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« inserito:: Aprile 27, 2008, 07:06:28 pm » |
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Verdone: «Francesco avanti tutta...ma ricomincia dalle periferie»
Toni Jop
Location: Roma, strada qualunque. Bordi della strada intasati di macchine parcheggiate. Poi, accanto, macchine in seconda e anche terza fila, ferme come le altre. Gruppo di romani che si arrabbiano: aho! ma chi so’ ‘sti stronzi che parcheggiano in seconda fila? E il Comune cheffà? Secondo ciak: arrivano i vigili: multe a ciuffi. E i romani che si arrabbiano: aho! Ma che stanno a fa’: nun se po’ vive’, lasciatece vive’ co ste multe. Silenzio, prego: è Carlo Verdone che ha chiuso gli occhi e sta proiettando un set mentale, per sintetizzare questa Roma di oggi.
«Visto? - spiega - Non mi sono inventato niente: il fatto è che qui, oggi, nessuno fa un passo indietro, non si usa più. È per questo che, in fondo neanche tanto, questa strada romana è la metafora di un’Italia cinica e arrogante così bisognosa di un uomo forte, o che le appare forte; un paese che ha bisogno di un regime e lo dice anche; non sai quanta gente me lo confida che ci vuole il regime. Vuol dire che stiamo vivendo un tilt delle relazioni e delle istituzioni, brutta storia». Verdone è un visionario, come Fellini e pochi altri poeti del cinema, e quelle sue visioni sono spugne di una realtà esplosa che sugli schermi ritrova finalmente una logica, un senso finalmente leggibile dagli altri, quando accettano di diventare «pubblico» di una sala cinematografica. Sono visioni utili, quasi degli specchi davanti ai quali si può ridere, ma ridiamo di noi e del paradosso che interpretiamo senza accorgercene nella vita di tutti i giorni. Tuttavia, Verdone è soprattutto un romano. Che vuol dire? Bisognerebbe chiedere a Sordi cosa vuol dire essere romano, perché è lui che ha passato lo scettro di questa soggettività unica a un ragazzone di genio che sembra contenere tutti i caratteri di una romanità sempre più espansa, sofferente, concentrato di nuova italianità, se esiste l’italianità.
Già: Carlo, esiste l’italianità? «Non so. Mi chiedo se esiste l’Italia, almeno come comunità. È una questione storica con grandi riflessi politici. Se me lo domando... ecco ho dei dubbi che oggi esista questa comunità, magari c’è stata un tempo. Al tempo della Tv degli Agricoltori, al tempo di Mario Riva, di Mike Bongiorno, di padre Mariano... Ma oggi, dopo quella unità televisiva, siamo a pezzi mi pare. Ciascuno naviga come può, per la sua strada, in un mare di degrado morale. Mi dispiace non essere spiritoso, adesso, ma la vedo troppo buia...».
Torniamo alla scenetta dell’inizio. Lì ci sono molti elementi in gioco. C’è la morale ma c’è anche il territorio, il luogo fisico della vita che sembra dettare le leggi di questa morale; non sarà che ora si nasce stronzi e una volta no... «Infatti, l’ambiente urbano, in questo caso, conta molto. E chi lo sapeva che le strade romane si sarebbero intasate anche di macchinette per i quindicenni? Magari bisognava fare come hanno fatto altre capitali che si sono dotate di tanti garage. Prendi Londra: lì hanno deciso che non si entra con l’auto in centro sennò son dolori. Tutti buoni e avanti così. Prova a pensarla qui una cosa del genere: una rivoluzione, non ci va bene niente e sai perché?».
Ciascuno ha la sua risposta, vediamo la tua... «Perché siamo stati educati molto male da chi ci rappresenta, da chi ha potere. La strafottenza nasce da là, noi prendiamo appunti e ci comportiamo di conseguenza: se lo fanno loro, lo facciamo anche noi. E via col disastro. Del resto, chi ce li ha messi milioni di esseri umani in quelle periferie che sono le peggiori d’Europa? Come cavolo cresci in quei posti, cosa fai della tua vita tra quei palazzoni orrendi, in quel clima deprimente, abbandonato?»
