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Autore Discussione: Franco VENTURINI  (Letto 30303 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Maggio 25, 2015, 11:03:25 am »

LOTTA AL TERRORISMO
Sconfiggere l’Isis è possibile (con gli scarponi sulla sabbia)
È in atto in Medio Oriente il più grande cambiamento di alleanze dalla fine della Guerra Fredda e per il momento ne sta approfittando solo lo Stato Islamico, che sfrutta le contraddizioni fra sciiti e sunniti

Di Franco Venturini

Le cattive notizie provenienti dall’Iraq e dalla Siria possono apparire monotone o troppo complesse, tali da indurre alla disattenzione per stanchezza. Dai singoli ai governi l’Occidente può suicidarsi anche così, accettando la sua impotenza. Ma prima bisognerebbe almeno riconoscere con onestà quale è la posta in gioco, e questo si direbbe che pochi siano disposti a farlo. Obama dichiara che «con l’Isis non stiamo perdendo» , ma non può dire che stiamo vincendo. Tra nove giorni si riuniranno a Parigi tutti i componenti della coalizione che proprio per battere l’Isis è stata creata, ma nessuno crede davvero a una nuova strategia ora che quella vecchia mostra la corda. E nel frattempo l’avanzata dei jihadisti tagliagole si avvicina a Damasco e a Bagdad, modifica gli equilibri mediorientali, scuote il sistema delle alleanze, crea nuove dinamiche che toccano anche noi italiani e che dovrebbero vietarci la distrazione se soltanto ci fosse chiaro che la caduta di Ramadi in Iraq, quella dei tesori di Palmira in Siria e le minacce jihadiste in Libia sono tessere di un unico mosaico aggressivo.

Mettere insieme i frammenti della sfida è difficile, ma è anche necessario per capire e, forse, per reagire. L’Isis nasce dai quattro anni di guerra civile siriana che oggi contrappone il massacratore Assad (sciita) ai ribelli jihadisti (sunniti). L’Isis ha avuto molto tempo per diventare una sofisticata macchina di guerra e di propaganda, capace di battere gli Hezbollah e gli iraniani che proteggono Assad e capace ormai di prospettare una battaglia per Damasco. Che non sarà l’unica, perché l’Isis sunnita ha investito anche l’Iraq che George W. Bush ha consegnato agli sciiti, ha moltiplicato le stragi e le persecuzioni religiose, ha dissolto nel Califfato il confine deciso da Sykes e Picot nel 1916, e non contenta di Mosul è andata a conquistare Ramadi, cento chilometri dalla capitale Bagdad. Ora sta per scattare la controffensiva. Condotta da chi? Dalle milizie «private» sciite, benedette e guidate dall’Iran. E sarà già una prima battaglia per Bagdad.

Cosa insegnano e cosa producono, queste dinamiche militari che abbiamo sommariamente riassunto? Dicono con forza che l’America e l’intero Occidente si trovano davanti a un bivio tra declino e reazione. Ebbe una grande perdita di credibilità regionale, la Casa Bianca di Obama che nell’estate del 2013 mandò le sue navi a punire la Siria e poi fece dietro-front senza aver sparato un colpo. E le cose non vanno molto meglio nell’Iraq di oggi, perché gli attacchi esclusivamente aerei della coalizione guidata dagli Usa non fermano l’Isis, l’addestramento dell’esercito iracheno è in ritardo sull’orologio dei fatti e il tetto di tremila «consulenti» statunitensi a terra è inadeguato. Forse Obama, da presidente che ha posto fine ai conflitti di Bush quale voleva essere, potrebbe invece diventare colui che ha fermato l’Isis, la più pericolosa minaccia jihadista dopo Osama e l’11 settembre. La sua eredità non ne soffrirebbe, ma in Europa dimentichiamo troppo spesso che è la sua opinione pubblica a non volerlo.

E poi c’è la politica, quella vera. L’Occidente si nasconde quasi, di questi tempi, dietro un Iran sempre più determinato. In Iraq le forze di Teheran o guidate da Teheran non esitano a fare il lavoro che gli americani non fanno. Questo mentre tra Iran e Usa (più alleati) si dovrebbe concludere entro la fine di giugno un negoziato decennale per circoscrivere e sorvegliare i programmi nucleari di Teheran. Se ci sarà, l’intesa restituirà all’Iran risorse e libertà di movimento oggi vietate dalle sanzioni. Non è soltanto Israele a considerare il patto troppo fragile e troppo provvisorio. Perché come Gerusalemme la pensano le monarchie del Golfo e soprattutto l’Arabia Saudita, che prepara già i suoi primi passi verso la capacità nucleare.

Obama è in una morsa. Se incassa l’aiuto militare iraniano in Iraq e conclude l’accordo con Teheran sul nucleare, si mette contro i suoi alleati storici nell’area, da Israele all’Arabia Saudita. Se interviene in Iraq e nega concessioni negoziali a Teheran sul nucleare corre il rischio di non riconquistare né Israele né l’Arabia Saudita e manda all’aria una intesa che vorrebbe vedere abbinata al suo nome. Il groviglio è ormai troppo stretto per scioglierlo. E chi lo interpreta meglio di tutti? L’Isis, che provoca una strage nella parte sciita dell’Arabia Saudita puntando alla divisione, fomentando la guerra civile, preparando una ipotetica avanzata verso sud.

Piano troppo ambizioso? Per ora sì. Ma come non vedere che tutto è già in movimento, che in Medio Oriente prende forma il primo vero cambiamento di alleanze dopo la Guerra Fredda, con gli Usa quasi fermi, l’Isis che corre, l’Iran che tende due mani all’America, l’Arabia Saudita che si emancipa in odio all’Iran, Israele che assiste sempre più inquieto, l’Europa che è incapace di entrare davvero in partita?

La cornice, certo, è la lotta inter-islamica tra sunniti e sciiti. Ma le onde d’urto che ne provengono giungono ovunque, nella Nigeria di Boko Haram, nel Sahel qaedista, nel Sinai, nella Libia dove il caos è alimentato dai finanziamenti di Turchia, Emirati, Qatar, Arabia Saudita, Egitto. Per noi europei sarà già tanto se riusciremo a trovare un accordo sui migranti. Ma servirà a poco se non capiremo, gli americani e noi, che proprio là dove sta vincendo la piovra Isis serve una coalizione diversa da quella che giungerà a Parigi. Tanto diversa da mettere i famosi scarponi nella sabbia. E da recuperare almeno un po’ di una credibilità rovinata.

fventurini500@gmail
24 maggio 2015 | 09:49
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_maggio_24/sconfiggere-l-isis-possibile-con-scarponi-sabbia-135b4dde-01e1-11e5-8422-8b98effcf6d2.shtml
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« Risposta #46 inserito:: Agosto 29, 2015, 10:24:55 am »

L’Europa e l’Immigrazione, Le nuove priorità
La vetta da scalare per Angela Merkel

Di Franco Venturini

Timoniera nel bene e nel male di tutta la politica europea, Angela Merkel non poteva più rinunciare al suo ruolo sul tema scottante dei flussi migratori. L’atroce morte in Austria di settantuno sventurati è una strage all’interno dell’Europa e all’interno del mondo germanico, non una fatalità «esterna» in quel Mediterraneo che pure continua a mietere un numero ben superiore di vittime. L’opinione pubblica tedesca è scossa come mai prima, e preoccupa che si riaffaccino episodi di xenofobia neonazista. Soprattutto, è ormai evidente anche alla cancelliera che le migrazioni siano destinate a durare e rappresentino per la sopravvivenza dell’Europa una minaccia non inferiore al disordine finanziario.

A Berlino è in corso, tardivamente, la presa d’atto di una nuova priorità squisitamente politica che si affianca a quella vecchia di natura economico-finanziaria: se non gestita con criteri equi l’ondata migratoria darà una forza non più controllabile alle strumentalizzazioni populiste ampiamente presenti nella Ue, e la rotta di collisione tra democrazia elettorale e governabilità finirà per distruggere l’intera costruzione europea. Occorre dunque concepire strategie diverse e urgenti che portino a un sistema unificato del diritto d’asilo, al ritorno delle quote nella ripartizione degli aventi diritto, e forse alla revisione delle regole di Dublino sull’esempio di quanto la cancelliera ha fatto per prima sospendendole a beneficio dei profughi siriani. L a nuova consapevolezza della Germania, che pure non corre i pericoli politici interni della Francia o dell’Italia, è motivo di speranza e deve essere accolta da un benvenuto altrettanto consapevole. Deve esserci chiaro che il nuovo orientamento del governo tedesco rappresenta in concreto l’unica possibilità di arrivare a quei traguardi che l’Italia da tempo insegue, perché è stato ampiamente dimostrato in sede europea che non abbiamo, se non in presenza di momentanee scosse emotive dovute a immani sciagure, il peso necessario per far valere le nostre argomentazioni davanti agli altrui egoismi. Così come si è visto che l’auspicato asse italo-franco-spagnolo non esiste, con Madrid su inattese posizioni anti ripartizione come i Paesi del Nord e dell’Est, e Parigi ondeggiante tra consultazioni privilegiate con Berlino e timori di favorire il Front National.

