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Autore Discussione: FRANCO BRUNI  (Letto 36046 volte)
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« inserito:: Maggio 07, 2008, 09:43:41 pm »

7/5/2008
 
Le riforme promesse
 
  
FRANCO BRUNI
 
Quando il governo sarà formato e insediato, si dovranno fare i conti con le promesse elettorali.
Le più importanti sono quelle che la maggioranza ha fatto assieme all’opposizione: le riforme istituzionali.
Esse sono state anche una promessa di laboriosa collaborazione bipartisan. Con idee quasi identiche, i principali partiti concorrenti hanno promesso, fra l’altro, la riforma dei poteri e la riorganizzazione delle responsabilità all’interno del governo, alcune modifiche dei suoi rapporti col Parlamento, la riforma elettorale, la riforma del ruolo e dei regolamenti delle Camere, la drastica riduzione del numero dei parlamentari, la riorganizzazione e la significativa riduzione del numero degli enti locali (Berlusconi ha promesso addirittura di abolire le Province).

Nell’insieme si tratta di un quadro già abbastanza organico e delineato di incisivi ritocchi istituzionali, utili a rendere più snello e trasparente l’iter delle decisioni politiche e a ridurre sostanzialmente i costi dell’apparato politico. Ed è anche un concreto ordine del giorno per impostare una collaborazione, fra maggioranza e opposizione, entrambe alla ricerca di migliori regole del gioco, che potrebbe avere interessanti e diversi sviluppi.

Durante la campagna elettorale nell’opinione pubblica c’era un misto di contentezza e di sorpresa per l’accordo sulle riforme. Ma c’era anche un velo di incredulità. Non è facile credere alla capacità della classe politica di riformarsi davvero, riducendo la propria numerosità e, insieme, l’irrazionalità di un assetto che i politici sanno usare con furbizia come scusa per la loro costosa inerzia.

Nonostante la nascosta incredulità con cui le promesse sono state ascoltate, sarebbe un grosso guaio se non venissero mantenute. Se il comportamento di tutto il Parlamento non sarà tale da favorire il varo tempestivo delle riforme promesse, l’ulteriore perdita di credibilità della politica sarà grave. Per l’economia ciò avrà costi diretti e indiretti, particolarmente inopportuni in questa delicata fase di crisi e trasformazione globali e di perdita di competitività relativa dell’Italia. Avrà i costi diretti delle mancate riforme come, ad esempio, quelli di dover continuare a mantenere un personale politico largamente eccessivo o di dover sopportare i ritardi che la politica economica subisce dall’attuale forma di bicameralismo. E avrà i costi indiretti della perdita di credibilità dei politici, che hanno promesso riforme concordi e non le fanno. Se la politica non è credibile non è efficace. In politica economica la mancata credibilità di chi la formula rafforza la posizione contrattuale dei gruppi, ancorché minoritari, che la vogliono ostacolare.

Fra le riforme promesse c’è quella della legge elettorale. Non è la più importante, né la più urgente, né quella dove la convergenza di opinioni è più promettente. Permettere a eventuali difficoltà nel trovare il consenso sulla riforma elettorale di rallentare gli altri aspetti del riassetto istituzionale, significherebbe imbrogliare gli elettori.

Il processo di riforma dovrà radicarsi nel Parlamento. Il governo non ne sarà l’unico protagonista. Ma ci sarà un ministro per le Riforme e pare che sarà concentrato soprattutto sul tema del federalismo. Qualunque approfondimento del federalismo, giusto o sbagliato che sia, sarebbe solo fonte di ulteriore disordine, di costi aggiuntivi, di pericolose tensioni politiche, se non avvenisse nel quadro d’insieme delle riforme istituzionali da tutti predicate, come la radicale riarticolazione degli enti locali, la riforma delle funzioni del Senato, il rafforzamento dell’autorità del governo centrale.

Lo scenario peggiore sarebbe quello in cui maggioranza e opposizione cercassero di farci dimenticare le promesse di lavoro bipartisan sulle riforme istituzionali. Avranno la tentazione di farlo, per esempio, trovando il modo di litigare subito duramente su altre questioni, al punto di poter dire che il clima è diventato inadatto alla collaborazione. E trovando il modo di inciampare in rinnovate baruffe sulla riforma elettorale. La maggioranza potrebbe poi far finta di preoccuparsi delle riforme istituzionali facendo qualche passo, pericoloso anche se puramente formale, sul solo fronte del federalismo. E l’opposizione potrebbe tentare di distrarsi dalla responsabilità, che condivide pienamente, di fare le riforme istituzionali. Distrarsi, ad esempio, con l’ansia di ricercare più faziosamente il consenso mancato nelle elezioni e riducendo per questo la propensione a collaborare con la maggioranza. Ma entrambe, se cedessero alla tentazione, pagherebbero un alto prezzo per la loro incoerenza. Purtroppo pagheremmo anche tutti noi.

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« Ultima modifica: Novembre 14, 2012, 05:32:14 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 23, 2008, 10:46:19 am »

23/6/2008
 
Se le banche riaprono i giochi
 

Il loro comportamento imprenditoriale è cruciale per togliere il Paese dai guai.

Ma devono chiarire le strategie e ricercare davvero nuovi capitali
 
 
FRANCO BRUNI
 
Dalle banche di investimento internazionali si alternano in questi giorni notizie incoraggianti (ad esempio da Goldman Sachs), meno buone (ad esempio da Morgan Stanley), drammatiche (come i numerosi arresti fatti giovedì dall’Fbi). Fatto sta che il corso delle azioni bancarie è comunque in difficoltà un po' dappertutto. Negli ultimi sei mesi la discesa dell'indice dei titoli bancari della Borsa italiana si avvicina al 30%, dieci punti peggio della flessione dell'insieme del listino.

La crisi finanziaria internazionale sta per compiere un anno e non è finita. Non si tratta di un fenomeno limitato alla brutta fine dei titoli immobiliari statunitensi. Sono emerse le esagerazioni che dall'inizio del decennio hanno visto il credito espandersi a ritmi imprudenti, con un'innovazione finanziaria fuori controllo, una sottovalutazione generale dei rischi di insolvenza e illiquidità. Gli eccessi del credito hanno anche favorito incidenti operativi e frodi. La bolla del credito si sta ora sgonfiando. Si fanno i conti, emergono le perdite e le difficoltà dei bilanci delle banche. La speranza è che, man mano che i danni vengono localizzati, con chiarezza e trasparenza, riprenda la fiducia, soprattutto nei rapporti interbancari, che sono lo snodo cruciale della circolazione del sangue dell'economia mondiale. Si potranno così limitare le conseguenze della crisi finanziaria sull'economia reale.

Due condizioni
Le banche centrali e le autorità di regolazione e vigilanza hanno responsabilità nella generazione di questa crisi. L'eccesso di credito e i crediti cattivi sono stati permessi da politiche monetarie troppo espansive, con tassi di interesse troppo bassi, da regole lacunose e sorveglianza inadeguata. Non mancano ora gli sforzi per rimediare gli errori, prevenirne ulteriori, «imparare dalla crisi». Sono sforzi difficili anche perché la tolleranza, necessaria a «salvare» la finanza in difficoltà, contrasta col rigore, richiesto dal progetto di disciplinarla meglio per il futuro. Se ci preoccupiamo e ci «tassiamo» troppo per limitare i danni di oggi, rischiamo di incentivare nuove imprudenze e causare nuovi danni domani.

Ma per toglierci dai guai non bastano le autorità. È cruciale il comportamento imprenditoriale delle banche. Molte hanno visto il loro capitale ridimensionato dalla crisi, dopo che il grado di capitalizzazione del settore bancario si era già abbassato lungo gli anni dell'espansione creditizia. Per evitare che la scarsezza di capitale si trasformi in un grave razionamento dei finanziamenti all'economia reale occorre, un po' in tutto il mondo, trovare nuovi capitali che si investano nell'attività bancaria.

Ci sono almeno due condizioni perché ciò avvenga. In primo luogo le banche devono chiarire al mercato la loro nuova strategia, il nuovo modello con cui imposteranno l'attività. Avevano puntato molto sull'erogare tanti prestiti e liberarsi dei rischi conseguenti ricollocandoli sul mercato. Dal mestiere di chi si assume e controlla i rischi stavano passando a quello di chi li individua e poi li disperde, specializzandosi nella ricerca di chi li vuole sopportare. Una trasformazione che non è andata del tutto a buon fine. Ma c'era del buono nell'idea e non avrebbe senso tornare nei confini del vecchio modello, che si limitava a trasformare depositi, raccolti presidiando il territorio, in prestiti ben garantiti fatti a clienti ben conosciuti. Occorre continuare l'innovazione. Ma come? Per comprare azioni bancarie il mercato attende nuovi progetti, credibili e redditizi, attende di venir convinto che l'attività bancaria è ancora uno dei «driver» più preziosi della crescita economica.

Tra rischi e redditività
La seconda condizione è che le banche ricerchino davvero e accettino i nuovi capitali. Non basta chiederli ai loro attuali azionisti, né cercare il soccorso dei mitici «fondi sovrani», salvo poi garantirsi che non abbiano influenza rilevante sulla gestione. Con nuovi progetti ed equilibri più azzeccati fra rischi e redditività, si possono trovare nuovi soci e collocare nuove azioni senza deprimerne il corso. Ma occorre accettare i cambiamenti della struttura di potere aziendale che ne conseguono. Risolvere la crisi e rilanciare le banche significa anche rimetterne in gioco gli equilibri proprietari. È probabile che il rimescolamento non debba riguardare solo le banche in crisi. Se il settore troverà nuovi modelli di innovazione, articolazione e sviluppo, anche le banche più prudenti e tradizionali, pena l'emarginazione, saranno coinvolte, fino a dover riconsiderare il loro assetto proprietario.

