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Autore Discussione: FRANCO BRUNI  (Letto 34013 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Giugno 01, 2011, 05:41:26 pm »

1/6/2011

Uno stimolo per la politica

FRANCO BRUNI

Nel 2006, poco dopo essere diventato governatore, Mario Draghi venne nominato anche presidente del Financial Stability Forum che, quando scoppiò la crisi finanziaria internazionale, fu potenziato e diventò il Financial Stability Board, il gruppo tecnico al quale il G20 ha affidato la regia del processo di riforma delle regole della finanza globale. In questi anni Draghi è stato dunque impegnato su due fronti, molto connessi ma diversi. Nelle Considerazioni Finali di ieri ha dato conto del risultato di entrambi gli impegni. Dalla profonda riorganizzazione della Banca d'Italia, alla vigilanza sulle banche italiane in un periodo di crisi, alla partecipazione alla difficile gestione della politica monetaria europea, al monitoraggio dell'agenda della ri-regolamentazione finanziaria globale.

Il suo successo lo ha portato a essere proposto come prossimo presidente della Bce, al quale da quest'anno è affidata anche la presidenza del Comitato Europeo per il Rischio Sistemico, l'organo deputato a prevenire ed, eventualmente, a gestire, nuove crisi che coinvolgano l'insieme del sistema finanziario europeo. E' straordinario il grado di consenso sul fatto che Draghi sia il candidato migliore. In un certo senso si può dire che la sua nomina avverrebbe «nonostante» la sua nazionalità, ma, da un altro punto di vista, sono decenni che la Banca d'Italia costituisce, per il governo della moneta e della finanza internazionali, una «fucina», come ieri l'ha chiamata Draghi, di ricerche, idee, funzionari e dirigenti prestigiosi. Credo si possa dire che nessun’altra banca centrale, dovendo nominare un nuovo governatore, avrebbe a disposizione altrettante persone, provenienti dai suoi uffici, di capacità, esperienza e reputazione internazionale indiscutibili. Persone che in questi anni hanno molto contribuito al successo di Draghi.

Le Considerazioni lette ieri contengono riflessioni preziose sia sull'economia interna che su quella globale. Sul fronte interno, domina l'insistenza sulle riforme necessarie per rilanciare la crescita: dalla giustizia all'istruzione, alle infrastrutture, alle relazioni industriali e al mercato del lavoro. E' importante sottolineare che non si tratta di faccende estranee alla politica monetaria. Nel parlare di politiche non monetarie per la crescita, la Banca d'Italia non fa invasioni di campo, né svolge solo quella funzione di «consigliere autonomo, fidato, del Parlamento, del governo, dell'opinione pubblica» che il governatore ha rivendicato. Le riforme riguardano anche da vicino la politica monetaria perché, se non vengono fatte, c'è una dannosa e inutile richiesta di supplenza alla banca centrale, dalla quale ci si attendono magici stimoli monetari alla crescita, tassi bassi e miracolose iniezioni di liquidità : tutte cose che, in assenza di un'economia strutturalmente ben organizzata per crescere con alta produttività, possono solo creare disordine finanziario e pericoli d'inflazione. Fra le riforme principali c'è la riduzione della spesa pubblica, sulla quale Draghi è drastico: non va fatta con tagli uniformi, ma deve risultare da una manovra articolata su una serie di priorità, un profondo cambiamento della composizione delle entrate e delle uscite pubbliche.

Su fronte globale, colpisce la constatazione circa l'esistenza di «una cooperazione internazionale senza precedenti» nel riformare il sistema finanziario per renderlo più solido. In effetti, il disegno tecnico delle riforme, quello avviato e monitorato dal Financial Stability Board, ha visto un impeto concertativo eccezionale dopo la crisi e ha fatto passi sostanziali, avendo inoltre ben chiare le diverse importanze e urgenze dei provvedimenti disegnati, dei quali i principali sono ricordati nelle Considerazioni: dall'aumento della capitalizzazione delle banche, alle riforme dei mercati dei derivati, del cosiddetto sistema bancario ombra e del trattamento delle istituzioni finanziarie talmente grandi e importanti da meritare regole e vigilanza più severe. Il problema è che, come ha detto Draghi, «è ora cruciale assicurare la piena attuazione delle nuove regole».

Ma questo è un compito soprattutto dei politici, che devono evitare l'effimero prevalere degli interessi nazionali su quelli, duraturi, del sistema finanziario globale nel suo complesso, e devono vincere la resistenza delle banche e degli operatori finanziari che cercano favori e vantaggi competitivi sussidiati, trovando ogni sorta di scusa e lamentela per rallentare l'introduzione delle nuove regole. Per ora, sul fronte politico, la cooperazione internazionale sembra carente, al punto di minacciare il sopraggiungere di nuovi episodi di instabilità finanziaria. Quando Draghi sarà a presiedere la Bce avrà nuovi modi e nuove occasioni per stimolare la politica a fare il suo dovere.

franco.bruni@unibocconi.it
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« Risposta #31 inserito:: Giugno 21, 2011, 05:16:52 pm »

21/6/2011

La lentezza alimenta il panico

FRANCO BRUNI

Il rinvio a metà luglio della quinta tranche di prestiti Ue e Fmi alla Grecia, in attesa di deliberazioni impegnative del Parlamento ellenico, conferma le caratteristiche della sceneggiatura con cui la crisi greca si è svolta finora.

Le autorità internazionali fanno la voce perentoria, i mercati drammatizzano, l’atteggiamento europeo diviene allora più flessibile, i greci prendono misure serie ma insufficienti, i mercati si calmano temporaneamente, l’Ue e il Fmi sussultano verso concessioni più creative e sostanziose, la Grecia rallenta l’aggiustamento, torna lo show di severità dei creditori, e così via. La situazione seguita a muoversi nella giusta direzione ma con una lentezza che si mescola al panico. La soluzione può trovarsi solo nel lungo periodo e deve riguardare la disciplina complessiva dell’Ue. Deve comprendere un insieme di regole per trattare con ordine i pericoli di illiquidità e di insolvenza dei governi.

La sceneggiatura è incidentata ma ha una sua logica: la pressione delle autorità internazionali e del mercato si innesta sul tremendo sforzo economico e politico che la Grecia deve fare per risistemarsi. D’altra parte l’eccezionalità del caso greco si è accompagnata a quella irlandese e portoghese e va specchiandosi nei diversi problemi di aggiustamento di Paesi europei più grandi come la Spagna, l’Italia e la Francia. Il dramma greco è, al momento, l’occasione più vistosa perché l’Ue digerisca l’idea di essere un sistema integrato dove nessuno può prescindere dai problemi altrui e scappare verso chissà quali privilegiati paradisi nazionali.

E’ fuori discussione che i governanti e i governati greci sono stati a lungo molto indisciplinati. Ma sono anche certe le colpe dell’Ue, che non ha saputo mettere in atto tempestivamente i sistemi di controllo e di disciplina che aveva a disposizione; anche nei confronti di altri Stati membri compresa, a suo tempo, persino la Germania. E’ poi chiaro che gli investitori privati internazionali hanno finanziato in modo azzardato e miopicamente speculativo i Paesi che si indebitavano. Inoltre la crisi ha colto l’Ue priva di istituzioni adeguate per gestire l’emergenza.

Ha funzionato la liquidità della Bce e il pronto coinvolgimento del Fmi. Ma su due aspetti cruciali l’Europa ha mostrato di aver bisogno di tempo per chiarirsi le idee ed evitare di bisticciare nella tempesta. Il primo è la disponibilità delle finanze pubbliche dei Paesi membri a sostenersi in modo solidale, almeno nel medio periodo e contro le esasperazioni speculative dei mercati. Il secondo è la volontà di far pagare parte del conto dei dissesti alle banche e agli altri investitori che hanno favorito l’eccesso di indebitamento. Per non parlare della confusione creata da chi parla a vanvera di «uscite dall’euro». Di queste incertezze di intenti comunitari, i Paesi messi peggio pagano un costo che c’entra poco con le loro colpe.

Valutare oggi le prospettive della crisi significa cavarsela col classico problema del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto. Non mancano le ragioni del mezzo pieno. Anche se con esitazioni e lentezze, l’Ue, oltre a mettere a punto sistemi più rigorosi di sorveglianza sugli squilibri macroeconomici, mostra ora di accettare il principio di meccanismi di solidarietà finanziaria, che scarichino la Bce dall’onere di rimanere troppo a lungo prestatore di ultima istanza. Con dubbi più forti e modalità più incerte, negli ultimi mesi pare accettato anche il principio che i creditori privati imprudenti devono essere coinvolti nel pagare il conto dell’indisciplina dei debitori sovrani. Nel frattempo i governi nazionali sfidano la comprensibile rabbia degli elettori e delle piazze con aggiustamenti più severi e concreti e cercano convergenze e maggioranze politiche abbastanza ampie per prendere decisioni difficili in modo credibile. Vorremmo tutti fare in fretta, ma la sceneggiatura richiede tempo e a ogni attore - le autorità Ue, i mercati, i governi e i cittadini dei Paesi membri - deve essere dato il tempo necessario per fare la propria parte, senza effimeri miracolismi.

Anche l’Italia è fra gli attori che devono agire con decisione e la giusta velocità. Quando il Presidente dell’Eurogruppo Juncker ha detto che il contagio greco può minacciare l’Italia ha perso un’occasione per evitare ingiustificate drammatizzazioni, che ha poi dovuto smentire. Ma quello che il nostro Paese deve fare con urgenza è comunque chiaro: mantenere fermo il controllo del disavanzo, varare da subito le misure che ne consolidano il rientro a partire dal 2013, far sì che si tratti di misure che risultino da un piano organico di riforme strutturali, rendere tutto ciò fattibile e credibile procurandosi una maggioranza politica decente, che trovi ragioni di coesione nel buon senso, ma anche nell’amor patrio col quale dobbiamo evitare di nasconderci la gravità dei problemi.

franco.bruni@unibocconi.it
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« Risposta #32 inserito:: Luglio 11, 2011, 09:23:40 am »

11/7/2011
 
Le mosse non più rinviabili


FRANCO BRUNI
 
Parlando a Aix-en-Provence, Trichet ha detto che «i Paesi europei oggi in difficoltà sono quelli che si sono comportati in modo quasi caricaturale». Comportamenti caricaturali, almeno nel bisticcio politico, sono tuttora in corso in Italia e minano la credibilità della manovra finanziaria del governo: lo ha spiegato ieri Bill Emmott su queste colonne.
L’economia italiana, tenuto conto delle reazioni dei mercati internazionali che la giudicano, è in bilico fra due esiti opposti. È messa abbastanza male per precipitare nel baratro, se solo prosegue il deterioramento del meccanismo di decisione politico, ormai divenuto vero e proprio azzardo istituzionale. Ma ha anche potenzialità di resistenza e ripresa sufficienti per veder ridursi rapidamente i pericoli e scendere il costo del «rischio Paese»: basta che dia qualche segnale indiscutibile di cessazione dei comportamenti caricaturali.