Dobbiamo, questa volta, affiancarci alla Germania e incoraggiarla nel suo ruolo di leadership, portarle le nostre esperienze e conoscenze per esempio della situazione in Libia ma anche di quella nei Balcani, tentare di favorire una svolta voluta ora anche da Berlino sapendo però che ci sarà battaglia e che le resistenze saranno dure a morire. Per questi motivi abbiamo noi per primi interesse a non dilazionare oltre la fine dell’anno - come peraltro concordato giovedì alla conferenza di Vienna - l’entrata in funzione dei nostri «centri di registrazione», strettamente legati, nella visione della Merkel, ai passi successivi sul diritto d’asilo e sulle quote.
Si può tornare a sperare, se faremo la politica giusta. E tuttavia dobbiamo anche essere lucidi, vedere i limiti della nostra speranza e del nostro impegno a fianco della nuova determinazione tedesca. Angela Merkel è imbattibile in casa, esercita un enorme potere di influenza in Europa, ma sbaglierebbe chi volesse accostarla al Cancelliere di ferro Otto von Bismarck e alla sua capacità di creare in Europa uno stabile sistema di alleanze. Per certi aspetti la Merkel è anzi una Cancelliera d’argilla, perché né l’Europa né il mondo di oggi sono quelli dell’Ottocento. La crisi greca può ancora degenerare. Obama è tutto elogi ma comincia il suo lavoro ai fianchi per confermare a gennaio le sanzioni anti russe sull’Ucraina ben sapendo che la Germania si è esposta con le intese di Minsk II e che un loro fallimento avrebbe un prezzo anche politico per Berlino. La crisi economica non è stata ancora superata del tutto ed ecco che la Cina fa tremare il mondo, soprattutto quei Paesi, come la Germania, che hanno puntato tutto sulle esportazioni rinunciando allo sviluppo della domanda interna.

Sono tempi non facili, anche per Angela Merkel. E la questione dei migranti non li farà migliorare. Basterà il peso tedesco a far rientrare i nazional-egoismi messi scandalosamente in mostra al Consiglio europeo del 25 giugno? Si riuscirà davvero a far passare un sistema di quote obbligatorie e basate su parametri oggettivi sin qui rivelatosi irraggiungibile? Le garanzie che alcuni vedono negli accordi di Dublino potranno davvero essere modificate, e le politiche nazionali sull’asilo rese comuni? Acquisita la scelta di distinguere tra migranti con diritto d’asilo e migranti economici da rimandare a casa, come potranno avvenire respingimenti tanto massicci e tanto costosi, forse con il coinvolgimento di una missione Onu? E come si pensa di impedire che quanti avranno ottenuto asilo e saranno stati assegnati pro quota a un determinato Paese si spostino di loro iniziativa per esempio in Germania, dove già vive oggi la netta maggioranza dei migranti che ce l’hanno fatta?

È bene non perdere di vista questi e altri interrogativi per valutare correttamente la montagna che Angela Merkel ha annunciato di voler scalare, le sue probabilità di successo e di conseguenza anche le nostre. Il confronto che si annuncia non sarà facile, e malgrado l’urgenza non sarà veloce. Ma da oggi esiste una possibilità, che prima aveva dimostrato di non esserci e che l’Italia farà bene a sostenere senza rinunce e senza furbizie.

(fventurini500@gmail.com)

29 agosto 2015 (modifica il 29 agosto 2015 | 07:45)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_agosto_29/editoriale-venturini-migranti-europa-merkel-fad128bc-4e0a-11e5-a97c-e6365b575f76.shtml
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« Risposta #47 inserito:: Settembre 11, 2015, 11:50:08 am »

Quale intervento È ancora possibile?
La Siria, Assad e il Califfato
L’Italia non deve isolarsi


Di Franco Venturini

Nel prendere le distanze dalla prospettiva di bombardamenti francesi e britannici in Siria, Matteo Renzi ha confermato una consolidata posizione italiana ma ha dimenticato la Libia. Come ribadito di recente dal ministro degli Esteri Gentiloni, se i negoziati per far nascere un governo libico unitario dovessero fallire (o l’accordo si dimostrasse inefficace) l’Italia si aspetta che la coalizione anti Isis già operante in Siria e in Iraq sia estesa nei modi opportuni anche alla Libia, dove la presenza dell’Isis è stata abbondantemente accertata. Continua a pagina33 I n particolare potrebbero essere usati droni armati, di cui l’Italia non dispone, contro bersagli che l’intelligence ha da tempo individuato. Ma se l’Italia si dimostra a dir poco timida rispetto alla maggioranza degli alleati nella sua presenza in Iraq (abbiamo inviato quattro Tornado e due droni con compiti esclusivi di ricognizione, addestriamo i curdi), se non bombardiamo l’Isis né in Siria né in Iraq, quanto peso avrà domani la nostra eventuale richiesta di aiuto in Libia?

Eppure l’emergenza migranti passa per noi più dalla Libia che dalla Siria o dall’Iraq, e se i flussi ininterrotti mettono a dura prova la tenuta delle nostre strutture (e forse anche dei nostri equilibri socio-politici) dovrebbe essere la stabilizzazione della Libia la nostra priorità assoluta. Del resto l’acquisizione di crediti attraverso la partecipazione attiva è un meccanismo che ci è ben noto: da molti anni il rango internazionale dell’Italia è fortemente tributario delle nostre missioni militari all’estero.

Se poi i ventilati bombardamenti francesi o britannici in Siria siano destinati a cambiare alcunché, è discorso diverso e complesso. Siamo entrati nel quinto anno di guerra civile tra il regime di Assad e i suoi oppositori, la mattanza ha prodotto 250.000 morti e sette milioni di profughi (una piccola parte di loro arriva ora in Europa, ma la maggioranza è ancora in Libano e in Giordania), il Presidente controlla appena il venticinque per cento del territorio, ma nessuno considera imminente la vittoria militare di una delle parti.

Chi si pone la questione cruciale del «che fare?» davanti a un simile massacro farebbe bene a non accontentarsi di risposte facili e astratte. L’Occidente dovrebbe ricordare, per esempio, che nei primi due anni di guerra, quando era chiara a tutti la responsabilità soverchiante del regime e gli oppositori potevano in gran parte essere considerati amici o alleati, si decise di non intervenire perdendo poi progressivamente il controllo delle formazioni anti-Assad (a beneficio anche dell’Isis) . Persino quando fu superata la «linea rossa» del ricorso alle armi chimiche, nell’estate del 2013, Obama si lasciò convincere dai russi a richiamare le navi che secondo le sue stesse parole dovevano infliggere un duro castigo ad Assad. Le brutte esperienze dell’Iraq, dell’Afghanistan e della Libia post-2011 hanno sicuramente avuto un peso sulla paralisi occidentale. E ora è troppo tardi.

Dopo la nascita del Califfato, l’Isis non ha fatto che crescere e avvicinarsi ai suoi nuovi obbiettivi: Damasco e Bagdad. Gli unici che l’hanno efficacemente contenuto sono stati i Peshmerga curdi e le milizie sciite patrocinate dall’Iran. A terra. Ma dall’aria i bombardamenti della coalizione guidata dagli USA, tanto in Iraq quanto in Siria per chi partecipa, non sono andati oltre un risultato di parziale contenimento. Francesi e britannici non cambieranno di certo la situazione, così come rimarrà ambiguo il comportamento della Turchia (teoricamente anti-Isis ma in realtà anti-curdi) e Assad potrà continuare a contare sull’aiuto misurato dei russi (armi e consiglieri) e su quello diretto degli iraniani e dell’Hezbollah sciita libanese.

La guerra civile siriana è ormai una guerra per procura tra interessi opposti. Sciiti e sunniti si contendono la supremazia nel mondo islamico. La linea occidentale anti-Assad si scontra con il Cremlino che non vuole perdere né la sua influenza a Damasco né il porto mediterraneo di Tartus. E il risultato complessivo è che immaginare oggi in Siria quell’intervento militare terrestre possibile qualche anno fa può essere il frutto soltanto di una incontenibile retorica. Per l’Occidente in Siria ci sono soltanto nemici giurati, Isis e al Qaeda da una parte, forze di Assad dall’altra. I bombardamenti della coalizione colpiscono Isis e qaedisti identificati come il nemico numero uno, aiutando indirettamente Assad. Ma come se la caverebbero forze con «gli stivali sulla sabbia», tra i due schieramenti nemici?

