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Autore Discussione: MAURIZIO RICCI. Dagli anni Ottanta ad oggi salari schiacciati  (Letto 2651 volte)
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« inserito:: Maggio 03, 2008, 11:11:26 am »

ECONOMIA

Secondo uno studio della Bri è sempre più alta la quota di Pil che va ai profitti.

Dagli anni Ottanta ad oggi salari schiacciati

Il declino globale degli stipendi in busta 5mila euro in meno l'anno

di MAURIZIO RICCI
 

ROMA - La lotta di classe? C'è stata e l'hanno stravinta i capitalisti. In Italia e negli altri Paesi industrializzati, gli ultimi 25 anni hanno visto la quota dei profitti sulla ricchezza nazionale salire a razzo, amputando quella dei salari, e arrivare a livelli impensabili ("insoliti", preferiscono dire gli economisti). Secondo un recente studio pubblicato dalla Bri, la Banca dei regolamenti internazionali, nel 1983, all'apogeo della Prima Repubblica, la quota del prodotto interno lordo italiano, intascata alla voce profitti, era pari al 23,12 per cento.

Di converso, quella destinata ai lavoratori superava i tre quarti. Più o meno, la stessa situazione del 1960, prima del "miracolo economico". L'allargamento della fetta del capitale comincia subito dopo, nel 1985. Ma per il vero salto bisogna aspettare la metà degli anni '90: i profitti mangiano il 29 per cento della torta nel 1994, oltre il 31 per cento nel 1995. E la fetta dei padroni, grandi e piccoli, non si restringe più: raggiunge un massimo del 32,7 per cento nel 2001 e, nel 2005 era al 31,34 per cento del Pil, quasi un terzo. Ai lavoratori, quell'anno, è rimasto in tasca poco più del 68 per cento della ricchezza nazionale.
Otto punti in meno, rispetto al 76 per cento di vent'anni prima.

Una cifra enorme, uno scivolamento tettonico. Per capirci, l'8 per cento del Pil di oggi è uguale a 120 miliardi di euro. Se i rapporti di forza fra capitale e lavoro fossero ancora quelli di vent'anni fa, quei soldi sarebbero nelle tasche dei lavoratori, invece che dei capitalisti. Per i 23 milioni di lavoratori italiani, vorrebbero dire 5 mila 200 euro, in più, in media, all'anno, se consideriamo anche gli autonomi (professionisti, commercianti, artigiani) che, in realtà, stanno un po' di qui, un po' di là. Se consideriamo solo i 17 milioni di dipendenti, vuol dire 7 mila euro tonde in più, in busta paga. Altro che il taglio delle aliquote Irpef.

Non è, però, un caso Italia. Il fenomeno investe l'intero mondo sviluppato. In Francia, rileva sempre lo studio della Bri, la fetta dei profitti sulla ricchezza nazionale è passata dal 24 per cento del 1983 al 33 per cento del 2005. Quote identiche per il Giappone. In Spagna dal 27 al 38 per cento. Anche nei paesi anglosassoni, dove il capitale è sempre stato ben remunerato, la quota dei profitti è a record storici. Dice Olivier Blanchard, economista al Mit, che i lavoratori hanno, di fatto, perduto quanto avevano guadagnato nel dopoguerra.

Forse, bisogna andare anche più indietro, al capitalismo selvaggio del primo '900: come allora, in fondo, succede poi che il capitalismo troppo grasso di un secolo dopo arriva agli eccessi esplosi con la crisi finanziaria di questi mesi. Ma gli effetti sono, forse, destinati ad essere più profondi. C'è infatti questo smottamento nella redistribuzione delle risorse in Occidente dietro i colpi che sta perdendo la globalizzazione e il risorgere di tendenze protezionistiche: da Barack Obama e Hillary Clinton, fino a Nicolas Sarkozy e Giulio Tremonti.

Sostiene, infatti, Stephen Roach, ex capo economista di una grande banca d'investimenti come Morgan Stanley, che la globalizzazione si sta rivelando come un gioco in cui non è vero che vincono tutti. Secondo la teoria dei vantaggi comparati di Ricardo, la globalizzazione doveva avvantaggiare i paesi emergenti e i loro lavoratori, grazie al boom delle loro esportazioni.

E quelli dei paesi industrializzati, grazie all'importazione di prodotti a basso costo e alla produzione di prodotti più sofisticati. "E' una grande teoria - dice Roach - ma non funziona come previsto".
Ai lavoratori cinesi è andata bene, ma quelli americani ed europei non hanno mai guadagnato così poco, rispetto alla ricchezza nazionale. Sono i capitalisti dei paesi sviluppati che fanno profitti record: pesa l'ingresso nell'economia mondiale di un miliardo e mezzo di lavoratori dei paesi emergenti, che ha quadruplicato la forza lavoro a disposizione del capitalismo globale, multinazionali in testa, riducendo il potere contrattuale dei lavoratori dei paesi sviluppati.

Quanto basta per dirottare verso le casse delle aziende i benefici dei cospicui aumenti di produttività, realizzati in questi anni, lasciandone ai lavoratori le briciole. Inevitabile, secondo Roach, che tutto questo comporti una spinta protezionistica nell'opinione pubblica, a cui i politici si mostrano sempre più sensibili.