Vanno trovate subito, anche se in forme delimitate e temporanee, le convergenze politiche necessarie per varare, con un consenso abbastanza ampio, la manovra finanziaria. Quella proposta da Tremonti ha la giusta dimensione complessiva, che va confermata con aggiunte - anche piccole ma convincenti - in tre direzioni: un parziale anticipo al 2011-12 delle riduzioni del deficit ora previste per il biennio successivo, un aumento visibile e immediato del taglio dei costi della politica, un avvio significativo di provvedimenti con i quali si mira a rilanciare la crescita e l’occupazione anche direttamente, non solo tramite il miglioramento della finanza pubblica. Fra questi provvedimenti sono urgenti: l’anticipo di alcune riforme, già pensate, delle imposte, la più celere eliminazione di sussidi e trasferimenti inutili e dannosi, alcune liberalizzazioni ben fatte, un’accelerazione delle riforme legislative della forma giuridica dei contratti di lavoro, del loro trattamento fiscale e delle modalità con cui le parti ne trattano i contenuti salariali e normativi.

Ma il discorso di Trichet dà anche parte della colpa della crisi dell’eurozona alle esitazioni e alle manchevolezze degli organi comunitari. Cioè alle carenze nella sorveglianza dei Paesi membri e nella promozione di una loro più profonda unità economico-politica, capace di riflettere la loro comunanza di interessi e di destini di lungo periodo. Il punto più urgente è ora l’assistenza finanziaria ai Paesi in difficoltà. Vanno trovati il coraggio e le modalità giuridico-istituzionali per anticipare l’avvio di un meccanismo permanente per la gestione delle crisi, del quale è già stata deliberata l’introduzione nel 2013. Il meccanismo proposto va potenziato, consentendo decisioni non unanimi e prese con autonomia tecnica, senza dover cercare continuo consenso politico sui dettagli; va finanziato con l’emissione di titoli garantiti in solido dai Paesi membri. Occorre inoltre, subito, ridurre i tassi di interesse sui prestiti ai Paesi assistiti e garantir loro, a fronte di impegni di aggiustamento e di riforma inequivocabili, tempi di rientro realistici dei loro deficit e dei loro debiti.

Italia ed Europa devono dunque fare ciascuna la loro parte. Ma c’è anche il collegamento fra le due, cioè la partita che l’Italia gioca in Europa. La quale riunisce oggi in emergenza il suo Consiglio anche per considerare il rischio Italia. La partita non deve ridursi a uno scambio fra obbedienza e assistenza, fra rispetto svogliato di vincoli europei e garanzia di non essere isolati e abbandonati. Questo tipo di scambio è quello di un debitore con la sua banca; può aver senso per un Paese nei confronti del Fmi. Ma in Europa la partita è diversa, l’atteggiamento non deve essere difensivo e contrattualistico e l’opinione pubblica non va indotta a pensarlo così. Dobbiamo identificarci esplicitamente con gli interessi dell’Ue - e ancor più dell’area dell’euro - nel suo insieme, vivendo la disciplina europea con la convinzione di chi vi apporta e vi aggancia la propria autodisciplina. Si tratta di costruire insieme una più forte unità economica, monetaria, finanziaria e politica, indispensabile per vivere la globalizzazione con successo, lasciandovi il segno degli interessi, dei valori e della cultura europei. Pensare a una maggiore unità europea come «la Germania che paga per gli altri» è un equivoco. L’Italia può contribuire a evitarlo, portando in Europa segni inconfondibili di una convinta autodisciplina e ricavandone così titolo per essere protagonista propositiva nel fare avanzare i meccanismi comunitari di unità, solidarietà e trasparenza democratica.

Comincia una settimana in cui sarà cruciale il giudizio dei mercati finanziari internazionali sull’Italia. Qualcuno è convinto che i mercati siano l’origine e non il riflesso dei nostri problemi. È vero che essi, nel breve, tendono a esagerare e impostare speculazioni destabilizzanti. È auspicabile che le autorità di regolamentazione italiane ed europee provvedano subito a renderne alcune operazioni più controllate e trasparenti. Ma nel medio termine i mercati hanno ragione; per evitare i disastri ci vogliono le giuste decisioni economiche e politiche dell’Italia, dell’Europa, e dell’Italia in Europa.

franco.bruni@unibocconi.it
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« Risposta #33 inserito:: Agosto 18, 2011, 05:47:51 pm »

18/8/2011

Le cinque mosse per cambiare

FRANCO BRUNI

I provvedimenti che il governo italiano sta prendendo per affrontare la crisi finanziaria stentano a trovare una definizione precisa e condivisa. La discussione è vivace, laboriosa e difficile. Il che ha un aspetto negativo e uno positivo. E’ negativo vedere la confusione delle proposte che si fanno e si disfano, il disaccordo all’interno della stessa maggioranza, persino fra il premier e il suo ministro dell’Economia, l’enorme difficoltà di dialogo con l’opposizione, le critiche dure, ironiche e diffuse sulla stampa di ogni tendenza, dell’uno o dell’altro aspetto delle decisioni annunciate, le volgarità che accompagnano a tratti le baruffe di un personale politico, compresa l’opposizione, che ha sempre meno la stima dell’opinione pubblica, sia sotto il profilo delle sue capacità che della sua integrità e correttezza.

E’ invece positivo che sia effettivamente in corso questo seppur confuso dibattito sulle cose concrete da fare, sul serio e subito, per la pressione congiunta degli organi comunitari e dei mercati. Sembra a volte, addirittura, di intravedere un miglioramento progressivo nel disegno delle misure in formazione. Nonostante lo scenario di scomposta litigiosità pare che quasi tutti, nella maggioranza e nell’opposizione, siano disponibili a esaminare le altrui proposte. È vero che preferiremmo aver tutto già deciso e pronto nei dettagli, magari come conseguenza di piani di riforma coerenti, da tempo elaborati con abbondanza di dati e riflessioni, ma è anche vero che, in pieno solleone, l’emergenza costringe la politica a lavorare come da tempo non succedeva.

Auguriamoci che nei prossimi giorni l’aspetto positivo prevalga su quello negativo e ne risulti una manovra adeguata e condivisa. Sarebbe anche meglio smettere di chiamarla «manovra»: dà l’idea di un veicolo che corregge il percorso senza cambiare se stesso, la sua conformazione, il suo modo di funzionare; mentre per salvarci occorre davvero «cambiare l’Italia» dell’economia e della politica. Gli aggiustamenti finanziari urgenti devono essere solo il prossimo passo delle riforme strutturali di lungo periodo. Le principali correzioni necessarie ai provvedimenti finora annunciati sono state proposte da più parti e su alcune di esse pare formarsi un rilevante consenso. Mi limito a menzionarne cinque. Una delle più importanti, a mio avviso, è la riduzione dell’imposizione sul lavoro finanziata con un contenuto aumento dell’Iva. In secondo luogo è politicamente ed economicamente cruciale l’intervento sulle pensioni di anzianità. Terzo: va attenuato il prelievo straordinario sui redditi medio-alti, da tutti riconosciuto come un premio all’evasione.

L’attenuazione può avere due aspetti: un trattamento che tenga conto favorevolmente della numerosità dei nuclei famigliari e la sostituzione di una parte del prelievo sui redditi con una lieve ma ben organizzata imposta patrimoniale. Quarto: i tagli ai trasferimenti agli enti locali. Un governo che, almeno in apparenza, ha tanto puntato sul federalismo, non può varare misure così generiche e così poco condivise dai territori. Il loro effetto macroeconomico è troppo incerto mentre le loro conseguenze sociali e politiche possono risultare perverse. Se esistono a Roma dei leader seriamente federalisti (e veramente leader) devono dimostrarlo: sappiano essere convincenti e trovino il consenso necessario a precisare meglio i tempi e le modalità dei tagli, assicurando che gli enti territoriali abbiano la volontà e gli incentivi per trasformarli in minori sprechi e in accresciuta efficienza delle pubbliche amministrazioni e non in forzati e disorganici aumenti di tariffe e imposte locali né in riduzioni dei servizi pubblici socialmente più preziosi.

Qualche maggior segno di concreta e impegnativa severità contro i costi della politica romana potrebbe aiutarli. Da ultimo va detto della novità più recente: la proposta di una tassazione speciale per i patrimoni «scudati». Questo giornale ha già ieri accennato alle questioni di fattibilità di un simile provvedimento. Ci sono problemi tecnici nell’individuare i patrimoni e problemi giuridici nell’assicurare la liceità della forma di imposizione, anche sotto il profilo costituzionale. Inoltre, se l’idea che Tremonti sia stato troppo generoso con gli scudati è condivisibile, è evidente la paradossale slealtà di colpire coloro ai quali lo stesso ministro aveva promesso il segreto e un condono tombale. La credibilità internazionale dell’Italia potrebbe soffrirne anche presso gli stranieri.

