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Autore Discussione: EMANUELE MACALUSO -  (Letto 28698 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Agosto 18, 2008, 04:17:18 pm »

18/8/2008 - PARTITI E CLIENTELE
 
Peggio della Dc
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
La vicenda politico-giudiziaria che ha coinvolto Ottaviano Del Turco e altri esponenti politici abruzzesi ha riaperto una vecchia polemica sui rapporti tra politica e giustizia orientando i riflettori essenzialmente sul versante giudiziario.

Ancora una volta fenomeni che hanno un forte risvolto politico e che segnano i caratteri dei partiti e della stessa società in cui viviamo vengono letti solo attraverso gli atti giudiziari, che certo hanno un rilevante significato ma non totalizzante come appare nelle polemiche di ieri e di oggi. Per tornare al caso abruzzese, che non è solo abruzzese, non si capisce perché non si è ragionato sul ruolo che oggi hanno nella vicenda politica «imprenditori» sanitari come quello che improvvisamente ha assunto la veste di pubblico accusatore. E, soprattutto, ancora una volta non si ragiona su cosa sono oggi i partiti, cos’è il personale che li rappresenta nelle istituzioni e quindi qual è il rapporto tra istituzioni e cittadini. In definitiva, cos’è la democrazia.

Il giornalista Marco Travaglio che legge tutto attraverso le lenti dei tribunali, nei giorni scorsi, dopo la morte dell’ex ministro Antonio Gava, ha scritto sull’Unità un articolo in polemica con tutti coloro che avevano ricordato l’uomo politico della Dc con parole laudative (tra questi anche lo storico Giuseppe Galasso).

O solo cautamente neutre (quelle del Presidente della Repubblica) per sostenere che Gava stava «con lo Stato e la Camorra». E a sostegno della sua tesi, Travaglio riporta brani delle sentenze che hanno assolto Gava dall’accusa di «concorso esterno in associazione camorristica».

I giudici di Napoli scrissero: «Risulta provato con certezza che Gava era consapevole dei rapporti di reciprocità esistenti tra i politici locali della sua corrente e l’organizzazione camorristica dell’Alfieri, nonché della contaminazione tra criminalità organizzata e istituzioni locali del territorio campano; è provato che lo stesso non ha svolto alcun incisivo e concreto intervento per combattere e porre un freno a tale situazione, finendo invece con il godere dei benefici elettorali da essa derivanti alla sua corrente politica: ma tale consapevole condotta dell’imputato, pur apparendo biasimevole sotto il profilo politico e morale, tanto più se si tiene conto dei poteri e doveri specifici del predetto nel periodo in cui ricoprì l’incarico di ministro dell’Interno, non può di per sé ritenersi idonea ad affermare la responsabilità penale».

La distinzione che fanno i magistrati che scrissero quella sentenza tra responsabilità politiche e responsabilità penali è essenziale e investe il cuore delle polemiche a cui ho accennato. Distinzione estranea al giustizialismo nostrano. Certo, è discutibile che le responsabilità politiche di Gava siano riassunte nelle motivazioni di una sentenza e questo fatto richiama però le responsabilità della politica. Le cose scritte dai magistrati su Gava politico furono oggetto di analisi e critiche da parte del Pci, tuttavia non ci fu mai una riflessione della Dc, un partito che certamente ha avuto un ruolo essenziale nella costruzione democratica del Paese, ma che voleva identificarsi con la società così com’era. Il partito-diga in nome dell’anticomunismo aveva nel suo seno tutto e il contrario di tutto.

E ora che la Dc, con i suoi meriti e le sue responsabilità, non c’è più come stanno le cose? Peggio di prima. Questa è la mia opinione. Il centro-destra ha teso ad ereditare tutto ciò che c’era nell’area moderata. E non è un caso che soprattutto nel Sud abbia ereditato anche le clientele più inquinate.

