiuto agli Stati e quello alle banche complica il problema.

Ma l'ingegneria finanziaria anti-crisi non otterrà granché senza una virata di tono del clima politico europeo. Non si può continuare a presentare all' opinione pubblica un'Ue tutta concentrata a litigare su provvedimenti di mutuo soccorso, dove pare sia solo questione di buoni e cattivi, solidali ed egoisti, virtuosi e spendaccioni, creditori e debitori, tedeschi e mediterranei.

Bisogna rilanciare l'idea che l'Unione è fatta per perseguire insieme interessi comuni e che il principale fra questi, fin dal dopoguerra, è la costruzione di mercati, delle merci, dei servizi, dei capitali, del lavoro, sempre più integrati e resi efficienti da regole e politiche economiche coordinate e, in molti casi, accentrate. Il mercato unico e le politiche comuni sono la sola possibilità perché l'Europa, compresa l'ottima Germania, esprima pienamente, nel lungo periodo, le sue potenzialità nella sempre più difficile concorrenza globale e cresca in modo vivace, armonioso e sostenibile. Ed è con la crescita che si ridimensiona veramente l'eccesso di debiti fatti in passato. Sono la crescita, la maggiore occupazione, una collocazione convincente nello sviluppo mondiale le promesse con cui i politici europei devono persuadere i cittadini e gli operatori economici che vale la pena di affrontare oggi faticosi aggiustamenti.

Nell’agenda comunitaria non mancano spunti in questa direzione. Accanto alla gestione della crisi finanziaria sono ufficialmente aperti i cantieri della cooperazione in materia di fisco e bilancio e persino una discussione comune dei programmi nazionali di riforme strutturali per la competitività, dall’istruzione, alle pensioni, al decentramento regionale. Ma sono cantieri oscurati, frenati, inceppati dall’enfasi esagerata sui disastri dei debiti esteri e dalla sceneggiata su quanto la virtuosa Germania debba prodigarsi per tutti. Inoltre sono cantieri dove manca un punto centrale di gravitazione, una meta trainante che serva davvero a distinguere chi vuole un futuro credibilmente migliore per l'Europa da chi sta dalla parte degli interessi speciali o di quelli cosiddetti «nazionali», anche se intesi in modo miope e dimentico delle nuove interdipendenze mondiali.

L'idea trainante su cui puntare è, come detto prima, l'unificazione dei mercati. Nell’ottobre del 2009 il presidente della Commissione ha incaricato Mario Monti di scrivere «un rapporto per rilanciare il mercato unico come obiettivo strategico chiave» dell’azione comunitaria. Il rapporto è stato consegnato nel maggio scorso. Contiene una dettagliata lista di misure per eliminare i molti residui ostacoli (presenti anche… in Germania!) al commercio, alla concorrenza e quindi al crescere della competitività dell’Ue, dalle telecomunicazioni all’energia, dai trasporti alla sanità, dai servizi finanziari alle professioni. Ma contiene anche spiegazioni del valore «sociale» del mercato unico, della sua relazione con la riforma e il coordinamento delle imposte e del Welfare, del fatto che mercato non significa l'arbitrio dei più forti ma, al contrario, buone regole comuni. Contiene una proposta politica per avvicinare chi è più attento al mercato a chi è più attento al sociale, nella prospettiva comunitaria dell'«economia sociale di mercato».

Il rapporto Monti è stato recepito formalmente dalle autorità comunitarie. Ma non è diventato uno scadenzario di misure da prendere davvero e, soprattutto, il suo messaggio di fondo non è stato sfruttato per rafforzare l'idea di Europa e migliorare il clima psicologico, politico e culturale con cui si affronta la crisi. Al contrario: lo si è un po’ accantonato con la scusa delle urgenze della crisi.

Con mercati più unificati l'Europa può coordinare meglio le sue riforme per la competitività, l'innovazione, la formazione di capitale umano. Ha più ragioni per parlare con una sola voce contribuendo a rinnovare il governo del mondo. Ha più incentivo a far convergere le politiche economiche nazionali evitando squilibri economici e finanziari. Ha motivi più chiari per instaurare meccanismi di solidarietà finanziaria. Con l'idea trainante del mercato unico persino l'ingegneria finanziaria europea, di fronte alle fragilità e alle emergenze della crisi, diventa meno grigia, fa meno paura, risulta più accettabile nelle sue inevitabili complicazioni.