Naturalmente è possibile che, sotto la morsa della crisi, intervenga la politica, che vitupera populisticamente le banche, salvo poi salvarle, a tutti i costi, bloccare l'innovazione e proteggere gli assetti proprietari. Magari con la scusa di difendere la stabilità o la nazionalità. Ad augurarsi che ciò non avvenga sono in primo luogo i risparmiatori e le imprese che vogliono beneficiare nei prossimi anni di servizi bancari abbondanti ed efficienti.

franco.bruni@unibocconi.it
 
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 17, 2008, 10:40:20 am »

17/10/2008
 
Purché la cura sia mirata
 
 
FRANCO BRUNI
 
Il rinnovarsi di violenti ribassi dei corsi di Borsa è dovuto alla crisi finanziaria ancora irrisolta e al suo effetto sull’economia reale, che diventa sempre più evidente e che è destinato a rimanere per qualche tempo anche dopo che i problemi strettamente finanziari saranno avviati a soluzione.

Dopo aver aiutato le banche con lo stanziamento di somme portentose, è naturale che sorga in tutti i Paesi una forte domanda di assistenza anche dalle imprese non finanziarie e dall’economia reale. Da tempo si chiedono riduzioni delle imposte sui redditi da lavoro più bassi, che aiuterebbero contemporaneamente il potere d’acquisto delle famiglie e il costo del lavoro delle imprese. Urgono aiuti per chi ha maggiori difficoltà con i mutui immobiliari. Emerge la necessità di riorganizzare e arricchire i sussidi di disoccupazione, soprattutto nei Paesi, come l’Italia, dove questo tipo di ammortizzatori sociali è più debole e meno adeguato a una fase di inevitabile rinnovata ristrutturazione delle attività produttive. È normale che anche le imprese, come tali, domandino una speciale attenzione della finanza pubblica per le difficoltà che la crisi esaspera. Succede in tutti i Paesi e lo hanno ricordato ieri i nostri governanti.

A differenza dell’assistenza alle banche che, almeno nella forma di impegno credibile, deve essere immediata, per bloccare il contagio dell’illiquidità e dell’insolvenza che sui mercati finanziari è rapidissimo, gli aiuti all’economia reale possono essere decisi con più calma, disegnandone la qualità con la massima cura. Ci sono infatti diverse condizioni per evitare che questi aiuti, soprattutto quelli diretti alle imprese, causino ingiustizie e siano controproducenti, favorendo le imprese e le spese sbagliate.

Gli aiuti devono essere il più possibile generali, assicurati con procedure poco discrezionali e molto trasparenti. Devono inoltre facilitare l’aggiustamento e non la cristallizzazione dell’organizzazione delle imprese e del mercato del lavoro, in un periodo in cui, nonostante la crisi, non cessa la sfida del cambiamento posta dal progresso tecnico e dalla globalizzazione. Un’altra condizione importante è quella ricordata ieri dal nostro ministro dell’Economia, che speriamo abbia la possibilità, la capacità e la coerenza di garantire: «Non esistono più vie nazionali, ma solo vie europee». I sostegni all’economia reale non devono fare arretrare il mercato unico, la cui integrazione è di per sé un supporto all’ampliamento del mercato delle imprese. Le vie europee aumentano inoltre la probabilità che la distribuzione degli aiuti non sia distorta a favore degli amici dei governanti nazionali. Gli annunciati incentivi al credito alle piccole e medie imprese, che possono giungere tramite la Banca europea degli investimenti, rispettano questa condizione, oltre a rivolgersi a un settore cruciale del sistema produttivo. In sede europea potrebbero anche essere concordati e, per quanto possibile, canalizzati, rilevanti aiuti al finanziamento delle infrastrutture e di processi produttivi molto innovativi, disponibili anche per le imprese più grandi.

Alcune forme di aiuto all’economia reale, come gli interventi della Bei, si intrecciano strettamente con la necessità di migliorare la liquidità del sistema finanziario e alleviare la stretta del «credit crunch». Molte imprese vantano nei confronti dello Stato crediti rilevanti, come i rimborsi dell’Iva: almeno in Italia, un forte aumento della celerità e della puntualità dei relativi pagamenti sarebbe preziosa. Per una parte di questi crediti si potrebbero inoltre studiare forme di cartolarizzazione che facilitino il loro risconto attraverso le banche e le banche centrali. La cartolarizzazione-risconto potrebbe venir migliorata e facilitata anche per alcuni tipi di prestiti delle banche alle imprese.

Nei giorni scorsi i violenti cali dei prezzi delle azioni hanno suggerito anche un altro genere di «aiuto» alle imprese: quello a non cambiar proprietario improvvisamente, contro la volontà dei loro dirigenti e dei loro attuali proprietari. Si è parlato di rivedere la legge italiana sull’Opa, rendendo meno facili le scalate ostili, soprattutto da parte di investitori di Paesi extraeuropei che hanno sistemi politico-istituzionali molto diversi dal nostro. Ovviamente l’idea non è priva di fondamento. Anche qui occorre però procedere, come di nuovo ha promesso ieri Tremonti, «in un quadro europeo».

Purtroppo in materia la direttiva europea, varata con fretta nel 2004 sotto presidenza italiana, è di scarsa qualità, permette regimi sbagliati, diversi e contraddittori: se allora si fosse fatto un maggior sforzo di qualità e armonia, oggi sarebbe più facile affrontare la questione. Occorre evitare che la riduzione della scalabilità delle imprese sacrifichi ancor più il valore delle loro azioni, tolga stimolo a gestirle meglio, favorisca gruppi proprietari che non hanno adeguata attenzione per gli azionisti di minoranza e, soprattutto, ostacoli l’arrivo di preziosi investimenti dei quali abbiamo un gran bisogno, come mostra anche l’operazione libica in Unicredit.

franco.bruni@uni-bocconi.it
 
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 25, 2008, 06:59:18 pm »

25/10/2008
 
L'unione fa la forza
 
 
FRANCO BRUNI
 
Con un’altra giornata di forti ribassi, le Borse hanno celebrato ieri l’anniversario del 24 ottobre 1929, considerato l’inizio ufficiale della «grande crisi». Problemi di illiquidità e timori di gravi insolvenze si mescolano inestricabilmente. Gli ingenti e variegati interventi delle autorità di tanti Paesi tardano a dar frutto. La crisi finanziaria alimenta quella dell’economia reale. Inceppa il credito alle imprese e frena investimenti e consumi perché riduce il valore dei patrimoni e l’occupazione. I danni reali rendono più difficile la stabilizzazione finanziaria. Ma anche se guarissero in fretta le banche e la Borsa, i guai già prodotti all’economia reale potrebbero proseguire a lungo, per contagio e inerzia.

La crisi finanziaria ha inoltre un impatto duraturo sull’economia reale a seconda di come viene gestita. Se la si soffoca con interventi sbagliati, le ferite all’efficienza dell’economia diventano difficili da rimarginare. E’ questo che si teme, per esempio, come conseguenza di massicci salvataggi e aiuti pubblici. Se i governi li fanno in modi scoordinati e protezionistici, ne esce un mercato globale distorto, politicizzato e meno produttivo.

Lo scenario, brutto e pericoloso, ha un sottofondo importante: quello delle aspettative. Al di là di quanto succede nei fatti dell’economia e della finanza, giorno dopo giorno, e al di là dei rimedi adottati dalle autorità, il mix di pessimismo e speranza con cui gli operatori guardano al futuro, non solo a quello strettamente economico, ha un grande impatto su banche, Borsa, consumi e investimenti. Modifiche anche marginalmente favorevoli delle aspettative e del clima psicologico del sistema possono migliorare le cose ancor prima che vengano presi provvedimenti concreti e decisivi.

La cura del clima di aspettative è una delle responsabilità cruciali della politica, nazionale e internazionale. Non solo della politica economica: conta moltissimo il comportamento d’insieme dei poteri pubblici, i modi, lo «stile» con cui i politici progettano, interagiscono e comunicano. E i mezzi di informazione, così come esasperano le conseguenze degli stili politici deteriori, possono esaltare l’effetto di quelli virtuosi.

Fra le molte leve a disposizione dei comportamenti politici per migliorare le aspettative, di fronte a una crisi come questa, ne spiccano due. La cooperazione internazionale, in tutte le forme, e la convergenza delle forze politiche all’interno di ogni Paese. In entrambi i casi non importano solo i provvedimenti economici che ne possono venire. La cooperazione internazionale migliora le aspettative economiche non solo se genera «nuove Bretton Woods», ma anche, per esempio, se riduce le tensioni militari o mostra di saper affrontare concordemente il problema del clima. La convergenza delle forze politiche nazionali, per fare esempi italiani, beneficia da subito le aspettative economiche anche se riesce a partorire progetti condivisi di riforme a medio termine della scuola, della giustizia, dei regolamenti parlamentari o delle autonomie locali.

Se si pensa alla necessità di un colpo di reni della credibilità complessiva della politica, gli Usa hanno al momento un’occasione che manca agli europei: sono molto vicine le elezioni. Il loro risultato, chiunque vinca e indipendentemente dai programmi dei candidati e dei partiti, ha qualche possibilità di riuscire brillante e rinfrescare d’improvviso un’atmosfera dove si celebra con amarezza e rabbia il fallimento politico ed economico, nazionale e internazionale, della presidenza uscente. Nel caso di un successo di Obama si avrebbe anche un miglioramento della concordia fra presidenza e Congresso.

