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Autore Discussione: ALDO RIZZO.  (Letto 12635 volte)
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« inserito:: Aprile 24, 2008, 09:08:39 am »

23/4/2008
 
Se il cavaliere ridimentica l'Europa
 
ALDO RIZZO
 

L’Europa chiama l’Italia e l’informa che il successore di Frattini quale commissario alla Giustizia sarà il francese Jacques Barrot. A Antonio Tajani, verosimile sostituto del futuro ministro italiano degli Esteri, andrebbero i Trasporti, non meno importanti, ma meno legati ai «diritti umani». È comprensibile il rammarico di Prodi d’essere informato a cose fatte di decisioni così delicate, ma è sperabile che questa storia insegni qualcosa anche a Berlusconi, che con l’Unione Europea, anche per la sua alleanza con la Lega, non ha mai avuto un rapporto lineare. Subito dopo la vittoria elettorale, Berlusconi, ha detto che la sua prima missione all’estero sarà in Israele. Niente da eccepire sulla visita, tanto più che dovrebbe coincidere col sessantesimo anniversario dello Stato ebraico. È anche comprensibile che il presidente del Consiglio «in pectore» voglia dare subito l’impressione di un nuovo tono nel rapporto politico con Gerusalemme, appannato da certe asprezze polemiche di Massimo D’Alema (pur nel contesto di una linea sul Medio Oriente più equilibrata di quanto non sembrasse).

E tuttavia, sorprende che Berlusconi abbia voluto riservare la sua prima missione ufficiale a un Paese extraeuropeo, per quanto amico, e non a uno dei grandi Paesi dell’Ue, cioè dell’area politico-istituzionale, oltre che economica, di cui siamo parte. O direttamente a una sede comunitaria, tipo il Parlamento europeo. Questo è quanto, di solito, fanno gli altri membri dell’Ue, per non parlare di Francia e Germania, pur tra gli alti e bassi del loro «rapporto speciale». E in questo contesto va visto anche l’incontro, subito organizzato, con Putin in Sardegna, in quella Villa Certosa che già lo ospitò nel 2003 e che successivamente fu sede di una vacanza estiva delle due figlie. E va da sé che sia stato entusiasta anche il saluto, questo telefonico, ma ribadito in una pubblica dichiarazione, di George W. Bush. Il quale ha ancora pochi mesi di mandato pieno, ma li ha, e comunque Berlusconi disse una volta che per lui l’America ha sempre ragione, chiunque sia a guidarla. Quanto a Putin, è anche lui in uscita, a brevissimo termine, come Presidente, ma sarà primo ministro, con poteri molto forti, e dunque il Cavaliere avrà il vantaggio di essere, anche formalmente, un suo pari grado (e intanto hanno già parlato di Alitalia...).

Anche in questo ritrovarsi tra vecchi amici non c’è naturalmente nulla di male, e avere brillanti relazioni personali con i leader delle maggiori potenze è un qualcosa in più rispetto a chi ne ha di normali, o meno. Ma bisogna dissipare l’impressione che, dopo una terza e più netta vittoria elettorale, e con un’esperienza di governo ormai quasi storica, Berlusconi stia riproponendo la sua vecchia politica estera, che non ci ha resi molto popolari in Europa, generalmente parlando, e anzi ci ha svantaggiati. In sintesi, una politica estera che ha, almeno tendenzialmente, «saltato» l’Europa, cercando un improbabile ruolo globale, di fatto affidandosi a rapporti privilegiati con due potenze esterne all’Ue, come gli Stati Uniti e la Russia, e credendo con questo di acquisire un prestigio e un potere contrattuale da far valere «dall’alto» con gli stessi partner europei. Così non è stato, anzi abbiamo subito la diffidenza dei partner maggiori, con l’eccezione, per loro utilità, della Gran Bretagna di Blair e della Spagna pre-Zapatero. In sostanza, ci siamo autoesclusi dalla corrente «centrale», da quello che in inglese si chiama «mainstream», dell’integrazione europea.

Intendiamoci, se si parla di Europa non bisogna pensare al sogno antico, e alla retorica lungamente seguita, del Superstato che ci mette tutti insieme alla pari: ora, per dire, svedesi e ciprioti, tedeschi e maltesi, francesi e lettoni. Il sogno antico resta come orizzonte, credo necessario, ma la realtà attuale è quella di una potente area geoeconomica e anche geopolitica, nella quale, proprio per la vastità raggiunta, c’è bisogno di un gruppo di testa che, pragmaticamente, indichi le priorità e i mezzi relativi, di fronte a un’incombente crisi mondiale. Un tale gruppo già c’è, al di là dell’«ideologia» europeista, ed è formato da Germania, Francia e Gran Bretagna. Altri candidati sono la Spagna e forse la Polonia. L’Italia dovrebbe starci di diritto. Ma solo se sarà capace, questo diritto, di farlo valere. Agendo in Europa. Il che non significa compromettere rapporti ottimali con Russia e America, e con lo stesso Israele, ma anzi rinsaldarli, in quanto membri partecipi e autorevoli di una comunità e di un potere diffusi.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Agosto 13, 2014, 06:53:39 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 23, 2008, 10:43:41 am »

23/6/2008
 
Turchia, l'altro fondamentalismo
 
ALDO RIZZO
 

Nei rapporti tra militari e classe politica, gli studiosi distinguono fondamentalmente tre casi: la dittatura vera e propria, il regime di «tutela militare» e, naturalmente, il regime costituzionale, nel quale le Forze Armate possono tutt’al più essere un gruppo di pressione, ma sempre sottoposte al potere politico. Storicamente, dopo la nascita della Repubblica nel 1923, la Turchia ha conosciuto i primi due casi, ma soprattutto il secondo, cioè il regime di tutela militare, che ha finora impedito il pieno realizzarsi del terzo, quello della normalità democratico-costituzionale. È una vecchia storia, che in questi giorni si sta ripetendo, con prospettive più allarmanti del solito, anche sul piano internazionale. Le conseguenze di una grande crisi istituzionale ad Ankara investirebbero, oltre al processo di adesione, o di avvicinamento, della Turchia all’Unione europea, la questione curda e i suoi riflessi nel già tragico Iraq, il futuro di Cipro, dove finalmente è in atto un serio dialogo tra le comunità turca e greca, e lo stesso scenario arabo-israeliano, dove albeggia la possibilità di una storica intesa tra lo Stato ebraico e la Siria, proprio in virtù della mediazione del primo ministro turco, Tayyip Erdogan.

Il tema della crisi è quello, ormai abituale, della laicità dello Stato, e non viene agitato solo dai militari, ma anche dalla maggioranza dei giudici e dall’opposizione parlamentare, che si considera l’erede diretta di Kemal Atatürk, il fondatore della Repubblica. Ma tutto avviene sempre sotto lo sguardo arcigno degli Alti Comandi, pronti a minacciare il ricorso a mezzi estremi, del resto messi in atto più volte. A innescare questa nuova e potenzialmente drammatica fase del confronto è stata la decisione del governo (che si usa definire, e in effetti è, «islamico moderato»), e della sua larga maggioranza in Parlamento, di consentire alle studentesse d’indossare il velo nelle aule universitarie. S’intende: di consentire, non di obbligare. Quasi all’unanimità, la Suprema Corte ha rigettato la decisione, vedendovi un passo verso la «sharia», cioè verso la legge, religiosa e politica insieme, tipica delle teocrazie musulmane. Non solo, ma in questa chiave è stata ventilata l’ipotesi di mettere al bando il partito Akp («Giustizia e sviluppo») e di escludere da incarichi politici i suoi maggiori esponenti, compreso Erdogan e lo stesso Capo dello Stato Abdullah Gul. Un’ipotesi che dovrebbe sciogliersi in autunno.