Il tentativo di porre fine alla strage non può ormai che essere diplomatico. Affiancando, d’accordo con la Russia, l’Iran post-accordo nucleare e l’Arabia Saudita, una campagna aerea molto più energica contro l’Isis e un processo politico parallelo che preveda un cambio della guardia a Damasco con l’uscita dignitosa di Assad. A questo si sta lavorando, sapendo che si tratta dell’ultima spiaggia. L’alternativa è uno smembramento della Siria in zone disegnate dai Kalashnikov, e l’arrivo di nuove ondate di profughi in Europa.

fventurini500@gmail.com
9 settembre 2015 (modifica il 9 settembre 2015 | 08:05)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_09/siria-assad-califfato-l-italia-non-deve-isolarsi-6f1942ae-56b7-11e5-a580-09e833a7bdab.shtml
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« Risposta #48 inserito:: Settembre 14, 2015, 10:43:41 am »

Divisione Est-Ovest
Migranti, il salto all’indietro dell’Europa
Quando la Commissione presenterà ai ministri degli Interni e della Giustizia della Ue un piano migranti che fa leva sull’indispensabile solidarietà tra europei, l’Europa risponderà facendo un grande salto all’indietro e tornando a dividersi tra Est e Ovest

Di Franco Venturini

Lunedì prossimo, quando la Commissione presenterà ai ministri degli Interni e della Giustizia della Ue un piano migranti che fa leva sull’indispensabile solidarietà tra europei, l’Europa risponderà facendo un grande salto all’indietro e tornando a dividersi tra Est e Ovest. Gli ultimi dubbi sul «no alle quote obbligatorie» da parte di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia (con aggiunta della Romania e delle Repubbliche Baltiche) sono svaniti ieri quando il ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier ha incontrato i quattro del Gruppo di Visegrad per tentare di convincerli. Siamo alle prese con quella che potrebbe essere la più grave crisi nella storia dell’Europa, ha ammonito Steinmeier mettendo sul tavolo tutto il non trascurabile peso della Germania. Ma i suoi interlocutori, guidati dall’Ungheria, hanno fatto orecchie da mercante. Va bene per la protezione umanitaria dei migranti (che proprio in Ungheria non si è vista e non si vede). Va bene per il rimpatrio di chi proviene da Paesi ritenuti «sicuri» . Ma le quote obbligatorie no, quelle non le accettiamo nemmeno se ce lo chiede la Germania.

La conseguenza appare ormai inevitabile: come già era accaduto tra giugno e luglio quando la Commissione di Bruxelles fece il suo primo fallito tentativo di stabilire quote numeriche obbligatorie per l’accoglimento dei migranti in ogni Stato della Ue, anche questa volta il fronte del rifiuto (che può contare su otto Stati votanti, se non di più) imporrà un criterio di «volontarietà» che vanifica il progetto franco-tedesco fortemente appoggiato dall’Italia.

Nessuno si lascerà spaventare dalle sanzioni finanziarie, che peraltro restano da definire. Semplicemente il criterio della solidarietà rimarrà al palo un’altra volta, l’Europa offrirà al mondo un nuovo spettacolo di divisione interna proprio mentre gli Usa annunciano di voler aprire la porta a 10 mila migranti. E l’Italia, che pretende una logica contemporaneità tra messa in funzione dei centri di identificazione e garanzie di redistribuzione dei richiedenti asilo, si troverà, salvo miracoli, a dover valutare attentamente le conseguenze dei rifiuti orientali.

Rifiuti che hanno peraltro una valenza diversa di caso in caso. La Polonia non accetterà le quote ma accoglierà un numero più alto di migranti (sempre che le elezioni di ottobre, che vedono favorita la destra ultranazionalista, non impongano la retromarcia). In Slovacchia emergono forti umori anti islamici a fianco di quelli anti stranieri. In Ungheria la «sfida» di Orbán alla Merkel si nutre ogni giorno di nuovi capitoli, ora per i migranti è annunciato l’arresto preventivo. Ma se vanno accettate le diversità nazionali, è anche vero che una questione di principio accomuna tutti i nuovi soci della Ue: non sembra prevalere, nei loro governi e nelle loro opinioni pubbliche, un sentimento di appartenenza europea che pure è stato assai forte nella corsa all’adesione e poi nell’utilizzo degli aiuti provenienti da Bruxelles. Al contrario di quanto è accaduto all’Ovest non si sono stemperati i loro nazionalismi, che anzi esplodono ora che non sono più sottoposti al giogo sovietico degli anni 1945-1989. Insomma, i nostri fratelli d’Oriente vivono una fase storica diversa dalla nostra e gli allargamenti sono stati portati a termine con non poche illusioni. Una parte dell’Ovest sembra muoversi in direzione opposta. Sappiamo che Gran Bretagna, Danimarca e Irlanda usufruiscono di un Opt-out che peraltro Cameron ha addolcito accettando 20.000 rifugiati extra-quote. Sappiamo della generosità della Germania e della Svezia. Ma ora anche la recalcitrante Spagna sta al gioco. E nella Francia dei Le Pen un sondaggio mostra per la prima volta in vantaggio i pro accoglienza.

Divisi e sempre più lontani, è questo il destino degli europei? È possibile, almeno fino a quando non sarà chiaro a tutti che quello degli immigrati è un problema ma è anche una occasione che ci promette di finanziare uno Stato sociale altrimenti condannato dalle nostre realtà demografiche.

12 settembre 2015 (modifica il 12 settembre 2015 | 07:56)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_settembre_12/migranti-salto-all-indietro-dell-europa-2a1d799e-5910-11e5-bbb0-00ab110201c3.shtml
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« Risposta #49 inserito:: Settembre 23, 2015, 10:01:31 am »

Dalla Siria all’Ucraina
Contatti Usa-Russia Il dialogo difficile

Di Franco Venturini

Dopo molte esitazioni da parte americana tra Washington e Mosca è scoppiato il dialogo. Nell’arco di poche ore, ieri, il presidente Usa Barack Obama ha accolto la proposta russa di far incontrare i militari delle due parti. Kerry ha dichiarato che se Putin vuole colpire l’Isis in Siria una collaborazione è possibile, e i due ministri della difesa si sono parlati per cinquanta minuti al telefono.

La Casa Bianca ha dunque scelto di andare a vedere le carte del Cremlino, malgrado le opinioni contrastanti dei consiglieri del Presidente. E se l’esplorazione darà esito positivo diventerà più probabile un incontro «informale» tra Obama e Putin nei corridoi dell’Assemblea generale dell’Onu a New York, forse il 28 settembre.

La distanza da colmare per giungere a una tacita intesa russo-americana sulla Siria resta tuttavia consistente. Gli Usa non nascondono i loro sospetti sulle intenzioni di Putin, dopo che secondo il Pentagono Mosca ha trasferito in Siria i suoi primi caccia bombardieri e ha intensificato le forniture di armi al regime di Bashar al-Assad. Ieri i timori americani non sono stati certo alleviati dal portavoce del Cremlino, quando ha detto che la Russia prenderebbe in considerazione una eventuale richiesta siriana di intervento su larga scala. Ma se il Cremlino chiede una coalizione internazionale per lottare contro l’Isis, i fatti diventano più forti dei sospetti. L’Isis è il nemico numero uno dell’Occidente. E lo è, o lo sta diventando, anche della Russia. Non soltanto perché con i jihadisti combattono in Siria 2.400 cittadini russi che potrebbero tornare a casa con pessime intenzioni, ma perché la corrente filo-Isis sta diventano sempre più forte nell’Emirato del Caucaso creato dagli estremisti nel 2007. Lasciar crescere l’Isis, perciò, significa rischiare una nuova destabilizzazione del Caucaso e dell’Asia Centrale, cosa che Putin vuole evitare ad ogni costo.

Quanto alla parte americana, ieri Kerry è stato chiarissimo: il nostro obbiettivo è la distruzione dell’Isis, ma anche un accordo politico che non può essere raggiunto con la presenza «prolungata» di Assad al potere. In altri termini collaboriamo pure subito contro l’Isis, a condizione che parallelamente si apra una trattativa che preveda alla fine l’uscita di Assad. Il massacro in Siria deve essere fermato, non soltanto perché ora ci investe lo tsunami dei migranti. Un disgelo russo-americano dopo l’Ucraina (e magari anche sull’Ucraina) aiuterebbe.

Franco Venturini
19 settembre 2015 (modifica il 19 settembre 2015 | 07:12)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_19/contatti-usa-russia-dialogo-difficile-siria-ucraina-ffbaad22-5e8a-11e5-8999-34d551e70893.shtml
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« Risposta #50 inserito:: Settembre 28, 2015, 07:42:30 pm »

Siria, il momento delle scelte

Di Franco Venturini

Per la Siria è arrivato il momento delle scelte. È arrivato scandalosamente tardi, quando la guerra civile è entrata nel suo quinto anno, quando una strage spaventosa si è ormai compiuta, quando i profughi, soltanto le avanguardie dei profughi, bussano alla nostra porta europea e ne sottolineano la fragilità culturale e politica.

Fallire ancora sarebbe un suicidio, per tutti. Perché la guerra civile siriana, innescata nel 2011 dalla ferocia repressiva di Bashar al-Assad, accanto a molti altri orrori ha prodotto l’Isis. Ha prodotto i jihadisti ultraradicali che hanno ucciso, torturato, violentato in nome del Corano, che hanno contribuito a riempire di fuggiaschi il Libano, la Turchia e la Giordania, che hanno abolito il confine con l’Iraq e compiuto attacchi terroristici in Europa e in Africa. N on è sorprendente che i tagliagole dell’Isis vengano considerati da gran parte del mondo il nemico numero uno. M a per batterlo, questo nemico, come formare una coalizione militare capace di superare sospetti, rivalità e interessi strategici diversi? Come evitare nuove esplosioni in Medio Oriente e in Nord Africa, come prevenire l’arrivo in Europa di milioni, perché questa volta sarebbero milioni, di profughi che scappano dalla Siria o dai campi turchi e libanesi?