Anche l’Europa sta cercando di trovare il suo colpo di reni. Dovrebbe accelerare subito i passi di crescente coordinamento che la crisi le ha suggerito nelle ultime settimane. Lo può fare anche in campi non strettamente economici, con nuovi atteggiamenti unitari in politica estera o ambientale e nella rappresentanza nelle organizzazioni internazionali. Nello specifico della gestione della crisi, non deve smentire l’impressione ancor vaga di unità d’intenti che ha provato a mostrare. Il mancato accordo sulla costituzione di un fondo comune europeo va compensato con l’adozione di modalità effettivamente omogenee negli interventi eccezionali di sostegno e garanzia decisi dai singoli governi. Se ciascuno aiuta chi vuole e come gli pare, può scoppiare una guerra di protezionismi e di sussidi contrapposti e divisivi. Peggiorerebbe l’immagine complessiva della politica europea, le aspettative e l’evoluzione della crisi finanziaria e reale.

franco.bruni@unibocconi.it
 
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 10, 2008, 10:21:25 am »

10/11/2008
 
Meno tasse per ripartire
 
FRANCO BRUNI

 
Nell’incontro di oggi alla Casa Bianca, Barack Obama premerà su Bush perché faciliti l’avvio delle politiche che la nuova amministrazione ha in animo di adottare e, in particolare, le misure contro la crisi economica e finanziaria.

La consapevolezza che «non c’è un minuto da perdere» è positiva. Si tratterà di politiche costose. Negli Usa sta per venir accantonata ogni preoccupazione per l’aumento del deficit pubblico.

Fra salvataggi e aiuti - quelli già decisi e quelli che verranno - e la promessa di Obama di ridurre le imposte alla maggioranza degli americani e di fare le riforme sociali, il disavanzo aumenterà nettamente. La speranza è che ciò eviti una grave depressione e avvicini la ripresa. Con la ripresa potrà ricominciare l’aggiustamento della finanza pubblica: ma è difficile che ciò avvenga prima di qualche anno.

Una parte del nuovo debito pubblico americano si trasformerà in debito estero e sarà assorbito dal resto del mondo, soprattutto se continuerà l’ondata di fiducia che Obama ha ispirato.

I democratici non hanno definito ancora chiaramente i provvedimenti da prendere. Alcuni di loro sono stati complici del confuso disordine e dell’arbitrio con cui il ministro del Tesoro Paulson ha affrontato le difficoltà delle banche. Gli interventi a sostegno dei settori non bancari sono ancora da disegnare. Preoccupa inoltre il fatto che l’agenda economica non è al centro delle nuove aperture multilaterali con cui Obama si presenta al resto del mondo. Il progetto di affrontare tutti insieme la crisi è vago. C’è il rischio, per esempio, di andare al G20 di sabato prossimo con gli Usa pronti a decidere unilateralmente massicci aiuti al loro settore automobilistico.

L’Europa può e deve aiutare l’America a chiarirsi le idee, fare le scelte giuste e inserirle in un disegno multilaterale. Perciò deve essere unita, propositiva, concreta, coraggiosa. Non bastano lo sfoggio estetico di dichiarazioni unitarie e l’attivismo decisionista di Sarkozy. La diffusa soddisfazione con cui, qualche settimana fa, è stato accolto l’accordo-quadro sugli aiuti alle banche è stata purtroppo seguita da interventi molto diversi dei vari Paesi. È anche trapelato un disaccordo di fondo sui poteri economici, regolamentari e di vigilanza finanziaria da accentrare nell’Unione. Si è detto che al G20 l’Europa «parlerà con una sola voce» ma, di fatto, avrà numerosi rappresentanti, di Paesi che non sono stati nemmeno in grado di concordare una proposta forte per l’ordine del giorno. C’è stato un concorde brontolio per la pretesa inadeguatezza dei tagli dei tassi della Bce, ma sul fronte della politica di bilancio, che è la vera responsabilità dei governi, non si vedono decisioni coraggiose e concordate con concretezza e tempestività.

Anche l’Ue può scegliere con chiarezza di fronteggiare la crisi con la finanza pubblica. La misura dell’emergenza è tale che ciò è ammesso dalla logica del Patto di Stabilità e Crescita, che non manca della flessibilità necessaria per consentire interventi di dimensione ingente. L’importante è che siano di buona qualità e messi in atto dai Paesi membri in modo concordato e molto omogeneo. Anche agli Usa e al resto del mondo devono apparire come una risposta comune dell’Ue a uno shock comune. Ciò che va evitato è una disordinata indisciplina, una competizione miope a chi scarica meglio sugli altri i costi della crisi, una serie di interventi nazionali che feriscono l’unità del mercato dell’Unione e la sua capacità di dialogare con coerenza col resto del mondo nella ricerca delle ricette migliori.

Occorre innanzitutto una sensibile riduzione delle imposte sui redditi da lavoro, in particolare quelli più bassi, suscettibile di riflettersi rapidamente in una contrazione dei costi salariali lordi delle imprese. In materia possiamo confrontarci coi tagli fiscali che ha in mente Obama. Non è vero che i tagli di imposte finirebbero nei risparmi: la gente è impoverita e scarsa di liquidità, pronta a spendere il «di più» che le si lascia in tasca. In secondo luogo, occorre arricchire e rendere internazionalmente più omogenei e fungibili i sussidi di disoccupazione e gli altri ammortizzatori sociali, per facilitare le ristrutturazioni e le ri-localizzazioni che la crisi ha reso ancor più urgenti.

Ci sono poi gli aiuti diretti alle banche e alle imprese non finanziarie; gli Usa stanno puntando sull’automobile. Nell’iniettare capitale, nel fornire garanzie e aiuti di diverso tipo, l’aspetto più importante è accordarsi per procedere in modi veramente omogenei. Se ci sarà omogeneità in Europa si potrà cercarne un poco anche fra le due rive dell’Atlantico. Occorre evitare di favorire chi è più grande e politicamente influente trascurando chi, proprio in un periodo di crisi, può meglio mostrare la sua capacità di reagire con innovazioni vincenti. Occorre disegnare aiuti che non proteggano l’esistente ma facilitino il cambiamento.

In ogni caso «non c’è un minuto da perdere» anche per gli europei, soprattutto se vogliono contribuire a un tavolo globale dove gli Usa stanno per presentarsi avendo cominciato a fare i loro «compiti a casa» con energia e determinazione.

franco.bruni@unibocconi.it
 

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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 01, 2008, 03:17:22 pm »

1/12/2008
 
Crisi, l'Europa è un alibi
 
 
FRANCO BRUNI
 
L’intensità e la probabile durata della crisi economica fanno apparire inadeguati i provvedimenti finora adottati in Europa per contrastarla. I canali del credito rimarranno a lungo parzialmente ostruiti dall’eccessivo indebitamento degli intermediari e di alcuni settori dell’economia reale.

La revisione delle stime dei rischi, in corso presso le banche, porta a ristrutturare la qualità e il costo dei prestiti. Nessun ammonimento politico ai banchieri può evitare all’economia reale la fatica di adattarsi alle nuove condizioni.

Nel frattempo, le difficoltà di imprese e famiglie si propagano, domanda e produzione rallentano, con un’inerzia che cesserà solo qualche semestre dopo la ripresa dei circuiti finanziari. La politica macroeconomica non può far molto. Per temperare la crisi, deve essere concertata internazionalmente e usare bene gli strumenti monetari e di bilancio.
Giovedì prossimo la Bce decide sui tassi. È probabile che li abbassi ancora, in misura significativa. L’importante è che non esageri e convinca i mercati che la discesa dei tassi europei si fermerà abbastanza lontano dallo zero, anche se l’inflazione diventasse temporaneamente negativa.

Eccessivi ribassi dei saggi a breve controllati dalla Bce, se transitori, non fanno scendere i tassi sui rischi a più lungo termine e hanno effetti trascurabili; se invece sono ribassi duraturi, tolgono incentivi a correggere la gestione del rischio che ci ha messo nei guai e diventano premessa per nuove bolle finanziarie. Non è il denaro gratis che cura una crisi nata proprio dall’aver inondato il mondo di liquidità a buon mercato. Politici, banchieri e imprenditori dovrebbero smettere di scaricare in critiche alla Bce le loro frustrazioni e sensazioni di impotenza.

Più adatta a fronteggiare la crisi è la politica di bilancio. Si stanno discutendo le sue linee di indirizzo europee e i provvedimenti nazionali. È diffusa l’opinione che il disegno degli stimoli fiscali sia debole e insufficiente e che sia colpa del Patto di Stabilità e della Commissione.

Ideale sarebbe una forte espansione, concentrata in tutta Europa su tre voci. Taglio delle imposte sui redditi da lavoro, soprattutto i più bassi; aumento dei sussidi di disoccupazione; investimenti nelle banche per aiutarle a ricapitalizzarsi e a ridurre l’indebitamento. L’insieme delle tre voci beneficia sia la domanda sia l’offerta: stimola la spesa, contiene i costi lordi del lavoro, riduce il razionamento del credito, facilita le ristrutturazioni. Sussidi di disoccupazione e aiuti alle banche sono per natura temporanei; non si dovrebbe invece insistere sulla temporaneità dei tagli alle tasse, per evitare che alimentino i risparmi invece delle spese. Minori imposte sui salari bassi e welfare per i disoccupati frenano inoltre lo squilibrio della distribuzione dei redditi, che sta rendendo la crisi più drammatica.
Si fa troppo conto sulle spese in infrastrutture. Quelle utili devono aver luogo regolarmente, ma dalla crisi non ci salveranno i lavori pubblici. Sono spese comunque lente, favoriscono solo alcuni settori, spesso non privilegiano i progetti migliori ma quelli che generano più voti nel breve periodo.