E in che modo? Eliminando un partito che, appena un anno fa, ha ottenuto il 47% dei voti popolari? O costringendolo a ritirare le sue leggi? Il partito al potere potrebbe esigere nuove elezioni, che certo vincerebbe, magari con un nuovo nome. E, in tal caso, i militari passerebbero all’azione? L’Akp, va detto, non è esente da sospetti sulla sua laicità, al di là del velo delle studentesse. In questo senso, lo stesso Erdogan ebbe in passato guai, diciamo, giudiziari. Ma l’evoluzione del partito da radici fondamentaliste a forme conciliatorie tra religione e Stato laico appare indubbia, così come la sua intenzione di approdare, certo per gradi, alle regole della società politica europea. Addirittura l’Economist ha affermato che il governo Erdogan «ha fatto più riforme liberali e con maggior successo di ogni precedente governo laico».

E dunque comincia una specie di corsa contro il tempo, per sapere se quella che, nonostante tutto, è una delle poche, forse la sola, sia pure imperfetta, democrazia di fede islamica potrà sopravvivere a una prova di forza interna come quella che si annuncia, preservando un’importante funzione esterna, geopolitica. E qui, per noi europei occidentali e liberali, si prospetta un bel problema, quasi un paradosso. Dobbiamo sostenere le forze ostentatamente laiche, e occidentalizzanti, militari compresi, o dare un comprensivo appoggio agli «islamici moderati»? Certamente occorrono garanzie da ambo le parti. Ma, forse, il fondamentalismo laico (una teocrazia atea?) è, in questo caso, il pericolo maggiore.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Agosto 04, 2008, 09:45:37 am »

4/8/2008
 
Convivere con la bomba
 
 
 
 
 
ALDO RIZZO
 
Sessantatré anni dopo Hiroshima e Nagasaki (6 e 9 agosto 1945), e quando ben sette Paesi si sono aggiunti agli Stati Uniti come possessori di armi nucleari, formando una specie di G8 dell’Apocalisse (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza più India e Pakistan e, pur senza averlo mai ammesso, Israele), e con nuovi casi ancora aperti come la Corea del Nord e soprattutto l’Iran, siamo ancora in tempo a fermare la corsa alla Bomba e, addirittura, a cominciare a lavorare sul serio all’idea di un mondo senza più l’incubo della strage atomica? Dicono di sì, purché ci si affretti, cinque personalità italiane che hanno sottoscritto un appello comune, quattro politici di diversa e anzi opposta estrazione (Massimo D’Alema e Gianfranco Fini, Giorgio La Malfa e Arturo Parisi) e uno scienziato, Francesco Calogero, da sempre attivo per il disarmo nucleare.

Il tema è di una complessità senza paragoni. Già nel 1946, un anno dopo le terrificanti esplosioni sul Giappone, gli Stati Uniti offrirono, col piano Baruch, la possibilità di porre sotto un controllo internazionale l’uso della nuova e rivoluzionaria energia, ma si oppose Stalin, che aspettava solo il momento in cui anche l’Urss avrebbe avuto la Bomba, equiparandosi alla superpotenza occidentale. Era l’alba della Guerra fredda, ma poi disporre dell’arma atomica, dell’arma assoluta, divenne un’aspirazione diffusa, perché era vista come il simbolo estremo, definitivo, della stessa, propria, sovranità politica, e dell’equilibrio strategico tra questa e altre sovranità, oltre che come strumento eccezionale, in senso tecnico, di autodifesa. Col tempo, si capì che l’equilibrio (sia pure «del terrore») tra due superpotenze politicamente responsabili era altra cosa da una proliferazione di armamenti atomici nazionali, in aree instabili. Lo stesso Kissinger firmò, nel gennaio 2007, con altri importanti esponenti della politica estera americana, un appello a pensare a un mondo senza armi nucleari, appello a cui si sono riferiti, rilanciandolo, dopo altri in altri Paesi, i firmatari del documento italiano. Fondamentalmente, i destinatari di questi appelli sono quelle che restano le due superpotenze militari, gli Usa e la Russia post-sovietica, detentrici dei nove decimi degli armamenti atomici mondiali: se esse non prenderanno l’iniziativa di una vera e drastica riduzione dei rispettivi arsenali, inducendo gli altri sei membri del «club» a fare altrettanto, sarà sempre più difficile impedire che un numero crescente di Paesi coltivi l’ambizione nucleare. Del resto, questa condizione, con altre, era già prevista, in sede Onu, dal Trattato per la non proliferazione (Tnp), purtroppo assai poco rispettato.

Un commento a tutto questo è venuto, sul Corriere della Sera del 28 luglio, da Emanuele Severino (e non è la prima volta che un filosofo, lo stesso Severino o altri in altri Paesi, già Norberto Bobbio sulla Stampa, contendono agli esperti militari l’analisi di un tema che, al di là degli aspetti tecnico-strategici, investe il futuro dell’umanità). Severino solleva un’obiezione radicale: le due superpotenze non rinunceranno mai allo strumento della loro superiorità sul resto del mondo, alla loro «invincibilità», non è mai successo nella Storia. Piuttosto, ciascuna nella sua area d’influenza può impedire la «proliferazione», ricreando quelle condizioni di equilibrio che salvarono la pace nella Guerra fredda. Se il primo concetto può sembrare (ma non è) troppo pessimistico, il secondo è forse troppo ottimistico. Quel che è certo è che un mondo senza armi nucleari è purtroppo un’utopia, perché la Bomba, l’arma assoluta, non potrà mai essere «disinventata». Bisogna conviverci. Ma senza mai rimuoverne il problema, e a questo servono gli appelli. Naturalmente adoperandosi anche e molto per allentare le tensioni politiche, sempre foriere di tentazioni militari. Ciascun Paese, Italia compresa, può e deve fare la sua parte.
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Agosto 13, 2008, 11:02:16 am »

13/8/2008
 
Medio Oriente l'arbitro resta l'America
 
 
ALDO RIZZO
 
E’ passato circa un mese da quando, a Parigi, il primo ministro israeliano Olmert e il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen affermarono che «la pace non è mai stata così vicina». Esultanza di Sarkozy, che vedeva i primi frutti della sua «Unione per il Mediterraneo», ma soddisfazione, o almeno un senso di rinvigorita speranza, in tutto l’Occidente. Certo, i precedenti invitavano alla prudenza, la pace era sembrata molto vicina già nel 1993, con la stretta di mano tra Rabin e Arafat sul prato della Casa Bianca, e ancor più sette anni dopo, nello stesso luogo, nell’incontro tra Barak, nuovo premier israeliano, e ancora Arafat, senza che vi fossero conseguenze apprezzabili. E tuttavia si poteva pensare che questa volta qualcosa si stesse davvero muovendo, anche per la decisione della Siria di stabilire per la prima volta relazioni diplomatiche col Libano, evidentemente non più considerato un protettorato di Damasco. E in quel momento persino l’Iran sembrò offrire una qualche apertura nel cruciale negoziato sul suo programma nucleare. Dopotutto, si pensò, anche le crisi più dure e intrattabili, a un certo punto, cominciano a finire.