Una parte dell’opposizione sembra soddisfatta per aver avuto qualche ascolto nel fare la proposta. Si goda la soddisfazione ma non esageri l’importanza dell’idea e si astenga da demagogie inconcludenti; non insista nel chiedere un provvedimento con modalità e dimensioni impossibili. Esiste una ricchezza scudata la cui imponibilità straordinaria sarebbe in questo momento preziosa. Ma un’imposta specifica è decisamente inopportuna: se si trova il modo di superare almeno parzialmente i problemi di fattibilità tecnica e giuridica, i patrimoni che hanno beneficiato dello scudo potrebbero essere chiamati, insieme agli altri, a contribuire in qualche modo e misura a una imposizione patrimoniale straordinaria generale che sostituisca, come detto prima, una parte della tassazione straordinaria sui redditi e, per
l’ampiezza della base imponibile, abbia aliquote molto contenute.

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« Risposta #34 inserito:: Settembre 12, 2011, 10:33:47 am »

12/9/2011

Nessuno si salva da solo

FRANCO BRUNI

Il G7 di venerdì a Marsiglia è stato inconcludente, al punto di tentare di evitare un comunicato finale. I problemi sono comuni: troppi debiti, intermediari e mercati finanziari fragili, poca crescita. Eppure si è percepito che ciascun governo vuole le mani libere per fare o non fare, questo o quello, a seconda delle convenienze politiche nazionali.

Probabilmente la formula del G7 è superata. Ma è indubbio che la cooperazione internazionale è in difficoltà proprio quando ce ne sarebbe più bisogno. Ha ragione Tremonti: manca la consapevolezza di vivere una crisi storica e non la fase avversa di un ciclo. Continua la disattenzione degli Usa per l'impatto delle loro politiche monetarie e di bilancio sul resto del mondo; sembra accettato che approfittino del privilegio di stampare dollari. Il G20 non irrobustisce la sua capacità di riflettere il riassetto di poteri necessario per governare l'economia globalizzata. Non sono in vista serie riforme dell’Fmi e del sistema monetario internazionale. Gli accordi del Wto ristagnano.

Le nuove regole per banche e mercati finanziari stentano a incorporare la lezione della crisi; il cammino delle regole zoppica per la confusione dei progetti, le suscettibilità delle burocrazie, le scorrerie di politici incompetenti, i protezionismi nazionali e le lobby degli intermediari: si veda, da ultimo, il pasticcio della direttrice dell’Fmi Lagarde che ha sollecitato le banche europee ad aumentare la capitalizzazione, salvo poi fare marcia indietro a Marsiglia.

Se è una crisi storica ci vuole un profondo cambio di mentalità. Le strategie di crescita devono porre nuova attenzione ai beni pubblici e collettivi e le sovranità nazionali devono legarsi le mani con accordi più impegnativi, affidati alla gestione di agenzie sovranazionali.

Ma su ciò circola scetticismo. Si diffonde l'idea che ogni Paese debba far da solo, che la chiave per risolvere la crisi globale è che ciascuno «metta la propria casa in ordine».
C'è la versione europea di questo atteggiamento: è inutile sperare di rafforzare i poteri centrali dell'Ue e delegare loro le politiche che non ha più senso condurre a livello nazionale.
Ciascuno faccia le sue «manovre» e vinca il migliore, in una sana concorrenza dove chi non fa il bravo soccombe, viene cacciato in un purgatorio senza euro o addirittura nudo, all'inferno degli inetti.

Ma è una concorrenza che non funziona. Come in ogni convivenza consapevole delle sue forti interdipendenze, va trovato l'equilibrio fra azione collettiva e sforzo individuale. Nessuno si salva se non si dà da fare ma nessuno si salva da solo. Non si può abbandonare i propri destini alle magie della Bce e della solidarietà fiscale comunitaria; ma i problemi europei non si risolvono nemmeno isolando ciascun Paese nelle sue responsabilità e minacciando di lasciarlo «fallire» o «cacciarlo dall'euro». Anche perché non si sa come mettere davvero in pratica minacce del genere e come limitare i costi-boomerang che tornano sui virtuosi che mandano gli altri in purgatorio. Senza una vigilanza sovranazionale sulle banche e le Borse, nessuno salva le sue banche e la sua Borsa. Senza una disciplina centralizzata e severa dei bilanci pubblici di tutti, i mercati non sono tranquilli nemmeno, per esempio, sulla Francia; e allora l'Italia, da sola, non può procurarsi un biglietto per il Paradiso della stabilità. Se salta la Grecia, nel disordine generale rischia di saltare anche l'Italia, e se salta l'Italia il conto per la Germania è insopportabile. Se si vuol stare al passo coi tempi, non si può più far da soli nemmeno le politiche industriali, le riforme del mercato del lavoro, le infrastrutture e le politiche sanitarie. Siamo tutti su una stessa barca, nel mare mosso di una crisi storica. Gli elettorati devono capirlo e devono poi essere più esigenti nel pretendere capitani coraggiosi, leader di qualità, politica, tecnica e umana.

E' giusto dunque chiedere all'Europa passi decisivi al più presto, almeno nei progetti varati in giugno e luglio, che un agosto di tempesta e vanità pare aver allontanato. Devono diventare effettive la riforma del Patto di Stabilità, la disciplina comunitaria delle riforme strutturali, lo scadenziario di completamento del mercato unico, il rafforzamento del fondo di emergenza per i debiti sovrani e il disegno del sistema definitivo che è destinato a sostituire il fondo nel 2013. Se occorrono modifiche nel Trattato o nelle legislazioni nazionali, per consentire dosi delimitate di cessione di sovranità all'Ue e di solidarietà fiscale fra i Paesi membri, le si metta in programma senza far finta che i virtuosi possano farne a meno. Se veramente c'è qualcuno più virtuoso degli altri, usi alla svelta le «cooperazioni rafforzate» che il Trattato favorisce: faccia un gruppo che procede più rapido ma non caccia indietro nessuno; il gruppo dia l'esempio e trascini anche altri in Paradiso: fra i peccati originari dell'area dell' euro non c'è certo quello di essere nata per allargarsi.

Rimane però vero che la propria casa bisogna metterla in ordine. E per casa nostra la settimana comincia con il completamento dell'approvazione dei provvedimenti farraginosamente affastellati durante l'estate. Tremonti ha detto che occorre anche un «tagliando» per la crescita: non gli sembra poco un tagliando, visto che è giustamente convinto che siamo in una «crisi storica»?

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« Risposta #35 inserito:: Settembre 17, 2011, 04:26:09 pm »

Quel rischio che spaventa i mercati

FRANCO BRUNI


Ieri le principali banche centrali del mondo hanno dimostrato perizia nel coordinarsi in una difficile operazione per fornire dollari alle banche europee, che trovano difficoltà a raccoglierli, anche perché chi li detiene in Usa teme che in Europa si aggravi la crisi dei debiti pubblici. Se si tratta di correggere situazioni di emergenza la capacità delle autorità monetarie è straordinaria; esse possono domare i «mercati». Ma ieri abbiamo anche avuto un segnale di come la crisi acuta del nostro debito pubblico sia di un mese più vecchia di quanto poteva sembrare.

La Banca d’Italia ha comunicato i dati della bilancia dei pagamenti di luglio. Vi si può leggere che già da allora i nostri titoli hanno incontrato ostilità nei portafogli internazionali. Nei numeri di luglio si vede una forte uscita dall’Italia di capitali che erano prima investiti nei nostri titoli di Stato. La fiducia stava venendo meno, il pessimismo dei mercati cresceva. Chi erano, e chi sono, questi «mercati» che ci fanno soffrire? In che misura si possono «domare»?

Le vicende dei nostri titoli, come quelle di altri Paesi, registrano gli alti e i bassi di speculazioni spesso slegate da un’analisi seria delle prospettive della nostra economia, fatte con tecniche più simili al gioco d’azzardo che alla oculata gestione dei patrimoni.

Ma non c’è solo il gioco d’azzardo. Le difficoltà che i nostri titoli pubblici trovano a penetrare e rimanere nei portafogli degli operatori che li detengono, possono in parte spiegarsi con ragioni e aspettative ben motivate. Il «rischio Italia» ha una base nell’elevatezza del nostro debito pubblico, nella lentezza della nostra crescita, nella confusione delle nostre «manovre», nell’incertezza del nostro quadro politico. Vi sono dunque operatori prudenti e razionali che decidono di ridurre la quota di titoli governativi italiani che hanno in portafoglio perché, anche in un’ottica che va oltre al breve periodo, diventano meno ottimisti sulla possibilità che il nostro Paese riesca a fronteggiare senza intoppi i suoi impegni finanziari. Poiché il governo italiano continua ad aver bisogno di emettere nuovi titoli, per sostituire i vecchi in scadenza e coprire i nuovi disavanzi della finanza pubblica, l’incontro fra una minor domanda e la maggior offerta di titoli alza il rendimento richiesto su di essi. A beneficiarne sono i tassi sui titoli dei Paesi meno «rischiosi» come la Germania: ed ecco l’aumentare del cosiddetto «spread» che separa il costo del debito italiano da quello tedesco.

Il nostro debito pubblico è particolarmente esposto a questa «fuga» dal rischio-Paese, perché è largamente detenuto all’estero, dove è in concorrenza più aperta e immediata con i titoli di altri emittenti. E’ vero che dall’estero vengono anche le speculazioni più selvagge e ingiustificate; ma sono molti gli operatori esteri solidi e prudenti, come i grandi fondi pensione inglesi e olandesi, che finiscono per determinare l’andamento di medio periodo del costo del nostro debito e dello «spread». Le autorità hanno modi adatti a limitare i danni causati dai selvaggi. Le scelte di portafoglio di chi fa sul serio e giudica oggettivamente le nostre prospettive, sono invece difficili da neutralizzare e lasciano il segno sui nostri conti in modo duraturo. In compenso questi operatori sono pronti a invertire le loro scelte quando la nostra finanza pubblica, la nostra politica economica, le prospettive della nostra crescita e il riordino del nostro quadro politico, mostrano miglioramenti credibili. La parte «seria» dei mercati è difficile da tacitare con interventi antispeculativi forzati; se però chi emette titoli è altrettanto serio, può convincerla a cambiare opinione comportandosi meglio.

E’ urgente che l’Italia prenda sul serio la parte «seria» dei mercati. Anche perché lo «spread» elevato sui titoli di Stato, se rimane a lungo, si incorpora nel costo del denaro nel nostro mercato nazionale privato: salgono i tassi sul credito, sui mutui e sui prestiti alle imprese, si riduce la disponibilità di fondi per alimentare la crescita.