In una Assemblea Generale dell’Onu già tanto ricca di presenze significative, la posta politica più alta è nelle possibili risposte a questi interrogativi, ed è racchiusa nell’incontro tra Obama e Putin che avrà luogo oggi al Palazzo di Vetro. Sarebbe vano, per noi occidentali, non riconoscere che il capo del Cremlino arriva all’appuntamento dopo aver mosso per primo sulla scacchiera che l’indecisionismo siriano di Obama ha da tempo paralizzato. Tenendo conto degli interessi russi, beninteso. Putin ha creato una testa di ponte militare in Siria e ha moltiplicato le forniture militari a Damasco per sostenere il traballante Assad, suo alleato storico, e mettere in sicurezza l’asse Damasco-Homs-Latakia che potrebbe in futuro rappresentare l’ultima trincea del presidente assediato. Ha assicurato a Mosca un ruolo di primo piano (e il porto di Tartus sul Mediterraneo) in un eventuale negoziato. Ha creato le condizioni per inseguire in Siria i guerriglieri provenienti dal Caucaso del Nord. E soprattutto Putin tenta un grande ritorno sulla scena mediorientale e mondiale proponendo all’America, dopo tanti dissidi e tante sanzioni, di agire insieme contro il nemico comune rappresentato dall’Isis.

Colta in contropiede, la Casa Bianca ha impiegato qualche giorno prima di superare il suo impossibile progetto di battere l’Isis adoperandosi nel contempo per far cadere Assad. Oggi la posizione americana è diventata più realista, e ha preso corpo una strategia che anche al Cremlino potrebbe non dispiacere: la collaborazione russo-americana contro l’Isis sarebbe fattibile nei tempi brevi se Mosca accettasse l’allontanamento di Assad in una seconda fase. Questo piano di massima, che non prevede interventi terrestri bensì una netta intensificazione degli attacchi aerei contro i jihadisti, ha ricevuto consensi dall’Iraq alla Turchia, dall’Australia alla Gran Bretagna. E soprattutto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, che stretta tra la crisi dei migranti e quella della Volkswagen ha trovato il tempo e il coraggio di affermare che per uscire dall’angolo siriano si deve parlare anche con Assad. Posizione simile a quella italiana e per ora frontalmente contraria a quella della Francia, che ha cominciato ieri a bombardare l’Isis ma auspica una ipotetica transizione «dopo» la caduta di Assad.

La scelta decisiva, prevedibilmente senza clamore come è prassi nei corridoi dell’Onu, sarà Obama a compierla. L’Occidente ha la coscienza pesante sulla Siria per non essere intervenuto quando gli oppositori di Assad erano suoi alleati. L’America ha mal digerito il fiasco dell’estate 2013, quando le navi mandate a punire il dittatore per aver fatto uso di armi chimiche batterono in ritirata senza aver sparato un colpo. Più di recente c’è stato il clamoroso fallimento del programma Usa per l’addestramento di oppositori «buoni», che appena pronti si sono dileguati o hanno passato i loro armamenti a formazioni qaediste. Insomma, di amici sul terreno in Siria non ne abbiamo più, e abbiamo invece un nemico mortale e globale come l’Isis.

Obama non potrà non tener conto di questa realtà, ma è improbabile che voglia fare a Putin tutti i regali che il capo del Cremlino si aspetta. In particolare sul negoziato parallelo che dovrà un giorno allontanare Assad, Mosca dovrà impegnarsi più di quanto abbia fatto sin qui. Le relazioni tra Mosca e Washington potranno migliorare, ma uno «scambio» strategico che coinvolga l’Ucraina è poco credibile. Non vedremo nascere all’Onu una improvvisa cordialità russo-americana, come confermano le critiche rivolte da Putin a Obama poche ore prima del loro incontro. Basterà un consenso pragmatico sulla emergenza politica e umanitaria che si pone in Siria, e sulla comune priorità militare di combattere l’Isis. In attesa che lo faccia, almeno in Iraq, anche l’Italia.

fventurini500@gmail.com
28 settembre 2015 (modifica il 28 settembre 2015 | 07:24)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_settembre_28/siria-momento-scelte-b21dc790-659f-11e5-aa41-8b5c2a9868c3.shtml
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« Risposta #51 inserito:: Ottobre 17, 2015, 05:25:25 pm »

Rimanere in Afghanistan
La scelta di Obama (E l’Italia?)

Di Franco Venturini

Assediata e coinvolta da un ordine internazionale che sta andando in frantumi, l’Italia si trova da ieri in un pericoloso triangolo strategico.
Ieri, appunto, Barack Obama ha ceduto alle pressioni dei suoi generali e ha prolungato la presenza militare americana in Afghanistan (9.800 uomini) fino a «quasi tutto» il 2016. Nel gennaio 2017, quando Obama dovrà lasciare la Casa Bianca, le forze Usa saranno ancora composte da 5.500 soldati. Questa decisione può fare la differenza, ha spiegato Obama, ma è difficile dargli ragione. A meno che le infiltrazioni dell’Isis smettano di moltiplicarsi e i talebani decidano di negoziare sul serio.

Poi ci sono, accanto agli Usa, anche forze alleate, e tra queste reparti italiani che oggi ammontano a poco meno di ottocento uomini in maggioranza addestratori.

Cosa faranno gli italiani? La decisione del nostro governo, già presa, è di farli rientrare entro la fine del gennaio 2016. Ma le decisioni possono cambiare. Il segretario alla Difesa americano Ashton Carter, in occasione della recente visita a Roma e subito dopo al vertice ministeriale della Nato, ha anticipato gli orientamenti di Obama e si è compiaciuto di aver ottenuto promesse di restare in Afghanistan da parte di tutti gli alleati (promessa che peraltro soltanto la Germania ha reso pubblica). Oggi i Palazzi romani dicono di essere impegnati a «valutare» la richiesta americana, anche se tutti danno per scontato un sì a Washington.

Curiosa coincidenza, perché l’Italia sta ancora «valutando» anche l’impiego in ruoli di bombardamento dei suoi quattro Tornado dislocati in Iraq. E non è difficile notare che la contrarietà ripetutamente espressa da Matteo Renzi nei confronti del ricorso a bombardamenti si riferisce sempre alla Siria e non al quadro strategico molto più chiaro dell’Iraq.

Che il presidente del Consiglio non veda di buon occhio un nuovo impiego dei Tornado, anticipato dal Corriere il 6 ottobre scorso, è cosa risaputa. Oltretutto è in arrivo il Giubileo, e colpire l’Isis accresce il rischio di attentati. Ma un impegno con gli americani era stato preso, o almeno così ritenevano gli Usa. Forse la permanenza in Afghanistan può costituire una insperata carta di scambio? Forse si può continuare a essere buoni alleati e anche protagonisti (un po’ marginali, in verità) anche sostituendo un anno in più in Afghanistan alle bombe certo non decisive di quattro Tornado? Diciamo, per usare un linguaggio ortodosso, che la cosa è oggetto di valutazione. E poco importa che il sottoscritto consideri comunque irrecuperabile per l’Occidente la situazione in Afghanistan, mentre colpire i massacratori e torturatori jihadisti dell’Isis, anche simbolicamente, e meglio se in nostra piena autonomia, sarebbe nostro dovere e nostro interesse.

Al triangolo manca un lato, che si chiama Libia. Non è dato ancora sapere se le parti in causa ratificheranno le proposte del mediatore dell’Onu Bernardino Léon per un governo di concordia nazionale, e se si passerà poi a una risoluzione del Palazzo di Vetro (o a una decisione della Ue) forse con autorizzazione all’uso della forza. In effetti anche nella migliore delle ipotesi la stabilizzazione della Libia (e dunque anche il controllo dei flussi migratori) è inconcepibile senza un certo uso della forza, in aggiunta a sanzioni e a strette creditizie ancora non operanti. Ed è anche vero che se il progetto Léon andrà in porto l’Italia avrà fatto moltissimo per sostenerlo, più di chiunque altro. Ma l’insistenza italiana per vedersi riconoscere un «ruolo guida» dopo l’eventuale raggiungimento dell’accordo (ma non della pace sul campo, questo è sicuro) lascia perplessi. A cosa sta pensando il nostro governo? A missioni di assistenza nei vari settori compreso quello dell’addestramento militare, ad aiuti economici da usare come carota in contrasto con il bastone delle sanzioni, a una cabina di regia su operazioni soft in parte già in corso, come la distruzione dei barconi utilizzati per i migranti? Se è così, bene. Ma se qualcuno avesse in mente un Peace enforcing che sarebbe rischiosissimo e richiederebbe l’utilizzo di decine di migliaia di uomini per essere efficace, se si volessero occupare le coste, se si dovesse affrontare la testa di ponte creata dall’Isis (che ieri a Sirte ha imposto il niqab alle studentesse), se insomma per riportare l’ordine in Libia si dovesse fare la guerra a terra, avrebbero senso le nostre ripetute richieste?