Un mese dopo, siamo rientrati nella disperante «routine» di sempre. Il nodo di Hamas, che controlla Gaza, e senza il cui apporto non può esserci alcuna pace in Palestina, si fa sempre più drammatico, anche per l’insorgere di aspri contrasti al suo interno, ma non sono migliorati neppure i rapporti tra Israele e i moderati dell’Anp, se Olmert ha dichiarato che nessun accordo è prevedibile entro il 2008, come sperava Bush. Lo stesso Olmert sta per lasciare il governo, travolto da accuse giudiziarie, e se il suo successore dovesse essere il falco Netanyahu, o anche l’attuale viceministro della Difesa, Mofaz, l’unica cosa da attendersi è un irrigidimento di Israele, non solo verso i palestinesi, ma anche verso la Siria e l’Iran. Mofaz, ma anche il suo capo, Barak, altro possibile successore di Olmert. Sono sempre più frequenti le «fughe di notizie» su piani di attacco israeliano ai siti nucleari iraniani, anche se si spera che sia solo uno strumento di pressione, mentre non si è certo alleggerita la situazione libanese, nonostante il «riconoscimento» siriano.

Detto tutto questo, e sempre che la situazione non precipiti da qui alla fine dell’anno, bisogna concludere che la «patata bollente» della crisi mediorientale, nei suoi vari aspetti, tornerà per l’ennesima volta nelle mani di un Presidente degli Stati Uniti, il prossimo. L’ennesima volta vuol dire la dodicesima, perché il successore di George W. Bush sarà il dodicesimo capo della Casa Bianca, da quando l’Onu decise la spartizione della Palestina, subito rifiutata dagli arabi, col seguito di guerre a ripetizione col neonato Stato d’Israele. E sempre, quale più e quale meno, i Presidenti degli Usa hanno avuto, tra le priorità strategiche, il tormentoso caso del Medio Oriente, diventato un po’ il simbolo, un po’ la radice vera, delle turbolenze planetarie, terrorismo compreso. Truman, Eisenhower, Kennedy, Johnson, Nixon, Ford, Carter, Reagan, Bush padre, Clinton, Bush figlio, una storia il cui succo è che la superpotenza occidentale, poi diventata l’unica vera superpotenza, paragonata ai grandi imperi del passato, non è mai riuscita a imporre una «pax americana», tuttavia rispettosa, per essere efficace, dei fondamentali diritti delle parti in causa. Troppa benevolenza verso Israele? Troppa intransigenza «identitaria» dalla parte araba e islamica? Un «mix» delle due cose? Benché i rapporti di forza nel mondo stiano cambiando, nessuno come il futuro capo della Casa Bianca (anche per la sempre labile presenza europea) ha il potere di dire e fare, finalmente, qualcosa di nuovo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Agosto 26, 2008, 11:15:40 am »

26/8/2008
 
Il settembre nero del dopo-Bush
 
 
 
 
 
ALDO RIZZO
 
Non è un settembre facile, quello che si annuncia per l’America e per l’Occidente. Se, infatti, la crisi georgiana è lungi dall’essere risolta, e anzi conosce asprezze crescenti, c’è un’altra crisi, un altro fronte, non meno, se non ancor più inquietante, che tocca, tra Afghanistan e Pakistan, il nervo scoperto della lotta al terrorismo islamista. Le due crisi sono indipendenti, ma fino a un certo punto.

La crisi georgiana e caucasica è più appariscente, perché ha fatto subito tornare in mente la vecchia Guerra fredda, il quarantennale confronto-scontro tra l’Occidente e la Russia sovietica. E le ultime mosse di Mosca non sembrano fatte per allontanare quel ricordo. Le dure parole anti-Nato del presidente Medvedev, il voto della Duma, controllata dal partito di Putin, per un riconoscimento russo delle regioni separatiste della Georgia. Non allentano la tensione le repliche di Washington, da Bush a Rice e al vicepresidente Cheney (un falco non pentito, neanche dopo l’Iraq), che il 2 settembre andrà a dare sostegno, a Tbilisi, al leader (imprudente) della Georgia, Saakashvili.

L’altra crisi, quella afgana, colpisce meno la fantasia mediatica, perché non certo improvvisa, ma lunga di anni. Ma proprio la sua durata e il suo progressivo peggioramento, accentuatosi nelle ultime settimane, e negli ultimi giorni, la impongono all’attenzione internazionale con una forza che non può essere minore di quella per il Caucaso. Gli insuccessi sempre più evidenti della coalizione occidentale, gli eccidi di civili, certo involontari, ma che alimentano il consenso degli estremisti e di Al Qaeda. Lo stesso Karzai, l’uomo di Washington e della Nato, il simbolo della sperata rinascita democratica, che prende le distanze dai suoi stessi «sponsor». E, ad aggravare il tutto, la fase, a dir poco, d’incertezza apertasi, dopo Musharraf, nel Pakistan, retrovia cruciale della guerra afghana, a sua volta decisiva per la lotta al terrorismo. La relazione tra le due crisi, quella georgiana e quella afghano-pachistana, è nel fatto che sia la Russia che l’America - nonostante la mediazione europea, a torto definita velleitaria - rischiano di compromettere quelli che dovrebbero essere,e finora sono stati, sforzi comuni contro un nemico comune. La guerra fredda attorno a Tbilisi è guerra calda, caldissima, attorno a Kabul. Una brutta eredità per il dopo-Bush.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Settembre 16, 2008, 05:35:37 pm »

16/9/2008
 
Europa forte tra Iran e Israele
 
 
 
 
 
ALDO RIZZO
 
Domani, con le «primarie» del partito Kadima, finisce la stagione di Ehud Olmert, come primo ministro e leader del partito, che Ariel Sharon aveva fondato con successo come alternativa centrista alla destra del Likud. In conseguenza, si apre una fase di grande incertezza per Israele e per tutto il Medio Oriente, e non solo. Perché il cambio di potere a Gerusalemme, con tutte le difficoltà e le lungaggini di una democrazia autentica ma frammentata, si avvia in una fase di estrema tensione nell’area, ma soprattutto coincide col vuoto politico ormai in atto negli Stati Uniti, fondamentale riferimento dello Stato ebraico, tra le ultime settimane di Bush e la problematica scelta del suo successore. Può derivarne, per scatti improvvisi o calcoli errati, un aggravarsi istantaneo della crisi mediorientale, cruciale per tutto il mondo, in aggiunta a quella del Caucaso, del che non si avverte certo il bisogno. Forse non è azzardato pensare che per l’Unione europea si apra un’altra occasione di far sentire una sua specifica presenza, ora in chiave preventiva, dopo la prova, non decisiva ma utile, fornita nella guerra russo-georgiana.

Le primarie di Kadima nascono dalle dimissioni obbligate di Olmert, braccio destro di Sharon e poi suo successore, ma travolto da gravi accuse giudiziarie, di tipo finanziario. Una sua frase famosa è stata: «Sono orgoglioso di vivere in una democrazia in cui il primo ministro può essere indagato dalla polizia». Orgoglio legittimo, e per certi versi esemplare, ma che non lo ha salvato da una richiesta formale d’incriminazione. Ora il problema è: chi prenderà il suo posto, che tipo di governo può uscirne, fors’anche dopo nuove elezioni generali, e soprattutto che tipo di consenso resta tra i vertici israeliani, rispetto alle questioni «esterne», durante la transizione «interna».