Per aver successo nel convincere i mercati è prezioso l’aiuto dell’Unione Europea. Non solo della Bce, che può tamponare le speculazioni a breve con acquisti a breve, ma di tutti gli organi comunitari e dei Paesi membri che debbono, nelle prossime settimane, accelerare il coordinamento delle politiche economiche europee, la riforma degli organi e dei meccanismi che presiedono a quelle regole, l’irrobustimento delle reti di protezione che sono state approntate negli ultimi anni per gestire le fasi acute delle crisi dei debiti pubblici. Se il quadro europeo si fa abbastanza presto più unito, solidale e deciso, anche il debito italiano ne beneficia. Perché anche gli operatori «seri» pensano che le nostre debolezze e i nostri vizi sono tanto più gravi quanto più si manifestano in un ambiente internazionale fragile e perturbato.

franco.bruni@unibocconi.it

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« Risposta #36 inserito:: Settembre 28, 2011, 09:55:12 am »

28/9/2011

L'importanza di una scelta chiara

FRANCO BRUNI

In questa fase di disordinata tensione della politica italiana, dove è in gioco la credibilità internazionale del Paese, sarebbe preziosa una sollecita e limpida decisione circa la successione di Draghi in via Nazionale.

La sua nomina alla Bce non è certo avvenuta per la sua nazionalità, né per una forte insistenza dell’Italia. E’ stato il risultato di un giudizio praticamente unanime, del fatto che si trattava del più qualificato e apprezzato dei candidati. Per l’Italia è stato però un grande onore e la conferma della antica tradizione con la quale la scuola della Banca d’Italia fornisce da decenni al sistema monetario internazionale uomini e idee di prestigio. Sarebbe ora peccato se la promozione di un italiano al vertice del sistema europeo delle banche centrali fosse seguita da una oscura e antipatica trattativa per sostituirlo nel governatorato nazionale. Una trattativa dove entrerebbe la politica all’italiana nel senso più deteriore.

Abbiamo diversi candidati di valore, ma dobbiamo essere capaci di scegliere con linearità e rapidità. Il presidente Napolitano ha già più volte richiamato il governo invitandolo a seguire scrupolosamente la procedura prevista dalla legge.

All’interno di questa procedura anch’egli ha un ruolo importante: un ruolo di garanzia al quale ha intenzione giustamente di limitarsi. E’ per il governo che è ora giunto il momento di decidere, mostrando alla comunità finanziaria internazionale di saperlo fare con serena naturalezza e la capacità di prendere una decisione che sia accolta con successo e senza attriti.

Quest’estate il governo italiano ha già dato prove di convulsioni, incertezze, brutte figure, per le quali stiamo pagando un prezzo elevato in termini di condizioni più onerose per il rifinanziamento del nostro debito pubblico. Condizioni che stanno purtroppo rapidamente contagiando il costo del denaro per i privati. Scegliere presto e bene il nuovo governatore, senza farne una questione di lotte fra chi vuole apparire come lo sponsor politico vincente nella nomina, sarebbe di non poco aiuto nello sforzo per recuperare credibilità.

Per quanto sia la politica a dover prendersi la responsabilità della scelta, la nomina non deve lasciar sospettare che vi sia un desiderio della politica di esercitare influenze e interferenze sul lavoro del futuro governatore. I Trattati europei vogliono garanzia di completa indipendenza, anche se per i banchieri centrali dell’area dell’euro sono previsti precisi doveri di render conto, nelle sedi politiche appropriate, del loro operato e dei risultati che hanno raggiunto rispetto agli obiettivi loro assegnati.

La comunità internazionale dei banchieri centrali ha una sua speciale professionalità. Ha esperienze e conoscenze comuni che la mettono in grado di cooperare con prontezza e schiettezza particolari. Di ciò va tenuto conto nella scelta per la Banca d’Italia, che è bene sia accolta con spontanea approvazione sia all’estero che in via Nazionale, dove un gruppo coeso, di grandi capacità tecniche e non comune reputazione internazionale, lavora a compiti delicati e difficili, sia sul fronte della politica monetaria che nella vigilanza sulla buona condotta, la liquidità, la solvibilità delle nostre banche.

Il gruppo che ha lavorato con Draghi si è meritato il rispetto anche di coloro che, come alcuni intermediari, hanno dovuto sperimentarne la severità e l’impermeabilità a pressioni di interessi particolari. Il suo lavoro deve continuare senza scosse, con lo stile collegiale che lo ha distinto in questi anni lasciando apparire un direttorio unito ed efficace, anche in importanti ambiti internazionali. Sarebbe assurdo, con una decisione ritardata, controversa e politicizzata, trasformare l’andata di Draghi a Francoforte in un indebolimento della capacità di via Nazionale di lavorare con serenità e fare squadra. La Banca d’Italia ha anche, istituzionalmente, un compito di alta consulenza per le autorità politiche del Paese. E’ un compito che ha svolto in modo incisivo negli ultimi mesi. E’ interesse anche del governo che l’efficacia, l’utilità, l’autorevolezza di questa consulenza trovino supporto nel prestigio dell’indipendenza e della coesione del gruppo di lavoro che la fornisce.

Auguriamoci dunque che la procedura di nomina si svolga in modo da non rendere più difficile al nuovo governatore, da dovunque provenga, e al gruppo dei suoi più stretti collaboratori, continuare il buon lavoro che è stato fatto negli anni di Draghi. Lo merita l’Italia e lo merita anche la Banca d’Italia, una delle istituzioni delle quali il nostro Paese è orgoglioso.

franco.bruni@unibocconi.it

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« Risposta #37 inserito:: Ottobre 08, 2011, 11:30:16 am »

2/10/2011

Fisco, gli obblighi non negoziabili

FRANCO BRUNI

Luca Ricolfi è da sempre un nemico intelligente del troppo «politicamente corretto». Il suo articolo su La Stampa del 26 settembre ha messo in discussione la lotta all’evasione fiscale, quando la lotta è intesa, come dice lui, quale «strumento di agitazione politica universale» o addirittura, come esagera Alberto Mingardi nel suo commento di giovedì, come uno «Stato di polizia tributaria, con un finanziere ad ogni angolo di strada». Ricolfi ha osservato che, per ridurre l’evasione, più che generici proclami etico-populisti, serve conoscerne bene le cause e riconsiderare il livello delle aliquote.

Non si deve però lasciar intendere che il rispetto degli obblighi fiscali sia negoziabile, nemmeno per chi, se non evadesse, soccomberebbe e scomparirebbe dal mercato. Evitare di giustificare la gara a nascondino per sopravvivere è cosa politicamente corretta ma è anche sacrosanta; e toglie un alibi all’autorità che da un lato tassa troppo e male e dall’altro tollera l'evasione. Inoltre, come nota bene Stefano Lepri e ribadisce Alberto Bisin, l’evasione è un sussidio a progetti imprenditoriali che sono inefficienti per le loro dimensioni, le fonti di finanziamento, le tecnologie e il management, un aiuto a un mondo dove i conti opachi si accompagnano a modelli di impresa ai quali non possiamo affidare la competitività del Paese. Sostiene Ricolfi che l’evasione ha due facce: quella di chi evade per guadagnare di più e quella di chi lo fa per sopravvivere. E’ vero, ma in pratica sono facce che spesso si sovrappongono: distinguerle, per meglio combatterle, è molto difficile. Anche perché c’è una terza faccia con cui a volte si mescolano e confondono: quella della criminalità pura e semplice.

Il rapporto fra l’entità dell’evasione e il livello delle aliquote è complicato, ma è abbastanza studiato. E’ un rapporto più evidente quando si tratta di evasione parziale, o addirittura marginale: aliquote più basse fanno emergere più reddito di chi evade «un po’». Ma quando l’evasione è massiccia o totale, rimane quasi tutta anche se si abbassano le aliquote. Sottoscrivo però in pieno l’idea che sui proventi della lotta all’evasione, almeno nella situazione italiana, non si deve far conto per aumentare il gettito e ridurre il deficit pubblico. Il che è successo in una misura al limite del ridicolo in alcune delle diverse versioni delle «manovre» estive del nostro governo. I proventi dell’evasione sono tutti da prenotare per finanziare subito riforme fiscali che abbassino gli oneri fiscali e parafiscali che feriscono la competitività di chi vuol essere in regola.

Un fattore di successo per ridurre l’evasione è la reputazione della politica e della pubblica amministrazione. Chi pecca va punito, ma va anche convinto a non farlo più. E per convincere chi evade non basta chieder meno tasse: è essenziale dimostrargli che quel che paga va a buon fine. Deve vedere che i soldi sottratti al suo privato interesse finanziano bisogni pubblici che condivide con altri; e che la cura di quei bisogni è affidata ad amministratori con un decente grado di rispettabilità. Occorre anche informarlo, con continuità e dati credibili, sulla produttività della spesa pubblica, degli ospedali, dei tribunali, delle ferrovie, delle scuole: l’uso sistematico di indicatori di performance nei servizi pubblici è addirittura fra le misure urgenti che la famosa lettera di Trichet e Draghi chiede all’Italia per evitare il collasso.

Ancor più che un ripensamento del livello generale delle aliquote, al nostro Paese servono riforme della struttura delle imposte e degli oneri sociali. Servono per favorire la produzione e l’occupazione, per ridurre l’elusione, per ridurre l’evasione. Servono grandi e ambiziose riforme, ma anche provvedimenti limitati, specifici e urgenti. Non ho ancora capito perché il governo non ha fatto quello che molti hanno chiesto con argomentazioni e dati convincenti: finanziare con l’Iva uno sgravio della fiscalità e parafiscalità sull’occupazione. Ciò avrebbe diversi effetti positivi, compresi quelli sulla competitività internazionale delle nostre produzioni. Per quanto riguarda l’evasione, è vero che quella stimata dell’Iva è impressionante ma le conseguenze dell’eccesso di tassazione del lavoro, in termini di maggior sommerso, oltre che di minore occupazione, sono quantitativamente, ma anche qualitativamente molto brutte.