L’inadeguatezza delle politiche di bilancio che si prospettano non è colpa del Patto di Stabilità né della grettezza burocratica della Commissione. È dovuta, da un lato, al desiderio dei Paesi membri di gestirle in modi non omogenei, accontentando i gruppi di pressione nazionali. Il che porta a far apparire Bruxelles come un intralcio, indebolisce l’impeto comunitario della manovra, incentiva stimoli di bilancio nazionali dispersi in mille rivoli, come sta succedendo in Italia.

L’altra causa di inadeguatezza delle politiche di bilancio europee è il mercato internazionale dei titoli pubblici, sul quale si stanno per riversare, fra l’altro, colossali emissioni Usa. I singoli governi europei non possono contare su una loro banca centrale per garantire la moneta necessaria a rimborsare i titoli che emettono; la Bce, per Statuto, non può finanziarli. I loro titoli sono dunque soggetti a rischio di insolvenza. Maggiori disavanzi ne fanno salire i tassi, soprattutto quelli dei governi più indebitati come il nostro. Da qualche tempo i Btp pagano ben più dei titoli tedeschi. Con debiti pubblici crescenti, fenomeni speculativi possono destabilizzare il mercato europeo dei titoli di Stato.

Il problema diventa tanto più trattabile quanto più il mercato avverte che l’espansione di bilancio è un fatto comunitario, che si fanno passi verso più coordinamento e accentramento delle finanze pubbliche europee. Per ora i passi sono troppo piccoli. La Commissione, anche sul piano dell’immagine, è troppo debole nell’esercitare il suo potere-dovere di iniziativa. I governi si oppongono caparbiamente a delegare poteri a organi comunitari. Come fa l’Europa a progettare di raccogliere imposte ed emettere titoli in proprio, se non è nemmeno capace, nonostante gli spaventi della crisi, di sbrigarsi a centralizzare la vigilanza su banche, borse e assicurazioni? È cruciale che le prossime elezioni europee siano condotte parlando di Europa, non di bisticci nazionali. Dovrebbe emergere la richiesta che al nuovo Parlamento venga proposta una Commissione di alto profilo e grande autorevolezza. Un’interpretazione generosa e lungimirante delle elezioni europee aiuterebbe anche le politiche di bilancio dell’Unione a diventare più generose e lungimiranti.
franco.bruni@unibocconi.it 

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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 23, 2008, 11:38:00 am »

23/12/2008
 
La risposta da dare
 
FRANCO BRUNI
 

L’Istat evidenzia il crescere della povertà in Italia e l’Ocse prevede forti aumenti della disoccupazione.

Mentre il Fmi raccomanda ai governi di usare con più decisione lo stimolo fiscale per reagire alla crisi. Obama ingrandisce i suoi programmi di bilancio espansivi. L’Europa esita, non trova l’energia e la coesione per coordinare interventi adeguati. Ogni Paese membro guarda al problema con preoccupazioni diverse. In Italia il timore è che i mercati ci facciano pagar caro l’aumento di un debito pubblico che è già eccessivo.

Oltre alle misure per facilitare la ricapitalizzazione delle banche e la ripresa dei mercati finanziari, è invece urgente decidere stimoli fiscali alla domanda. Devono essere gli stimoli giusti, ma non dobbiamo rinunciarvi per paura di decidere quelli sbagliati. La macroeconomia internazionale è depressa per carenza di domanda, indebolita dalla crisi finanziaria e dal peggioramento delle aspettative. Il calo della domanda rischia di durare molto, propagandosi a cascata: la previsione che già nel 2010 ci sarà un vero miglioramento rimane da dimostrare. L’aumento del rapporto fra i debiti pubblici e i Pil che rallentano sarà più duraturo in assenza di stimoli di bilancio. Per evitare il peggio i governi devono adottare provvedimenti espansivi, consistenti e non transitori. Le misure devono far parte di piani di bilancio pubblico pluriennali credibili, la cui sostenibilità va valutata nel medio periodo. La capacità produttiva dell’economia mondiale rimane elevata e il meccanismo di crescita connesso alla globalizzazione non è affatto fallito: dobbiamo favorirne la ripresa e governarlo meglio. Per disegnare i provvedimenti giusti occorre tener conto di come si presentava l’economia mondiale quando è arrivata la crisi. La distribuzione dei redditi stava diventando troppo diseguale. Chi era più sfavorito rischia oggi di soffrire di più e rendere più violenta la diffusione della recessione. Le imposte, la spesa pubblica e i costi del lavoro, nei Paesi avanzati, erano mediamente troppo elevati e sfavorevoli a un fluido svolgimento della concorrenza globale. La quale, con l'emergere prepotente di nuovi Paesi e la diffusione del progresso tecnico, richiedeva continue riorganizzazioni produttive, complesse e politicamente costose, frenate da vincoli tendenzialmente protettivi dell’esistente.

In questa situazione lo stimolo fiscale giusto è una riduzione consistente e duratura delle imposte sui redditi da lavoro medio-bassi, che in parte si traduce automaticamente in minori costi lordi per le imprese, soprattutto se vengono abbassati anche gli altri oneri sociali che tassano l'occupazione. In alcuni Paesi, fra cui il nostro, vanno inoltre accresciuti i sussidi ai disoccupati, riformando gli ammortizzatori sociali in modo da facilitare il cambiamento, anziché la conservazione, degli assetti produttivi sfidati dalla globalizzazione e colpiti dalla crisi.

Questi provvedimenti stimolano da un lato i consumi e dall'altro la riorganizzazione dell'offerta. In Europa è salutare che l'economia sia più sospinta dai consumi interni e meno dipendente dalle esportazioni. Le minori imposte accrescono il disavanzo e il debito pubblico. Ma non è il timore di doverli ripianare in futuro, col ritorno a tasse più alte, a trattenere la gente dal consumare. Molti dei beneficiati hanno difficoltà ad «arrivare alla fine del mese» e spenderebbero prontamente l’aumento del reddito disponibile. Il taglio delle tasse va comunque accompagnato dall’annuncio di nuove edizioni, più credibili, dei tanti progetti di riduzione graduale della spesa pubblica di cui da anni si parla in molti Paesi. Le accelerazioni degli aumenti delle età pensionabili sono fra questi, come le riforme strutturali del settore pubblico e il contenimento dei «costi della politica». La riduzione immediata della tassazione risulterebbe compensata dal serio impegno a contrarre gradualmente la spesa: lo scalino all’insù nel debito pubblico non ne minerebbe la sostenibilità. Tanto meglio se riprendessero i processi di liberalizzazione e la riduzione del protezionismo commerciale, come ci aveva promesso l'ultimo G20: lo stimolo alla domanda si moltiplicherebbe più velocemente e i gettiti fiscali risentirebbero meno della riduzione delle aliquote.

Purtroppo lo stimolo di bilancio ha una cattiva reputazione; è trattenuto dal timore di venir fatto male: è come buttar via il bambino con l'acqua sporca. Si teme porti più spesa e più intervento dello Stato nell’economia. Ciò non succederebbe con i provvedimenti appena detti. Mentre rischierebbe di avvenire con le mezze misure poco trasparenti alle quali ci si avvia in modo scoordinato. Può diffondersi il sospetto che la politica approfitti della crisi per espandere il suo ruolo, rallentare le riduzioni di spesa e coinvolgere i governi in progetti di infrastrutture clientelari, in aiuti e salvataggi precari, di dubbia efficacia. Lasciandoci con l’acqua sporca senza più il bambino.

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« Risposta #7 inserito:: Febbraio 04, 2009, 11:04:41 am »

4/2/2009
 
Il ritorno della società degli amici
 
FRANCO BRUNI
 

La crisi internazionale può interrompere la globalizzazione, che non è stata adeguatamente governata. Può risuscitare protezionismi nazionali, rallentare il commercio mondiale e dar luogo a sistemi economici più chiusi e provinciali.

La crisi può inoltre aumentare molto il ruolo del settore pubblico e della politica nell’economia. Il privato si indebolisce, domanda protezione e salvataggi. Il pubblico, la politica, li offre abbondantemente, fino a modificare le regole di funzionamento dell’economia di mercato, tanto più in presenza della chiusura internazionale di cui sopra.

Fra le conseguenze di sistemi più chiusi e più pubblici vi è il prevalere di un’economia imperniata più sulle relazioni dirette, fra persone e gruppi d’interesse, che sui rapporti anonimi dei mercati competitivi, ampi e integrati. Il successo degli operatori diventa più dipendente dalla conoscenza diretta dei loro clienti e fornitori, con i quali il rapporto assomiglia a uno scambio di favori prolungato nel tempo, basato sulla fiducia reciproca e protetto da rapporti concorrenti. Il successo dipende invece meno dalla loro capacità di produrre in modo innovativo, proponendo «a tutti» scambi istantaneamente convenienti e continuamente sottoposti alla concorrenza di possibili alternative proposte da altri.

Questa «economia di relazione» è facilitata dal passaggio dalla globalizzazione al provincialismo, perché richiede mercati ristretti e consuetudine di rapporti fra chi vi opera. L’economia di relazione non si regge sullo scambio d’informazioni oggettive e asettiche, disponibili per tutti, per così dire, «su internet». Si basa piuttosto su «amichevoli conversazioni» e frequentazioni personali sulla piazza del mercato provinciale. È favorita dall’accresciuta importanza del settore pubblico, come compratore, venditore, produttore, facilitatore, garante e dispensatore di aiuti e incentivi, perché l’interlocutore politico diventa un naturale catalizzatore di relazioni, con le quali si compiace di alimentare il consenso che gli serve. Il suo ruolo è maggiore se gli affari si fanno su piazze provinciali anziché su anonimi mercati aperti a tutto il mondo. Per questo i politici interpretano volentieri, in modi più o meno impliciti ed eleganti, ruoli anti-global.

