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« inserito:: Luglio 08, 2007, 05:17:46 pm » |
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Come vincere al qaeda di Paolo Pontoniere
Il terrorismo è tornato a colpire.
Dalla Gran Bretagna allo Yemen.
Sconfiggerlo è possibile. Ma non si può pensare di annientarlo solo con l'opzione militare.
Occorre una nuova politica di dialogo e di integrazione.
Parla uno dei maggiori esperti mondiali colloquio con Brian Jenkins
Gli attacchi di Londra e Glasgow dimostrano che l'isolamento sociale delle minoranze etniche ha prodotto una immagine oppressiva dell'Occidente che rende antagoniste le masse giovanili emarginate delle metropoli occidentali e i discendenti degli immigrati. E mentre c'è ancora la possibilità di sventare gli attacchi, sarebbe velleitario illudersi di poter eliminare del tutto il pericolo di una loro riuscita. Le tecnologie per scoprire coloro che trasportano esplosivi ci sono già e vanno usate a pieno campo. Però il terrorismo islamico non si vince solo adottando l'opzione militare e rafforzando le misure di sicurezza. Non si può fare politica internazionale usando solo la cartina di tornasole della guerra al terrorismo, questo non è un mondo a una sola dimensione. Bisogna rompere il fronte dell'alienazione. È necessario stabilire un dialogo con i rappresentanti eletti delle popolazioni medio-orientali. E sebbene sia impossibile eliminare del tutto il terrorismo di ispirazione religiosa, vincere è possìbile. Occorre solo decidere di giocare a tutto campo e non limitarsi esclusivamente a demonizzarli. Così parla Brian Michael Jenkins, padre dell'antiterrorismo moderno, all'indomani dei fatti inglesi e della strage nello Yemen.
Impegnato da oltre 40 anni nel campo della sicurezza, Jenkins è la massima autorità mondiale in fatto di lotta al terrorismo e all'eversione armata. Comandante dei berretti verdi in Vietnam, ex direttore della Kroll Associates, consigliere speciale per la sicurezza del Vaticano e della chiesa inglese, Jenkins è assistente speciale del presidente della Rand Corporation. Membro della commissione presidenziale statunitense sulla Sicurezza aerea e consulente della commissione nazionale Usa sul Terrorismo, Jenkins è anche autore di vari libri. L'ultimo, 'Unconquerable Nation', in cui esplora tutti i temi salienti della lotta al terrorismo, è stato pubblicato lo scorso settembre per i tipi della Rand.
Che conclusioni si possono trarre dall'analisi dei recenti attacchi inglesi?
"Due conclusioni, una positiva e l'altra negativa".
Cominciamo con la negativa,
"Al Qaeda ormai non è più nemmeno una ideologia, è diventata una narrativa epica nella quale si riconoscono le masse giovanili diseredate, da Karachi alla Scozia. Una narrativa nella quale i giovani prendono le armi contro l'Occidente oppressivo nel nome di Allah, ma anche per riaffermare la loro dignità di esseri umani e per il diritto di esprimersi pienamente per quello che sono, senza temere d'essere criminalizzati o emarginati".
E la positiva?
"Siamo riusciti a compromettere seriamente la loro capacità di preparare attacchi mortali. Questa era gente che voleva uccidere, ma non aveva le capacità tecniche e l'intelligenza necessarie a preparare un attentato fatale. Questo avviene per due ragioni. La prima è che le reclute non stanno ricevendo più il training necessario e l'altra è che probabilmente abbiamo distrutto molti dei loro campi e prosciugato i loro finanziamenti. Inoltre ci troviamo di fronte a elementi marcatamente meno estremisti, per esempio non si sono immolati con le loro bombe come fanno in Iraq, in Afghanistan e adesso anche nello Yemen".
Ci saranno altri attentati?