Un altro elemento importante è la cooperazione internazionale. Che è essenziale per colpire chi evade tramite operazioni con l’estero. Ma è anche fondamentale per combattere l’elusione, calmierando la parte inutile e distorsiva della concorrenza che gli Stati si fanno nell’abbassare le imposte per attirare capitali. Dopodiché bisogna saper collocare il Paese fra i diversi modelli che ci sono al mondo: tasse più alte e servizi pubblici migliori e più abbondanti, tasse più basse e meno servizi pubblici. Va ovviamente evitato il modello con tasse alte e pochi servizi. La scelta del modello va fatta con chiarezza e consapevole partecipazione democratica. Più chiara è la scelta, minore è l’incentivo e la scusa dell’evasore. Una volta fatta la scelta, a me sta bene che l’evasore abbia molta probabilità di trovare un finanziere al prossimo angolo della strada.

franco.bruni@unibocconi.it

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« Risposta #38 inserito:: Ottobre 12, 2011, 11:12:04 am »

12/10/2011

La Bce deve tornare a fare la Bce

FRANCO BRUNI

Trichet sta preparandosi a lasciare la Bce a Mario Draghi. La sua uscita lo vede, da un lato, più potente di come era entrato:
da quest’anno, infatti, è anche presidente del Comitato per il rischio sistemico, un nuovo organo istituito dall’Ue, che ha il compito di sorvegliare e provvedere affinché l’intreccio dei rischi delle banche e dei mercati finanziari non faccia precipitare la crisi.
Draghi gli subentrerà anche in questa responsabilità.

D’altro canto Trichet lascia una Bce che, in un certo senso, si è indebolita, perché ha dovuto fare un mestiere che non è il suo: sostenere, con lunghi impegni di liquidità, banche e finanze pubbliche che hanno difficoltà a ripagare o rinnovare i loro debiti. La Bce dovrebbe limitarsi a mantenere la funzionalità dei mercati con interventi di breve durata: se i problemi sono duraturi, il supporto deve essere deciso e attuato dalla politica, impegnando denari dei contribuenti, in una logica di solidarietà fiscale comunitaria, per evitare il peggio. Trichet non si è mai stancato di dirlo («da tempo ammonisco i governi»), ha insistito fin da quando è cominciata la crisi dei debiti sovrani e si è ripercossa sulle banche che hanno i titoli pubblici in portafoglio.

Ma la politica stenta ancora a decidere («i governi mi hanno criticato dicendo che la situazione non era così grave»). Ieri Trichet è tornato a protestare, presentandosi al Parlamento europeo come presidente del Comitato per il rischio sistemico. Ha detto che nelle ultime settimane la situazione è peggiorata, che la sovrapposizione dei rischi dei governi e delle banche sta facendo venir meno, come nel 2008, la fiducia nei mercati monetari dove il denaro stenta a circolare. Il rischio di contagio si estende anche fuori dall’Europa. Senza decisioni energiche sul rafforzamento del fondo salvaStati, nonché sulla ricapitalizzazione e la pulizia dei bilanci delle banche in difficoltà, la situazione può diventare disastrosa.

Uno dei compiti di Draghi sarà quello di ottenere e proteggere una più precisa definizione del ruolo della Bce nel perseguire la stabilità finanziaria. Sono ormai più di tre anni che, dal mattino alla sera, la Bce si occupa quasi solo di stabilità finanziaria, mostrando abilità tecnica, inventiva e tempestività. E’ dunque strano sentirla soffermarsi soprattutto sull’inflazione, vantando giustamente il fatto che essa rimane contenuta. Occorre riconoscere ufficialmente che, oltre alla stabilità dei prezzi, la Bce persegue la stabilità finanziaria, entro limiti e con strumenti chiaramente definiti. Se non si ritaglia con precisione e trasparenza i suoi compiti, continueranno a chiederle di supplire alla politica. E’ significativo l’episodio delle lettere che la Bce ha inviato ai governi dei Paesi, fra i quali l’Italia, che ha aiutato in via straordinaria comprando i loro titoli pubblici. Anche chi giudica sacrosanto il contenuto di quelle lettere non può non rilevare che sarebbe più appropriato che fosse la Commissione europea, magari per conto del fondo salva-Stati, a imporre dettagliate ricette in diversi settori delle politiche economiche nazionali.

Sono urgenti decisioni politiche comunitarie che, riconoscendo che l’interdipendenza delle economie europee è tale da rendere inevitabile un certo grado di solidarietà fiscale, stanzino fondi adeguati alle emergenze da affrontare. Vanno anche messe a punto sollecitamente procedure per ristrutturare con ordine e senza panico i debiti pubblici insostenibili; vanno riformate e rese omogenee e transnazionali le procedure da usare nei confronti delle banche che rischiano l’insolvenza.

Fino a che questo non succede la Banca centrale rimane sola sulla trincea della crisi. Secondo alcuni non c’è ragione perché non continui i suoi sostegni senza particolari scrupoli. Chi la pensa così tende a sostenere che il rischio-Paese è un’esasperazione degli speculatori; dice che si tratta solo di creare liquidità e che il pericolo di inflazione non è oggi evidente. La verità è che la speculazione cavalca situazioni realmente deteriorate; e che non c’è solo il pericolo dell’inflazione, che pur rimane dietro l’angolo. Il punto centrale è che continuare a rovesciare moneta su problemi e squilibri reali non li risolve, anzi, induce a rimandarli e a lasciarli aggravare. Dopodiché si tentano strette di bilancio precipitose e brutali dei Paesi in difficoltà, strette che riescono poco e male e fanno pagare troppo ai più deboli fra i loro cittadini.

Rovesciare moneta su chi ha debiti insostenibili e continua ad accrescerli è anche un’ingiustizia, porta all’arbitrio di chi viene «salvato» senza che la politica si prenda la responsabilità di fissare i criteri e le modalità giuste per farlo, di decidere chi paga il conto del salvataggio. E’ il disordine monetario contro cui l’Europa ha scelto di darsi una moneta unica e una Banca centrale indipendente.

Draghi non potrà, come non ha potuto Trichet, impedire che l’Europa si faccia del male sfuggendo alle decisioni politiche indispensabili. Gli auguriamo di trovare il modo per essere convincente con chi deve al più presto sollevare la Bce da compiti e responsabilità che mettono in pericolo l’integrità della costituzione monetaria che caratterizza l’Unione europea.

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« Risposta #39 inserito:: Novembre 23, 2011, 12:28:03 pm »

23/11/2011

Quattro ingredienti per la stabilità

FRANCO BRUNI

Gli incontri europei di Monti riprendono, dopo il cambio di governo, il dialogo con gli organi comunitari sull'aggiustamento dell'economia italiana. L'Europa considera credibile che il nuovo clima politico del nostro Paese renda l'aggiustamento più incisivo. Ma l'opportunità di Monti è anche quella di contribuire a disincagliare il governo economico comunitario da una leadership franco-tedesca che non è efficace, perché Merkel e Sarkozy vanno poco d'accordo e puntellano con la visibilità europea le rispettive debolezze politiche nei loro Paesi.

Il duplice fine di questi giorni europei si adatta alla duplice veste del primo ministro di uno dei Paesi membri che deve fare un maggior sforzo di aggiustamento, il quale è anche una persona che da tempo ha la reputazione e l'esperienza di un protagonista delle istituzioni comunitarie e della loro evoluzione. Ed è duplice anche lo sforzo perché l'Europa riprenda stabilità e crescita: quello dei singoli Paesi membri «per riordinare la propria casa» e l'azione dell'Ue che li stimola e li aiuta.

Sul riordino della casa italiana il governo farà presto sapere le sue prime mosse. Su quello che deve fare l'Ue il dibattito è intenso e controverso. Ma ora è tempo di concluderlo: non si può più improvvisare per tamponare le urgenze della crisi. Lo si è fatto troppo, bisticciando e ottenendo risultati opachi e precari, puniti dai mercati. Ora la guerra all' emergenza va combattuta facendo convergere l'Unione su buone decisioni di lungo periodo. Vanno distribuiti con chiarezza compiti e responsabilità per mantenere la stabilità finanziaria in Europa. In presenza di decisioni politiche nitide e credibili i mercati sono disposti a una tregua, sono disposti a concedere il tempo perché esse vengano realizzate, compreso il tempo necessario per eventuali modifiche dei Trattati.

Passi importanti sono già stati fatti: abbiamo nuove autorità di vigilanza finanziaria comunitarie, ma vanno potenziate; abbiamo nuove regole per disciplinare le finanze pubbliche e altri aspetti delle macroeconomie dei Paesi membri, ma per applicarle davvero occorre prima domare l'emergenza. E' il momento di concentrarsi su decisioni durature per ottenere la stabilità finanziaria in un' area dove ci sono rischi di illiquidità e insolvenza anche per i titoli di Stato.

Credo che la ricetta abbia quattro ingredienti, tutti indispensabili in certe dosi. Il primo è l'autodisciplina e l'aggiustamento finanziario delle singole economie nazionali, coordinate con forza dal centro dell' Ue. Ma occorre tempo per aggiustare gli squilibri in modo duraturo, strutturale, socialmente e politicamente sopportabile. Poiché i mercati sono spesso impazienti, ci vuole allora il secondo ingrediente: va dato tempo agli aggiustamenti fornendo finanziamenti comunitari. Che devono essere di due tipi, ben distinti: supporto di breve termine da parte della Bce e di medio-lungo termine da parte di un meccanismo comunitario che veda l'impegno congiunto e solidale di un ammontare adeguato di fondi da parte dei governi nazionali. Chi vuole che sia la sola Bce ad assicurare supporti illimitati, anche oltre il breve termine, sta proponendo di sconvolgere la costituzione monetaria dell'eurozona. E' sperabile che l'intervento di Monti possa indebolire queste posizioni.