La crisi suscita un’economia di relazione anche perché è cominciata e radicata nei mercati finanziari. Infatti la finanza ha fallito proprio nella sua configurazione anonima e globale. Hanno deluso i contratti finanziari scritti, diffusi, prezzati con i computer, con formule e schermi accessibili contemporaneamente da Hong Kong e Reykjavik. Ha deluso e spaventato l’astrattezza e la virtualità di titoli, apolidi e sofisticati al punto che è difficile capire i rapporti di produzione e scambio sottostanti e «sentirne l’odore». La crisi ha dunque rivalutato quella che gli economisti chiamano proprio «finanza di relazione», il credito bancario fornito in forme semplici a imprenditori conosciuti, la gestione del risparmio con prodotti standardizzati, scelti «allo sportello» fra interlocutori che si conoscono e vogliono mantenersi in relazione. È vero che ci sono anche le relazioni truffate di Madoff: ma sono stranezze per milionari cosmopoliti: un’irrilevante eccezione.

Si è rivalutata la banca piccola, locale, ed è di gran moda la sua «relazione col territorio». Anche nell’aiutare le banche più grandi i politici raccomandano di guardare alle imprese che concretamente conoscono e di essere con loro «generose». La politica invita a valorizzare la finanza di relazione, a ridimensionare l’esposizione ai sofisticati mercati globali, a supportare lo sviluppo territoriale, visibile, conosciuto: quello, guarda caso, disposto a ripagare i politici col consenso elettorale.

Sicché l’aiuto alle banche si lega a quello al formaggio parmigiano e, in scale diverse, richiama l’amicalità su cui il governo ha contato nel salvare la compagnia di bandiera, nonché il ritorno del progetto di una «banca del Sud», e così via. Si attenua, nel frattempo, la polemica contro i «salotti» della finanza nazionale e i conflitti di interesse che vi risiedono: il salotto non è proprio la piazza provinciale, che sarebbe l’ideale, ma almeno non è il diabolico mercato globale, dove non si sa nemmeno a chi telefonare per combinare qualche affare o finanziare qualche aiuto, fra politica ed economia, entro i confini di noti cortili, almeno adiacenti a quelli su cui si affacciano le finestre dei salotti.

L’economia di relazione ha i suoi pregi, fra i quali quello di essere mediamente stabile, prevedibile, rassicurante. L’innovazione vi procede con gradualità, senza eccessi rischiosi. Gli operatori principali rimangono tali a lungo. La concorrenza non riesce a scalzare le loro relazioni. Qualche escluso viene cooptato lentamente, a condizione che non sconvolga le regole del gioco. Le intese personali sono più salde dei contratti di mercato. Le relazioni economiche assomigliano molto a quelle politiche e queste ultime sono indispensabili alle prime.

È un’economia conservatrice, a sviluppo lento, con relazioni internazionali scarse e spesso conflittuali. Fra i suoi difetti, il peggiore è forse il sistema d’incentivi che crea, soprattutto per i giovani, ai quali insegna che il successo arride a chi è più capace di stabilire relazioni, con particolare attenzione a quelle politiche, anziché a chi innova le produzioni, le rende più convenienti e ne ottimizza il commercio. A lungo andare l’economia di relazione ha conseguenze antropologiche e culturali che tendono a farla declinare lungo una spirale autoreferenziale, verso una società sempre più chiusa, meno produttiva, meno progredita, meno giusta.


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« Risposta #8 inserito:: Febbraio 20, 2009, 03:51:52 pm »

20/2/2009
 
I tre nodi della crisi
 
FRANCO BRUNI
 

Al cuore della crisi economica internazionale rimane quella bancaria, che è stata tamponata ma è lontana dalla soluzione. Le difficoltà delle banche sono tali che, sia in America che in Europa, non si esclude di dover ricorrere a massicce nazionalizzazioni, come ha accennato ieri anche Berlusconi. Le banche hanno tre problemi: liberarsi dalle «attività tossiche», ridurre il rapporto fra debiti e capitale, ridisegnare il modello della loro attività.

«Tossici» sono i crediti e i titoli che derivano da prestiti e investimenti troppo rischiosi e sbagliati. È improbabile che siano rimborsati e non si riesce a venderli. I primi tossici sono derivati dai prestiti ipotecari statunitensi, nell’estate del 2007. Dopodiché molti altri titoli e crediti sono divenuti tossici col diffondersi della crisi e della sfiducia. I tossici non hanno mercato: anche quando valgono più di zero, non c’è un prezzo per valutarli. Questa è una delle difficoltà che si incontrano quando si vorrebbe toglierli dal bilancio delle banche.

E metterli in una sorta di contenitore di spazzatura (la cosiddetta bad bank): ogni decisione su quanto pagarli, magari con soldi pubblici, alle banche che si vogliono ripulire, è arbitraria. Inoltre è difficile individuarli: anche ciò che non pare tossico potrebbe rivelarsi tale. Ma la difficoltà maggiore è che le banche che li hanno non vogliono dichiararli, per far finta, coi mercati e le autorità, di essere in condizioni migliori di quelle in cui si trovano. Dietro il problema dei titoli tossici ce n'è dunque uno più grave e generale: la mancanza di trasparenza dei mercati finanziari. Non ci sono abbastanza incentivi per essere trasparenti e le autorità non sono capaci di obbligare alla trasparenza.

Il secondo problema delle banche rimarrebbe anche se si eliminassero i titoli tossici: è l’eccesso di debito, l’altra faccia della carenza di capitale. Riguarda anche alcune imprese e molte famiglie. Vi sono Paesi, fra cui l’Italia, dove è meno grave, ma nel mercato globale ognuno soffre anche parte dei guai altrui. Quando il debito è alto, basta una piccola perdita dell’attivo per ridurre molto il capitale e rischiare il fallimento. Inoltre il troppo debito è un cruccio quando giunge a scadenza: se non si riesce a rinnovarlo occorre vendere precipitosamente attività, spesso in perdita. L’eccesso di debito è dovuto ad anni di politiche monetarie troppo espansive e tassi di interesse troppo bassi. Per rimediare occorre moderare l’espansione delle attività e ricapitalizzarsi.

Oggi si dice alle banche di non negare i prestiti alle imprese. Nel breve periodo è giusto dirlo, perché la restrizione del credito può peggiorare la crisi dell'economia reale e rendere ancor più rischiose le banche con le quali è indebitata. Ma nel medio termine i bilanci delle banche, i loro debiti e quindi i titoli e i prestiti, dovranno ridimensionarsi, se il sistema creditizio deve risanarsi e diventare meno rischioso. A meno che non si trovi tanto nuovo capitale azionario da investire nelle banche, perché possano espandere i prestiti senza indebitarsi troppo. Se è capitale dello Stato si va verso la nazionalizzazione delle banche. Per evitarlo occorre convincere il capitale privato.

Ed ecco il terzo problema. Chi compra azioni di una banca, anche di una good bank senza titoli tossici, vuole che abbia un progetto di sviluppo convincente, che oggi non c’è. I banchieri, da un lato, mascherano la gravità della crisi, sostengono che se la caveranno senza nuovi azionisti, senza cambiare più di tanto le strategie, il management, la composizione e il funzionamento dei consigli di amministrazione; dall’altro parlano di tornare a far banca «come una volta», raccogliendo depositi al dettaglio e facendo prestiti in una dimensione locale. Sembra vogliano evitare sia di rischiare che di innovare, che rifuggano la concorrenza internazionale, che rinuncino a cercare nuovi strumenti per gestire i risparmi, nuove tecniche per finanziare le imprese, nuovi mercati dove raccogliere fondi, proporre finanziamenti, valutare, controllare e distribuire i rischi.

Nel complesso, sotto i colpi della crisi, i banchieri hanno un atteggiamento difensivo e conservatore. Ciò vorrebbe tranquillizzare; ma non è quel che serve per convincere i capitali a investirsi in banca, permettendole di tornare su una strada di sviluppo dove solo l’intraprendenza innovativa consente rendimenti proporzionati ai rischi. Per meritare nuovi capitali le banche dovrebbero tornare a disegnare strade nuove. In questi ultimi anni l’innovazione ha fatto una brutta fine perché è stata interpretata in modo scorretto, regolata in modo inadeguato, vigilata in modo complice o distratto. Ma il rimedio non è tornare all’antico: è la riorganizzazione degli incentivi aziendali, delle regole e della vigilanza delle autorità, perché la banca competa e innovi consentendo il controllo trasparente dei rischi propri e del sistema. L’idea che ciò sia possibile si è indebolita anche sul piano culturale, anche in campo politico e accademico. Ma fino a quando i banchieri non si riaffacceranno sui mercati con strategie convincenti, disponibili a rimettersi in gioco innovando, non si potrà ricapitalizzare le banche e risolverne durevolmente la crisi.

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« Risposta #9 inserito:: Maggio 13, 2009, 10:40:06 am »

13/5/2009
 
Economia, non bastano le aspirine
 
FRANCO BRUNI
 
Anche il presidente della Bce lo ha riconosciuto: non mancano segni che la crisi sta smettendo di peggiorare. Interrompere la discesa può essere la prima mossa per cominciare a risalire. La speranza che l’economia mondiale entri in una fase migliore non va sottovalutata. Ma è prematuro parlare di «ripresa» e pericoloso coltivare illusioni, precipitarsi a mettere fra parentesi quanto è successo, sostituire la retorica della fine del mondo con quella del «tutto come prima». Il miglioramento di alcuni indicatori è il risultato dell’eccezionale iniezione di moneta e spesa pubblica con le quali quasi tutte le principali economie hanno reagito alla crisi.