"Non ne dubito. E purtroppo non si può escludere che qualche volta andranno anche a segno. In fondo i terroristi devono riuscire a colpire una sola volta per fare danni irreparabili e purtroppo le forze di polizia non possono prevenire tutti gli attacchi al 100 per cento. È una situazione simile a quella degli anni di piombo europei, quelli delle Brigate rosse e della Baader Meinhoff. Al contrario dei terroristi rossi, il cui discorso era ideologico, questi fanno appello al senso eroico dei giovani, prospettano una battaglia di carattere planetario. C'è del romanticismo nel loro messaggio e questo è un elemento estremamente pericoloso".
Come lo si neutralizza?
"Inserendo maggiormente le minoranze etniche, non trattando i figli degli emigrati come se fossero degli stranieri in casa propria. Gli europei hanno una minoranza islamica che è significativamente più numerosa di quella americana e non si può negare il fatto che gli europei, e soprattutto gli inglesi, stiano facendo un lavoro miserabile sul versante dell'integrazione. I cittadini di colore e quelli che hanno un accento in Europa diventano ombre che scivolano lungo i muri. Un po' perché temono di essere criminalizzati, cosa che accade molto spesso, e poi anche perché i bianchi non li vedono affatto fino a quando non ne hanno bisogno per far svolgere i lavori più umili".
Esistono delle specificità inglesi?
"Sì, a parte il trattamento ingiusto degli immigrati di seconda, terza e quarta generazione, c'è il fatto che la Gran Bretagna paga lo scotto del suo passato imperialistico. Non è un fatto che ha a che fare solo con la sua politica in Iraq o in Afghanistan. Ma fa rivivere le ingiustizie commesse in Medio Oriente, in Asia centrale, nella Penisola indiana, in Africa. Inoltre gli inglesi sono stati molto disattenti e come risultato della loro superficialità hanno formulato la lotta al terrorismo, volontariamente o involontariamente che sia non fa differenza, in una cornice fortemente anti-islamica. Non si può leggere infatti in nessun altra maniera la loro decisione di nominare Salman Rushdie cavaliere dell'impero. Come si fa a insignire con l'onoreficenza di Stato più alta una persona che ha ancora una fatwa nei suoi confronti? Non che voglia contestare il diritto alla libertà di parola di Salman Rushdie, ma la sua nomina appare purtroppo come uno schiaffo in faccia ai musulmani".
Lei pensa quindi che ci sia un collegamento tra atti per così dire anti-islamici e gli attacchi?
"Certo diventa difficile escluderlo, anche alla luce della posizione europea e statunitense nei confronti di Hamas nella striscia di Gaza".
Si spieghi, per favore.
"La decisione dei governi occidentali si qualifica solo in termini anti-islamici. Hamas non è certamente il male peggiore e poi sono stati eletti, sono una realtà, bisogna cercare il dialogo. Teniamo rapporti con tantissimi governi dalla reputazione dubbia e apertamente ostili nei confronti dell'Occidente, perché non Hamas? Che cosa ne guadagniamo se non di spingere molti giovani nelle braccia dell'estremismo armato?".
Gli attentati in Gran Bretagna sono falliti. Ma il loro effetto sull'opinione pubblica è stato comunque agghiacciante e le libertà individuali vengono ristrette ulteriormente. Cosa ci si deve aspettare su questo fronte?
"Siamo tutti spettatori impotenti sul treno della lotta al terrorismo. La lotta al terrorismo non sta solo limitando le nostre libertà personali, ma sta appiattendo anche la nostra politica estera. Tutto viene visto attraverso la lente della lotta al terrorismo. I problemi diventano bidimensionali, se non sei con noi sei contro di noi. La politica estera è fatta di decisioni sul piano dell'economia, degli scambi culturali, degli accordi commerciali, dei programmi di aiuto internazionale, delle inziative ambientali. Non si può giudicare la loro efficacia solo se funzionano dal punto di vista della lotta al terrorismo. Dobbiamo capire se affrontano i problemi reali con i quali ci dobbiamo confrontare e che sono quelli del lavoro, della difesa dei diritti umani e di quelli sindacali, della distribuzione equanime delle risorse naturali, della difesa dell'ambiente, della giustizia sociale e dell'abbattimento delle barriere commerciali e delle tariffe".