Mercoledì 10 settembre, si è svolta una riunione, dapprima tenuta segreta, poi ammessa come fatto di «routine», tra il premier dimissionario e altri membri del governo, tra cui il ministro degli Esteri, Tzipi Livni, considerata dai sondaggi la più forte aspirante alla successione, il ministro della Difesa, il laborista Ehud Barak, il ministro dei Trasporti e già capo di Stato maggiore Shaul Mofaz. Quest’ultimo è il più accreditato rivale della Livni per Kadima. Barak e il leader dell’opposizione di destra, Benjamin Netanyahu, potrebbero risultare vincenti in caso di elezioni generali. Tutti e tre, in varia misura, sono giudicati più duri della «diplomatica» Tzipi. Comunque, il tema della riunione era il programma nucleare iraniano. A ciò vanno aggiunte varie voci di attacco alle centrali atomiche di Teheran, approfittando appunto della pausa elettorale americana, e ancor più nella previsione che sia Obama a vincere, per mettere il candidato democratico di fronte al fatto compiuto (in estrema ipotesi, col beneplacito di Bush?). Naturalmente, vale anche il contrario, che sia la controparte islamica estremista (Iran, Hamas, Hezbollah, «ambienti» siriani) a sfruttare sia la pausa americana, sia la transizione israeliana.

Possono essere scenari immaginari, anche se non di fantapolitica, perché la fantasia, in Medio Oriente, ha più volte superato la realtà. In ogni caso, è sperabile che questi mesi passino senza traumi gravi. Ma che si stia creando una situazione potenzialmente molto critica, è fuor di dubbio. E qui è l’occasione per l’Ue di fare qualcosa di concreto per monitorare e raffreddare la tensioni, dando una nuova prova d’influenza moderatrice sul mondo che la circonda. Naturalmente rinnovando la capacità di esprimersi unitariamente, e sapendo o capendo che i progressi si fanno sui fatti, nelle occasioni giuste, ancor più che con i trattati diplomatici, pur necessari.
 
da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 29, 2008, 10:12:01 am »

29/9/2008
 
Tre questioni per gli uomini della Farnesina
 
 
 
 
 
ALDO RIZZO
 
E’ davvero senza precedenti questa sorta di autoanalisi della nostra politica estera, affidata a tredici personalità che l’hanno guidata, pressoché ininterrottamente, negli ultimi trent’anni. Da Arnaldo Forlani, titolare della Farnesina dal 1976 al 1979, all’attuale ministro, Franco Frattini. Dalla Prima Repubblica alla Seconda, quando forse se ne annuncia già una Terza. Dal pieno della Guerra fredda, semplice nel suo antagonismo ideologico, al mondo ipercomplicato e in buona misura imprevedibile seguito al crollo del Muro di Berlino. Dunque un’occasione unica per rievocazioni e analisi, concordanti o dialettiche, di eventi spesso epocali, e del ruolo che vi ha svolto l’Italia.

Credo che ci si attenda la risposta, per quanto possibile, a tre domande. 1) La nostra politica estera è stata sempre lineare e coerente? 2) Qual è stata l’influenza sulla diplomazia delle vicissitudini della politica interna? 3) Dopo un trentennio convulso, denso di svolte storiche, l’Italia ha oggi una politica estera condivisa, almeno sulle grandi linee, e anche per questo all’altezza delle incognite gravi che pesano sul nostro futuro?

Circa la prima questione, va detto che abbiamo garantito la nostra sicurezza e anche il nostro sviluppo all’ombra, o alla luce, di due scelte fondamentali, mai rinnegate: la scelta atlantica (la Nato) e quella dell’integrazione europea. E tuttavia non sono mancate occasioni in cui siamo parsi adagiati su quelle decisioni, ormai scontate, rinunciando a compiti propositivi. Oppure, li abbiamo assunti, ma in maniera almeno un po’ ambigua, sentendoci comunque al riparo, ma suscitando qualche dubbio tra i nostri maggiori alleati (nella politica mediterranea, negli stessi rapporti col mondo sovietico, nella costruzione europea). Episodi, ma meritevoli di riflessione.

Quanto alla politica interna, essa ha ovviamente influito, e non poco, su quella estera. Dapprima con la contrapposizione netta tra filoatlantici e filosovietici, poi, già trent’anni fa, appunto, con l’evoluzione del Pci berlingueriano, espressasi in Parlamento con l’appoggio al governo Andreotti. Il «consociativismo» interno appannò la linearità delle scelte esterne? Comunque, dopo la tragedia di Moro, contro il parere del Pci, tornato all’opposizione, l’Italia (Cossiga, Spadolini, Craxi) aderì al Sistema monetario europeo e accettò gli euromissili americani. Prima Repubblica. Con la «discesa in campo» di Berlusconi, cominciò la Seconda, all’insegna del bipolarismo e dell’alternanza, e ci fu, forse per la prima volta esplicitamente, una «discontinuità» della politica estera, soprattutto riguardo all’Unione Europea e al suo «nucleo» franco-tedesco.

Dura tuttora? Il terzo governo Berlusconi - dopo due fasi intermedie di centrosinistra, che hanno visto Prodi e Ciampi portare la lira nella moneta unica europea e l’ex comunista D’Alema affiancare la Nato nella guerra per il Kosovo - sembra reso più prudente dall’esperienza, ma certo non ha perso le sue ambizioni di novità. Il premier sarà comunque il protagonista di questo «ciclo d’incontri». Si ascolteranno i suoi argomenti e quelli dei suoi, altrettanto autorevoli, interlocutori. La speranza è che, in una fase estremamente difficile per il mondo intero, prevalgano in Italia i punti d’intesa tra gli schieramenti, e che il primo tra questi sia la definitiva identificazione con l’Europa, al di là della quale non c’è spazio per una politica realistica. Chiunque sia, poi, a vincere le elezioni in America, o a esercitare il suo potere in Russia.

Con la prolusione del ministro degli Esteri Franco Frattini (oggi alle 16,30 presso l’aula magna dell’Università Bocconi di Milano, con Mario Monti, Paolo Savona, Emilio Colombo e il saluto di Letizia Moratti, Filippo Penati e Roberto Formigoni) si apre il ciclo di incontri «I ministri degli Esteri raccontano: l’Italia e il mondo negli ultimi trent’anni», organizzato dalla Fondazione Ugo La Malfa e dalla Bocconi. Per altri 12 lunedì porteranno la loro testimonianza altrettanti protagonisti che si sono avvicendati alla Farnesina, da Forlani a Cossiga, da Colombo a Andreotti, De Michelis, Martino, Susanna Agnelli, Dini, Ruggiero, Berlusconi, Fini e D’Alema.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Ottobre 07, 2008, 12:39:21 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #7 inserito:: Ottobre 07, 2008, 12:38:55 pm »

7/10/2008
 
La Russia "nemica"? Risposta sbagliata
 
 
 
 
 
ALDO RIZZO
 
Che strane risposte hanno dato i cittadini dei cinque maggiori Paesi dell’Ue (Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Spagna) alle domande di Harris Poll per il Financial Times sul dopoguerra tra Russia e Georgia. In maggioranza hanno indicato la Russia come la più grande minaccia alla stabilità globale, dopo la Cina (in testa nelle rilevazioni precedenti), ma davanti a Iran, Iraq e Corea del Nord. Però alla domanda se non fosse il caso di aumentare le spese per la sicurezza, gli stessi intervistati hanno risposto di no, per non distogliere risorse dai programmi sociali interni. Addirittura, in Italia, Spagna e soprattutto in Germania, si sono detti contrari a un intervento Nato se i tre Paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) fossero attaccati da truppe di Mosca.