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« Risposta #26 inserito:: Gennaio 12, 2011, 10:42:44 pm »

12/1/2011 - I GOVERNI E L'EURO

Il gioco pericoloso del debito

FRANCO BRUNI

Il risultato dell’asta di oggi dei titoli del governo portoghese sarà un elemento in più per prevedere l’evoluzione, nell’anno appena iniziato, della crisi dei debiti pubblici dell’area dell’euro.

Una crisi che si va facendo più complessa. Coinvolge anche Paesi che, come il Belgio, sono stati finora considerati lontani e diversi dagli indisciplinati membri del «club mediterraneo». Vede affollarsi le prossime scadenze dei debiti che ai mercati verrà chiesto di rifinanziare, in concorrenza con l’ingente domanda di fondi delle grandi banche e dei Paesi esterni all’euro, soprattutto il Regno Unito e gli Usa.

È un gioco pericoloso fra tre gruppi di protagonisti: i mercati, i governi nazionali e le istituzioni comunitarie. I mercati, determinando i tassi sui titoli di Stato, esercitano una disciplina utile sulle decisioni dei governi, ma colgono anche l’occasione per impostare speculazioni di breve respiro. Possono esasperare situazioni di finanza pubblica che, pur insostenibili nel lungo periodo, sono senz’altro aggiustabili, con provvedimenti difficili ma graduali. I governi nazionali, impegnati in questi aggiustamenti, cercano di mostrare un ottimismo che non è sempre credibile.

E come hanno fatto la Grecia e l’Irlanda, e come sta facendo il Portogallo, tendono a negare fino all’ultimo momento la necessità di ricorrere all’aiuto dell’Ue. La strategia delle istituzioni comunitarie si articola in due parti. La prima è il sostegno di emergenza. Esso è fornito, nel breve, dalle operazioni della Bce; nel medio termine, fino al 2013, dalla messa a disposizione di rilevanti fondi di supporto appositamente accantonati dai Paesi membri, integrati da risorse Ue e in coordinamento con interventi del Fmi. Questi fondi possono ora contare anche sui proventi delle prime emissioni di titoli comunitari. La seconda parte della strategia consiste nella preparazione di un insieme organico di provvedimenti destinati, nei prossimi anni, a migliorare molto sia la prevenzione che la cura delle crisi finanziarie.

Fra questi provvedimenti vi è una importante riforma, entrata in vigore già all’inizio di quest’anno, della vigilanza finanziaria europea. Vi è una profonda revisione, ancora in corso di definizione, del Patto di Stabilità e Crescita, cioè della disciplina europea delle politiche di bilancio nazionali. E c’è l’istituzione di un fondo permanente per la gestione delle crisi. Il suo funzionamento prevede anche la possibilità che i debiti dei governi subiscano revisioni degli importi, degli oneri di interesse e delle scadenze, facendo pagare parte dell’aggiustamento a chi ha investito nei titoli a rischio. Per creare questo fondo permanente, che subentrerà fra due anni alla cessazione degli attuali fondi di emergenza, è stata addirittura deliberata dal Consiglio una modifica dei Trattati.

Il problema dell’azione comunitaria è la sua complessità, il fatto che è composta da tanti elementi difficili da definire e deliberare nei dettagli, ma tutti fra loro collegati e indispensabili. Inoltre è un’azione che può essere continuamente rallentata da esitazioni e ripensamenti dei Paesi membri, ai quali si chiede di rinunciare a parte della loro sovranità per ottenere tutti insieme più stabilità e una crescita migliore. È dunque evidente che il gioco fra i tre protagonisti è arduo e pericoloso. Ma è altrettanto chiaro che i giocatori sono all’opera con impegno e che la loro interazione è in grado, nel giro di tre-cinque anni, di risistemare seriamente la finanza pubblica europea. Purtroppo c’è anche la possibilità che il gioco vada male e si prolunghi in modi sempre più costosi per tutta l’Ue. Questa possibilità è accresciuta dalla scarsa credibilità delle leadership politiche nazionali, che dovrebbero agire sia aggiustando al loro interno che contribuendo a rendere più rapida e incisiva l’azione comunitaria. Si pensi alle condizioni del governo portoghese o alle lacerazioni politiche del Belgio; ma sono solo esempi e, fra le altre, la situazione italiana non lascia tranquilli. La plausibilità dello scenario pessimista deriva anche dall’equivoco di fondo di un’Europa che ha troppo a lungo esitato ad ammettere che l’accentramento comunitario di una parte dei poteri di tassazione, spesa e indebitamento pubblici, col rafforzamento dell’unità politica che l’accentramento richiede, è nell’interesse nazionale e collettivo di tutti i Paesi membri e uno strumento potente per rendere più prospera l’economia europea.

