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Autore Discussione: Bossi: tricolore? Padania ha propria bandiera  (Letto 4298 volte)
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« inserito:: Aprile 30, 2008, 07:19:08 pm »

2008-04-30 12:26


Bossi: tricolore? Padania ha propria bandiera


ROMA -  "L'Italia ha il tricolore, la Padania ha la sua bandiera, verde e bianca". Così Umberto Bossi ha risposto ai cronisti a Montecitorio che gli hanno chiesto un commento sull'affermazione del presidente della Camera Gianfranco Fini sul valore del tricolore.


BIPARTISAN? SPERIAMO NON SIA ILLUSIONE
"Speriamo che non sia un'illusione". Così Umberto Bossi ha risposto ai cronisti che gli domandavano un commento sull'auspicio fatto da Gianfranco fini che le riforme possano essere affrontate con spirito bipartisan. I cronisti hanno anche fatto osservare che Fini ha rilanciato, come testo di partenza, quello approvato nella scorsa legislatura in commissione Affari costituzionale: "Il testo di partenza - ha replicato Bossi - è quello approvato dal Consiglio regionale lombardo, che prevede l'80% dell'Iva resti alle Regioni". 

da ansa.it
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 21, 2008, 07:23:38 pm »

Bossi, populista e servilista

Oreste Pivetta


Si può anche capire, musicalmente, che Umberto Bossi preferisca il Va pensiero verdiano, che sono poi gli ebrei a cantarlo in esilio a Babilonia e che in bocca ai padani indigeni fa un po’ ridere. Che poi il Gran Lombardo (in tempi migliori si sarebbe subito pensato a Carlo Emilio Gadda, il degrado oggi ci trascina dalle parti del Carroccio) continui a maramaldeggiare contro l’Inno di Mameli fa pena. Dell’allegra marcetta in passato si sono serviti in tanti. Si potrebbe ricordare, che, ad esempio, a sinistra un secolo fa lo cantavano così, nobilmente: «Vogliamo la terra/ sia patria di tutti,/ che chi la lavora / raccolga i suoi frutti/. Non più dei signori:/ ci han sempre sfruttati,/ ci han sempre rubati/ i nostri sudor».

Per compiacere i suoi sodali Berlusconi e Tremonti e per farsi riconoscere, Bossi potrebbe cantarcelo così: "Fratelli d’Italia/ l’Italia s’è desta/ ai morti di fame/ tagliamo la testa./ I nostri fratelli/ domandan mercè/ scanniamoli tutti/ nel nome del Re". Vai a capire chi sia il re. Più banalmente da tempo i patrioti del Nord ci avevano allietato, sulle note di Tutti mi chiamano bionda, con il seguente ritornello: "E noi che siamo padani/ abbiamo un sogno nel cuore/ bruciare il tricolore/ bruciare il tricolore...". E via. Tanto perché fosse chiaro come la intendessero.

Si sa che Bossi con la bandiera ci si pulisce da quelle parti. Non è una novità e il cinema leghista è ormai solo un film già visto, tra tattiche, tattichette (che comprendono anche gli omaggi al centrosinistra), minacce e insulti, tricolori da bruciare, inni di Mameli da spernacchiare...