Ma il ribaltone nella distribuzione della ricchezza in Occidente è, allora, un effetto della globalizzazione? Non proprio, e non del tutto. Secondo gli economisti del Fmi, nonostante che il boom del commercio mondiale eserciti una influenza sulla nuova ripartizione del Pil, l'elemento motore è, piuttosto, il progresso tecnologico. Su questa scia, Luci Ellis e Kathryn Smith, le autrici dello studio della Bri, osservano che il balzo verso l'alto dei profitti inizia a metà degli anni '80, prima che le correnti della globalizzazione acquistino forza. Inoltre, l'aumento della forza lavoro disponibile a livello mondiale interessa anzitutto l'industria manifatturiera, ma, osservano, non è qui - e neanche nei servizi alle imprese, l'altro terreno privilegiato dell'offshoring - che si è verificato il maggior scarto dei profitti.

Il meccanismo in funzione, secondo lo studio, è un altro: il progresso tecnologico accelera il ricambio di macchinari, tecniche, organizzazioni, che scavalca sempre più facilmente i lavoratori e le loro competenze, riducendone la forza contrattuale. E' qui, probabilmente, che la legge di Ricardo, a cui faceva riferimento Roach, si è inceppata. Il meccanismo, avvertono Ellis e Smith, è tutt'altro che esaurito e, probabilmente, continuerà ad allargare il divario fra profitti e salari in Occidente.

Dunque, è la dura legge dell'economia a giustificare il sacrificio dei lavoratori, davanti alla necessità di consentire al capitale di inseguire un progresso tecnologico mozzafiato? Neanche per idea. La crescita dei profitti, sottolinea lo studio della Bri, "non è stato un passaggio necessario per finanziare investimenti extra". Anzi "gli investimenti sono stati, negli ultimi anni, relativamente scarsi, rispetto ai profitti, in parecchi paesi". In altre parole "l'aumento della quota dei profitti non è stata la ricompensa per un deprezzamento accelerato del capitale, ma una pura redistribuzione di rendite economiche". La lotta di classe, appunto.

(3 maggio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 04, 2008, 09:54:59 pm »

4/5/2008
 
Vite diverse, contratti diversi

 
Fare la spesa costa di più nel Nord Italia. Ciò che da molto tempo quasi tutti sospettavano, è diventato un dato ufficiale. L’Istat ha pubblicato in questi giorni gli indici dei prezzi per diversi categorie di beni riferiti a diversi capoluoghi di regione. Per uno stesso paniere di beni alimentari, a Torino si spende il 15 per cento più che a Napoli e a Milano addirittura il 25. La città più cara d’Italia per generi alimentari appare però Bolzano, mentre in molte altre città del meridione, quali Bari, Cagliari e Palermo, il costo degli alimentari è di poco superiore a quello di Napoli. Le differenze regionali sono molto simili quando si guarda al costo dei prodotti dell'arredamento, mentre meno nette paiono le differenze nei prezzi dei beni d’abbigliamento.

Questi numeri hanno delle implicazioni molto importanti e quasi paradossali. Per rendersene conto occorre pensare al potere d’acquisto di un dato livello di retribuzione in diverse regioni. Immaginiamo un stipendio mensile netto pari a 1500 euro pagato in tutto il territorio nazionale. Dal momento che la spesa nel mezzogiorno è più a buon mercato, gli stessi 1500 euro garantiscono un potere di acquisto superiore nel Sud Italia. È davvero un risultato paradossale, poiché suggerisce che i salari reali sono più elevati nelle regioni più depresse e a più bassa produttività.

Per correggere questo paradosso, occorre ripensare all’intero sistema di relazioni industriali e contrattuali. Sia chiaro, obiettivo della riforma non deve essere quello di reintrodurre le gabbie salariali, il meccanismo di differenziazione retributiva tra regioni gestito centralmente e in vigore fino alla fine degli Anni Sessanta. Il nuovo sistema contrattuale dovrebbe innanzitutto contemplare un salario minimo orario nazionale, stabilito per legge e applicabile a tutte le prestazioni di lavoro. Esiste in quasi tutti i paesi avanzati, Inghilterra e Francia inclusi. Questo salario minimo nazionale non dovrebbe essere necessariamente diverso tra regioni. Le differenziazioni territoriali si dovrebbero infatti ottenere attraverso la contrattazione aziendale, in modo da far sì che in ciascuna azienda il salario pagato sia legato alla produttività dell’impresa e al costo della vita locale.

Le parti sociali, a parole, paiono concordare con l’idea di spostare la determinazione del salario in azienda. Tuttavia, i progressi fatti sono stati fino ad ora modesti. Un’oggettiva difficoltà è legata al fatto che in Italia in moltissime piccole aziende non esistono rappresentanze sindacali ed è quindi necessario stabilire un metodo per garantire una retribuzione adeguata anche a questi lavoratori. Come proposto con Tito Boeri su queste colonne, un modo per superare la difficoltà esiste. Sarebbe sufficiente stabilire a livello centrale una regola che permetta di incrementare il salario all’andamento della produttività.

Ciò che sembra mancare non sono le soluzioni, ma una vera volontà riformatrice. Nei prossimi mesi si potrebbe finalmente aprire una fase nuova. Al nuovo Governo, attraverso una vera e propria iniziativa bipartisan, dovrebbe spettare il compito di introdurre un salario minimo nazionale. Il resto della riforma sarebbe compito delle parti sociali. Emma Marcegaglia, il nuovo presidente di Confindustria, pare decisa a dare una svolta. Il sindacato potrebbe avere l’occasione per dimostrare di essere ancora una forza indispensabile e riformista. Speriamo davvero di assistere non solo a nuova fase, ma a una fase virtuosa.

pietro.garibaldi@carloalberto.org

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