Finanziare gli squilibri, a breve e a medio termine, non significa abolire la disciplina con cui i mercati speculano contro i Paesi squilibrati. Significa anzi esaltare la funzione dei mercati, evitando che si esprimano in modi violenti e controproducenti. Quanto all'impegno solidale di fondi governativi a medio-lungo termine, esso può assumere forme tecniche diverse, comprese le varie possibili versioni dei cosiddetti eurobond. Ma quel che conta è la sostanza politica dell'impegno solidale a finanziare, in misura limitata ma sopportando i rischi che ne derivano, gli aggiustamenti graduali dei Paesi in difficoltà, per la semplice ragione che il loro buon fine è interesse collettivo dell'Europa. L'introduzione esplicita del principio di una pur limitata solidarietà finanziaria europea è quindi il terzo ingrediente della ricetta: vanno convinti soprattutto i tedeschi e Monti può aiutare.

Il quarto ingrediente è la disponibilità, in caso di insufficienza dei tre ingredienti precedenti, di una procedura per gestire il «fallimento» dei governi indebitati in modo insostenibile e incorreggibile, cioè per ristrutturare il loro debito pubblico mettendo una parte del costo dell'aggiustamento dei Paesi in difficoltà a carico di chi ha investito nei loro titoli. L'ammettere che ci possano essere dei fallimenti governativi, ben gestiti e controllati, stimola la disciplina finanziaria e crea meno panico che l'insistere nel negarlo di fronte alla diffusissima convinzione che il parziale fallimento è a volte inevitabile. Questo ingrediente è già stato, in linea di principio, approvato dal Consiglio europeo in luglio. Ciononostante, è difficile da introdurre nella ricetta, perché porta con sé anche la necessità di rivedere le procedure di insolvenza delle banche, che detengono molti titoli governativi, e perché fra i nemici di questo ingrediente c'è stata a lungo la Bce. Ma dobbiamo augurarci che i prossimi colloqui europei riprendano il tema. Le regole per il «default controllato» dei debitori sovrani servono anche a difendere l'indipendenza della Bce evitando che, per escludere del tutto il rischio di insolvenza dei governi, essa venga obbligata a sostituirsi a loro come debitore di ultima istanza.

franco.bruni@unibocconi.it

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« Risposta #40 inserito:: Novembre 28, 2011, 09:03:21 am »

28/11/2011

Situazione grave ma non esageriamo

FRANCO BRUNI

Le difficoltà del debito pubblico italiano sembrano ormai il principale problema dell’economia mondiale. È possibile che si stia esagerando. È vero che la solvibilità dei nostri Btp è uno snodo importante della crisi internazionale. Ma riceviamo ansiosi consigli anche da chi non sta molto meglio di noi. Per fortuna qualche ansia si traduce anche in profferta di aiuto.

Come riportato ieri da «La Stampa», il Fmi starebbe preparandosi a coordinare un formidabile pacchetto di sostegno per l’eurozona, con particolare attenzione all’Italia.

Ben vengano i finanziamenti. L’urgenza di risistemare la macroeconomia di diversi Paesi europei, con l’Italia purtroppo in prima linea, riequilibrando i loro conti pubblici e rilanciandone la competitività e la crescita, è fuori discussione. Senza politiche e riforme convincenti, i mercati non sono disposti a rischiare i loro investimenti se non pretendendo tassi talmente elevati da divenire essi stessi causa di insostenibilità dei debiti.

L’urgenza non deve però diventare un’altra manifestazione di quella miopia, di quella disattenzione all’orizzonte lungo, che è alla radice delle cause della crisi mondiale. Gli aggiustamenti devono aver luogo in modi seri, strutturali, graduali, socialmente sopportabili, tali da non contrarre ma aumentare la capacità di crescita dei Paesi che li adottano. La stessa Ue, dopo essersi distratta per troppo tempo dai suoi compiti di controllo, ha forse esagerato quando, per esempio nel caso della Grecia, ha reagito all’emergere della gravità delle condizioni della finanza pubblica indicando inizialmente tempi di aggiustamento irrealistici.

Si può esagerare anche nel disegnare gli aggiustamenti, mostrando troppa fretta e disattenzione alla qualità delle misure da adottare. Con ciò si finisce per peggiorare la credibilità dei debitori sui mercati. Mercati che, da parte loro, sono famosi per essere impazienti, nervosi, distratti e poi esagerati, anche quando sanno colpire a ragion veduta chi effettivamente ha i cosiddetti «fondamentali» in brutte condizioni.

Per agevolare la gradualità e la qualità degli aggiustamenti è dunque necessario predisporre «politicamente» adeguati finanziamenti a favore dei debitori in difficoltà. Ciò può stimolare l’aggiustamento, perché i sostegni possono venir condizionati all’adozione delle misure necessarie. Inoltre i finanziamenti devono calmierare le esagerazioni dei mercati ma non soffocarne l’azione disciplinante sui debitori. Per i Paesi dell’area dell’euro, la Bce può effettuare interventi, temporanei ma massicci, diretti soprattutto ad attenuare il disordine arrecato dalla violenza della speculazione. Ad essa devono però subentrare presto meccanismi basati sulla solidarietà fiscale fra i Paesi dell’eurozona. Il coinvolgimento del Fmi, con un’ulteriore rete di protezione, nel caso le altre risultassero insufficienti, può essere prezioso. Volendo scoraggiare la speculazione più miope è bene assicurare la disponibilità di somme anche molto superiori a quanto è ragionevolmente necessario per aiutare un Paese che sta provvedendo a rimediare ai suoi guai. Anche perché l’eccesso di drammatizzazione è una caratteristica di certe fasi delle crisi finanziarie, soprattutto quando le misure di aggiustamento e riforma esitano ad arrivare e incontrano inizialmente ostacoli politico-sociali, prima che, insieme ai loro costi, vengano capiti bene i loro benefici.

Eccesso di drammatizzazione è anche il continuo parlare di fine dell’euro, senza saper bene di che cosa si parla e senza capire che non risolverebbe nulla e danneggerebbe tutti. E’ vero che l’euro è incompleto senza una maggiore integrazione politico-economica dell’area dove circola. Ma essere incompleto non significa essere dannoso: aver adottato l’euro significa aver rinunciato a pasticciare con le monete per affrontare problemi reali, di inefficienza, squilibrio e carenza di competitività. L’euro ha nascosto per qualche tempo questi problemi, ma ora li rende più evidenti proprio perché impedisce di curarli con la droga della moneta. E rendendoli più evidenti ci stimola a curarli con serietà. Infatti l’Europa, nel correggere i guai che hanno condotto alla crisi mondiale, è più impegnata degli Usa, dove l’uso della droga monetaria non trova limiti.

Nel caso italiano è importante non rassegnarci troppo alla drammatizzazione. Il governo avrà modo di chiarire la situazione con trasparenza, spiegando e rispiegando come stanno le cose e che cosa occorre fare. La comunicazione chiara con l’opinione pubblica è fondamentale. La situazione apparirà allora con la sua giusta gravità ma senza esagerazioni. Si vedrà che le condizioni della nostra finanza pubblica sono ancora pienamente sostenibili, a condizione di adottare con tempi realistici una ricca gamma di misure che incidano sulle inefficienze, le iniquità e i blocchi alla crescita del Paese. Misure che, andrà spiegato con insistenza e chiarezza, richiedono diversi tipi di sacrifici di breve periodo a diversi gruppi sociali, ciascuno dei quali, in cambio, beneficerà subito dell’eliminazione di privilegi e squilibri permessa dai sacrifici altrui e, nel medio e lungo periodo, godrà del vantaggio che le misure arrecheranno all’insieme del Paese.

franco.bruni@unibocconi.it

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« Risposta #41 inserito:: Dicembre 09, 2011, 10:59:32 pm »

9/12/2011

Il decreto non va snaturato

FRANCO BRUNI

La riduzione della protezione delle pensioni dall’inflazione non è fra le misure facilmente condivisibili del primo decreto del nuovo governo.

È l’annuncio di un «sacrificio» che, se ha turbato in modo visibile il ministro Elsa Fornero, non credo sia stato gradevole per il premier.

Ho un vivo ricordo di quando il professor Monti ci guidava alla guerra contro la «tassa dell’inflazione», contro la barbarie delle arbitrarie redistribuzioni causate dalla riduzione del potere d’acquisto dei crediti e dei redditi. E di quando, addirittura, giunse a scandalizzare i benpensanti e a sorprendere Luciano Lama, difendendo una corretta indicizzazione dei salari, una scala mobile che, eliminati i difetti che la rendevano nociva, avrebbe giovato all’efficienza della contrattazione salariale, a una più giusta evoluzione della distribuzione dei redditi, alla neutralizzazione di alcuni dei danni dell’inflazione. È vero che i prezzi allora salivano molto più svelti, ma com’è possibile che proprio Monti abbia affidato all’alea dell’inflazione il potere d’acquisto dei pensionati?

È stato spiegato: esigenze di cassa eccezionalmente gravi e mancanza di alternative adeguate. Ora però si sta tentando un’attenuazione, un aumento del livello massimo che rimane protetto dall’inflazione, cercando copertura per una correzione di ammontare rilevante. È interessante che il tentativo avvenga in una sede ufficiale e istituzionalmente appropriata, una commissione del Parlamento, nei confronti della quale il governo dei cosiddetti tecnici mantiene un dialogo aperto. Se si trovasse un aggiustamento per questa via, diverrebbe ancor più innegabile la piena legittimazione politica dei tecnici, la natura politica del compito del governo, richiesta da una situazione alla quale può porre rimedio solo uno sforzo politico di convergenza nell’interesse nazionale e di ripulitura istituzionale dei processi di decisione. La competenza tecnica dei ministri è solo un aspetto, per quanto importante, di questa ricerca di decenza procedurale.

Se il dialogo col Parlamento è prezioso, è però importante che il decreto non venga modificato nei suoi aspetti essenziali, anche di natura qualitativa, e che venga approvato sollecitamente, eventualmente col ricorso alla fiducia. È importante per due motivi, in un certo senso opposti: per le misure che il decreto contiene, i cui effetti sulla credibilità finanziaria del Paese devono esplicarsi senza inciampi; e per le misure che il decreto non contiene e che il governo deve approntare al più presto, senza spender tempo prezioso per difendere un primo pacchetto inevitabilmente incompleto.