Ieri, appena lo si è visto a fianco del Gobbo, sindaco di Treviso, s’è capito che il Bossi ingrassava nel suo brodo e poteva spararle di ogni genere. L’assalto con il dito indice teso (manifestazione non proprio della tradizione padana, direi gestualità più terrona o romanesca) all’Inno di Mameli, peraltro con una lettura assai singolare del testo, dopo tanti sforzi del presidente Ciampi perché tutti lo imparassero a memoria come si deve, lo si può attribuire alla cialtronesca accondiscendenza del leader nei confronti del suo popolo, che apprezza immagini forti. Si divertono così. Goffredo Mameli, fervente mazziniano repubblicano e paroliere, non si sarebbe mai azzardato a scrivere che siamo schiavi di Roma. Se mai pretendeva trionfalmente che la vittoria fosse schiava di Roma: un’altra cosa (anche se dobbiamo riconoscere col senno d’oggi che si trattava di una retorica stupidata). La notizia politica del giorno sarebbe invece l’apertura al partito democratico sul federalismo, contro la stato "fascista", cui peraltro si potrebbe pensare che lo stesso Bossi appartenga, circondato come si ritrova dai vari Gasparri, Fini, Alemanno, più altre controfigure. Se poi Bossi ci comunica che "è arrivato il momento, fratelli, di farla finita", non resta che attendere una mossa in coerenza: mandi al diavolo statalisti, opportunisti, berlusconisti (che hanno da pensare alla giustizia) e prenda la sua strada, che dovrebbe conoscere perché il federalismo si potrà impiantare traendo giovamento dalla lettura della tesina che il buon figliolo riccioluto Renzo ha dedicato a Carlo Cattaneo, un altro Gran Lombardo (questo autentico): la si dia alle stampe, per giudicare. Anche perché gli esaminatori della scuola privata alla quale il nostro Renzo s’era presentato per gli esami l’hanno giudicata male, bocciando il ragazzo (impreparato, han spiegato gli insegnanti, soprattutto sul resto del fronte didattico, distratto com’era dai mondiali calcistici etnici in Lapponia). Siccome cuor di padre non mente, il Bossi ha attribuito la bocciatura dell’erede ("bastonato") a uno sgarbo di esaminatori terroni, ostili al federalista Cattaneo.

Tirando le conclusioni, il Bossi ha quindi spiegato che i figli dei lombardi non si faranno più martoriare da gente che non viene dal Nord, non studieranno più i nomi dei sette re di Roma, ma quelli dei dogi di Venezia (e a Genova o a Milano o a Brescia che nomi dovranno mandare a mente?). Siamo già a una impronta chiara del futuro stato padano: tutti a casa loro.

Non piacerà, ma si sappia che ci sono quindici milioni di uomini disposti a battersi per la loro libertà: i fucilieri bergamaschi, i carristi veneziani (quelli del tank sotto il campanile), i bravi montanari carichi di schioppi e pallottole, quelli delle quote latte, il Calderoli, il Cota e gli altri poltronisti pronti a mettere da parte le loro poltrone.

Naturalmente gli analisti e Berlusconi attribuiranno le avventure tra i tricolori in fiamme e le barricate scoppiettanti di Umberto Bossi alla sua verve cabarettistica oppure agli estri del condottiero che incanta le sue camicie verdi. Nessuno discute che Bossi sia un astuto politicante: con il suo carroccio ha dato da mangiare a una infinità di gente, persino a dei ministri, è pure riuscito a far salire alla terza carica dello Stato la signorina Pivetti, roba da catalogo dell’horror. È stato capace di indicare qualche sintomo del mal di pancia del Nord. È pure riuscito a imporre il tema del federalismo, di cui nessuno sentiva il bisogno, carichi come siamo di regioni e di regionalismo. Ma un uomo così, a parte le astuzie e un bilancio politico (di riforme, cioè) uguale a zero, quanto vale?

Potessimo rispondere con il linguaggio schietto di cui è maestro diremmo a Bossi che ci ha rotto le scatole con il suo populismo, con il suo servilismo (a Berlusconi), con le sue baggianate contro il tricolore e contro l’Inno di Mameli (che non sono al primo posto nei nostri pensieri, distratti dalle necessità del vivere quotidiano), con i suoi lunedì di Arcore, con i suoi ministri che sono peggio della Confindustria o di un commissario di pubblica sicurezza dello Zimbawe, con i suoi avanti e indietro. Anche lui, dopo tanto movimento, s’è ridotto a recitare per il potere e per Berlusconi da modesto e inattendibile e impresentabile uomo di potere in virtù di quattro idee sbilenche sul federalismo (dimenticando Cattaneo).

Pubblicato il: 21.07.08
Modificato il: 21.07.08 alle ore 8.11   
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 21, 2008, 07:24:32 pm »

Bossi, il caso del figlio bocciato

Marcella Ciarnelli


Dimostrare l’inadeguatezza dei professori meridionali che «vengono qui da noi e tolgono lavoro agli insegnanti del nord» senza avere alcuna consapevolezza di fatti, luoghi e storia della Padania. Per farlo il ministro Umberto Bossi ha portato ad esempio la disfatta scolastica ai recenti esami di maturità di un «ragazzo stangato solo perché ha portato una tesina su Carlo Cattaneo», uno dei teorici del federalismo. Inaudito. Inaccettabile. Una forma di razzismo intellettuale in senso contrario, che il padre della Lega non ha potuto far passare sotto silenzio. «Questi sono crimini contro il nostro popolo che devono finire».