Non si possono fare le prediche ai sondaggi, com’è inutile farle ai terremoti. Questo non è un terremoto, ma è un’indagine affidabile e i risultati sono inquietanti. Rivelano una drammatica contraddizione nella «percezione» europea della situazione internazionale. E cioè: la Russia di Putin-Medvedev è una minaccia incombente, ma noi dobbiamo pensare ai nostri fatti interni. Questo, dopo un intervento finalmente unitario dell’Ue nella crisi caucasica, mentre la superpotenza americana è distratta dal lungo passaggio di presidenza. Si tratta di opinioni di cittadini, non dell’azione dei governi, ma in democrazie reali come quelle europee l’interscambio tra elettori ed eletti genera la «realtà politica». Allora va detto che entrambe le risposte al sondaggio Harris-FT sono errate. È sbagliato dire che la Russia, nonostante la nuova aggressività, peraltro frutto di pesanti disattenzioni dell’Occidente, sia oggi più pericolosa della situazione irachena o delle ambizioni iranianee. Putin già valuta i contraccolpi dell’operazione Georgia, tra la sfiducia creata negli investitori esterni e le emergenti difficoltà economiche interne, nonostante la potenza energetica, da una parte, e l’isolamento diplomatico all’orizzonte, dall’altra. Il silenzio della Cina e dei suoi partner asiatici, le manovre della Turchia nel Caucaso islamico e non solo (Armenia), l’atteggiamento indipendente della Serbia, valgono più dei ricorrenti rimbrotti di Bush o di Rice, mentre anche le contromanovre in favore dell’Iran non possono comportare che una Teheran nucleare diventi un grande polo di contestazione musulmana ai confini sud-orientali della Russia postcomunista o neozarista. I giochi di guerra nei Caraibi con i populisti locali sono solo inutili punture di spillo. Il ritorno al dialogo con l’Occidente è per il Cremlino una via obbligata. Sempre che non s’intenda forzare la partita su Ucraina e Georgia, volendole presto nella Nato.

Ma non per questo - ecco perché è sbagliata anche la seconda risposta - l’Ue deve rinunciare ad accrescere la propria sicurezza, anche militare. Solo un’Europa forte può compensare la dipendenza energetica da Mosca, e svolgere un compito di mediazione e controllo sui tic neoimperiali, favorendo il necessario dialogo. Ciò che è riuscito finora a Sarkozy, oltre che presidente di turno dell’Ue, capo di una Francia decisionista e potente.
 
da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Ottobre 28, 2008, 09:40:45 am »

28/10/2008
 
Afghanistan ultima chiamata
 
 
 
 
 
ALDO RIZZO
 
S’intensificano gli attacchi e gli attentati degli insorti afghani contro la forza multinazionale e anche contro obiettivi civili e operatori umanitari. Una guerra che, fino a un paio di anni fa, sembrava avviata verso una lenta vittoria (con la benedizione delle Nazioni Unite, che l’avevano autorizzata subito dopo l’11 settembre) ora suscita preoccupazioni sempre più profonde. Se dovesse concludersi con la sconfitta degli americani e della Nato, e della stessa Onu, e col ritorno al potere dei Taleban e dei loro alleati di Al Qaeda, il disastro politico non sarebbe inferiore al dramma economico che ancora incombe sull’Occidente, e non solo, dopo le tempeste finanziarie, esse stesse inconcluse.

Il pessimismo è diffuso. Ha cominciato a farsi sentire in modo esplicito, qualche settimana fa, con le dichiarazioni dell’ambasciatore di Londra a Kabul e del comandante del contingente britannico, secondo solo a quello degli Usa. Le prime reazioni americane sono state decise, anche aspre, si è parlato di un «disfattismo inglese» (accusa ingiusta per un Paese meno di altri privo di coraggio e di determinazione nei conflitti armati). Ma poi, a Washington, è stato il capo degli Stati maggiori riuniti, l’ammiraglio Mike Mullen, a entrare nel coro dei pessimisti, o meglio dei realisti, prevedendo un 2009 ancora peggiore dell’anno in corso. E a suo conforto è intervenuta la bozza di un rapporto congiunto di sedici agenzie d’intelligence americane.

Sono vari i problemi che giustificano questa sensazione di una «downward spiral», cioè di una spirale in discesa, verso il peggio. Sul piano strettamente militare, gli attacchi aerei della Nato, che accompagnano le controffensive sul terreno, uccidono più civili che terroristi, o a volte soldati afghani, con ciò stesso alimentando il rancore delle popolazioni, che finiscono per simpatizzare con gli insorti. I quali, sempre più spesso, accompagnano le azioni di guerriglia con attacchi suicidi di tipo iracheno. E, a proposito di Iraq, visto che lì le cose, almeno in apparenza, vanno un po’ meglio di prima (tuttavia il blitz americano oltre il confine siriano sta aggravando le tensioni), vari Paesi, Usa in testa, hanno deciso di spostare in Afghanistan un po’ di truppe. Fanno quello che avrebbero dovuto fare già cinque anni fa, concentrando gli sforzi a Kabul, invece di ammassarli in un’inutile corsa a Baghdad. Ma ora, paradossalmente (secondo il New York Times), sono i «combattenti» islamici, che si ritrovano meno impegnati in Iraq, a precipitarsi in Afghanistan, prima ancora che arrivino i rinforzi occidentali.

Si sta cercando di correre ai rimedi, e non solo sul piano militare (la Germania ha deciso di aggiungere mille soldati ai 3500 già presenti). Vitale è anche la lotta alla coltivazione e allo smercio dell’oppio, dal quale i Taleban ricavano non meno di 100 milioni di dollari l’anno. E i ministri Nato della Difesa hanno finalmente raggiunto un accordo per attaccarne, per quanto possibile, i «siti». C’è poi, altro fattore gravissimo, la corruzione endemica della burocrazia afghana, che mina alla radice la credibilità del governo filo-occidentale di Hamid Karzai (alla vigilia di nuove, precarie, elezioni). Estremo rimedio, o estrema ipotesi, il tentativo di un accordo con i Taleban «moderati», o con i capi tribali più disponibili, per interesse, a un cambio di campo, a fianco di un rafforzato esercito nazionale. Tutti questi rimedi, teoricamente ineccepibili, hanno dei limiti pratici.

Si vedrà. Quel che è certo è che questo è un estremo tentativo di salvare l’Afghanistan dal ritorno a un intollerabile passato (nel quale maturò l’attacco epocale alle Torri Gemelle). Insomma, Kabul, ultima chiamata. Per gli americani, ma anche per gli europei, ancora divisi nell’impegno sul campo, pur se non, alla fine, nei rischi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Dicembre 13, 2008, 05:09:21 pm »

13/12/2008
 
Le svolte di Klaus e Obama
 
 
ALDO RIZZO
 
Col vertice europeo di dicembre si è praticamente chiusa l’era di Nicolas Sarkozy, mentre sta per cominciare quella di Barack Obama. Naturalmente, le due cose non sono comparabili. L’era che comincia riguarda la Superpotenza malata e la speranza che il nuovo presidente riesca a guarirla dai suoi guai, conseguentemente alleviando quelli del resto del mondo. L’era che sta per finire è solo quella della presidenza di turno francese dell’Unione europea, alla quale Sarkozy ha dato un particolare e inconsueto spessore. Eppure un nesso c’è, ed è reso più forte e inquietante dal fatto che alla guida dell’Ue subentra, dal primo gennaio, il suo membro quanto meno più contraddittorio, la Repubblica Ceca di Vaclav Klaus.

Obama è la svolta che tutti sappiamo. Semmai, la si è caricata di troppe attese. Ci si aspetta da lui non solo un attacco costruttivo, e in prospettiva decisivo, alla crisi economica, ma anche la soluzione, in tempi prevedibili, dei più acuti problemi politici internazionali, dal Medio Oriente all’Afghanistan, dai rapporti con la Russia alla definizione di uno stabile equilibrio con la Cina, per non parlare del terrorismo. Ma, proprio per questo, non potrà fare tutto da solo, avrà bisogno di partner impegnati e affidabili, e il primo tra questi dovrebbe essere l’Unione europea.