Le medicine sono state date in dosi forti. Ma in parte si tratta di farmaci che calmano i sintomi della malattia, incoraggiano il paziente ma non curano il morbo. Servono a guadagnar tempo perché le vere cure vengano decise e abbiano effetto. Le vere cure sono le riforme economico-finanziarie per governare meglio la globalizzazione ed evitare che il mondo cresca in modo disordinato, squilibrato, pompato, e poi si ammali seriamente, come è successo. L’ideazione e l’implementazione delle misure necessarie procedono ancora lentamente. Per ora prevalgono gli antidolorifici.

Le iniezioni di moneta e spesa pubblica possono inoltre avere effetti collaterali indesiderabili. Il principale è l’inflazione. Quando c’è troppa moneta in giro basta un piccolo cerino per incendiare i prezzi. Il fuoco può accendersi anche «da solo», se si accendono le aspettative di inflazione. Può accenderlo il prezzo delle materie prime o le tensioni su mercati del lavoro che non vengono abbastanza riformati prima della ripresa. O le rigidità e i colli di bottiglia di un’economia internazionale da riorganizzare, o la scarsità di alcuni servizi, compresi quelli pubblici, e di alcuni beni strumentali indispensabili a una ripresa equilibrata. L’eccesso di moneta e di spesa può anche tornare a gonfiare bolle speculative dei prezzi immobiliari e finanziari. I mercati dei cambi, rimasti per ora più stabili del previsto, possono squilibrarsi improvvisamente, soprattutto se non si corregge bene il disavanzo strutturale della bilancia dei pagamenti statunitense. I cambi instabili creerebbero nuovi problemi al commercio e alla finanza nonché balzi nei prezzi delle importazioni di molti paesi e quindi dell’inflazione. Poiché l’inflazione riduce il valore reale del debito pubblico, il fatto che questo sia stato accresciuto dappertutto dagli interventi anticrisi è un incentivo per i governi ad accettarla.

Ai primi seri segni di ripresa dell’inflazione è probabile che alcune autorità monetarie, soprattutto in Europa, rispondano tornando ad alzare i tassi di interesse. Questa reazione potrebbe innescare un nuovo ciclo di pessimismo e fermare ogni segno di miglioramento ciclico. Assisteremmo allora all’aborto di una ripresa troppo precoce e troppo in anticipo sulle riforme e gli aggiustamenti strutturali necessari.

Per correggere gli squilibri che hanno portato alla crisi servono riforme radicali e meditate. Serve quindi tempo. Quando si arresta il crollo ci vuole un periodo abbastanza lungo di bassa crescita e laboriosa riorganizzazione. Va ridotto il grado medio di indebitamento degli operatori economici privati e pubblici, compreso il sistema bancario. Nei prossimi trimestri, fra banche e governi, la pressione per il rifinanziamento dei debiti in scadenza sarà fortissima. È una pressione che può tornare a disturbare i mercati finanziari e che domanderà che proseguano le iniezioni di moneta e i tassi di interesse quasi a zero, alimento per le aspettative di inflazione. È una crisi «da troppo debito» ed è stata gestita, per ora, ridimensionando poco i debiti e, in qualche caso, aumentandoli molto. Non si risolverà fino a quando la riorganizzazione internazionale delle spese, delle produzioni, della formazione di risparmio, e un’ingente accumulo di nuovi capitali di rischio, non avranno ridotto l’indebitamento passato e la propensione e crearne di nuovo.

Dobbiamo dunque insistere e darci tutti da fare per approfittare dell’effetto degli antidolorifici riducendone la somministrazione e accelerando molto le riforme, le vere medicine. Al di là dei dettagli, tutte le riforme importanti richiedono di spostare l’enfasi dall’interesse e dalla sovranità nazionali all’interesse globale e al rafforzamento di organismi sovrannazionali. Altrimenti non si possono riformare le politiche macroeconomiche, le regole della finanza e del commercio né si può riequilibrare la distribuzione globale del reddito, delle spese e delle produzioni.

Perciò, guardando ai prossimi mesi, i veri indicatori di ripresa saranno i successi, nei quali molto dobbiamo sperare, dei programmi dei G20 e del G8 nonché degli sforzi per far riprendere il cammino verso l’unione economica e politica dell’Europa, anche in seguito alle prossime elezioni e al rinnovo degli organi comunitari.

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« Risposta #10 inserito:: Luglio 03, 2009, 10:18:49 am »

3/7/2009
 
L'economia della vista cortissima
 

FRANCO BRUNI
 
I dati comunicati ieri sul deficit pubblico non sono più gravi delle attese. La caduta dei redditi, con la crisi, ha portato con sé il gettito delle imposte, ma non le spese pubbliche: il disavanzo è dunque cresciuto in rapporto al Pil, come è normale nelle recessioni. Il problema non è il disavanzo di questi trimestri disastrati, ma il disegno di lungo periodo della nostra politica di bilancio. La finanza pubblica italiana, nel sostenere l’economia durante gli ormai due anni di gravi difficoltà globali, è stata comprensibilmente prudente. Per osare di più, come da queste colonne suggerivo all’inizio della crisi, ci sarebbe voluta maggiore concertazione europea. Osare troppo avrebbe fra l’altro incoraggiato richieste più pressanti di indebiti salvataggi.

Sono stati presi alcuni provvedimenti utili, come il decreto anticrisi varato l’altro giorno, pur con qualche disordine, ritardo e improvvisazione. Il dibattito che si è sviluppato, nel governo, in Parlamento e con le parti sociali, ha inoltre aperto alcuni cantieri di riforma importanti per l’impatto della finanza pubblica sull’economia: come quelli degli ammortizzatori sociali e delle pensioni, della scuola e dell’università, del rilancio della produttività in tutta la pubblica amministrazione. Cantieri quasi virtuali e ancora scarsi di risultati concreti, dove le pressioni dei gruppi di interesse e l’esitazione del calcolo politico, alla ricerca del consenso di breve termine, indeboliscono l’intenzione di incidere davvero sulla dimensione e la qualità delle entrate e delle uscite. Ma i lavori sono avviati. Prima o poi, in forme più o meno concertate fra maggioranza e opposizione, potrebbero risultarne cose preziose per migliorare durevolmente il funzionamento di un’economia che, proprio perché in crisi profonda, non ha bisogno solo di aiuti palliativi di breve andare.

Il problema è che ci aspettano tanti anni di ristrettezze, crescita scarsa e gravi difficoltà per i conti pubblici. E’ inutile nasconderci dietro speranze di rapida ripresa. Il mondo, per così dire, l’ha fatta grossa. Il conto da pagare è enorme. Per considerarci fuori dai guai occorrerà molto tempo, anche perché diversi Paesi perdono tempo ricorrendo, nell’emergenza, a misure scomposte, protezioniste e pericolose, che allontanano l’aggiustamento. In Italia le condizioni della finanza pubblica erano già gravose prima che cominciasse la crisi e non basta la prudenza nel gestirla per affrontare un periodo durante il quale il gettito fiscale risentirà di imponibili scarsi e le spese pubbliche dovranno ammortizzare le emergenze. Un periodo lungo, dove sarebbe dannosissimo vivacchiare opportunisticamente, finendo per accontentare i più prepotenti e accentuare l’asservimento del bilancio pubblico alla ricerca del consenso effimero di ogni ciclo elettorale.

Occorre alzare il profilo dei programmi di finanza pubblica e orientarli decisamente al lungo periodo. Ci vuole un progetto per fissare le priorità in modo più esplicito e trasparente, legando il budget delle entrate e delle spese pubbliche alle riforme per le quali, come ha scritto Mario Monti, vanno fissate scadenze impegnative. Un progetto coinvolgente, con iniziativa e regia accentrate nel governo ma tavoli di dialogo con l’opposizione e le parti sociali. Un progetto ben pubblicizzato e trasparente, distinto dall’agenda politica ordinaria, con un orizzonte temporale più lungo, che possa contare, per i profili tecnici, su «uffici», procedure e valutazioni, indipendenti e innovative, prendendo qualche esempio dal «Budget Office» del Congresso americano. Un progetto di idee associate ai numeri delle entrate e delle spese prevedibili, seppur con forchette che includano scenari alternativi, che permetta a tutti di monitorare la finanza pubblica su un orizzonte che slitta ogni anno ma è lungo almeno dieci anni. Sarebbe un contributo importante della politica per ridurre l’incredibile incertezza nella quale oggi prendono decisioni le famiglie, le imprese e la stessa pubblica amministrazione, e che le sta costringendo in un orizzonte di vista cortissima.

Il punto centrale sarebbe fissare le priorità, cosa da sempre difficile nella finanza pubblica italiana, ancor più importante in periodi lunghi di risorse scarse. «Fissare le priorità» non significa solo graduare le urgenze: se occorra riparare prima i treni, il bilancio di previsione dell’Inps, i tetti delle scuole o i conti delle università. Significa soprattutto scegliere come se si potesse rifare da zero tutto il bilancio, decidendo quanto prelevare e quanto spendere, nelle varie voci di entrata ed uscita, in un’ottica il più possibile indipendente da quanto si è fatto finora, fissando il ritmo con cui perseguire obiettivi almeno decennali di riorganizzazione dei conti. Significa anche fare scelte impegnative sul fronte della cosiddetta «sussidiarietà», cioè prendere decisioni in quattro direzioni: quali entrate e spese assegnare all’Europa, impegnando poi tutta la nostra capacità di influenza per ottenere che se ne faccia carico, quali all’amministrazione centrale, quali alla responsabilità degli enti locali nel quadro del federalismo, quali a progetti di pubblica utilità che si prestano a una partecipazione massiccia di un’iniziativa privata orientata senza ipocrisie al profitto.

Se far politica significa scegliere, visto che dalla finanza pubblica passa più della metà del Pil, la crisi è il momento giusto per coinvolgerci tutti in una discussione che porti a scegliere un progetto ambizioso ma credibile, concreto e trasparente, sull’orizzonte lungo dei bilanci pubblici. Questo è anche il vero spirito del famoso Patto di Stabilità e Crescita che l’Ue, anch’essa approfittando della crisi, deve trovare il modo di resuscitare e rendere incisivo e convincente.