Se l’approvazione del pacchetto si allunga e si complica, si irrigidisce inopportunamente l’identificazione fra il nuovo governo e il suo primo decreto. Occorre invece che partano subito nuovi cantieri e che si varino nuovi provvedimenti, senza effetto sui saldi ma, in alcuni casi, con rilevanti modifiche soprattutto nella composizione della spesa pubblica. La riforma del mercato del lavoro, e delle forme di assistenza ad esso connesse, è già stata annunciata, ma dovrà passare dalla concertazione con le parti sociali. I cantieri della promozione della crescita, affidati al coordinamento di Corrado Passera, devono divenire meno impliciti e parlare con più chiarezza alle aspettative degli operatori. E poi, ovviamente, c’è «tutto il resto».

Penso ci sia un modo per riassumere la sostanza della parte principale di questo resto: si tratta di valorizzare la funzione più ovvia dello Stato, quella di produrre, direttamente e indirettamente, beni e servizi pubblici. I servizi pubblici sono parte essenziale del consumo nazionale e costituiscono un input cruciale per le imprese che producono crescita e occupazione; la loro qualità e quantità è la base per migliorare la convivenza in economie e società come quelle di oggi, complesse e in continuo stress evolutivo.

Alcuni beni pubblici sono il modo più efficace per ridistribuire con equità redditi e qualità di vita, perché sono più essenziali per chi non ha il potere e la fortuna economica per prescindere, in qualche modo e misura: trasporto e verde pubblici, difesa del territorio, dell’ambiente e dei beni culturali, sanità e istruzione di base, sicurezza e giustizia. L’impegno a rilanciare il valore culturale e politico dei servizi pubblici e a render conto in modo trasparente dei progressi nella loro qualità e quantità: è questa la bandiera ideale in cui vanno avvolte le più urgenti riforme strutturali.

Con questo impegno si può anche cambiare il linguaggio con cui si tratta la questione dell’entità della spesa pubblica. È probabilmente vero che gli sprechi e le ruberie sono talmente grandi che se li eliminassimo potremmo permetterci meravigliosi servizi pubblici con minor spesa complessiva. Intanto però manca la benzina alle auto della polizia, l’apparato per la nettezza urbana a Napoli, la canalizzazione delle acque nelle zone a rischio di alluvione, e tanto altro. Sicché il governo insista perché si smetta di parlare demagogicamente di tagliare la spesa: si tratta piuttosto, con la cosiddetta «spending review», di modificare la composizione e la qualità delle spese, canalizzandole, con rigore e ben scelte priorità, alla produzione dei beni pubblici, in uno Stato che minimo non può essere se non vuol venir travolto dagli eventi che le sole iniziative private non possono affrontare. Ciò richiede anche entusiasmo, inventiva e impegno collettivo per migliorare il governo degli enti e delle organizzazioni pubbliche, accrescendone la disciplina, gli incentivi e i controlli.

franco.bruni@unibocconi.it
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« Risposta #42 inserito:: Dicembre 28, 2011, 05:48:39 pm »

28/12/2011

Cosa manca per convincere i mercati

FRANCO BRUNI

Il nuovo governo non ha ancora avuto il plauso pieno dei mercati: lo spread sui nostri titoli di Stato rimane alto, anche se gli acquisti della Bce si sono potuti alleggerire. I cittadini non vedono ancora la corrispondenza fra i sacrifici richiesti per aggiustare i conti e il miglioramento dell’affidabilità creditizia del Paese. Quanto dovranno aspettare? Tutti sanno che occorre tempo perché i provvedimenti diano frutto concreto. Ma si era sperato in un miracolo di credibilità. Cambiato il governo e il suo stile, i mercati avrebbero anticipato i benefici della sua azione, il costo del nostro debito lo avrebbe mostrato e ci sarebbe stato più ottimismo degli investitori e dei consumatori. Quanto occorrerà attendere perché questo succeda?

La risposta dipende da tre insiemi di fattori. Il primo è, ovviamente, la capacità che il governo mostrerà nel continuare la sua azione con decisione, affrontando i problemi sui quali non ha ancora inciso abbastanza. Il secondo fattore è l’atteggiamento dei partiti. Monti ha ottenuto una tregua alle baruffe e ha avuto una gran quantità di voti in Parlamento.

Ora serve una più esplicita adesione all’idea che occorre una fase politica nuova, anche dopo la fine di questa legislatura, una fase di concordia e convergenza che veda nell’elettorato e nei suoi rappresentanti la piena consapevolezza che i problemi del Paese non potranno, ancora per diversi anni, essere affrontati litigando, con l’occhio all’ultimo sondaggio e a guadagni effimeri nelle prossime elezioni. I tre partiti che appoggiano il governo devono accelerare il chiarimento delle loro strategie e, se credono davvero in una fase di azione condivisa, devono smettere di dar l’impressione che non riescono a scordare i litigi passati e non vedono l’ora di riprendere a litigare. Per i mercati la credibilità del governo non può resistere senza progressi più evidenti nella credibilità del quadro politico d’assieme che, fra l’altro, ha non più di un anno per prepararsi a far proposte decenti per la prossima legislatura.

Il terzo fattore necessario perché l’azione del governo trovi un’eco più netta nei mercati, riguarda le politiche europee. In Europa c’è disordine. Gli ultimi vertici si sono conclusi in modo confuso e pasticciato. Non c’è niente di veramente chiaro e ben condiviso: né i meccanismi di sostegno finanziario e di solidarietà che dovrebbero calmierare la speculazione dei mercati, né i modi per mettere in pratica la riforma del Patto di Stabilità e il controllo centralizzato degli squilibri macroeconomici, né il ruolo della Bce. La quale ha appena deliberato un colossale finanziamento triennale a favore delle banche e vede ridepositare presso di sé gran parte di quanto ha prestato. Significa che il sistema creditizio europeo è ancora ingolfato, che non è stata fatta la necessaria pulizia nelle banche, che la fiducia e la trasparenza non sono ritornate, che il mondo del credito non è indifferente ai dubbi che circolano sul futuro politico dell’Unione. In queste condizioni non è facile, indipendentemente dalla credibilità dell’Italia, che i nostri titoli pubblici detenuti all’estero in gran quantità vedano migliorare rapidamente le loro quotazioni. Difficoltà analoghe trova il debito di diversi altri Paesi europei.

Fra i tanti chiarimenti necessari nelle politiche europee, alcuni ci sarebbero particolarmente utili, in questa fase delle nostre politiche nazionali. Innanzitutto il capitolo dei provvedimenti per la crescita deve diventare subito più importante anche in Europa: senza un progetto di crescita europea, la credibilità di quelli nazionali ha limiti insuperabili. Il punto chiave è l’azione per il completamento del mercato unico, che è il pilastro principale dell’Ue. Non c’è crescita duratura per i singoli Paesi europei se non si sfrutta il maggior vantaggio dell’economia comunitaria: quello di avere a disposizione, se lo si valorizza sul serio, il grande mercato comune, quello che ancora oggi è il più grande mercato interno del mondo. Sulla questione la tabella di marcia dell’Ue, per eliminare i tanti residui di segmentazione e protezionismo, riflette un progetto preparato più di un anno fa proprio dal nostro attuale premier. Speriamo che il suo contributo ai prossimi vertici serva ad accelerare l’effettiva marcia verso il mercato unico e verso una strategia di crescita comunitaria dove si inserisca bene quella italiana. Si dice (ma sarà ancora vero?) che il tema del mercato unico è particolarmente caro agli inglesi. Servirebbe allora rimediare al pasticcio fatto con la Gran Bretagna nell’ultimo vertice europeo.

Un altro risultato da ottenere in Europa è il chiarimento del rapporto fra gli aggiustamenti richiesti per i bilanci pubblici e la fase del ciclo economico in cui essi devono avvenire. Non bisogna temere di essere costretti a una nuova restrizione fiscale se l’anno venturo avremo un rallentamento del Pil o, addirittura, una recessione. Altrimenti il Pil andrà ancor peggio e, per riaggiustare il rapporto fra deficit e Pil, serviranno nuovi tagli, e così via, un insensato circolo vizioso. L’aggiustamento del bilancio pubblico deve rimediare alla miopia della politica, non deve aggravarla. Certamente la cosa non riguarda solo l’Italia. In materia le regole di Bruxelles non sono ancora chiare o non sono state ancora abbastanza chiarite. Fino a quando non lo saranno i mercati avranno diritto di lesinare credibilità alla disciplina fiscale dei Paesi europei, anche quando si mostra rigorosa: hanno diritto di ritenerla inefficace, controproducente e perciò, a lungo, insostenibile.

franco.bruni@unibocconi.it

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« Risposta #43 inserito:: Gennaio 19, 2012, 04:48:01 pm »

19/1/2012

Concorrenza non significa meno regole


Le informazioni disponibili sulle «liberalizzazioni» che discuterà il Consiglio dei ministri disegnano un vasto programma di interventi per stimolare la crescita producendo di più a prezzi inferiori. Si incide soprattutto sul settore dei servizi, che costituisce il 70% del Pil, dai trasporti ai servizi professionali e finanziari, dalla distribuzione dell’energia a quella dei giornali. Servizi più competitivi significano costi minori anche per il settore manifatturiero.

Per l’Italia migliorare la regolamentazione dell’attività economica è cruciale: la Banca Mondiale ci colloca nel 25% peggiore dei Paesi dei quali valuta la qualità delle regole; se passassimo nel quarto migliore, il tasso di crescita del Pil aumenterebbe di due punti.

Vedremo nei dettagli che cosa verrà effettivamente varato dal governo. L’ampio spettro delle misure susciterà dibattiti specifici. Ci saranno critiche e richieste di miglioramenti, come è logico data la complessità del provvedimento.

Se però questo rimarrà vasto e non avrà, come non pare abbia, timidezze nei confronti degli interessi speciali più forti, il giudizio d’insieme dell’opinione pubblica sarà positivo: molti avranno un privilegio in meno ma godranno dall’interruzione dei privilegi altrui. Il negoziante dovrà fronteggiare un orario di apertura più lungo ma beneficerà di una minor parcella dell’avvocato; il farmacista sarà meno protetto dalla concorrenza ma pagherà meno il gas, e così via. Anche i mercati finanziari reagiranno positivamente: ai tassi di interesse sui nostri debiti non può che far bene la notizia dell’introduzione di misure favorevoli alla crescita (cioè al denominatore del rapporto fra debito e Pil) con un consenso che mostra come nel Paese l’interesse generale sappia prevalere sui privilegi.