Si può vincere contro il terrorismo?
"Ma certo. Si vince da posizioni di forza e non intendo di forza militare. La risposta militare conta probabilmente solo per il 5 per cento di quello che dobbiamo fare. La forza ci viene dal radicarci nelle nostre tradizioni di libertà e democrazia, dal rispetto delle convenzioni internazionali, dal coinvolgimento dei cittadini e dal rispettare i diritti dei dissenzienti. Alla fine vinceremo, come già nel passato, ma lo faremo solo se sapremo camminare a testa alta. Non sono sicuro che questo possa accadere con i governi attuali".
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Da Londra alla regina di Saba Dietro la nuova stagione del terrorismo islamico di Gigi Riva
La Gran Bretagna e il turismo nei Paesi arabi. Come nel luglio di due anni fa. Allora Londra e Sharm el Sheikh (Egitto). Oggi Londra, Glasgow e il tempio della regina di Saba, Marib (Yemen). L'uomo della nostra intelligence mette in ordine i fatti, ma si guarda dal tirare frettolose conclusioni. Tende a escludere, ad esempio, che ci possano essere una correlazione logica e un ordine partito dall'alto: "Gli attacchi li fanno quando possono, quando le circostanze lo permettono". Attenti allora a non evocare una geometrica potenza, tanto più se, nel caso inglese, il sostanziale fallimento è la spia di una difficoltà operativa e segnala una qualche efficacia nell'opera di prevenzione. Concorda un suo collega israeliano, in contatto con gli inglesi: "Gli islamisti non riescono a infiltrare, ormai da due anni, un artificiere in grado di far esplodere le autobombe. Era così anche in Medio Oriente, sino a qualche anno fa, quando diverse stragi furono evitate grazie all'imperizia nell'uso dei telefoni cellulari come innesco dell'ordigno. Naturalmente questo non significa che nel futuro non ci saranno altri attentati. Perché comunque abbonda il materiale umano disposto al sacrificio e anzi le file degli aspiranti martiri si ingrossano. Quanto ai bersagli, lì sì, la continuità col passato è evidente: l'Occidente e gli occidentali che col turismo alimentano in modo significativo il prodotto interno lordo di Stati i cui regimi vengono considerati vassalli degli interessi americani. È il caso dell'Egitto e dello Yemen. Ma anche della Tunisia e del Marocco. Racconta un diplomatico che alcuni mesi fa c'è stato un summit tra rappresentanti di Paesi del Magreb. Si sono scambiati informazioni utili e sono arrivati alla conclusione che esiste un pendolarismo di capi che valicano facilmente le frontiere per coordinare un'attività comune nel nome del Jihad globale. Loro tracce si trovano a Tunisi come ad Algeri o a Marrakesh. Non guidano un 'esercito' tale da impensierire i governanti, non sono in grado cioè di rovesciare in modo cruento l'apparato. L'algerino contava, da lui, 1.500 soggetti pericolosi.
