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Autore Discussione: Esportiamo in tutto il mondo griffe taroccate e falsi di lusso  (Letto 2761 volte)
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« inserito:: Aprile 29, 2008, 05:12:35 pm »

29/4/2008 (7:40) - INCHIESTA

Quando i cinesi sono gli italiani
 
Il giro d'affari dei prodotti contraffatti vale 7 miliardi di euro l'anno
 
Esportiamo in tutto il mondo griffe taroccate e falsi di lusso

ANTONIO MASSARI


NAPOLI
Dalla televendita di borse griffate in Canada, alla delocalizzazione d’impresa nelle Marche, al business delle pasticche per i freni, alla nuova frontiera del mercato: le bomboniere in argento marchiate Diddle.

Il mercato del «falso d’autore» è sempre ricco di sorprese. Amare per i clienti che, sborsando cifre identiche o quasi a quelle di listino, si trovano tra le mani un falso al posto del tanto desiderato originale. Nessuna sorpresa, invece, per le condizioni di lavoro in cui operano migliaia di artigiani del falso: operai di grande abilità, che potrebbero lavorare senza problemi per le grandi maison della moda, ma passano gran parte delle loro giornate in laboratori senza alcuna misura di sicurezza, a contatto con prodotti chimici, senza protezione, in nero, sottopagati e costretti allo sfruttamento. Tutto parte dallo sfruttamento del lavoro: è questo che consente il grosso profitto per «grossisti» e «dettaglianti» che, sempre più spesso, smerciano prodotti nei loro negozi.

Colla, pelle, macchine per cucire: la borsa di una famosa griffe confezionata nel napoletano un giorno parte per il Canada e approda in una televendita. Qualcuno telefona e ordina il pezzo. Il costo? Lievemente inferiore al listino della maison. Parliamo di migliaia di euro. Il cliente paga.

La sorpresa
La borsa parte dall'Italia. Supera i controlli alla dogana nordamericana. Il cliente riceve, controlla, scopre che c’è un piccolo difetto e chiama la casa madre: «Non è un nostro prodotto», gli rispondono, «non possiamo farci nulla». Eppure, nella televendita canadese, gli era stata venduta come «originale», con tutto il necessario, inclusi certificati e codici a barre, per dimostrare la paternità dell'oggetto in questione.

Il cliente denuncia e parte l’inchiesta giudiziaria. Una delle tante. Perché quello del falso d'autore è un motore economico di dimensioni enormi, transnazionale, che movimenta milioni di euro e sostiene migliaia di famiglie, non solo in Campania, ma in tutta Italia e nel resto del mondo.

Basti pensare che a marzo, nel corso dell'operazione Strike, il comando provinciale della Guardia di finanza di Napoli, in una sola operazione, ha sequestrato 31 strutture fra laboratori e depositi: 910 mila prodotti contraffatti per un valore 5,5 milioni di euro. Per comprendere il volume d'affari, al di là delle cifre, segnaliamo un solo dato: il sequestro di 42 chilometri quadrati di stoffa griffata destinata alla produzione di borse. A stenderla, nascerebbe un'altra provincia.

Scarpe nere
Nell’operazione «Black Shoes», le Fiamme Gialle di Napoli ricostruiscono la rete della produzione di scarpe con i falsi marchi Hogan, Prada e Tod’S, e scopre che il mercato finale è soprattutto tedesco. Cerca di risalire la filiera e scopre decine di fabbriche clandestine, che smistavano le scarpe in depositi nascosti, dai quali si rifornivano i grossisti, che rivendevano il tutto a negozianti di tutta Europa, in particolare tedeschi. Altre cifre: 42 lavoratori in nero, sequestro di 17 fabbriche e 430 mila prodotti per un valore di 2,5 milioni di euro.

Ma è a febbraio, con l'operazione «Silver Mouse«, che spunta la novità: la delocalizzazione d'impresa. I finanzieri si mettono sulla pista di questo topolino in argento, una bomboniera di particolare successo, prodotta da un'azienda tedesca, che, in alcuni negozi, viene venduta a prezzi eccessivamente bassi. Scoprono che un grossista napoletano, con partita Iva, si approvvigiona in due modi.