I privilegi che le misure proposte fanno cadere non sono solo di privati ma anche di enti pubblici che oggi forniscono servizi in un regime di insufficiente concorrenza, con una casistica molto varia che va dai trasporti locali alle aziende parastatali del settore energetico. La rimozione di monopoli pubblici ha un significato speciale: è un capitolo della riforma della pubblica amministrazione, nella quale va incentivata la produttività e l’efficienza, punita l’inerzia e monitorata in modo trasparente la qualità delle prestazioni fornite ai cittadini. Aprire la concorrenza nei servizi pubblici non significa mettere il pubblico in un angolo, magari a favore di oligopolisti privati: può anzi esaltare la capacità del pubblico di produrre meglio e, in alcuni casi, di battere il privato proprio nella gara concorrenziale. Il settore pubblico è una enorme galassia dove il successo e l’innovazione di un comparto possono diventare contagiosi e indicare a tutti la strada per acquistare nuova efficienza e, soprattutto, nuova stima e considerazione dai cittadini. Il governo dovrebbe al più presto intitolare un capitolo apposito delle sue politiche alla valorizzazione dei servizi pubblici, creando sul tema una vera mobilitazione nazionale. Anche perché i servizi pubblici sono utilizzati più che proporzionalmente da chi ha minor fortuna economica e sono il modo più concreto di ridistribuire il reddito reale. Con i provvedimenti per la concorrenza un passo importante viene comunque fatto. Speriamo che gli utenti dei treni pendolari possano presto prenderne atto.

La seconda osservazione generale è che la parola «liberalizzazioni» può essere ingannevole. Può far pensare all’ideologia del mercato senza regole che risolve le cose da solo, senza attenzione e impegno della politica economica. Sarebbe meglio parlare, fin nel titolo dei prossimi provvedimenti, di misure per lo stimolo della concorrenza e la diffusione dei mercati. La concorrenza e il mercato hanno bisogno di regole per sussistere, sono il risultato di un sofisticato approccio di politica economica che rimuove ciò che li ostacola, vigila sul loro funzionamento, corregge le degenerazioni con le quali i mercati tendono a volte a suicidarsi.

Se su una tratta ferroviaria vi è più di un’impresa di trasporti a far correre i suoi convogli, c’è più concorrenza ma non ci sono meno regole. Anzi, aumenta il lavoro e l’importanza dell’autorità pubblica che controlla la qualità del trasporto, le comunicazioni alla clientela, la logistica con cui i treni di diversa proprietà si alternano sulla rete senza sovrapporsi causando sprechi e disastri. Se i bar possono restare aperti dopo le otto di sera diventa ancor più essenziale garantire che nella strada di fronte non si facciano festini rumorosi, invasioni di suolo pubblico e posteggi in terza fila. Se le licenze dei bagnini vengono rimesse all’asta sarà ancor più importante controllare che chi le compra non riduca le spiagge ad ammassi di cemento. Per promuovere la concorrenza occorre togliere protezioni e cambiare le regole, non abolirle. Il problema è la qualità della regolamentazione, da conquistare senza arroganze ideologiche.

Anche per questo i provvedimenti non possono essere violenti e semplicistici. E chi difende gli interessi delle corporazioni privilegiate dalle vecchie regole non può cavarsela dicendo che senza regole i consumatori rischiano di venire imbrogliati da avvocati incapaci che si svendono, da taxi scassati che concorrono senza regole, da università libere che vendono fumo a caro prezzo. Le regole che difendono i consumatori, là dove è presumibile che non siano in grado di difendersi da soli, rimangono anche quando viene promossa la concorrenza fra i produttori. Sono regole che la politica può porre con severità senza doversi affidare alla buona volontà delle corporazioni dei produttori protetti.

franco.bruni@unibocconi.it

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« Risposta #44 inserito:: Gennaio 23, 2012, 09:37:09 am »

23/1/2012

Il test per la politica

FRANCO BRUNI

Oggi il governo avvia il tavolo sul mercato del lavoro.


Ha appena varato il decreto sulla concorrenza. La «seconda fase» dei suoi provvedimenti, per il rilancio della crescita, è in pieno svolgimento.

Ma la cooperazione europea, della quale l’Italia non può fare a meno, è in uno stallo che allarma anche le agenzie di rating. La settimana scorsa Monti è riuscito a far riunire i tre partiti che lo sostengono per dare un consenso congiunto a una mozione che stimoli l’Europa a darsi una mossa. Ora deve convincerli ad approvare il decreto sfruttando l’assenso di massima che hanno espresso. Ma insieme all’assenso sono apparsi segni di una incompleta responsabilizzazione dei partiti, che può causare dilazioni, complicare il tavolo con le parti sociali, indebolire Monti a Bruxelles.

C’è movimento su tutti e tre i fronti della battaglia per domare la crisi: i provvedimenti del governo, il potenziamento della cooperazione europea, il miglioramento del clima politico nazionale. Diventa più chiaro il collegamento fra i tre fronti. Gli sviluppi in sede comunitaria influenzano quelli sul fronte politico interno. Il grado di successo dei provvedimenti del governo determina l’intensità della sua influenza in Europa e la convenienza dei partiti nazionali a collaborare.

Ma su uno dei fronti, quello politico nazionale, l’attenzione e il senso di urgenza sono ancora insufficienti. In Europa c’è inerzia ma lo si dice molto e ci si scandalizza. I provvedimenti del governo sono accolti in modi controversi ma prendono corpo svelto e animano la discussione. La strategia dei partiti è invece ancora congelata, sorpresa dal cambio di governo: e di ciò poco ci si preoccupa. Prevale l’idea che, avendo litigato troppo in passato, non si può chiedere ai partiti di trovar convergenze lavorando nella stessa stanza. Ma, sia a destra che a sinistra, è pervicace la difesa dello schema di competizione politica manichea, alla rincorsa dei sondaggi e delle prossime elezioni, che ci ha portato al disastro, come non si vedesse l’ora di riprendere il futile litigio senza programmi concreti che ha reso surreale lo scenario politico italiano degli ultimi anni. La permanenza del bipolarismo è data per scontata nonostante la coesione dei poli si riduca.

È lo stesso Monti a chiamare «strano» il suo governo, ma sulla sua stranezza qualcuno esagera, qualcuno mormora addirittura di sospensione della democrazia, confondendo quanto dispone la Costituzione, circa il rapporto fra elezioni, partiti, ruolo del Parlamento e ruolo del governo, e il modo in cui questi rapporti sono stati interpretati negli ultimi anni, secondo cui il governo, non solo il Parlamento, «dev’esser quello eletto dai cittadini». Persino una persona lucida come il sindaco di Milano ha detto all’«Infedele» che lo strano governo deve finire non più tardi dell’estate «altrimenti distrugge la sinistra». Eppure proprio Pisapia è stato votato anche perché è stato apprezzato un certo suo grado di convincente stranezza. È forse la conservazione della «sinistra», proprio di quella che c’è e che non è chiaro cosa sia, un buon criterio per decidere la fine della legislatura? Manca il coraggio di proporre una riflessione radicale, nell’interesse del buon governo del Paese, sui cartellini della politica e dei partiti.

Si dirà che occorre dar tempo per far sbollire il fumus delle insolenze e delle baruffe intorno a Berlusconi. Si dirà che altrove nel mondo battaglieri bipolarismi sopravvivono utilmente nonostante l’incertezza sul significato di destra e sinistra. Si dirà che per una migliore qualità della competizione politica occorre una nuova legge elettorale, ma che questa dipende dalla qualità della competizione che si vuol veder all’opera, e che dunque la lentezza dei progressi è quella del cane che insegue la sua coda: diamogli tempo per riuscire a prenderla e giocarci contento. Si dirà che il bipolarismo ha i suoi difetti ma lo spettro del passato, il grande centro inamovibile, trasformista e democristiano, è peggio del bipolarismo falso e drogato. Si dirà che il sostegno a Monti è la prova che la politica italiana non è inerte, che il dialogo fra i partiti sta prendendo corpo e il governo sta ottenendo per il Paese la fertile tregua di riflessione per il quale è stato nominato. Sono tanti i modi per giustificare la lentezza dell’evoluzione del quadro politico, alla quale non è certo l’economista che può suggerire la strada migliore.

Ma l’economista può dire che gli altri due fronti della battaglia, i provvedimenti del governo e i progressi dell’Europa, sono necessari ma non sufficienti per garantire la fiducia degli investitori nell’Italia. Se anche Monti prende misure perfette e l’Europa ci circonda di solidarietà, per puntare sull’Italia occorre puntare almeno sul suo prossimo decennio. Ciò richiede fiducia nei meccanismi della politica italiana che subentreranno quando lo strano governo avrà terminato il suo mandato. Se i meccanismi rimarranno malati e inadeguati ai tempi, le manovre e le riforme in corso saranno insostenibili, verranno smontate e smentite, e qualunque solidarietà europea andrà sprecata. Soprattutto, la sfiducia dei cittadini nella politica continuerà a mangiarsi la civiltà del Paese.

Dovrà allora prolungarsi o rinnovarsi la tregua, con altri governi «strani»? Speriamo di no. Ma per inventarsi una nuova e sostenibile normalità, proprio perché non è cosa facile da fare, occorre impegnarsi subito di più, almeno con la stessa urgenza, coraggio e fantasia che stiamo chiedendo ai politici europei. I leader dei partiti rinnovino senza pudori i loro incontri in una stessa stanza e preparino un gioco politico pulito, credibile e concreto per il futuro. Se per farlo non bastasse il periodo che ci separa dalle prossime elezioni, si prendano, senza sprecarlo, altro tempo, dando anche alla prossima legislatura qualche connotato «strano», meno strano di Monti ma abbastanza strano per promettere autentica volontà di innovazione.

franco.bruni@unibocconi.it

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