Sarkozy, come presidente di turno dell’Ue, ha dimostrato che l’Europa può essere un tale partner, non succube né rivale dell’America, capace di una sua autonomia, da mettere al servizio di fondamentali interessi comuni. Quasi mezzo secolo dopo il vano appello di Kennedy alla «equal partnership», Sarkozy ha saputo far valere la voce europea in circostanze difficili, dalla guerra russo-georgiana all’esplodere della crisi finanziaria, in questo secondo caso facendo leva sulla zona dell’euro e ad essa quasi cooptando la sterlina di Gordon Brown. Ha fatto questo superando difficoltà istituzionali dell’Ue, che tuttavia restano.

Restano e ora rischiano di essere esaltate dalla presidenza di turno della Repubblica Ceca. Questo Paese relativamente piccolo, di 10 milioni di abitanti, sul quasi mezzo miliardo dell’Ue, ha come capo di Stato quel Klaus del quale l’americana «Herald Tribune» ha pubblicato nei giorni scorsi, in prima pagina, un ritratto estremamente critico, a riprova che le preoccupazioni non sono solo europee. Come presidente della Repubblica, Klaus non ha poteri politici effettivi, ma, a parte il fatto che il primo ministro, Mirek Topolanek, è del suo stesso partito, il personaggio sembra avere una grande diretta influenza sul Paese. Economista ultraliberista, padre di una drastica riconversione dell’economia ceca dopo il comunismo, ha sul tavolo una foto di Margaret Thatcher, considera la difesa del clima «un mito pericoloso», nel 2005 definì l’Ue una costruzione di carta e ha accusato di «irresponsabile protezionismo» le iniziative per il salvataggio del sistema bancario europeo. Non gli è riuscito di far giudicare incostituzionale il Trattato di Lisbona, per poterlo definitivamente affondare, ma non si è certo arreso.

Si può anche sperare che, alla prova dei fatti, un tal quale pragmatismo infine prevalga a Praga, nei sei mesi di presidenza. Per evitare che l’esordio di Obama coincida clamorosamente con una regressione politica europea. Ma il rischio resta, così come resta la giusta pressione di Sarkozy per stabilizzare di fatto il potere decisionale dell’Ue, soprattutto attraverso l’Eurozona, il cui sviluppo, anche politico, nella perenne attesa di unanimità istituzionali, sempre più appare la condizione dell’avvento di un motore europeo. Col necessario concorso di Germania e Italia, in primo luogo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Marzo 14, 2009, 03:35:02 pm »

14/3/2009
 
Obama alla partita del Bosforo
 

ALDO RIZZO
 
Si prepara la scelta del nuovo segretario generale della Nato e ci sono obiezioni della Turchia sul premier danese Anders Fog Rasmussen per non aver punito nel 2005 i responsabili delle vignette inutilmente offensive verso Maometto, che provocarono aspre reazioni nel mondo islamico. Le obiezioni non sembrano di tipo religioso, ma di opportunità politica, pensando ai molti contatti che il futuro capo della Nato dovrà avere con musulmani, specie riguardo a quell’Afghanistan che della Nato rappresenta oggi il problema più grave. E, in questa chiave, c’è qualche comprensione da parte americana, anche alla luce della strategia di Obama, volta a dividere il fronte talebano, cercando un dialogo con la sua parte più moderata e non legata a Al Qaeda.

Verosimilmente, la questione sarà già stata risolta, proprio per una qualche inattaccabile intesa turco-americana, in un senso o in un altro, quando il presidente degli Stati Uniti arriverà in Turchia, ai primi di aprile. Visita di cui il portavoce di Hillary Clinton (propiziatrice della missione) ha ribadito una ben più ampia importanza. Infatti Obama ha scelto la Turchia - storico membro della Nato, ma anche potenza regionale in proprio, nonché Paese islamico e democratico - per rivolgere da lì un appello all’universo musulmano per una stagione di dialogo, approfondendo un auspicio che era già nel discorso d’«inaugurazione» del 20 gennaio.

Ora, però, ci si può chiedere se la visita di Obama, oltre che un appello all’Islam e un omaggio alla Turchia, non sia anche, se non uno «schiaffo», un monito all’Unione europea che, pur con eccezioni, mostra di sottovalutare il ruolo di Ankara in una posizione geopolitica di decisivo rilievo e non fa molto, o nulla, per incoraggiare i suoi sforzi di rispondere in pieno ai criteri di ammissione alla struttura comunitaria. Da questo punto di vista, la situazione è la seguente. Alla vigilia di elezioni amministrative nazionali, che si terranno il 29 marzo, il governo islamico-moderato di Tayyip Erdogan può esibire, pur nella crisi mondiale, una buona tenuta dell’economia turca, che fa presa anche tra elettori tradizionalmente laici e nella stessa, cospicua, minoranza curda. Questa, a lungo osteggiata, ha ottenuto un canale tv nella propria lingua e il progetto d’una facoltà universitaria autonoma. È stato avviato un dialogo con i curdi iracheni, anche per isolare le correnti estremiste e terroristiche.

Quanto all’altro tabù, ormai storico, della repressione degli armeni nella prima guerra mondiale, è stata appena pubblicata una ricerca che testimonia la «scomparsa» di circa un milione di persone. Il saggio è nelle librerie di Ankara e Istanbul, qualcosa d’impensabile, secondo l’autore (turco) Murat Bardakci.

Certo, molto resta da fare, nella legislazione garantista, anche verso l’invadenza dei militari, ma molto è stato fatto. Naturalmente, in assenza di riscontri europei, prende corpo, polemicamente, il «faremo da noi». Anche in politica estera (raffreddamento con Israele, approccio all’Iran e all’Islam «radicale», sia pure in chiave moderatrice). E tuttavia, non dimenticando l’Europa, per la prima volta è stato istituito un ministero votato al problema del negoziato di adesione all’Ue.

L’Obama atteso in Turchia è lo stesso che ha invocato una comunità d’interessi tra America ed Europa. E dove, se non sul Bosforo, tra due continenti e due mondi, questa può meglio manifestarsi? L’alternativa è una testa di ponte tutta americana, con contraccolpi «islamisti» tutti europei.

da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Aprile 28, 2009, 05:56:52 pm »

28/4/2009
 
Razzismo, sventiamo Durban III
 
ALDO RIZZO
 
Dopo la conferenza dell’Onu a Ginevra sul razzismo, si continua a discutere se l’esito sia stato migliore di quanto alcuni temessero, se abbiano avuto ragione i presenti o gli assenti, e così via. Ma sarebbe meglio sperare che non ci siano altre conferenze di questo tipo, e che l’Onu trovi altri modi di combattere il razzismo. Il vertice ginevrino è stato definito Durban II, pensando all’analoga conferenza che si tenne in Sud Africa otto anni fa. In realtà, questa riunione planetaria (o quasi) era la quarta nel suo genere. Le prime due si svolsero nel 1978 e nel 1983 e già allora gli Stati Uniti non parteciparono, per la manifesta tendenza della maggioranza (Paesi arabi e Terzo mondo) a farne l’occasione d’una messa sotto accusa dell’Occidente e in particolare di Israele .A Durban nel 2001 le cose non andarono meglio. La vigilia fu dominata dalla richiesta arabo-palestinese di paragonare il sionismo al razzismo (benché un’infausta dichiarazione in tal senso dell’Assemblea generale dell’Onu fosse stata sepolta da una marea di proteste e revocata) e dalla domanda di «compensazione» di diversi Paesi africani, in particolare agli Stati Uniti, per la tratta degli schiavi di alcuni secoli fa. La seconda (volendo prescindere dal contesto storico e dai decisivi progressi della condizione degli «schiavi», in un’America che aveva combattuto una sanguinosa guerra civile per la loro liberazione, e che stava per avere, come oggi ha, un Presidente di origine africana) poteva anche apparire in qualche misura plausibile, mentre la prima, per quante critiche politiche si potessero e si possano fare ai governi israeliani, consisteva nel riproporre una provocazione assoluta. E tuttavia, sia pure in termini in parte diversi dalla famigerata risoluzione dell’Assemblea generale, rimase nel documento finale un’esplicita e dura condanna dello Stato ebraico.