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« Risposta #27 inserito:: Marzo 01, 2011, 03:31:49 pm »

1/3/2011

La ripresa in balìa dei mostri


FRANCO BRUNI

Tremonti li chiama i mostri dei videogiochi: ne uccidi uno e ne spunta un altro, diverso e peggiore. La crisi finanziaria ha visto succedersi il disastro dei derivati, il fallimento delle banche, il crollo del commercio, la guerra delle monete, l’incubo dei debiti pubblici. Ora lo sfondo del videogioco è diventato più politico: è arrivata la crisi del Sud-Mediterraneo e del Medio Oriente. Di rimbalzo, sono pronti nuovi mostri economici globali: crisi energetica e stagflazione. Da qualche parte si nasconde un generatore di mostri che li collega, ma non è facile individuarlo e siamo sconfortati dall’incapacità di prevedere il prossimo.

C’è un parallelo fra la crisi finanziaria scoppiata nel 2007 e la crisi politica mediterraneo-mediorientale. In entrambi i casi è mancata la considerazione di come vari rischi, singolarmente valutati e prevedibili, possano improvvisamente «fare sistema».

E’ stato sottovalutato il monitoraggio dei possibili contocircuiti. Sapevamo analizzare i rischi di singole banche, di singoli mercati: siamo stati sorpresi dall’intreccio sistemico che li ha collegati fra loro, moltiplicandone enormemente la dannosità. Conoscevamo le determinanti del rischio politico di singoli Paesi: siamo stati sorpresi dall’intreccio che travolge la stabilità di un’intera area geopolitica.

E’ probabile che nella crisi mediterranea si siano improvvisamente incrociati gli effetti dirompenti di una serie di fenomeni molto diversi: un punto critico dell’evoluzione demografica; il superamento nella regione di una soglia critica nelle comunicazioni cellulari e di Internet; uno choc ai prezzi alimentari e quindi alla distribuzione del reddito di Paesi poveri; un’accelerazione informe, diseguale e traumatica del Pil di diversi Paesi africani; nuove opportunità e tensioni attorno al potenziamento di Suez; un momento geopolitico e ideologico dove la cerniera della Turchia, con la congiuntura di successo del suo modello, indica strade nuove e meno bloccate su opposti fondamentalismi; una criticità della congiuntura energetica mondiale, dovuta anche all’eccezionale corsa allo sviluppo della Cina e di altri Paesi emergenti; le tensioni iraniane; la multiforme crisi della leadership Usa e il fallimento della loro diplomazia in Israele-Palestina. E altri ancora.

Gli economisti finanziari in questi ultimi tre anni hanno imparato la lezione: il videogioco li sorprende ancora, ma hanno capito che la strategia di difesa comporta la mappatura dei collegamenti fra i vari elementi di rischio, la misura, così si dice, del «rischio sistemico». A ogni banca si cerca oggi di associare non solo un indice di rischio individuale, ma una misura dell’impatto che le sue difficoltà possono esercitare sulla stabilità del sistema finanziario nel suo complesso. Sia in Usa che in Ue sono state addirittura istituite nuove «autorità», col compito specifico di controllare i rischi sistemici, utilizzando anche nuovi strumenti di politica economica.