Cifra che da noi darebbe apprensione, ma che lui considerava fisiologica e non preoccupante. Che ci sia un'interconnessione, grazie a Internet, di diverse formazioni terroristiche è assoldato. Che queste prendano ispirazioni da un'unica centrale, magari annidata nelle zone tribali del Pakistan, invece non è per nulla dimostrato. L'attribuzione troppo frettolosa di qualunque nefandezza ad Al Qaeda rischia da una parte di alimentarne il mito, dall'altra di impedire la reale comprensione di un universo variegato, frammentato, e ormai declinato in mille specificità locali. Troppo facile, per chiunque, appropriarsi del marchio e agire senza temere smentite, in nome del comune interesse contro 'l'aggressore' occidentale. In questo è emblematico l'ultimo attentato yemenita. L'area di Marib è da tempo turbolenta. Si sono contati, negli ultimi dieci anni, almeno 200 sequestri di turisti, quasi tutti felicemente conclusi con la liberazione degli ostaggi e qualche concessione del governo di Sana'a alle tribù locali ribelli. Nonostante gli appelli dei vari ministeri degli Esteri a non recarsi nell'area, il fascino deve essere irresistibile se il turismo non cessa e anche lunedì 2 luglio nell'area già della regina di Saba, c'erano, ad esempio, 14 italiani. Caso ha voluto che fossero colpiti gli spagnoli. Ma solo il caso. Sarebbe potuta essere diversa la nazionalità delle vittime, perché non si è mai fatta distinzione di passaporto. Ed è praticamente impossibile che degli elementi estranei a quel tessuto sociale abbiano potuto agire senza il beneplacito dei capi clan locali che controllano minuziosamente il territorio. Ragiona ancora lo 007 israeliano: "È assai probabile che si siano saldati gli interessi convergenti di un gruppo terroristico strutturato e delle tribù. E che, colpendo gli occidentali, si sia voluto mandare un messaggio forte e chiaro al presidente Ali Abdullah Saleh, al potere dal 1978 e ritenuto troppo amico di Washington". Saleh i nemici li ha anche dentro il suo palazzo. È opinione diffusa che i suoi servizi segreti siano infiltrati dagli islamisti. Altrimenti non si spiegherebbe quanto successo il 3 febbraio dell'anno scorso. Ventotto pericolosi terroristi, associati alla galassia di Al Qaeda, riuscirono a evadere dalla prigione di massima sicurezza, che si trova all'interno del quartier generale dell'intelligence, dopo aver scavato un tunnel di 44 metri per 80 centimetri di diametro che sfociava nella confinante moschea. Un lavoro lungo e paziente che non sarebbe stato possibile senza connivenze. Diversi di quei terroristi sono già stati ricatturati o si sono consegnati. Uno, il più importante, è riuscito a far perdere le sue tracce. Si chiama Abu Basir Nasir al-Wahishi, nome di battaglia Abu Hureira al Sana'ani, e il 22 giugno scorso ha tenuto a far sapere al mondo di essere stato nominato "capo di Al Qaeda del Jihad in Yemen" con un audiomessaggio di 20 minuti e di qualità scadente col quale teneva soprattutto a respingere le offerte di resa e di accordo da parte delle autorità. Secondo informazioni riservate sarebbe stato anche la mente di due attentati, falliti, nel settembre scorso, contro impianti petroliferi nel Paese. Gli oleodotti sono un altro bersaglio considerato fondamentale. Non a caso l'Fbi proprio l'anno scorso avviò perquisizioni a tappeto di uffici commerciali dello Yemen negli Stati Uniti alla ricerca di materiale compromettente. Altrettanto successe in Arabia Saudita. Fu trovato un documento di 140 pagine dal titolo: 'Manuale per colpire le installazioni petrolifere'. In calce porta la firma di Abdulaziz bin Rashid al Anaiza, figura di spicco di Al Qaeda che da tempo si trova in prigione in Arabia Saudita. La famiglia Bin Laden è originaria dell'Hadramaut, una delle regioni più povere dello Yemen. In una locanda sulla strada per Mukalla era già visibile, prima dell'11 settembre, un disegno a colori con la faccia di un uomo col turbante che sovrasta le torri Gemelle di New York. Che lo sceicco del terrore abbia proseliti nelle sue terre è scontato. Quanto a dirigerli in prima persona è assai dubbio. Ognuno agisce secondo le necessità del momento. La strategia è chiara: colpire interessi economici e turisti occidentali se si avventurano nelle terre dell'Islam. DA espressonline
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