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Autore Discussione: A che cosa servono le feste  (Letto 2304 volte)
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« inserito:: Maggio 02, 2008, 10:52:53 am »

1/5/2008
 
A che cosa servono le feste
 
LUIGI LA SPINA

 
Applausi di tutti, o quasi. Il richiamo alle due feste del 25 Aprile e del 1° Maggio compiuto da Gianfranco Fini nel suo discorso d’investitura alla presidenza della Camera è stato accolto da un generale compiacimento.

Le ragioni sono evidenti. Non era scontato da «un uomo di parte», come si è autodefinito il neoeletto alla terza carica dello Stato, l’omaggio alle due ricorrenze più care alla sinistra.

Nel momento in cui veniva chiamato a ricoprire uno dei più importanti ruoli istituzionali, il leader della destra italiana postfascista, infatti, è sembrato voler completare il faticoso approdo di «quella parte» alla piena accettazione dei valori su cui si fonda la nostra democrazia repubblicana.

Il sincero apprezzamento si è subito unito al ricordo di quando un altro «uomo di parte», il postcomunista Luciano Violante, dodici anni fa, nella stessa solenne occasione, si rivolse con rispetto alla memoria dei «ragazzi di Salò», sollecitando la comprensione per le ragioni, sia pure sbagliate, di quella scelta. Segnali contrapposti, ma convergenti, della volontà di chiudere, come ha detto Fini, «gli steccati d’odio» nella coscienza civile degli italiani, attraverso la ricostruzione di una «memoria condivisa» che sancisca «la pacificazione nazionale». Un’opera che ha avuto un impulso notevole e altamente meritorio, è giusto darne atto, da parte di Carlo Azeglio Ciampi, durante il suo settennato al Quirinale.

L’occasione fornita dal discorso del nuovo presidente della Camera, proprio nel riferimento alle due ricorrenze del 25 Aprile e del 1° Maggio, è utile anche per una riflessione che unisce all’elogio per il desiderio di chiudere la «guerra fredda» che ha diviso la memoria della comunità nazionale, nella seconda metà del secolo scorso, il timore di una possibile rimozione di quella memoria. Come se a una specie di dichiarazione di pace tra vecchi e stanchi combattenti fosse corollario, obbligato o naturale, considerare obsoleti appuntamenti rituali e persino pericolosi perché riaprirebbero vecchie ferite, celebrazioni come quelle ricordate da Fini.

La tentazione di consegnare le due feste all’archivio è comprensibile, poiché la sinistra ha cercato per molti anni di appropriarsene, di farne bandiere di parte, in alcuni casi, di trasformarle in strumenti di rivincita sulle piazze per le sconfitte nelle urne. Ma proprio nel momento in cui il leader della destra italiana rivolge un solenne ed esplicito omaggio alla libertà, riconquistata il 25 aprile del 1945 dopo il ventennio fascista, e al lavoro, come principio sul quale si fonda la nostra Costituzione, il significato delle due ricorrenze non solo non si estingue, ma deve acquistare un senso e una attualità nuova e importante. Ecco perché, da una parte è sembrata stonata e sbagliata la dichiarazione di Berlusconi che esprimeva la volontà di non festeggiare il 25 Aprile, dall’altra sia incomprensibile come alcuni centri commerciali delle cooperative abbiano deciso di tenere aperti i battenti proprio il 1° Maggio.

Non è chiara, forse, l’importante distinzione tra adesione ai valori nei quali una comunità nazionale deve riconoscersi e imposizione di valori a tutti i cittadini. È questo il crinale scivoloso sul quale, negli ultimi tempi, la confusione è notevole. È legittimo che i politici esprimano le scelte a cui si ispirano le loro idee e i loro comportamenti. Come ha fatto ieri Fini, ad esempio, quando ha denunciato il pericolo del «relativismo culturale e morale» che insidierebbe la libertà, anche del nostro Paese. Una preoccupazione, nella richiamata scia dei timori espressi dal Papa, che certamente condivide una larga parte della società italiana. Ma è altrettanto legittimo sostenere, invece, che i rischi per la nostra democrazia, oggi, siano maggiormente di altra natura, come il distacco tra eletti ed elettori o come lo svuotamento del «potere del popolo» da parte di gruppi ristretti di interesse.

Altra cosa è riconoscere l’unità e l’identità della nazione nelle norme costituzionali che prescrivono il rifiuto di ogni dittatura e fondano la Repubblica sul diritto al lavoro. Il rispetto di questi principi, nel momento in cui vengono riconosciuti da tutte le parti politiche, non mette in soffitta le celebrazioni che li festeggiano, ma potrebbe trasformare rituali che rischiavano di scolorirsi nell’indifferenza in cerimonie in cui persino i più giovani riescano a capirne e apprezzarne il significato.
 
da lastampa.it
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