Forse il triangolo andrebbe ripensato, o almeno chiarito.

16 ottobre 2015 (modifica il 16 ottobre 2015 | 07:08)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_ottobre_16/scelta-obama-l-italia-82281324-73c3-11e5-846d-a354bc1c3c5e.shtml
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« Risposta #52 inserito:: Novembre 04, 2015, 06:13:10 pm »


L’EDITORIALE
Le colpe europee
Turchia, la rimonta di Erdogan e i rischi di un sistema di potere senza contrappesi

Di Franco Venturini

Utilizzando tutti gli strumenti del potere, anche i più spregiudicati, Recep Tayyip Erdogan ce l’ha fatta: nel nuovo Parlamento turco eletto ieri il capo dello Stato avrà la maggioranza assoluta e potrà forse rastrellare i seggi supplementari che gli servono per modificare la Costituzione e varare un presidenzialismo privo di validi contrappesi. Il fondatore del partito islamico Akp ci aveva già provato nello scorso giugno, ma il responso delle urne lo aveva punito privandolo di un primato che resisteva da tredici anni.

Cosa è dunque cambiato, cinque mesi dopo, in questa Turchia che smentisce la sua voglia di aria nuova? È cambiato che il regista Erdogan, il «Sultano» Erdogan come lo chiamano i suoi avversari, ha dato libero sfogo alla sua strategia della paura trasformando le elezioni in un referendum. Il voto per il partito del presidente era un voto per la stabilità. Il voto per le opposizioni era un voto per l’insicurezza, per il conflitto permanente. Non per nulla dopo la sconfitta di giugno Erdogan aveva silurato la nascita di un governo di coalizione, aveva ripreso la guerra con i curdi del Pkk, aveva violato la libertà d’informazione e altri diritti civili, aveva assistito dall’alto a una serie di sanguinosi attentati culminati nella strage di Ankara del 10 ottobre dove avevano perso la vita centodue oppositori pacifisti.

E nel contempo Erdogan si era schierato contro l’Isis, da buon alleato Nato aveva concesso il libero uso della base aerea di Incirlik agli Usa, era diventato arbitro dei tentativi negoziali sulla Siria. Un leader che recuperava la sua statura internazionale mentre all’interno mostrava pochi scrupoli nello spaventare gli elettori, aveva molte probabilità di vincere. E così è stato. I tormenti della Turchia, beninteso, non finiscono qui. L’opposizione dei laicisti che invocano Kemal Ataturk non sparirà come non sparirà quella dei curdi pacifisti, la guerra con il Pkk continuerà, l’economia in crisi avrà difficoltà a riprendersi, il rispetto dei diritti civili correrà vecchi e nuovi pericoli. Ma per noi europei la posta in gioco non finisce qui.
Non è più l’ora delle ipocrisie comunitarie.

La verità è che i flussi migratori si stanno rivelando un grimaldello capace di portare l’Unione Europea alla disgregazione sull’altare dei nazionalismi emergenziali o, ancor peggio, etnico-religiosi. E i più destabilizzanti di questi flussi, quelli che seguono la «rotta balcanica» per puntare al cuore del Continente, transitano dalla Turchia. Vengono dalla Siria, dall’Afghanistan e da altre contrade in fiamme. E percorrono la Turchia per poi gettarsi nell’Egeo e tentare di raggiungere le isole greche, territorio della Ue. Chi sopravvive troverà altri ostacoli e tanti muri, ma la chiave che minaccia tutta l’Europa, anche noi italiani che abbiamo a che fare con i flussi dalla Libia, si trova in Turchia. Lì vivono sotto sorveglianza due milioni di profughi, che Ankara può trattenere o incoraggiare a partire. Lì le massime autorità possono rendere più o meno massiccio il passaggio dei nuovi venuti che sognano Berlino o Stoccolma. E di nuovi venuti ce ne sono in abbondanza, soprattutto dalla martoriata regione di Aleppo.

Quando Angela Merkel si recò da Erdogan, il 18 ottobre, furono in molti a pensare che con lei era l’Europa intera che andava a Canossa. La realtà è invece che la Cancelliera tedesca, neofita del decisionismo impopolare, dette allora una nuova prova del suo coraggio politico. Mentre alcuni dei suoi compagni di partito aspettano seduti sulle rive della Sprea, lei ha posto con chiarezza a Erdogan le esigenze di una Europa frammentata culturalmente prima ancora che politicamente. E ha ascoltato le contropartite che il «Sultano» ha chiesto: miliardi di aiuti, visti facili, accelerazione del negoziato di adesione alla Ue. Impegni indispensabili per dare tempo all’Europa e al suo terribile 2017 (elezioni tedesche, francesi e referendum britannico).

Pensando ai suoi valori, quelli che ancora sopravvivono, l’Europa avrebbe dovuto augurarsi una parziale sconfitta di Erdogan e un governo allargato. Pensando ai suoi malanni, l’Europa che Angela Merkel rappresentò ad Ankara il mese scorso ha segretamente tifato per Erdogan. Per la credibilità delle promesse fatte, per la stabilità del potere. Ora che le urne hanno parlato e che Erdogan ha vinto, non è però il caso di esultare. Perché se abbiamo gran bisogno di un autocrate la colpa è soltanto nostra.

(Fventurini500@gmail.com)

2 novembre 2015 (modifica il 2 novembre 2015 | 07:28)
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« Risposta #53 inserito:: Novembre 24, 2015, 06:43:55 pm »

EDITORIALE

L’incerta guerra di Putin
Lo zar Putin sta vincendo, ma questa volta lo zar Putin può perdere.

Di Franco Venturini

Lo zar Putin sta vincendo, ma questa volta lo zar Putin può perdere. Il paradosso è soltanto apparente, perché le stragi di Parigi, al netto delle emozioni del momento, stanno imponendo a tutti una riflessione strategica dall’esito incerto. Come si combatte l’Isis, come si arresta la sua continua espansione geopolitica, come può essere ristabilito un ragionevole livello di sicurezza nelle società che il Califfato ha messo nel mirino puntando alle stragi di massa? La Francia che bombarda Raqqa e chiede solidarietà ai soci europei indica una via che potrebbe non essere soltanto di breve termine.

Ma l’Isis è sofisticato, non bisogna cadere nelle sue trappole ispirate dall’Iraq e dall’Afghanistan. E allora quello che sin qui è stato per il capo del Cremlino un triste successo politico rispetto a noi occidentali può ancora diventare una sconfitta, di sicuro assai più grave del persistente congelamento della crisi ucraina.

I meriti di Putin, quando si parla di Siria e di Isis, vengono da lontano. Disponendo di una intelligence forgiata nei decenni dai rapporti privilegiati tra Mosca e Damasco, il Cremlino denunciò per primo, nel 2011, che gruppi jihadisti molto radicali e molto aggressivi si stavano formando in Siria. Nel 2013, quando un riluttante Obama mandò le sue navi davanti alle coste siriane per sanzionare con i missili l’utilizzo di armi chimiche da parte del regime, furono Putin e Lavrov a togliere le castagne americane dal fuoco strappando a Damasco l’impegno a distruggere il suo arsenale. E molto più di recente, il 30 settembre scorso, Putin prese di nuovo Obama in contropiede aprendo una sua campagna di bombardamenti aerei sulla Siria e suscitando a Washington reazioni almeno inizialmente scomposte.

Peraltro Putin, mentre con una mano premeva il grilletto, con l’altra proponeva all’America e ai suoi alleati di agire insieme contro «gruppi terroristi» spesso e volontariamente mal definiti. Così, nell’attesa di scoprire se Mosca e Washington avrebbero trovato una intesa minima, fu l’Isis a stabilire le regole del gioco con una serie di micidiali attentati volti alla strage indiscriminata, e in ciò molto diversi da quelli parigini di gennaio: la mattanza alla marcia per la pace di Ankara, la bomba sul charter russo da Sharm (ammessa da Putin proprio ieri, per inquadrarla nel clima guerresco del momento), il massacro dimenticato di Beirut, poi Parigi. Il verdetto è parso subito chiaro: l’Isis possiede una forte capacità di decisione e di attuazione, Putin è l’unico ad avere una strategia di risposta.

Una strategia, la sua, che passa anche dalla clamorosa denuncia, in pieno G20, dei finanziamenti che arriverebbero all’Isis da quaranta «entità di Stati» alcuni dei quali membri proprio del G20. Forse Putin ha esagerato come ritengono gli occidentali, forse si riferiva a Stati africani dove sono presenti filiali dell’Isis, forse alludeva alle Repubbliche del Caucaso e dell’Asia centrale, forse voleva ricordare i trascorsi (?) dell’Arabia Saudita e di altre monarchie del Golfo, di sicuro voleva ammonire la Turchia (che però tiene per il collo l’Europa sulla questione dei migranti) per i traffici anche petroliferi che tuttora vi si svolgono. Sta di fatto che il capo del Cremlino ha battuto il pugno sul tavolo molto più forte degli altri.