Non bastano certo i proclami contro la mafia se non si analizzano i rapporti di dare e avere e gli insediamenti politici così ben descritti nella sentenza dei giudici napoletani. Un discorso che va fatto anche per il Pd. Più volte ho notato che i dirigenti di questa formazione, i quali parlano anch’essi di un partito-società, non vedono cos’è in molte realtà il Pd.

Se la politica non è in grado di analizzare i fenomeni sociali e politici e anche criminali che attraversano la società e non dà risposte adeguate, è nelle cose che tutto venga affidato ai giudizi (anche politici) e alle sentenze dei magistrati. È quel che stiamo vedendo anche in Abruzzo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Settembre 03, 2008, 12:21:41 pm »

3/9/2008
 
Il partito padronale e il partito che non c'è
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Siamo a settembre e voglio riprendere alcuni temi, emersi nella polemica ferragostana tra il sindaco Chiamparino e i dirigenti del Pd torinese, che hanno una valenza generale e toccano i nervi scoperti del sistema politico italiano. Del resto non è un caso che le polemiche torinesi somiglino a quelle che leggiamo sul Pd e il presidente della Regione sarda e quelle di altre regioni. Il tema a cui alludo attiene al rapporto tra i partiti e le istituzioni dopo la crisi che ha travolto le formazioni politiche che diedero vita alla Costituzione e ressero il sistema per circa cinquant’anni.

In un articolo apparso venerdì sulla Stampa Sergio Chiamparino scriveva: «Sono convinto dell’importanza decisiva dei partiti, a condizione però che siano veicoli di reale rappresentanza di interessi e di valori e non macchine (o macchinette) distributrici di potere e nemmeno caricature di quelli che sono stati seri e nobili partiti ma che non ritorneranno più». Lascio stare la carica polemica, certo non infondata, che c’è nello scritto di Chiamparino nei confronti dei partiti oggi e in primis rispetto al suo Pd. È vero, quei partiti non torneranno più, ma la riflessione riguarda l’oggi.

I grandi partiti di massa, dopo la Liberazione, riconoscendosi nella Costituzione che avevano scritto insieme espressero anche una forma nuova e più forte di unità nazionale. Vaste masse popolari (cattolici, socialisti, comunisti) si riconobbero nello Stato unitario. Non è un caso che grazie a quel patto costituzionale il separatismo, che scosse la Sicilia nel dopoguerra, fu sconfitto e, invece, dopo la crisi dei grandi partiti è sorto il leghismo separatista al Nord. E di fronte a fenomeni nuovi, figli della crisi, i «nuovi» partiti annaspano. Basti pensare alle oscillazioni opportunistiche, a destra e a sinistra, sul federalismo.

Oggi è all’ordine del giorno il «federalismo fiscale», senza avere affrontato il nodo costituzionale del federalismo. Insomma, è plausibile un federalismo fiscale senza federalismo costituzionale? Sul ruolo dei Comuni e dei sindaci il discorso non cambia. Non fu una trovata della «nuova sinistra» il «partito dei sindaci»? E vorrei chiedere a Chiamparino perché non parlò quando, nel fare il Pd, leader del partito veniva incoronato il sindaco di Roma che manteneva i due incarichi. I sindaci di Bari, Pescara e Messina si candidarono a segretari regionali del Pd e hanno mantenuto i due incarichi. Il sindaco, come dice Chiamparino oggi, non rappresenta tutti i cittadini? In Calabria il segretario regionale Pd è stato il viceministro dell’Interno sino alle elezioni politiche. Che dirigenti del Pd pensino che ci sia un cordone ombelicale che lega il sindaco al Partito (cosa che non esisteva nemmeno nel Pci) è un segno dei tempi.