Il primo. Attraverso un'azienda spagnola, acquista le bomboniere fabbricate in Cina. Il secondo. Si rifornisce da un laboratorio, in provincia di Ancona. Risultato? Altro sequestro: 124mila pezzi per circa 1 milione di euro.

Un ingegnoso atelier
Il dato importante, comunque, è che gran parte del falso d'autore non finisce su una bancarella, dove il cliente sa bene di acquistare una copia, ma in un negozio, dove crede di trovare l'originale. E in una serie di negozi, questa volta italiani, finivano anche le scarpe Hogan, prodotte su ordinazione nella città di Napoli, e rivendute in nero. Salvo scoprire, di tanto in tanto, qualche difetto: «Quelle Hogan beige, si sta scambiando il rosso che è all'interno», dice, al telefono, un acquirente al suo grossista, intercettato durante l'operazione Tarocco. «Quando metti il piede dentro – continua – si fa tutto il calzino rosso».

Nessun problema: il grossista - che spesso spedisce la merce con Mail Box per ordinativi da 800- 1000 euro ciascuno – assicura il ricambio della merce. Anche per un solo paio. Servizio eccellente e capillare. E con qualche sopresa per gli investigatori. Che l'anno scorso, in posti come via Annunziata, a Napoli, scoprono un atelier davvero ingegnoso. La parete del bagno non dava segni. Ma attraverso una calamita si azionava una parete girevole. Che portava a un vero e proprio atelier della truffa: ben novecento mila pezzi uguali (o quasi) agli originali.Secondo le stime diffuse dall’Aimpes, associazione dei produttori italiani di pelletteria, sono 34 milioni i pezzi falsi venduti all’anno in Italia contro 20 milioni di borse originali. L’associazione ha inoltre fatto pubblicare una lettera aperta a Silvio Berlusconi, per sottolineare il «progressivo indebolimento del made in Italy» derivante da contraffazione e abusivismo. Ieri oltre 80mila articoli di merce contraffatta (ciabatte da mare e borse di tela, valore 500 mila euro) proveniente dalla Cina sono stati sequestrati nel porto di Napoli. A Gioia Tauro, invece, sono state sequestrate 20 mila paia di scarpe da donna fabbricate in Cina per il mercato italiano.

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 29, 2008, 05:33:23 pm »

28/4/2008 (7:15) - COLLOQUIO

"La Cina ci aiuterà a cambiare il mondo"
 
Non è un nemico: è indispensabile per risolvere i nodi su clima e cibo

MAURIZIO MOLINARI
INVIATO A WASHINGTON


Completo grigio, cravatta rossa, occhi vispi e capelli grigi leggermente spettinati, David Rockefeller assiste quasi in raccoglimento al seminario sui cambiamenti climatici nel Roosevelt Salon dell’hotel di Washington dove si svolge l’incontro annuale della Commissione Trilaterale. Nella sala non ci sono più di trenta partecipanti provenienti da America, Europa e Asia, le domande su uragani, siccità, acqua ed energia si susseguono incalzanti ed a rispondere punto su punto sono due relatori dell’Estremo Oriente: la cinese Yuan Ming, vice presidente della Scuola di relazioni internazionali all’Università di Pechino, e il giapponese Taizo Yakushiji, membro del Consiglio delle scienze di Tokyo.

