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« inserito:: Maggio 07, 2008, 01:02:24 am » |
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Oggi voto per Obama
Ariel Dorfman
I miei figli non si stancano di ricordarmi che è sufficiente che io lanci una predizione affinché questa non si compia. Ecco perché mi hanno fatto promettere che, per questo caso particolare così tanto trascendente per l’intera umanità, me ne stia in prudente silenzio. Ciò nonostante, mi permetterò il gusto di esporre un’opinione equanime e cauta: dirò che è probabile, più che probabile, molto probabile, che il giovane senatore dell’Illinois sarà, entro breve, il candidato unanime dei Democratici.
E aggiungo che a gennaio del prossimo anno, con nostra sorpresa e gioia, vedremo un uomo di razza nera entrare da vittorioso in una Casa Presidenziale costruita duecento anni fa da migliaia di schiavi nordamericani e che, paradossalmente e forse anche ironicamente, si chiama White House, la Casa Bianca.
Per arrischiare questo discreto pronostico non ho bisogno di appoggiarmi nelle inesauribili statistiche né in sondaggi né sulla certezza che le aspirazioni di John McCain saranno demolite dalla tempesta irachena e dalla recessione economica o da altrettanti disastri che George W. Bush lascia come triste eredità. Mi basta affacciarmi alla finestra della mia abitazione in Carolina del Nord, uno Stato la cui popolazione parteciperà massicciamente alle primarie di oggi, 6 maggio, che decideranno il futuro di questo Paese. Basta guardare l’entusiasmo, quasi indescrivibile, che genera Obama tra tanti cittadini e specialmente tra i più giovani. Basta vedere la rinascita di una speranza, di una militanza e di una determinazione politica che io, per lo meno, non vedevo negli Stati Uniti dal 1968, da quell’anno fatidico in cui tanto Bobby Kennedy come Martin Luther King furono assassinati. Basta notare come fino ad ora Obama ha potuto giustamente fondere nella sua persona le aspirazioni di questi due martiri della sua patria, incarnando Kennedy e simultaneamente King; basta osservare come ha conquistato il miracolo di equilibrare le due zone del suo essere, l’esperienza e la storia di un nero e di un bianco mescolate nel suo sangue come nelle sue idee; basta questa incredibile conquista per augurare il trionfo della sua candidatura.
E se fosse impossibile mantenere questa azione da equilibrista? Se questa unità fosse una mera illusione? Se i nordamericani bianchi, ancor oggi maggioranza, si sentissero improvvisamente minacciati a causa delle origini di colore di un Obama fino ad ora gentile, sereno e cool? Se vedessero nel suo volto scuro non una speranza per un mondo migliore e tollerante ma il ricordo incessante della colpa per la schiavitù e lo sfruttamento che contamina il passato nordamericano? Se vedessero in Barack un rimprovero più che una speranza? Tutto ciò potrebbe spegnere la promessa di Obama?
Sono domande diventate urgenti da quando il recente celebre reverendo Wright facesse la sua repentina e folgorante riapparizione nella vita di Barack Obama. Sociologi, giornalisti, politici, editorialisti e cittadini semplici e comuni hanno consumato tonnellate di tempo, di inchiostro e di blog per delucidare questo tema interminabile senza che, ad oggi, nessuno di loro ricorresse alla letteratura per capire quanto sta succedendo. Per quanto mi riguarda, la prima cosa che mi è passata per la testa - appena mi sono reso conto di quanto fosse inevitabile il confronto tra Obama e il suo mentore Wright - è stato il capitolo iniziale di un romanzo, una delle maggiori prove della narrativa nordamericana.
Si tratta di «Invisible Man» (L’uomo Invisibile) di Ralph Ellison e, anche se pubblicato nel 1952, nove anni prima che nascesse lo stesso Barack Obama, credo che contenga una chiave per capire cosa potrà accadere alla sua candidatura così piena di promesse. In questo primo capitolo - apparso in forma preliminare come racconto nella rivista Horizon nel 1947 - un giovane studente nero dell’Alabama, il più dotato della sua classe, si impegna ad ottenere una borsa universitaria, imprescindibile per educarsi e salire la scala sociale e raggiungere il sogno americano, «the American dream». Prima che gli venga consegnata tale posizione di potere, il giovane viene sottoposto a una prova di fuoco che Ellison chiama «Battle Royal». In effetti, a questo giovane viene richiesto che lotti violentemente contro altri neri in una feroce gara di pugilato, colpendosi a sangue per il divertimento di un gruppo di spettatori bianchi.
È il prezzo di un futuro successo e, come suggerisce Ellison, il prezzo che deve pagare un uomo di colore nella società nordamericana: omaggiare ciò che i bianchi vogliono o... diventare invisibili. E proprio questo è il finale che aspetta il protagonista del romanzo: finisce raccontando la sua storia da una cantina segreta a New York, un sotterraneo dostoyevskano illuminato con 1369 piccole ampolle di luce che non smettono di brillare né di notte né di giorno. Nonostante tutto quel fulgore, nessuno vede quell’uomo, nessuno lo riconosce, nessuno accetta il diritto a esistere oltre gli stereotipi.
Questo è il dubbio che mi angustia ora che Barack e Jeremiah, Obama e Wright, il padre adottivo e il figlio diventato distante, lottano davanti a milioni di telespettatori disposti solo a capire se uno di loro, se il giovane aspirante, il giovane brillante, quello che vuol vivere il sogno americano, possa godere della fiducia per consegnargli il potere.
È cambiato qualcosa dal 1947 quando fu pubblicato il racconto? Dal 1952 quando fu pubblicato il romanzo? Dal 1968 quando Martin Luther King, l’ultimo leader nazionale di origini africane degli Stati Uniti, fu espulso dalla storia attiva, passando all'invisibilità della morta e del mito?
Spero di sì. Credo di sì.
Perché adesso la vera prova non la stanno facendo i neri che lottano in una forma così spettacolare e drammatica. Sono i bianchi nordamericani quelli che sono sottoposti a un esperimento, a una tentazione, a una prova di fuoco e sangue. Sono loro devono dire che tipo di Paese desiderano, loro che devono domandarsi qual è il prezzo e lo stereotipo da esigere da Obama perché diventi presidente.
Sono loro che devono iniziare a svuotare le cantine inesauribili di questo paese da tutto ciò che è invisibile, doloroso e pieno di rancore.
E se non lo faranno adesso, se non lo faranno con Obama, chi altri potrebbe portare a termine questa prova ardua e stancante?
Traduzione di Leonardo Sacchetti
Pubblicato il: 06.05.08 Modificato il: 06.05.08 alle ore 11.36 © l'Unità.
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