Quello che è successo in Tunisia, Egitto, Libia e altrove, richiede ora una sollecita estensione del monitoraggio dei rischi sistemici al fronte socio-politico. Dopo aver tanto parlato di stabilità finanziaria globale occorre rimettere a fuoco la questione della stabilità politica globale. E’ impressionante come i vertici di questi ultimi anni, i G8 e i G20, abbiano parlato quasi solo di economia e finanza: anche questo è un sintomo di «veduta corta», come disse PadoaSchioppa citando Dante. Senza un miglioramento dell’analisi socio-politica sistemica, globale, la discussione e la riforma dell’economia è miope e zoppa: economia e politologia devono lavorare a più stretto contatto. Perché è ovvio che il mostro economico-finanziario può generare mostri politici, ma è altrettanto ovvio il contrario. Non basta riformare e potenziare il Fmi, occorre una sorta di sede Onu dove mettere a sistema il monitoraggio socio-politico e incrociarlo con quello economico-finanziario.

Quale sarà il prossimo mostro? Qualcuno teme venga dalla Cina. Forse si sbaglia, ma ha diritto che l’ipotesi sia esaminata a fondo, da tutti i punti di vista. Dalla Cina il mondo prende oggi i risparmi per finanziare i suoi deficit, riceve stimoli per riprendere a crescere e la visione di una forma di stabilità politica che arriva a far dubitare che il nostro sistema di democrazia elettoralistica sia il migliore possibile. Ma lo sviluppo della Cina vede oggi anche pressioni inflazionistiche che i prezzi dell’energia rischiano di acutizzare e implica trasformazioni socio-politiche che, anche tramite la diffusione di Welfare di tipo occidentale, potrebbero creare complesse discontinuità nella competitività e nel ritmo della crescita cinese. Il rimbalzo sul resto del mondo sarebbe difficile da gestire. D’altra parte i cinesi sono anche famosi per avere una «veduta lunga»: se lavoriamo insieme possiamo evitare di farci sorprendere troppo brutalmente.

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« Risposta #28 inserito:: Marzo 28, 2011, 05:00:54 pm »

28/3/2011

Eppure alla Ue si lavora


FRANCO BRUNI

Il caso Libia sottolinea le divergenze europee in politica estera. Su tutt’altro fronte, fanno notizia i bisticci franco-italiani sulla proprietà di Parmalat.

E c’è dell’altro a dar l’impressione di un’Ue disunita, incapace di reagire compatta ai cambiamenti improvvisi portati dalla globalizzazione e di far leva sulla sua grande dimensione geopolitica ed economica.

Eppure proprio adesso si intensifica la cooperazione per riformare il governo dell’economia europea. E non mancano i risultati. Dalle conclusioni del Consiglio di Bruxelles di venerdì scorso si vede che l’agenda dell’Ue è in movimento. Un movimento disseminato di trabocchetti ma spedito, che, se non si inceppa, può far fare passi avanti notevoli, nei prossimi mesi, alla politica economica europea. Quanto si sta facendo è decisivo per il nostro futuro, anche se non sembra tale a un’attenzione superficiale. Serve l’impegno dei media per aiutare la gente a capire. Il contrario di quel che fa, ad esempio, la stampa finanziaria inglese, considerata la più autorevole, che sulla cooperazione europea ama spruzzare un inutile misto di scetticismo e sprezzante ironia. Quanto al dibattito politico italiano, è il momento di concentrarsi più seriamente sull’ipotesi che il governo economico europeo divenga presto più robusto e determinante.

Nella variegata agenda dell’Ue ricordiamo qui solo tre punti. Primo: da gennaio funzionano quattro nuove autorità di vigilanza finanziaria comunitarie. Sono ancora in fasce ma possono diventare potenti e davvero sovrannazionali. Una di esse sta avviando i cosiddetti «stress test» alle principali banche europee. Si tratta di stabilire la loro capacità di resistere a scenari economico-finanziari molto pessimisti e determinare gli eventuali aumenti di capitale necessari per ripulirle e irrobustirle. La trasparenza dei risultati dovrebbe rassicurare i mercati e rilanciare il credito bancario. Si tratta di un esercizio difficile, delicato ma indispensabile: se verrà condotto bene, se non sarà un’inutile sceneggiata, la finanza europea ne risentirà subito favorevolmente.