E allora, se contro l’Isis Putin ci ha preso quasi sempre, se Obama al G20 ha dovuto compiere una clamorosa marcia indietro elogiando i suoi bombardamenti prima definiti «controproducenti», perché il capo del Cremlino oggi vittorioso rischia di perdere domani, come tutti? La risposta è semplice: perché è molto difficile mettere a punto una strategia unitaria ed efficace per battere un Califfato che nel frattempo continuerà a colpire.

Un primo livello di difficoltà (e anche di speranza, s’intende) è quello che è stato affrontato a Vienna e lo sarà ora simbolicamente a Parigi: il tentativo, dopo aver fatto sedere attorno allo stesso tavolo avversari giurati musulmani e non musulmani, di riempire di contenuto la road map che dovrebbe portare in Siria a tregue localizzate (non certo con l’Isis), alla scelta dei gruppi della resistenza da coinvolgere nella trattativa, alla revisione costituzionale, infine alle elezioni e all’uscita di scena di Assad.

Ma per giungere a tanto, occorre superare qualche grosso ostacolo. Trasformare gli acidi sorrisi russo-americani in vera collaborazione, politica e militare. Ottenere dalla Turchia (membro della Nato) un comportamento anti Isis e non anti curdi come quello attuale. Ravvicinare davvero Iran e Arabia Saudita. Far scendere la scure sulla questione dei finanziamenti all’Isis. Rafforzare gli aiuti militari ai curdi, che sono, unitamente alle milizie sciite in Iraq, l’unica fanteria anti Isis esistente in attesa di un ipotetico recupero dell’esercito iracheno. Evitare un crollo del fronte interno europeo provocato dall’abbinamento immigrazione-terrorismo.

Tanti, tantissimi problemi. Ma manca ancora il principale. Se l’Isis accelera la sua campagna stragista, è perché vuole ottenere da un lato la rottura sociale e politica con le comunità musulmane moderate all’interno di alcuni Stati che contano (in Occidente ma anche in Russia), e dall’altro un sentimento di rivolta favorevole a un intervento punitivo di terra. Si tratta di una trappola che dovrebbe esserci nota: alla «crociata» si risponderebbe con la «guerra santa», lo scontro diventerebbe globale, i fronti interni occidentali cederebbero. Nelle stanze dei bottoni oggi si discute piuttosto di bombardamenti più massicci e coordinati, di incursioni di truppe speciali, di intelligence da mettere in comune, di curdi e ancora di curdi, forse di qualche dimostrativa bandiera araba. Così l’Isis può essere battuto in Siria come in Iraq, e formule non troppo diverse cominciano ad essere evocate per la Libia. Sarà una prova straordinariamente difficile. E se sarà vittoriosa, Putin avrà vinto due volte.

18 novembre 2015 (modifica il 18 novembre 2015 | 08:15)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_18/incerta-guerra-putin-02ec0b30-8dc0-11e5-ae73-6fe562d02cba.shtml
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« Risposta #54 inserito:: Dicembre 04, 2015, 06:55:58 pm »


Turchia, migranti e geopolitica
I due patti non detti

Di Franco Venturini

Si direbbe che gli europei, investiti dal flusso incessante dei migranti e colpiti dalla furia stragista dell’Isis, siano pronti a tutto pur di coprirsi le spalle. Come interpretare diversamente l’intesa per il contenimento dei rifugiati conclusa domenica con una Turchia dove non pochi valori fondamentali della Ue vengono sistematicamente offesi dall’autoritarismo democratico di Recep Tayyp Erdogan? E come giudicare altrimenti il patto col diavolo suggerito dal ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, e in forma diversa dalla collega della difesa tedesca Ursula von der Leyen, che propongono di utilizzare contro il Califfato anche le truppe dell’esercito siriano fino a ieri descritte come una banda di massacratori?

Esistono, in entrambi i casi, forti giustificazioni e ancor più forti frustrazioni all’origine dei comportamenti europei. Dei 900.000 migranti che sono entrati quest’anno nella Ue, 600.000 lo hanno fatto attraverso la cosiddetta «rotta dei Balcani» che comincia in Grecia. E il rubinetto di questa rotta lo controllano i turchi, che ospitano già più di due milioni di migranti in massima parte rifugiati siriani e afghani.

Ankara può trattenerli, abbandonarli al tentativo di attraversare l’Egeo, spingerli a farlo, trattarli bene o male. Si capisce perché l’Europa si è sentita una mano turca sul collo. Si capisce che gli europei siano pronti a concedere molto (tre miliardi di euro, abolizione dei visti tra un anno, accelerazione del negoziato di adesione) pur di scongiurare, nel 2017, una Francia guidata da Marine e Marion Le Pen, una Angela Merkel seriamente indebolita, un referendum britannico vinto dagli antieuropei. Per la Ue sarebbe l’inizio della fine. E dopotutto la Turchia non è un Paese alleato, un essenziale membro della Nato?

Tutto vero, ma l’Europa si vuole comunità di valori, non soltanto di interessi. E allora è davvero lecito, in cambio di generiche promesse, infilare sotto il tappeto violazioni clamorose della libertà di stampa e morti misteriose di oppositori dediti alla difesa dei diritti umani? Può lavare tutto, la recente vittoria elettorale di Erdogan? E poi, come non ricordare la battuta che spopolava a Bruxelles quando il negoziato di adesione pareva congelato: se un elefante sale su una barca già in precario equilibrio può darsi che la stabilizzi, ma è più probabile che la barca affondi? Vedremo. Vedremo se come avviene di solito i migranti troveranno altre rotte, se quella via libica che molto ci tocca tornerà alla ribalta dopo esserne in parte uscita, insomma vedremo se lo scambio imposto dalle circostanze funzionerà. Per ora restano dubbi e cattiva coscienza.

Una certa dose di disperazione è presente anche all’origine della sorprendente proposta del ministro Fabius. La maratona diplomatica compiuta da François Hollande, dietro le grandi e sincere manifestazioni di solidarietà, ha avuto risultati concreti molto limitati. Obama ha appena ritoccato la sua linea ben nota. L’apporto militare tedesco è stato «modesto», secondo Le Monde. A Mosca è andato tutto meglio, ma Putin, che aveva appena perso il suo aereo abbattuto dai turchi, ne ha approfittato per chiarire che non pensa più a fondere la sua offensiva aerea in Siria con quella della coalizione guidata dagli Usa. Si può sperare che l’incontro di ieri tra Putin e Obama ai margini del Cop21 produca qualcosa di nuovo, ma nel frattempo la stessa Francia non parla più di «grande coalizione» bensì soltanto di «coordinamento» nella lotta all’Isis, e i negoziati di Vienna sembrano appesi a un filo sottile.

Non basta. Visto che tutti concordano sul fatto che le offensive aeree non riusciranno a sloggiare l’Isis dai territori e dalle città conquistate (oltretutto gli uomini del Califfato sono maestri nel nascondersi nei centri densamente abitati), e visto che a parere di tutti servono truppe di terra per raggiungere l’obbiettivo, quali sono le forze disponibili? I curdi, da soli o alleati ad arabi sunniti secondo una formula americana che trova non poche difficoltà, e le piccole formazioni di ribelli più o meno moderati. Non bastano. Per pensare ai turchi bisognerebbe imbarcarsi in una nuova serie di concessioni ad Ankara di cui farebbero le spese proprio i curdi. Dall’America sono ipotizzabili soltanto piccoli gruppi di incursori. Chi altro c’è su piazza? L’esercito regolare siriano, dice Fabius. Con Assad al comando? Soltanto se ci sarà un governo di transizione, rilancia la tedesca von Der Leyen. E Fabius allora corregge: se ci sarà transizione, assicura, non comanderà più Assad. Forse. Ma il rifiuto sdegnato degli altri, che ne facciamo? E, soprattutto, le truppe si batterebbero per conto dei sunniti o degli sciiti oggi al potere a Damasco?
Da Bruxelles e da Parigi vengono due forti segnali di impotenza e di confusione strategica. L’Isis ha di che esultare. E l’Italia ha di che sperare che sbaglino, i servizi americani, quando prevedono un parziale trasloco in Libia degli uomini del Califfato.

( fventurini500@gmail.com)

1 dicembre 2015 (modifica il 1 dicembre 2015 | 07:56)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_01/i-due-patti-non-detti-1a98abd4-97f3-11e5-b53f-3b91fd579b33.shtml
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« Risposta #55 inserito:: Dicembre 10, 2015, 07:14:38 pm »

Crisi difficile
L’Italia e il rompicapo libico serviranno scelte nette se la mediazione dovesse fallire
In Siria la risposta al califfato di al Baghdadi ha seguito fin dall’inizio un binario militare e uno politico.
Il secondo, più volte invocato, è ogni giorno più paralizzato dal primo

Di Franco Venturini

È la minaccia delle jihad a tenere uniti, come un ponte insanguinato, i due appuntamenti di alta diplomazia internazionale che Roma ospiterà da oggi a domenica. Prima i «Dialoghi mediterranei» organizzati dalla Farnesina e dall’Ispi avranno il compito di ricordare a tutti che per far fronte alle crisi non esistono soltanto risposte militari. Poi, domenica, sarà la volta di un vertice sulla Libia. E così l’orrore appena fatto uscire dalla porta rientrerà dalla finestra con tutto il suo potere deflagrante, che dalla Siria e dal quartier generale dell’Isis disegna un arco di fuoco fino al piccolo califfato di Sirte.