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« Risposta #11 inserito:: Agosto 07, 2009, 11:52:12 am »

7/8/2009
 
La lezione di Obama all'Italia
 
FRANCO BRUNI
 
Negli Usa il sistema politico è alle prese con la riforma sanitaria, un passaggio difficilissimo che ha grande importanza ideale e pratica. Per accelerarla, Obama ha messo in gioco la sua popolarità e rischia di perderla. La discordia delle idee e le pressioni degli interessi speciali sembrano insormontabili. Il che rallenta e alimenta il pessimismo anche sull’altro principale, complesso cantiere di riforma, quello della regolamentazione finanziaria.

La democrazia americana appariva indebolita e inceppata durante la presidenza Bush. La vicenda elettorale di Obama è giunta come un formidabile colpo di coda, vista con favore anche da chi non aveva simpatie per il suo partito ma recuperava fiducia nel buon funzionamento della competizione politica nella maggiore democrazia del mondo. Sarebbe un disastro per tutti se ora quella fiducia tornasse a mancare.

A ben vedere, però, la vicenda della riforma sanitaria Usa ha molti aspetti positivi. Dal suo svolgimento, che procede in modo vivace e piuttosto trasparente, vengono almeno quattro messaggi che dovrebbero risultare istruttivi anche per il dibattito politico e istituzionale italiano.

La proposta iniziale di Obama viene interpretata, ma nel contempo smontata e modificata, dalla Camera e dal Senato, nei quali si riflette il dibattito dell’opinione pubblica, ci sono scontri violenti e nascono idee nuove. La spinta della Presidenza è controllata ed elaborata da assemblee legislative articolate e competenti che, a loro volta, ricevono stimoli e correzioni dalla Casa Bianca e dal governo. La ricerca del consenso è lenta e difficile, come è inevitabile dato l’argomento, ma avanza.

Il primo messaggio è dunque che la forza del potere esecutivo, anche in una repubblica presidenziale, non viene sottratta a quella del legislativo: al contrario, la prima valorizza il ruolo della seconda. La robustezza e la fertilità della democrazia non stanno nello strapotere di governi forti e maggioranze travolgenti, ma nell’equilibrio di più poteri che si confrontano e controbilanciano in modo trasparente e ben regolato. Ciò tanto più quanto più delicate e importanti sono le deliberazioni in questione. Se in Italia volessimo rafforzare i poteri del governo dovremmo insieme rendere più forte, credibile e incisivo il ruolo del Parlamento.

Secondo messaggio: anche un sistema fortemente bipartitico ha bisogno di cooperazione fra maggioranza e opposizione per affrontare grandi riforme. Nonostante il parlamento Usa sia completamente bipartitico, con una netta maggioranza della stessa parte del Presidente, il successo della riforma sanitaria, se verrà, sarà merito di un gruppo di lavoro di sei senatori, tre di maggioranza e tre di opposizione, che stanno lavorando con intensità e con la capacità di unire le forze per battere le lobby. In Italia dobbiamo smettere di sospettare di «inciucio» ogni tentativo di convergenza fra maggioranza e opposizione e, d’altra parte, dobbiamo evitare di considerare il bisogno di bipartisanship come sfiducia nel bipolarismo.

Il terzo messaggio è che il bipartitismo più puro è compatibile con un ruolo attivo di gruppi e correnti che in ciascun partito, in modi trasparenti e concreti, arricchiscono il dibattito e facilitano il colloquio costruttivo con l’altro partito. Le correnti centriste di entrambi i partiti Usa si stanno mettendo in luce sia nel controllo delle iniziative di Obama che nella ricerca di soluzioni più condivise. Le convergenze tra forze politiche diverse, convergenze parziali, non ideologiche, progettuali, delle quali ci sarebbe enorme bisogno anche in Italia, possono venir favorite dal fatto che i due poli, senza perdere la loro identità, abbiano una vita interna plurale, animata da gruppi più omogenei che articolano il ventaglio delle proposte favorendo la formazione di consensi trasversali su questioni dove occorre forza bipartisan per vincere le resistenze alle riforme.

Il quarto messaggio viene dal ruolo cruciale che stanno avendo, nell’elaborazione della riforma sanitaria americana, almeno due istituzioni indipendenti ed esplicitamente bipartisan: il Congressional Budget Office, che valuta gli impatti sul bilancio pubblico delle proposte che transitano nel Congresso e che ha opposto i suoi numeri al primo progetto di Obama, e il Medicare Advisory Council, che sta proponendosi come organo tecnico in grado di modulare nel tempo l’avanzamento e l’aggiustamento di aspetti importanti della riforma, interagendo in modi e tempi prestabiliti sia col Presidente che col Congresso. Il ruolo dei tecnici indipendenti e delle istituzioni «al di sopra delle parti» è cruciale per obbligare la politica a evitare miopi opportunismi e mascheramenti delle verità tecniche e contabili, incoerenze e inutili ritardi. Dobbiamo ricordarlo anche in Italia dove non manca chi canta stonato inni populistici al «primato della politica».

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« Ultima modifica: Ottobre 02, 2009, 05:57:17 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #12 inserito:: Settembre 03, 2009, 05:22:30 pm »

3/9/2009

Non basta punire i banchieri cattivi
   
FRANCO BRUNI


Dal vertice Ecofin pare possibile che i Paesi europei presentino al prossimo G20 sulle riforme finanziarie alcuni punti comuni.

Fra i quali potrebbero esservi le linee guida per le remunerazioni dei banchieri e degli operatori finanziari. È questa una delle materie dove è essenziale un ampio accordo internazionale: infatti i singoli Paesi esitano a mettere vincoli al proprio settore creditizio perché temono di avvantaggiare le piazze estere.

Alla radice della crisi internazionale c’è stato un atteggiamento imprudente delle istituzioni finanziarie nei confronti del rischio. Le cause dell’imprudenza sono state tante, compresi gli eccessi di liquidità e credito a buon mercato che erano un invito a speculare. Ma la struttura dei compensi degli operatori finanziari ha avuto un ruolo cruciale. I compensi, oltre a essere spesso irragionevolmente alti, contenevano una quota elevata di incentivo, basato su vari tipi di indici di volume d’affari e profitti.

La presenza di incentivi è di per sé un fatto positivo. Ma questi erano formulati in modi inopportuni. Intanto dipendevano troppo dai risultati di breve, stimolando operazioni profittevoli nell’immediato ma con forte rischio di gravi perdite nel più lungo periodo, quando gli incentivi a breve sarebbero già stati pagati. Erano troppo slegati dalla rischiosità delle operazioni messe in atto per guadagnarli. Due operazioni che davano uguale profitto venivano premiate nello stesso modo anche se, per esempio, nella prima il profitto era stato ottenuto con una speculazione particolarmente azzardata. Erano poi incentivi asimmetrici, cioè fatti in modo da premiare i profitti senza punire le perdite. E legavano troppo poco i compensi individuali ai risultati d’insieme della banca, esasperando la competizione interna tra singoli dirigenti e funzionari, senza incentivarli a muoversi con una strategia comune che, fra l’altro, evitasse di esporre l’istituzione a rischi eccessivi. I compensi erano anche troppo poco trasparenti, poco conosciuti e discussi dagli stessi consigli di amministrazione degli istituti creditizi e dalle autorità di vigilanza.

Tutto ciò ha contribuito all’assunzione di rischi eccessivi e mal controllati. Ora si tenta di rimediare, creando schemi di remunerazione dove gli incentivi sono più orientati ai risultati di medio e lungo termine, più attenti ai rischi che si corrono nel cercare i profitti, più punitivi nei confronti delle perdite, più legati ai risultati d’insieme dell’istituto finanziario che li paga. Si vuole inoltre che le remunerazioni nelle banche e negli altri istituti finanziari siano meglio controllate dai loro amministratori e dalle autorità. Conviene anche, entro certi limiti, una maggior trasparenza dei compensi nei confronti della generalità dei dipendenti degli istituti, dei loro azionisti e di altri operatori con cui le banche hanno a che fare e per i quali il modo con cui esse organizzano le remunerazioni dei loro dirigenti e funzionari è un elemento importante per giudicarne l’efficienza e la prudenza.

Le regole sui compensi devono adattarsi a diversi tipi di operatori e di operazioni, in un ambiente dove l’innovazione tecnica e organizzativa continua a mutare e dove è particolarmente sentita l’esigenza di competere per assicurarsi gli operatori migliori e indirizzarli proficuamente. Non possono dunque essere regole rigide, uniformi e disposte per legge. Vanno preparate dalle autorità tecniche che dovranno vigilare sulla loro applicazione. Il Financial Stability Board, che raccoglie le autorità di regolamentazione di quasi tutto il mondo ed è presieduto dal Governatore della Banca d’Italia, lavora sul tema da un anno e mezzo e nell’aprile scorso ha pubblicato un accurato documento di principi guida. Per metterli in pratica è urgente che i politici facciano la loro parte e prendano le necessarie decisioni di fondo in modo concorde e convinto, smettendo di rimanere comicamente incerti fra la ricerca di facile popolarità di chi punisce i banchieri cattivi e il desiderio di favorire le banche del proprio Paese rispetto a quelle altrui. Speriamo che il G20, dove gli Usa hanno un ruolo essenziale, decida davvero e lo faccia con un apporto sostanziale degli europei.

Speriamo anche che le riforme finanziarie procedano su tutti i fronti, senza limitarsi alle tasche dei banchieri. È urgente, ad esempio, decidere procedure più rigorose e uniformi per i salvataggi bancari e nuovi limiti all’indebitamento delle banche. Anche in questi campi le proposte tecniche sono abbastanza avanzate e condivise e attendono l’impegno lungimirante dei politici.