Sei d’accordo con Fuksas, che il nocciolo più tosto di questo paese oggi sono le periferie, e cioè tutta la città che non sta nel centro? «Di più. Voterò Rutelli, questo è sicuro. Ma gliel’ho già detto e glielo ripeto: dai retta alle periferie, è lì che nasce tutto, concentrati sulle periferie. Di mio butterei giù tutto e ricostruirei di sana pianta quel merdaio che ha distrutto vite e coscienze di un numero immenso di deportati dal centro nel corso dei decenni e ammassati fuoricampo. A marcire senza dar troppo fastidio, loro, che erano gli interpreti di quello splendore di città che si parlava da un balcone all’altro, che si proteggeva di portone in portone, che si malediceva a voce alta e poi si pacificava al bar o al tavolo imbandito per la strada. Che Roma, quella. Finita in una brutta trincea dove regnano la diffidenza, l’insicurezza, la lite da condominio: sono questi sentimenti i padroni del campo, oggi, gli stessi che governano il voto...».
Purtroppo mi pare che hai ragione. Però ho il morale sotto i tacchi: nessuna consolazione? «Bisogna essere onesti: dopo l’era del disastro democristiano (erano loro che costruivano quelle sfilate di cemento che poi chiamavano case) qualcosa è cambiato. È cambiato ancora, dopo quell’altra “era Carraro”, con Rutelli e Veltroni. E la gente lo sa. La cultura, per esempio. Sembra aria ma non lo è, questo la destra fa fatica a capirlo, anzi forse è un problema di cromosomi politici, la destra non ha quelli giusti. Ma la sinistra sì, farà tutti gli errori che vuoi ma lì non sbaglia. L’immagine della città è una buona immagine, checché ne dicano adesso gli altri in campagna elettorale. L’Auditorium è stata una intuizione felice: stacca più biglietti di qualunque altra istituzione culturale nel mondo. Ma in periferia... lì il tempo non passa e per una volta non è cosa buona... regnano incuria e disordine, niente disturba questo potere...»
Sarà per questo che la destra, così cieca davanti alle questioni culturali, rischia di portarsi via anche Roma? «Consegnare pure Roma a una destra che ha già tutto quanto... vediamo di starci attenti, non va bene. E che destra! Però ce la siamo meritata, troppi errori, troppi...»
A cominciare da che? «Dall’indulto. Per salvare due persone di qua e due di là, altro che buonismo e sensibilità verso i carcerati: solo per salvare il culo a quattro persone, ecco il messaggio che si è lanciato, al di là delle belle parole...».
Non sarà che ci meritiamo di perdere anche Roma, vero? Perché non sarei d’accordo... «Dico la verità: non so come andrà a finire. So che devono essere stoppati, che non vanno bene per niente, men che meno per una città aperta, grande, viva come Roma. So che mi fanno paura, sono così vicini agli angoli bui della nostra storia, sono così nostalgici di quel buio che... speriamo, speriamo...».
Dicono che loro riporteranno la sicurezza ai romani... «Dicono, dicono ma quando mai lo hanno fatto? E dove? Non è con l’autoritarismo figlio di un senso di superiorità nei confronti dei nuovi arrivati che si affronta il problema, per esempio, dei romeni. Sbagliano già in partenza, con quel tono, con quella voglia di creare categorie umane legate alla geografia. Ma va là. La stragrande maggioranza di questa gente è brava gente, bravissima benché sia vissuta in un paese da pazzi in cui a sera Ceausescu diceva: cari rumeni, adesso andate tutti a nanna perché domani dovete lavorare... Domanda: ma chi ce lo toglie il nobel dei delitti più efferati a noi italiani? Non ci va di ricordarlo ma è così. Fortuna che Rutelli tutto questo lo sa; sa anche che ci vuole autorevolezza, questo sì, e fermezza, che bisogna educare e convincere tutti...»
Anche i romani? «A cominciare dai romani. Ma nel modo giusto, ma lui lo sa fare, senza lo stile dell’uomo del destino, dell’uomo forte, di quello lì, Berlusconi. Dovremo inventarci un’altra civiltà, credo, e le sberle che abbiamo preso forse ci aiuteranno. Spero che da un male possa nascere un bene. Deve essere così».
Pubblicato il: 27.04.08 Modificato il: 27.04.08 alle ore 14.53 © l'Unità.
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