Al presidente del Consiglio Matteo Renzi e al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni va dato atto di questa centralità italiana che non è stato facile ottenere e che sarà difficile conservare. Per l’Italia come per altri, perché le due crisi in questione e i loro complessi collegamenti terroristici e migratori si trovano in uno stato di disgregazione politica e geopolitica che lascia poco spazio alle soluzioni auspicate da Roma e più in generale dall’Occidente.

In Siria la risposta al Califfato di al Baghdadi ha seguito sin dall’inizio due binari, uno militare e l’altro politico. Il secondo, più volte invocato ma in realtà già esistente, è ogni giorno di più paralizzato dal primo. Nel processo di Vienna è indispensabile coinvolgere le formazioni che combattono contro Assad, e si tenta di crearne un elenco? L’Arabia Saudita ricompatta il fronte sunnita ma esclude i curdi invisi alla Turchia, la Russia definisce «terroristi» (e dunque non interlocutori) quasi tutti i nemici di Assad e l’Iran fa altrettanto, l’America prova a salvare il salvabile (lo farà Kerry a Mosca la settimana prossima) ma Obama esita ad alzare la voce. Il binario militare, così, prende fatalmente il sopravvento, ognuno spara e bombarda secondo i suoi interessi, i turchi pensano all’impero ottomano e puntano su Aleppo-Homs-Mosul, Putin vuole garantirsi un ruolo politico durevole in Medio Oriente e assicura di non aver mollato Assad per il dopo-transizione, l’Iran lo tiene d’occhio, gli americani si apprestano a mandare gli Apache in Iraq, promettono distruzione all’Isis e pianificano le battaglie di Ramadi (già in corso), di Mosul e soprattutto di Raqqa, «capitale» dell’Isis. Tutti in Occidente capiscono che la ricerca di una intesa politica sul futuro della Siria è entrata in una fase decisiva e di grande fragilità, non pochi sanno però anche che la lotta all’Isis va comunque fatta, e con mezzi adeguati, perché lì si trova la minaccia più grave e più geograficamente estesa. Accanto alle bombe servono truppe di terra, è il ritornello generale. Toccherà ai curdi (Turchia contraria), a formazioni miste di sunniti siriani e di curdi (patrocinate dagli Usa), a piccoli reparti di truppe speciali occidentali e forse russi? Più zoppica il binario di Vienna, più si rafforza quello militare. E più emerge il conflitto inter-islamico dei sunniti contro gli sciiti, con al suo interno gli interessi dei singoli Stati.

È meritevole, come accadrà da oggi a Roma, ricordare che esiste un terzo binario fatto di conoscenza, di cultura, di propensione al dialogo e alla collaborazione. Se sia anche realistico, saranno i fatti a stabilirlo. Ma è comunque positivo che l’Italia abbia proposto di ospitare, forse in gennaio, un ennesimo tentativo di trovare autentici denominatori comuni nelle presunte coalizioni anti- Isis.

Non sarà molto più lieto, il rompicapo libico che attende il vertice di domenica. La mediazione León è fallita nel peggiore dei modi, alimentando cioè una ostilità verso l’Onu e «gli stranieri» che si è tradotta, paradossalmente, in una mini-intesa tra i parlamenti di Tripoli e di Tobruk. Evento poco significativo nel caos generale, che potrebbe risultare utile unicamente se accettasse di essere complementare agli sforzi del nuovo mediatore Martin Kobler. Ma davanti ai troppi buchi nell’acqua diplomatici si vanno facendo strada due urgenze che verosimilmente avranno il loro peso nell’incontro di Roma. Primo, non si può mediare all’infinito rimanendo ostaggi della frammentazione libica. Secondo, il rafforzamento della testa di ponte dell’Isis a Sirte (destinata a crescere ancora se prenderà corpo un attacco a Raqqa, e già in espansione verso i campi petroliferi) pone problemi di sicurezza immediati, e particolarmente acuti per l’Italia e l’Europa se viene preso in conto anche il flusso dei migranti.

Il vertice, presieduto da Italia, Usa e Onu, cercherà di dare un «impulso decisivo» alla mediazione di Kobler. Sapendo però che se nulla cambierà a Tripoli e a Tobruk si dovrà fare un accordo con chi ci sta, per varare poi una risoluzione dell’Onu sulla stabilizzazione del Paese. In che modo? Lo strumento militare non è il preferito ma non è nemmeno escluso, i nostri alleati si stanno discretamente preparando, e l’Italia, se così andranno le cose, dovrà fare le sue scelte.

fventurini500@gmail.com
10 dicembre 2015 (modifica il 10 dicembre 2015 | 08:37)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_dicembre_10/italia-rompicapo-libico-serviranno-scelte-nette-se-mediazione-dovesse-fallire-364fb1f8-9f03-11e5-a5b0-fde61a79d58b.shtml
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« Risposta #56 inserito:: Gennaio 03, 2016, 06:40:55 pm »

LE TENSIONI
Arabia Saudita e Iran, una miccia accesa nella polveriera della Siria
Dopo che Riad ha giustiziato il leader religioso sciita Nimr Baqer al Nimr

Di Franco Venturini

Annunciando l’esecuzione di quarantasette «terroristi» l’Arabia Saudita ha confermato di essere tra i Paesi del mondo che maggiormente fanno ricorso alla pena di morte, ma ha anche lanciato un devastante siluro. Uccidendo un leader religioso sciita, i sauditi minano gli sforzi internazionali in atto. Gli sforzi della comunità internazionale sono infatti volti ad aprire negoziati tra sunniti e sciiti nella speranza di battere l’Isis e di porre fine alla guerra civile siriana.
Nimr Baqer al Nimr nel 2009 aveva proposto ai suoi seguaci la secessione delle province saudite orientali, quelle più ricche di petrolio.

Si tratta di province abitate da una minoranza sciita che viene sistematicamente discriminata dai sunniti di Riad. Arrestato e condannato lo scorso anno alla decapitazione, si riteneva che la famiglia regnante avrebbe rimandato sine die l’applicazione della sentenza per non inasprire in un colpo solo la crisi siriana e quella yemenita. Invece re Salman ha fatto esattamente l’opposto: ha ucciso il predicatore sciita assieme a veri terroristi provenienti in parte dalle file sunnite di Al Qaeda. Questo, pochi giorni dopo aver riunito sotto le bandiere saudite una larga coalizione di gruppi sunniti che in Siria si battono contro Assad e che dovrebbero, nella seconda metà del mese, cominciare a negoziare con il potere sciita di Damasco.

Le reazioni sono state furibonde, com’era scontato. Dall’Iran è stato promesso di «cancellare la dinastia dei Saud», l’Iraq a guida sciita ha ventilato contromisure, gli sciiti libanesi di Hezbollah hanno annunciato vendetta, e ci sono stati i primi episodi violenti che potrebbero moltiplicarsi nei prossimi giorni. Ma sin d’ora alcuni elementi risultano chiarissimi: è a dir poco debole l’influenza Usa sull’alleato saudita, e il colpo di maglio vibrato contro qualsiasi forma di trattativa o di intesa tra sunniti e sciiti fa compiere un grande salto all’indietro al «processo di Vienna» sponsorizzato appunto da americani e russi assieme all’Onu. L’Iran, attore essenziale per un compromesso, non potrà perdere la faccia. Lo stesso accadrà al governo iracheno tuttora impegnato nella battaglia di Ramadi. A Damasco Bashar al Assad avrà indirettamente più frecce al suo arco, e questo non dispiacerà a Putin e al suo doppio gioco. La lotta contro l’Isis torna alla sua radice, lo scontro tra sunniti e sciiti. Una radice che re Salman si è premurato di rinforzare.

3 gennaio 2016 (modifica il 3 gennaio 2016 | 10:27)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/16_gennaio_03/arabia-saudita-iran-miccia-accesa-polveriera-siria-d8f4827c-b1f9-11e5-829a-a9602458fc1c.shtml
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« Risposta #57 inserito:: Gennaio 09, 2016, 05:33:13 pm »

l’Editoriale

Il rischio da correre in Libia
Ora l’Italia nel paese nordafricano è decisiva per i nuovi equilibri


Di Franco Venturini

L’ orologio libico si è messo a correre e l’Italia deve stare attenta a non perdere il treno. Mentre in Tunisia si tenta di far nascere il nuovo governo di unità nazionale, in Libia l’Isis compie sanguinosi attentati, attacca i terminali petroliferi, allarga a 400 chilometri il tratto di costa che controlla, riceve cospicui rinforzi mobilitati dai siti che il Califfato manovra. Per ora nessuno sembra opporsi alle scorribande dei tagliagole, e c’è già chi ipotizza una prossima offensiva verso Sud per congiungersi con i jihadisti del Mali del Nord come è accaduto tra Siria e Iraq.