Si dà il caso che il leader leghista non abbia fornito alcun particolare sull’esaminando «bastonato» e giudicato non maturo dalla commissione ma difeso con una foga tale da insinuare il sospetto, più di un sospetto, che a ispirare l’arringa difensiva del Senatur ci fosse un interesse personale. Meglio, di famiglia anche perchè si dà il caso che proprio al giovane Renzo Bossi, suo figlio, sia capitato nei giorni scorsi di essere bocciato, e per la seconda volta dopo un inglorioso tentativo l’altro anno in un liceo di Varese, all’esame di maturità scientifica a cui si era presentato, guarda un po’, con una tesina su Cattaneo dal titolo «La valorizzazione romantica dell’appartenenza e dell’identità».

Cuore di leghista. Cuore di padre, ancorchè deluso. E allora la si butta in politica con l’attacco ai terroni che pretendono di giudicare senza sapere ed avere conoscenza del padano istinto alla difesa della propria terra e dei propri interessi. Pur di difendere l’erede che non ce l’ha fatta a raggiungere, sommando i voti di tutte le prove sostenute, nemmeno quel 60 che è l’obbiettivo minimo per ottenere la promozione, Umberto Bossi ha provveduto ad indicare un’altra barriera che va eretta tra sud e nord. Via dalle scuole del settentrione chiunque non abbia sciacquato i panni nel Po e non abbia almeno una lontana consuetudine con Alberto da Giussano. Per non parlare della partecipazione ai raduni con adeguati copricapo con le corna e annessi spadoni.

Il giovane Bossi, il perseguitato da professori sudisti, è un giovanotto noto alle masse poichè molto spesso accompagna suo padre alle kermesse leghiste con l’evidente intento di seguirne le orme in politica. Sempre che la scuola non continui a non riconoscerne le capacità. Il fratello Riccardo, figlio di primo letto, sarebbe voluto andare all’Isola dei Famosi ma il padre glielo vietò. Degli altri due, Eridanio Sirio e Roberto Libertà, non sono note le aspirazioni. Capelli riccioluti, scuri, l’espressione strafottente di chi pensa di poter raggiungere l’obbiettivo con poca fatica, magari anche grazie al cognome, il ragazzo si è presentato alla commissione d’esame da privatista ma ancora una volta non ce l’ha fatta. L’anno prossimo gli toccherà riprovarci. Il giovane «stangato» potrebbe essere chiunque ci tengono a far sapere dalla scuola in cui si è registrata la défaillance dell’erede del leader leghista. Ma il preside del «Bentivoglio», don Gaetano Caracciolo, ci tiene a precisare che comunque nel caso del maturando Bossi, «quella tesina non ha creato alcun problema ideologico». E che le commissioni d’esame non hanno colore nè politico, nè regionale. «Come per tutti i privatisti -ha spiegato don Caracciolo- l’esame di maturità si compone di un tema, un compito di matematica, un test su quattro materie e poi c’è l’orale, del quale fa parte la tesina che ne è l’introduzione». Ecco la tesina, la pietra dello scandalo. «Non conosco il dettaglio di quella prova d’esame ma comunque il punteggio dell’orale, di cui fa parte la tesina e solo come avvio del colloquio, pesa per 35 punti rispetto ai 45 delle altre prove». Una tesina anche ottima non può colmare le altre lacune.

La composizione della commissione per proveninza geografica dei componenti don Gaetano non la rivela ma spiega però che «è composta da tre docenti interni, tre esterni e un presidente, esterno anch’egli. Se proprio ci tenete, i tre interni sono settentrionali mentre per il resto -aggiunge con un filo d’ironia- la composizione è mista in tutti i sensi, ma i professori non hanno nè regione nè parte politica. Fanno il loro lavoro di educatori. E questo lo sa anche ogni cuore di papà».

Pubblicato il: 21.07.08
Modificato il: 21.07.08 alle ore 8.12   
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