È nel ricordo di Durban I che gli Stati Uniti e altri Paesi, tra i quali Italia e Germania, oltre naturalmente a Israele, non hanno accettato di partecipare alla Durban II. Ma ci si continua a chiedere se questa volta non sia stato diverso, se non abbiano avuto ragione i presenti a contrastare un altro esito infausto, e se il documento finale non sia poi migliore del previsto. Può darsi. La specifica condanna di Israele questa volta non c’è, anche se la si ritrova implicita nel richiamo ai risultati della Durban I. E ci sono apprezzabili impegni sul piano generale, per la parità e la dignità delle persone. Ma ciò non basta per benedire questo tipo di riunioni. Intanto è da vedere, con giustificato scetticismo, quale esito pratico avranno gli impegni presi o le promesse fatte da Stati non certo famosi per la tutela dei diritti umani e civili, mentre resta la possibilità che si offre ai leader più esagitati ed estremisti di farsi la loro propaganda, magari a uso interno. E, più generalmente, c’è un clima di confronto, che porta a divisioni (anche all’interno di gruppi omogenei come l’Unione europea) più che alla concorde ricerca della soluzione migliore.

Insomma, anche se la Durban II è stata meglio, o meno peggio, della Durban I, speriamo che non ci sia una Durban III. Nel senso, certo, che non ce ne sia più bisogno. Ma, se il bisogno ci sarà, perché il razzismo, un po’ ovunque, non cesserà di colpo, esistono altri rimedi. Sul piano dei principi da rispettare, non c’è già la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’Onu nel 1948 e ribadita e aggiornata cinquant’anni dopo? E, se uno o più Paesi non ne tengono conto, non è meglio che l’Onu stessa intervenga sui casi specifici, con le opportune sanzioni? Invece di celebrare alla pari, di fatto, buone e cattive intenzioni, in megaconferenze, nel migliore dei casi, compromissorie.
 
da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Giugno 01, 2009, 09:34:16 am »

1/6/2009
 
La strage senza fine dei Tamil

 
ALDO RIZZO
 
Ultime notizie dallo Sri Lanka. Brutte notizie. Il governo di Colombo è sotto accusa internazionale, dopo che il Times di Londra ha diffuso dati e immagini a dir poco inquietanti sulla strage di civili nell’ultima fase dell’offensiva contro i guerriglieri Tamil. Le vittime sarebbero 20 mila, tre volte le stime precedenti. E tuttavia il governo continua a esaltare la vittoria, specie dopo che i guerriglieri superstiti hanno finalmente ammesso la morte del loro capo carismatico, Velupillai Prabhakaran, mentre il Consiglio dell’Onu per i diritti umani non è riuscito, a Ginevra, ad approvare la richiesta europea di un’indagine sui comportamenti bellici. Non solo. Il governo continua a parlare, più in generale, di una vittoria storica sul terrorismo, quasi sottintendendo che i suoi metodi possono rappresentare una lezione anche altrove. Brutte notizie.
 Quando le operazioni militari erano praticamente finite, il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, è volato a Colombo e ha incontrato il presidente Mahinda Rajapaksa, chiedendo che l’esito del conflitto non comportasse sofferenze e dolori evitabili, per le centinaia di migliaia di civili incappati tra gli opposti fronti. E anche auspicando, naturalmente, che dalla guerra si passasse, si tornasse, alla politica, cioè a una soluzione equa di ventisei anni di sanguinosi contrasti. Altre organizzazioni internazionali hanno subito parlato di catastofe umanitaria, domandando l’accesso ai campi profughi, per un’assistenza indispensabile. Ma la risposta del governo singalese è stata tutt’altro che incoraggiante.

Le questioni umanitarie sono purtroppo intrinseche, in misura spesso tragica, ai conflitti interetnici. Concettualmente più complessa è la questione politica. Lo Sri Lanka è l’ex Ceylon, l’isola a Sud dell’India, diventata indipendente nel 1948, non senza la prospettiva di essere anch’essa una democrazia, con un’economia promettente. La sua tragedia è stata quella della minoranza Tamil, minoranza etnica e anche religiosa (perché induista e in parte islamica, mentre è buddista la maggioranza singalese), la quale chiedeva, com’è naturale in questi casi, una qualche forma di autonomia amministrativa. Invece, nel 1972, la Costituzione, addirittura, ne ridusse i diritti, e così, quattro anni dopo, nacque l’Ltte, che vuol dire «Tigri per la liberazione della patria Tamil». Un’organizzazione guerrigliera, presto passata a forme estreme di terrorismo, in coincidenza (un ben noto circolo vizioso) con l’irrigidimento del potere centrale. Nel 1983 cominciò la vera e propria guerra civile, costata decine di migliaia di morti.

Ci fu una pausa nel 2002, che lasciò ben sperare. Non fu molto rispettata da nessuna delle parti, ma complessivamente durò cinque anni. La soluzione era ovvia: rinuncia al secessionismo, concessione di autonomie importanti. Ma prevalsero i duri, rappresentati nel potere centrale dall’attuale presidente, che ora si vanta di essere riuscito, come pochi o nessun altro al mondo, a vincere un terrorismo su larga scala.

Senonchè lo ha fatto usando esclusivamente la forza, via via costringendo le Tigri a battaglie campali, su aree delimitate, dove la potenza dell’esercito era imbattibile. E lo ha fatto, anche o soprattutto, ignorando la distinzione essenziale tra due terrorismi (benché entrambi condannabili per le loro azioni): quello legato fondamentalmente a motivi etnico-nazionali, e quindi mirante a un obiettivo negoziabile, e quello ispirato da odio ideologico e fanatismo religioso. Così Rajapaksa ha vinto la sua guerra, ma non può pensare di aver fornito una lezione di metodo. La sua è una lezione sbagliata. Che porterà, in un tempo più o meno breve, al riproporsi del conflitto, con una più ampia parte della popolazione Tamil a sostegno del suo nucleo estremista. A meno che a Colombo, dopo l’esaltazione del successo militare, non arrivi davvero, come ora si promette a parole, il momento della saggezza politica. Ma sarà molto duro vincere, oltre alla guerra, i rancori profondi degli sconfitti.
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Giugno 17, 2009, 03:05:54 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #13 inserito:: Giugno 17, 2009, 03:05:39 pm »

17/6/2009
 
Corno d'Africa polveriera del mondo

 
ALDO RIZZO
 
Siamo tutti preoccupati per l’Iran, e anche per la Corea del Nord, e per altri punti nevralgici di un mondo che non ha certo conosciuto la «fine della Storia», come si era ipotizzato, giusto vent’anni fa, dopo la caduta del Muro di Berlino. Ma dobbiamo pensare anche all’Africa o, più esattamente, al Corno d’Africa (Somalia, Eritrea, Etiopia), dove è in incubazione, anzi è già maturata, una crisi geopolitica e «georeligiosa» che potrebbe raggiungere un livello afghano o iracheno. In circostanze diverse, ma con analoghi, gravissimi, rischi.