Per ora possiamo soltanto prendere nota e augurarci di non aspettare troppo, o troppo passivamente, prima di difendere un nostro essenziale interesse strategico. La conferenza di Roma in dicembre e la firma in Marocco di un accordo per il governo unitario libico sono stati altrettanti successi della diplomazia italiana. Non solo. Ha ragione il ministro Gentiloni quando dice che la Libia non è una palestra per «esercizi muscolari», e ha ragione il premier Renzi quando ricorda i pessimi risultati dell’intervento del 2011 rimasto senza seguiti costruttivi. Anche noi abbiamo ripetutamente avvertito che una missione militare di peace enforcing nel caos libico comporterebbe un grande impegno e grandissimi rischi. Ma essere consapevoli non significa chiudere gli occhi, o ingaggiare duelli retorici tra supposti pacifisti e ipotetici guerrafondai.

I fatti sono chiari. L’Isis si sta rafforzando sull’uscio di casa nostra e sta moltiplicando le sue azioni offensive.

Parallelamente a Tunisi risulta probabile uno slittamento oltre il 16 gennaio della ratifica del nuovo governo unitario già scosso da feroci liti per le poltrone. Passi per il rinvio. Ma se al momento venuto non si riuscisse a insediare il neonato governo unitario in una Tripoli dominata dalle bande jihadiste, se il caos continuasse a tenere banco e nessuna alleanza di forze libiche (questo è lo schema immaginato) avesse i mezzi e la determinazione necessarie per affrontare e battere gli uomini del Califfo, cosa farebbe l’Italia?

Avanzare ipotesi negative non è un eccesso di pessimismo, vengono suggerite dall’esperienza. E comunque l’offensiva dell’Isis modifica radicalmente i dati dell’equazione, ne accelera i tempi, inserisce a pieno titolo la Libia nella cornice globale dello scontro con le milizie di al Baghdadi, rende necessaria la creazione di un deterrente credibile che possa almeno provare a frenare l’Isis mentre la diplomazia continua a lavorare come può. L’Italia, non è un mistero, teme che le mosse del Califfato inducano «qualcuno» (leggasi Francia, Gran Bretagna, e forse Stati Uniti) a non aspettare i tempi infiniti dei patteggiamenti libici e a fermare subito l’Isis con bombardamenti mirati. Si badi bene, mirati contro gli stranieri dell’Isis, non contro questa o quella fazione libica.

Certo, potrebbe verificarsi una reazione nazionalista e antioccidentale di massa. E mancherebbe la richiesta di intervento emessa da un nuovo governo unitario, sebbene talvolta l’urgenza prevalga sulle risoluzioni dell’Onu e la copertura generica del precedente documento del Consiglio di sicurezza possa comunque essere invocata. È una prospettiva, questa, che l’Italia deve sin d’ora respingere e condannare, invocando magari il ruolo svolto da rivalità economiche o energetiche con gli alleati? Non lo crediamo. Mentre continua ad aiutare più di chiunque altro la trattativa per la nascita di un governo unitario, mentre conferma la disponibilità ad una futura missione di sostegno anche militare che vada dall’addestramento alla logistica e ad altre azioni richieste, l’Italia ha ogni interesse a mantenere funzionante il coordinamento con Parigi, Londra e Washington.

Ne va del «ruolo guida» che meritatamente le viene riconosciuto, ma che non potrà farla rimanere semplice spettatrice se l’Isis poggerà ancora il piede sull’acceleratore e punterà a nuove imprese. Ne va della possibilità di recuperare, dopo aver battuto l’Isis, un progetto libico che deve prendere in conto anche la limitazione e il controllo del flusso dei migranti verso le nostre coste. Ne va, in definitiva, del successo o dell’insuccesso della politica estera italiana.

9 gennaio 2016 (modifica il 9 gennaio 2016 | 07:37)
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/16_gennaio_09/rischio-correre-libia-c191d9c6-b696-11e5-9dd6-8570df72b203.shtml
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« Risposta #58 inserito:: Gennaio 09, 2016, 05:39:43 pm »

La crisi in medio oriente
I due volti di Teheran
Le profonde divisioni tra riformisti e conservatori si sono riaccese.
E un Paese che deve stare attento a non esplodere dall’interno non è nella posizione migliore per raccogliere la provocazione saudita

Di Franco Venturini

Offeso e provocato dall’esecuzione in Arabia Saudita del predicatore al Nimr, l’Iran sciita non sembra voler alimentare troppo lo scontro con i sunniti di Riad. L’assalto all’ambasciata saudita a Teheran è stato controllato e poi fermato e la rottura dei rapporti diplomatici tra i due Paesi è stata decisa per iniziativa saudita. La Guida suprema Alì Khamenei ha previsto una «vendetta divina» contro i Saud, formula perfetta per prendere tempo. Gli inviti alla moderazione provenienti dall’America e dall’Europa non sono stati respinti. Forse la potenza sciita teme quella sunnita? Sarebbe illusorio pensarlo. L’Arabia Saudita ha fatto le sue mosse, e se l’Iran non vuole (per ora) portare la tensione alle stelle è per due motivi precisi. Il primo nasce dalla lotta di potere interna in pieno svolgimento a Teheran. Il secondo risiede nella molteplicità di risposte possibili di cui dispone l’Iran nell’ambito della lotta all’Isis, in Siria e in Iraq.

Dopo la conclusione dell’accordo sui programmi nucleari iraniani nel luglio scorso, i più ottimisti pensarono che la prospettiva della revoca delle sanzioni avrebbe agevolato un processo di pacificazione politica a Teheran. Invece è accaduto che le profonde divisioni tra riformisti e conservatori, tenute a bada dall’ambiguità di Khamenei durante la trattativa con l’ex Satana americano e i suoi alleati, sono riesplose dopo l’intesa se possibile con ancor maggiore virulenza. La fazione moderata del presidente Rouhani è stata accusata di filo-occidentalismo. Una parte maggioritaria della società composta da giovani l’ha però sostenuta, accendendo ulteriormente lo scontro con i settori tradizionalisti guidati dai Pasdaran.

Come altre volte la Guida suprema Khamenei ha allora usato i suoi poteri per congelare lo scontro ricordando implicitamente a tutti che l’Iran ha bisogno, se non vuole precipitare in una crisi economica ancor più grave, della fine delle sanzioni occidentali e di tornare a esportare liberamente il suo petrolio (con buona pace dei prezzi sul mercato, altro motivo di acredine verso l’Arabia Saudita). Un Paese che deve stare attento a non esplodere dall’interno non è nella posizione migliore per raccogliere la provocazione confessionale e strategica di Riad. Ha invece interesse a meditare con calma le sue rivincite, ma in realtà proprio le lotte interne potrebbero fornire nuove occasioni ai poteri iraniani più oltranzisti. Non a caso gli unici a chiedere un «castigo immediato» dell’Arabia Saudita sono stati prima i Guardiani della Rivoluzione e poi l’esercito regolare, confermando e allargando il tentativo non nuovo dei militari iraniani di accrescere il loro già notevole peso che riguarda anche settori chiave dell’economia. Khamenei dovrà continuare a mediare, e di nuovo non scontentare troppo gli uomini in divisa nel grande gioco mediorientale oggi dominato dalla guerra all’Isis e dal conflitto siriano.

L’Iran è più intransigente della Russia nel sostenere lo sciita Assad a Damasco, e sarà difficile riportarlo, ammesso che ci sia mai riuscito, ad intavolare un vero dialogo con il fronte sunnita nell’ambito della prossima fase del «processo di Vienna». Reparti speciali iraniani operano in Siria assieme agli sciiti libanesi di Hezbollah, e sono stati a lungo, prima dei bombardamenti russi, il principale sostegno di Bashar al Assad. Inquadrate e guidate dagli iraniani sono anche le milizie sciite che si battono contro l’Isis in Iraq, ma il loro impiego viene limitato dal governo di Bagdad (per esempio a Ramadi) per evitare che dopo una vittoria, come è accaduto a Tikrit, scatti la caccia al sunnita.

Senza l’Iran o contro l’Iran, insomma, sarà molto difficile battere l’Isis e sarà impossibile pacificare la Siria. Il guaio è che lo stesso può essere detto dell’Arabia Saudita, e del rassemblement di gruppi sunniti che ha appena tenuto a battesimo. Ed è per questo che le conseguenze dell’uccisione di al Nimr possono riportare all’essenza, cioè alla lotta di predominio tra sunniti e sciiti, il fenomeno Isis e le guerre siriana e irachena.

4 gennaio 2016 (modifica il 4 gennaio 2016 | 09:06)
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Da - http://www.corriere.it/esteri/16_gennaio_04/i-due-volti-teheran-70e4bc7c-b2b9-11e5-8f58-73f8cf689159.shtml
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