Secondo: si sta preparando un fondo per gestire le crisi dei Paesi troppo indebitati dell’area dell’euro. Andando oltre all’attuale emergenza, che costringe a improvvisare aiuti disordinati e controversi, c’è il disegno di un’istituzione permanente che comincerà a operare dal 2013. Dopo molto lavoro si è individuata una soluzione equilibrata. Da un lato, si cerca di evitare che i Paesi troppo indebitati diventino insolventi ma, dall’altro, non si esclude ipocritamente che l’insolvenza è una possibilità. Se il governo debitore non fa gli aggiustamenti necessari, si organizza una ristrutturazione del debito in modo tale da non traumatizzare i mercati. A pagare per l’insolvenza della Grecia sarebbero così, per esempio, anche le banche tedesche che hanno imprudentemente comprato titoli greci; ma il loro coinvolgimento avverrebbe senza contagiare altri operatori e diffondere il panico. Aver deciso di intraprendere questa strada è segno di realismo e determinazione del Consiglio europeo.

Terzo punto: la riforma del Patto di Stabilità e Crescita, mirata a farlo diventare sia più severo sia meno «stupido». Più severo perché dotato di procedure e sanzioni più automatiche per imporre la disciplina dei deficit e dei debiti pubblici. Il maggior automatismo riduce i compromessi e gli scambi di favori con cui i governi si perdonano reciprocamente i peccati e continuano l’indisciplina. È augurabile che l’automatismo proposto dalla Commissione e dal Consiglio venga ancor più accentuato dal prossimo intervento del Parlamento. D’altra parte, il Patto riformato è meno stupido: perché la disciplina della finanza pubblica di un Paese è disegnata tenendo conto dell’equilibrio complessivo della sua macroeconomia, della competitività e della salute finanziaria del suo settore privato, delle riforme strutturali che propone e vara in concertazione con le autorità europee.

Per l’Italia un Patto più severo e automatico è molto duro da rispettare, visto il nostro altissimo debito pubblico. Ma un Patto meno stupido ci permette di tagliare la spesa pubblica con più gradualità: a condizione che il nostro risparmio privato rimanga abbondante e che sappiamo fare buone riforme per migliorare la competitività delle nostre produzioni e l’efficienza della pubblica amministrazione. Aderire a un Patto ben riformato è indispensabile, se non vogliamo finire fra i Paesi strapazzati dalla speculazione internazionale. È faticoso, ma è anche uno stimolo per migliorare il funzionamento complessivo del Paese. Perciò, nelle sedi europee l’Italia dovrebbe, nei prossimi mesi, adoperarsi perché la riforma del Patto vada in porto prima dell’estate senza annacquamenti, che ridurrebbero la credibilità del Patto ma anche quella della tenuta della nostra finanza nazionale.

franco.bruni@unibocconi.it

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« Risposta #29 inserito:: Aprile 08, 2011, 10:37:19 pm »

8/4/2011

Tassi normali, antidoto a una ripresa drogata

FRANCO BRUNI

Il piccolo aumento dei tassi della Bce era stato annunciato. E’ un aumento logico che viene anzi un po’ in ritardo. Il livello di partenza è bassissimo, negativo al netto dell’inflazione». Nel 2005 commentavo così su La Stampa il primo scalino di rialzo dei tassi che erano rimasti molto bassi per tre anni. Identiche parole si prestano a commentare l’aumento di ieri, partito da un livello ancor più basso, fermo da due anni.

Allora la salita proseguì fino al 2008, quando i tassi furono precipitosamente abbattuti per fronteggiare la crisi finanziaria. La quale fu però anche l’effetto differito dei tre anni di tassi troppo bassi, che avevano alimentato speculazioni azzardate e indebitamenti sovrabbondanti di banche, famiglie, imprese e governi. E ora, che cosa succederà? Ieri Trichet, senza impegnarsi, ha lasciato capire che, se la congiuntura non muterà, la Bce continuerà un lento rialzo dei tassi. Anche questa volta la liquidità più cara farà riemergere la crisi e scoppiare i rischi assunti negli ultimi anni di denaro facile? Si pensi alle banche che hanno investito la liquidità nei titoli pubblici dei Paesi a rischio: saranno in grado di sopportare costi di rifinanziamento più elevati? E come reagirà chi ha posizioni speculative sulle materie prime o sui cambi?