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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 02, 2009, 05:56:46 pm »

25/9/2009

Guardare oltre il giardino
   
FRANCO BRUNI


Nell’agenda del G20 di Pittsburgh le regole finanziarie hanno un ruolo importante. Speriamo che il vertice vada al di là degli annunci simbolici e acceleri davvero le riforme.
Dato che non mancano segni di miglioramento dell’economia globale, c’è il rischio che l’urgenza di prendere provvedimenti tecnicamente e politicamente difficili sia meno sentita. Anche perché alcuni di questi provvedimenti potrebbero frenare, nel breve periodo, l’euforia che a tratti riappare sui mercati, ridimensionando l’eccesso di ottimismo con cui qualcuno considera ormai iniziata una ripresa rapida e duratura.
In realtà gli aspetti consolanti della congiuntura dipendono dagli enormi stimoli monetari e fiscali che i governi hanno deciso a partire da un anno fa. Gli stimoli non possono restare a lungo senza creare squilibri ancor più gravi di quelli che hanno generato la crisi. I tassi di interesse non possono rimanere vicini a zero troppo tempo e i debiti pubblici devono cominciare a riaggiustarsi. Il G20 è il luogo adatto per decidere come coordinare questa uscita dalla fase di stimolo. Il coordinamento internazionale è indispensabile perché, in sua assenza, la tentazione di ogni autorità nazionale è di aspettare che muovano prima gli altri: col che si agirebbe in ritardo e la droga degli stimoli rimarrebbe troppo a lungo. I mercati vedrebbero gonfiarsi nuove bolle nei prezzi dei titoli e delle attività e sarebbe l’inizio di nuovi episodi di grave instabilità.

Tutti insieme nel momento giusto
Anche se non si vogliono cominciare a togliere subito gli stimoli, vanno concordate fin d’ora le condizioni e i modi per farlo tutti insieme nel momento giusto. Il Fondo Monetario Internazionale può essere incaricato di seguire nel tempo il coordinamento dell’uscita dalla crisi, badando anche a contenere gli squilibri delle bilance dei pagamenti delle varie economie. Ma perché lo faccia sul serio occorre riformarne profondamente la struttura, con nuove regole di voto e di governo. Finora il G20 ne ha solo aumentato la dotazione di risorse: saprà andare oltre?
Le banche, con altri intermediari finanziari, sono state aiutate in molti modi e godono ancora del potente sussidio dei tassi quasi nulli con cui ottengono liquidità dalle banche centrali. Questo aiuta i loro profitti e facilita la ricostituzione dei patrimoni perduti con la crisi. Non si può obbligarle a ricapitalizzarsi subito, ma si può fissare subito la regola con cui dovranno farlo, entro un certo tempo e se i mercati si evolveranno in un certo modo. Se non si decide adesso che le cose sembrano andare un po’ meglio, non lo si farà più: perché se la crisi torna a mordere mancheranno di nuovo i capitali, e se invece il miglioramento, ancorché drogato, continua e accelera, sarà ancor più difficile imporre alle banche di frenare, di avere meno debiti e più capitale proprio.

Le resistenze dei gruppi di interesse
Sia gli Usa sia l’Ue stanno avanzando con fatica sulla strada di una riorganizzazione delle loro autorità di vigilanza finanziaria. Il G20 è la sede adatta per decidere insieme di proseguire a tutti i costi e in modi omogenei. Ciascuno, a casa propria, ha le resistenze di gruppi di interesse: le autorità di vigilanza attuali, che non vogliono cambiare; gli intermediari finanziari più potenti, che hanno interesse a vigilanze deboli; ed essi stessi, i politici nazionali, che vogliono favorire la loro piazza finanziaria e non cedere potere ad autorità sopranazionali. Se non si coglie l’opportunità del G20 per forzare le resistenze, con «la scusa» di impegni globali, anche le riforme avviate sui due lati dell’Atlantico si incepperanno. E senza nuove autorità sarà più difficile, per esempio, migliorare le regole dei mercati dei derivati o le procedure con cui trattare le banche che approfittano del fatto di essere considerate «troppo grandi per esser lasciate fallire». E senza regole migliori saremo sempre più o meno in crisi.
Il valore aggiunto del coordinamento internazionale sta nell’andare oltre una visione miope dei cosiddetti interessi nazionali. Lo devono però fare degli uomini politici che ottengono il consenso in ambiti nazionali. Avranno il coraggio di guardare oltre il loro giardino? I loro elettorati ascolteranno con grande attenzione le spiegazioni del perché hanno avuto la lungimiranza di farlo.

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« Risposta #14 inserito:: Ottobre 15, 2009, 09:54:24 am »

15/10/2009

I vecchi fantasmi del biglietto verde
   
FRANCO BRUNI


Fra chi si aspettava una crisi finanziaria, più di due anni fa, molti pensavano che si sarebbe manifestata in primo luogo sui cambi, per il deficit dei pagamenti Usa, con un violento deprezzamento del dollaro, al quale avrebbero potuto seguire fughe di capitali dagli Usa, crolli di Wall Street e minacce alla stabilità globale. Il disastro si è svolto diversamente, ma ora la debolezza del dollaro torna a farsi sentire. Un crescente disordine dei cambi potrebbe allontanare le già incerte prospettive di ripresa globale. Di un quadro disordinato fa parte anche il rialzo degli indici di Borsa che, con qualche pericolosa euforia, accompagna il dollaro debole.

Gli operatori spiegano le turbe del dollaro guardando spesso a elementi secondari o passeggeri. C'è anche la strana idea che la discesa del dollaro confermi la ripresa, visto che la moneta Usa era considerata la più sicura nei tempi peggiori della crisi. Invece l'instabilità dei cambi è un sintomo di problemi di fondo, del fatto che gli squilibri dai quali è nata la crisi non si stanno correggendo abbastanza. La bilancia dei pagamenti degli Usa va meglio ma solo perché l'economia è depressa e importa meno. La questione del surplus della Cina non fa progressi e il renmimbi rimane pervicacemente ancorato al dollaro. Le politiche monetarie lasciano sui mercati enormi quantità di liquidità con tassi quasi a zero e minacciano che prima o poi arrivi una forte inflazione. La liquidità eccessiva, mentre spinge il dollaro in giù, causa anche rialzi precari dei corsi azionari. La speculazione finanziaria torna a fabbricare operazioni rischiose. I disavanzi e i debiti pubblici sono molto cresciuti e non si vede come possano venir corretti in tempi ragionevoli.

La cooperazione internazionale per cambiare le regole finanziarie e coordinare le politiche economiche prosegue, ma con passi lenti e l'ostacolo di interessi speciali e visioni nazionalistiche.

Il dollaro è debole da diversi punti di vista. Rispetto all'oro e ad altre attività-rifugio, è debole come lo sono tutte le monete, perché di tutte c'è sovrabbondanza e le aspettative sul loro futuro potere d'acquisto sono disorientate. Rispetto all'euro è debole per due ragioni. Primo, perché alleggerirsi di dollari significa quasi sempre, almeno in parte, comprare euro. Soprattutto se la Cina e i Paesi con riserve molto concentrate in dollari vogliono diversificarle di più, è inevitabile che l'euro salga. Secondo, perché sono molto diversi gli atteggiamenti delle banche centrali che stampano i dollari e gli euro.

La banca centrale americana ha detto che manterrà a lungo i tassi di interesse vicini allo zero, anche se c'è ripresa, che non vuole ostacolare, a costo di rischiare nuove bolle speculative sui mercati finanziari e l'avvio dell'inflazione. La Bce ha invece fatto sapere che cercherà di alzare i tassi prima che cominci l'inflazione, per prevenirla e scoraggiare le bolle finanziarie, e che lo farà con più sollecitudine se i disavanzi pubblici non si correggeranno per togliere pressione inflazionistica dal sistema. Con due strategie così diverse il dollaro-euro non può rimanere indifferente e il vento speculativo, anche se disordinato e discontinuo, finisce a favorire la rivalutazione dell'euro. La prima condizione per avere cambi stabili è che le politiche monetarie abbiano strategie simili.

Una forte svalutazione del dollaro non è necessaria per riequilibrare i pagamenti americani e l'economia mondiale. E' sufficiente che gli Usa accettino di crescere piano per alcuni anni e ne approfittino per riorganizzare la collocazione internazionale della loro economia. Ma il disordine valutario è inevitabile se non è abbastanza rapida e intensa la cooperazione globale per disciplinare le politiche macroeconomiche, risistemare le regole finanziarie e correggere gli squilibri che la crisi ha messo in mostra. E' urgente la riforma del Fondo Monetario Internazionale dal quale ci si attende, fra l'altro, l'ingegneria necessaria a diversificare le riserve di Pechino e di altri Paesi con un'operazione che eviti drastiche svalutazioni del dollaro. Il governatore della banca centrale cinese ha fatto una proposta in tale senso ed è auspicabile che, come il G20 ha già deciso in linea di massima, il peso della Cina nel Fmi cresca presto. Poiché sono i Paesi europei a doverle fare largo, l'Ue deve decidere svelto e con chiarezza di diventare meno ingombrante ma molto più unita e incisiva nel governo del Fmi.

Secondo alcuni il dollaro è debole perché sta per abbandonare la sua posizione centrale nel sistema monetario internazionale. In un certo senso è vero, ma questo abbandono può avvenire in modo graduale e non traumatico, nell'ambito di un ampio processo di riforma del governo dell'economia globale. Ora come ora la stabilità dei cambi, che è parte importante della stabilità finanziaria generale, è in pericolo perché la riforma avanza troppo piano.

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