Quando arriva la pausa per il caffè, Rockefeller si rilassa e dice: «Il futuro è in questa stanza». Se nel 1973 fondò la Trilaterale assieme Henry Kissinger, Zbignew Brzezinki e Gianni Agnelli per creare un forum informale di consultazione fra le grandi democrazie industriali dell’epoca, oggi guarda ad un altro orizzonte, dall’alto dei suoi 93 anni: «Dobbiamo coinvolgere la Cina nella gestione dei problemi globali». È questa la motivazione che spinge la Trilaterale ad aprire le porte ai partecipanti della Repubblica Popolare, sebbene non si tratti di una democrazia liberale. «Quando se n’è iniziato a parlare avevo qualche legittimo dubbio - racconta Rockefeller - perché si tratta di una nazione autoritaria, non sono come noi, non è una democrazia». Ma le perplessità sono cadute di fronte agli studi scientifici che dimostrano come la Cina sia divenuta la superpotenza nel campo nelle emissioni di gas nocivi nell’atmosfera: ne produce più degli Stati Uniti. «Senza la Cina non possiamo lavorare a una soluzione per mondiale per i problemi del clima e dell’energia», aggiunge il banchiere sottolineando che «rinnovarsi» significa «affrontare l’agenda globale» guardando oltre gli spartiacque politici ed ideologici del XX secolo. Non a caso quando la sessione Climate Change riprende, Rockefeller si appassiona ad uno scambio di battute fra la cinese Yuan e un ex diplomatico danese attorno all’interrogativo se «il rispetto del clima deve essere imposto dall’alto». Yuan Ming non ha dubbi: «È l’unica maniera per farlo, spetta ai leader politici imporre soluzioni drastiche». Ma il danese non è d’accordo, ribatte: «Saranno i consumatori a decidere acquistando auto verdi e prodotti biocompatibili, le imposizioni dall'alto non funzionano». «Io la penso come lui» commenta Rockefeller, abbozzando un sorriso per far capire che il pensiero dell’accademica di Pechino ha un’impostazione un po’ troppo dirigista per i suoi gusti liberali.

«I leader politici fino a questo momento hanno combinato assai poco, saranno i cittadini a fare la differenza - spiega il banchiere, parlando sottovoce per non disturbare il dibattito in sala - anche perché sono loro a pagare il costo più alto per i rincari energetici». Ma ciò che più conta per lui è che «i cinesi siano qui» per confrontarsi, discutere, ragionare assieme agli occidentali.

Nel 2009 il prossimo appuntamento della Trilaterale sarà a Tokyo e proprio in quella sede la presenza cinese diventerà assai più numerosa, assieme a quella dell’India. Rockefeller vede il tranguardo dell’allargamento della Trilaterale alla Repubblica Popolare e quasi si commuove quando ricorda «l’amico Gianni Agnelli con cui tutto questo ebbe inizio molti anni fa. Era un amico vero, di un’intelligenza brillante» aggiunge. A convincerlo sulla necessità di superare le proprie ritrosie sono stati Peter Sutherland, presidente di Goldman Sachs, e Yotaro Kobayashi, ex presidente di Fuji Xerox, rispettivamente a capo delle sezioni europea e giapponese della Trilaterale.

A spiegare il pensiero dei partecipanti giapponesi è Keizo Takemi, voce influente del partito liberaldemocratico a Tokyo: «Isolare la Cina è un errore, bisogna coinvolgerla nelle istituzioni internazionali, negli organi multilaterali, perché in questa maniera i suoi leader entreranno in contatto con il mondo esterno, usciranno, ascolteranno». È l’approccio che ha convinto Rockefeller, spingendolo a sostenere l’iniziativa del britannico Sutherland che si scontrava con le forti resistenze della componente americana.

Quando in serata la Trilaterale si ritrova a cena nella suggestiva cornice dello Smithonian Museum, Rockefeller è seduto nel tavolo più vicino al podio dell’oratore l’ex direttore di The Economist Bill Emmott - uno dei giornalisti che più apprezza - ed annuisce soddisfatto quando gli sente dire ciò che anche lui pensa: «Grazie a Cina, India e Giappone l’Asia sta diventando una sola, tutti parlano del rischio di conflitto ma da 30 anni non vi sono più guerre in Estremo Oriente». L’impresa di traghettare la Trilaterale verso l’apertura ai partecipanti cinesi è l’impronta che Rockefeller vuole lasciare sulla Trilaterale per consentire a questa sua creazione di «rinnovarsi guardano al futuro». Ma ciò non toglie che poi, in seduta plenaria, il banchiere newyorkese torni a interessarsi di problemi strategici come l’Iran, discutendone con l’ex Segretario di Stato Henry Kissinger, seduto ad appena una sedia di distanza lungo lo stesso tavolo numero 22 nel bel mezzo dell’assemblea plenaria.
   

da lastampa.it

 
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