Martedì si è riunito il Financial Stability Board, che coordina le politiche mondiali per la stabilità finanziaria. Nel comunicato si legge: «Vi sono segni che l’ambiente di bassi tassi di interesse conduce gli investitori a cercare rendimenti elevati in comparti complessi e rischiosi dei mercati». Già nello scorso giugno la Banca dei Regolamenti Internazionali ha intitolato un capitolo della sua Relazione annuale ai rischi che comporta insistere nel fronteggiare la crisi con tassi di interesse bassi. Fra i rischi vi è quello di togliere stimolo a riequilibrare e riformare la finanza pubblica e privata. In effetti, come mostra il monitoraggio del Financial Stability Board, le riforme non stanno certo correndo. Finalmente, dopo i rialzi decisi nei mesi scorsi da Paesi minori ed emergenti, la Bce si è mossa. La giustificazione ufficiale è l’inflazione dei prezzi al consumo, che sta crescendo anche nelle aspettative della gente e che chiede un segno di disciplina monetaria per acquietarsi. Ma il punto centrale è il ristagno precario e disordinato della liquidità a buon mercato che, anziché concentrarsi su impieghi che aiutano la crescita, favorisce il perdurare di squilibri finanziari e l’aumento del livello e della volatilità dei prezzi delle materie prime, dell’oro, di certi titoli finanziari e attività speculative. L’obiettivo è rimettere i debitori, governi compresi, di fronte a una situazione in cui la liquidità ha un costo normale, che disciplina le loro spese, le loro strategie finanziarie e l’allocazione delle risorse.

Non c’è ragione perché un graduale aumento dei tassi che la Bce fa pagare sulla liquidità che fornisce alle banche «stronchi l’ancor fragile ripresa», come si dice. I tassi di interesse a più lungo termine sui debiti dei governi e delle imprese possono addirittura diminuire, se la politica monetaria meno facile riduce l’inflazione attesa e spinge i debitori ad aggiustamenti convincenti. Saliranno i costi del credito al consumo e dei mutui delle famiglie, ma l’onere dei debiti prudenti e ben garantiti non dovrebbe crescere molto, mentre potrà aumentare un poco la remunerazione dei depositi bancari e del risparmio sicuro e liquido. Tassi più normali significano certamente meno droga per la componente effimera della ripresa; la droga che sostiene debiti pubblici e privati eccessivi, banche e imprese miopi e decotte. Qualche debitore salterà e occorrerà occuparsi dei danni conseguenti. Ma ci sono anche i buoni debitori, chi ha seri piani di rientro dai propri squilibri, banche capaci di aumentare il rapporto fra capitale e debiti. Non tutta la ripresa è effimera. Non val la pena di sacrificare la stabilità e l’efficienza dello sviluppo dei prossimi 10-15 anni per sussidiare un anno o due di crescita artificiosa. La disciplina della moneta e del credito serve anche a stimolare la lungimiranza di chi li utilizza e le riforme per affrontare i cambiamenti dell’economia globale.

Tornando alla domanda iniziale, è dunque possibile che, dopo l’esperienza dell’ultimo quinquennio, una fase di tassi Bce moderatamente crescenti non torni a precipitare la crisi e sia anzi la premessa di una ripresa, difficile e graduale, ma più duratura e non inflazionistica. C’è però un problema: che cosa farà la Fed? Fino a che anche la politica monetaria Usa non tornerà a disciplinarsi e la liquidità in dollari sarà gratis, non c’è scampo nemmeno per la stabilità monetaria e finanziaria europea. Con i mercati globalizzati e l’attuale ruolo del dollaro, gli Usa scaricano sul resto del mondo parte dei loro squilibri e influenzano i tassi di interesse altrui, l’inflazione e la liquidità globali. Per fare da sola una politica monetaria virtuosa, la Bce dovrebbe accettare una rivalutazione dell’euro talmente forte da compromettere crescita e stabilità finanziaria. Per questo è urgentissimo accelerare la concertazione monetaria transatlantica fino a ricostruire un vero e proprio sistema monetario internazionale.

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