L’Africa non è tutta uguale, ed è ovvio. Ci sono Paesi come l’Angola e altri, dotati di fonti energetiche e di materie prime, sui quali piovono investimenti stranieri, pur se dall’esito incerto. E c’è il Sud Africa, Paese leader, non certo privo di problemi interni, ma capace di organizzare e ospitare, da qui all’anno prossimo, eventi sportivi e mediatici d’interesse planetario. Ma poi c’è il Darfur, e c’è il Corno d’Africa, appunto, la cui situazione non è più un fatto locale, una tragedia locale, ma supera i confini del Continente, per porsi come un simbolo del «nuovo disordine mondiale».

Epicentro del sisma, politico e umanitario, è la Somalia, la cui capitale, Mogadiscio, è stata definita dalla rivista americana Foreign Policy «il posto più pericoloso al mondo». La Somalia è il modello perfetto di quello che i politologi chiamano lo «Stato fallito». E infatti è privo di qualsiasi parvenza di un’autorità legittima, in grado di esercitare un potere anche modesto. Anche se dal gennaio scorso esiste un governo provvisorio (il quindicesimo!), il Paese è in balia di bande irregolari, etnico-criminali o ideologico-religiose, nelle quali prevalgono, soprattutto nelle città e soprattutto nella capitale, gli «Shebaab», estremisti islamici legati o simpatizzanti per Al Qaeda, che arruolano e armano, col pretesto di sottrarli alla miseria, ragazzi di 14-15 anni. È una guerra civile dai confini indefiniti, perché è mutevole anche la composizione delle bande, e la loro coesione interna. L’unica cosa certa è che il valore della vita umana è pari allo zero. E, come se non bastasse, le coste somale sono le basi di quell’incredibile fenomeno che è il ritorno della pirateria, anch’esso in una rissosa cogestione tra criminali e «alqaedisti».

La tragedia somala, almeno in quest’ultima versione, di caos incontrollabile, data dal 1991, dalla caduta del dittatore Siad Barre, succeduto al regime stalinista di Menghistu. A fermarla, non ci è riuscito nessuno. Né gli americani, né gli europei, né l’Onu. Ci ha provato nel 2006, con un successo iniziale, l’Etiopia, per due terzi cristiana, preoccupata dalla presa di potere, che per una volta era parsa stabile, pur nell’estremismo «talebano» delle regole, da parte delle Corti Islamiche. Ma, sconfitte le Corti, anche con l’appoggio aereo americano, è subito cominciata un’eterogenea ma efficace guerriglia contro il grande e odiato vicino, neanch’esso, del resto, un modello di legalità e di democrazia. E gli etiopi si sono ritirati, lasciando via libera al caos.

Ma Corno d’Africa vuol dire anche Eritrea, che con la Somalia ha in comune l’odio per l’Etiopia, dalla quale si è resa non da molto indipendente, e che di suo ha un regime che l’Economist ha definito vicino a quello della Corea del Nord. Senza ambizioni nucleari («almeno quello»), ma con un esercito esorbitante, che fornisce aiuti vari ai ribelli somali di ogni categoria, e forse anche ai pirati. Insomma, un angolo di mondo niente male. Se in esso, com’è possibile, dovessero alla fine prevalere i meglio organizzati, cioè gli uomini di Al Qaeda, avremmo già disponibile, sulle cruciali rotte dell’Oceano Indiano, un’alternativa all’Afghanistan, ove ce ne fosse bisogno. Forse, al riguardo, si poteva fare una domanda a Gheddafi, presidente di quell’Unione africana che ha in Somalia 4000 uomini impotenti.
 
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« Risposta #14 inserito:: Luglio 01, 2009, 11:14:40 am »

30/6/2009
 
G8 in crisi di identità
 
 
ALDO RIZZO
 
Il G8, di cui siamo ormai alla vigilia, è il 35esimo della serie, inaugurata nell’ormai lontano 1975 a Rambouillet, nei pressi di Parigi. Allora era solo un G6, diventò G7 l’anno dopo, con l’ingresso del Canada, e poi, per gradi, G8, con la Russia postsovietica. Era ed è definito il vertice dei Paesi più industrializzati. Che però, nel frattempo, sono assai cresciuti di numero. La domanda, un po’ provocatoria, è se la 35esima edizione non possa essere l’ultima. E se la scelta di una sede come L’Aquila, centro di un devastante terremoto, non possa assumere - al di là e contro le apprezzabili intenzioni solidaristiche e umanitarie - il valore di un simbolo negativo, per la storia di queste riunioni. Di fatto, non da oggi, il G8, come ora si chiama, vive una crisi d’identità. Nato come vertice esclusivamente economico, si è progressivamente arricchito di temi politici, e da «conversazione davanti al caminetto», cioè del tutto informale, è diventato un megaevento mediatico, parallelamente ponendosi come obiettivo facile, e quasi insperato, dei movimenti di contestazione «no global».

Peraltro, senza che mai arrivasse a poter prendere decisioni concrete e vincolanti, pur essendo, in più di un’occasione, un utile luogo di confronto e di raccordo. Ma, soprattutto, la crisi d’identità è dovuta al fatto che le potenze industriali (e più generalmente economiche, cioè anche finanziarie, tecnologiche, ecc.) non sono più soltanto le sette o le otto, diciamo, istituzionali. Si sono aggiunti Paesi come la Cina e l’India, e anche il Brasile, il Messico, il Sud Africa, e altri. Come affrontare temi cruciali di ordine economico, ma anche geopolitico e strategico (per esempio, la proliferazione nucleare, che ora ha i suoi punti nevralgici nella Corea del Nord e nel drammatico Iran...), senza il loro apporto? Si è corsi ai ripari invitando i loro rappresentanti, ma come ospiti, sia pure di riguardo, fermo restando che il tavolo vero continuava ad avere sette o otto posti. E anche quest’anno, nella presidenza di turno italiana, sono almeno sei gli invitati di lusso, per cui il G8 sarà, in certe fasi, un G14. Ma, nella crisi economica mondiale, in cui siamo ancora immersi, si è già affermato un altro «format», con un’altra sigla: il G20, assai più rappresentativo degli interessi su scala planetaria.

Per cui, secondo vari analisti, e secondo quelli che sembrano gli orientamenti dell’Amministrazione Obama, sarà quest’ultimo, nella riunione in programma per settembre a Pittsburgh, a decidere sulle nuove regole dei mercati finanziari, che la presidenza italiana vorrebbe, comprensibilmente, vedere fissate già all’Aquila. E, infine, c’è chi pensa che il solo e vero «format», nei prossimi anni, sarà semplicemente un G2, tra Stati Uniti e Cina. In realtà, il G8, anche dopo L’Aquila, potrebbe ancora avere una sua funzione: quella per la quale era nato, cioè di punto d’incontro e di analisi comune tra le grandi democrazie di tipo occidentale, prima del necessario confronto con il resto del mondo. Ma, in questa chiave, meglio sarebbe stato fermarsi al G7, viste le caratteristiche, almeno in parte diverse e anche antagonistiche, della Russia putiniana... E, se c’è questa Russia, perché non l’India, democrazia, nel suo contesto, esemplare? Un dilemma tira l’altro. E alla fine ne arriva uno anche per noi europei, in quanto tali. Continuare così, spesso in ordine sparso, e magari in competizione per la migliore «visibilità», oppure capire che il vero «formato» che ci interessa è un’Unione europea strutturalmente compatta, capace di farsi valere e di dare un autonomo contributo alla soluzione dei problemi mondiali, quali e quanti che siano i suoi interlocutori, in qualsiasi modo aggregati.

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