Questi fatti però ci dicono cose che non possono sfuggire a una persona con l’intelligenza e l’esperienza di Chiamparino. Il Pd è nato senza un progetto politico-costituzionale e su ogni questione che si pone - il federalismo, la giustizia, le leggi elettorali, il ruolo dei partiti - è al rimorchio di altre forze, seguendole o contestandole. Il fatto che la «transizione» non finisca mai e non si riesca a «normalizzare» i rapporti tra governo e opposizione non è dovuto solo alla presenza «anomala» di un presidente del Consiglio con un evidente e pesante conflitto di interessi, ma anche al fatto che l’opposizione non ha un suo progetto. Nei mesi scorsi, su queste stesse colonne, avevo proposto di convocare un’assemblea costituente per separare il riordino costituzionale dalle vicende che travagliano l’attività di governo. Ma c’è scetticismo anche perché la maggioranza governativa pensa di imporre comunque il suo progetto (ha i numeri per farlo) e l’opposizione pensa solo a contrastarlo.

In questo clima operano anche le istituzioni locali. E non mi stupisce che nel Pd, come dice Chiamparino, si verifichino «scontri di potere finalizzati al rinnovo dei vertici istituzionali e in particolare alla loro sostituzione».

Questo quadro ne richiama un altro e attiene alle regole che dovrebbero consentire in un partito la democratica convivenza di posizioni politiche diverse e le personalità che hanno ruoli diversi, nelle istituzioni e nella guida delle strutture partitiche. Ma nel Pd, a quanto pare, non ci sono regole. Non si sa ancora se ci sarà un congresso o se tutto, invece, è affidato alle investiture del leader con le primarie. Le quali si svolgono senza una legge e senza sapere quali regole vigano nel partito del leader. È vero, i vecchi partiti con le loro vecchie regole non possono più tornare. Ma si vuole discutere su cosa sono e dovrebbero essere i partiti in una moderna democrazia? A destra c’è ancora il partito padronale, a sinistra, leggendo le polemiche agostane di cui parla Chiamparino, non si capisce cosa c’è.
 
da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Settembre 10, 2008, 04:39:35 pm »

10/9/2008
 
Lasciate stare Moro e Berlinguer
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Sabato, Enrico Ghezzi, nel suo Blob ha mandato in onda pezzi di tribune politiche degli Anni 60-70 con i leader (Togliatti, Moro, Saragat, Fanfani, Berlinguer, Almirante e tanti altri «minori») interrogati dai giornalisti su casi che anticipavano la «questione morale» o ripresi mentre facevano un discorso su temi scottanti (Fanfani e Almirante sul divorzio).

Una di queste riprese riguardava Aldo Moro, allora (1960) segretario della Dc, al quale un giornalista chiedeva come spiegava il fatto che nella lista per le elezioni amministrative a Mussomali (grosso comune nella provincia di Caltanissetta) la Dc aveva incluso il capomafia Genco Russo. La risposta è imbarazzata («si tratta di un piccolo comune, non è capolista» ecc.) ma poi il leader dc afferma: «Non ci sono atti e documenti che qualifichino quel candidato come mafioso». La risposta fa pensare che Moro conoscesse il fatto anche se si verificava in un «piccolo comune» e non dicesse il vero, dato che c’erano atti e documenti che qualificavano Genco Russo come mafioso. Questo non vuol certo dire che Moro fosse colluso con la mafia, ma al contrario che la Dc (anche con Moro) preparando le elezioni del 1948 e successivamente per costruire la diga contro il comunismo e garantirsi il ruolo guida, accettò il «quieto vivere» (l’espressione è di Andreotti) con la mafia. E l’accettarono De Gasperi, Fanfani, Andreotti. Quest’ultimo operò con più spregiudicatezza, ma dentro quel quadro.

Ho ripreso questo pezzo della storia politica italiana per ricordare agli smemorati che Aldo Moro in tutti i momenti, anche nei più sgradevoli, difese il ruolo centrale della Dc alla guida del Paese. Ricordo anche il suo discorso alla Camera dei deputati in occasione delle accuse fatte ad esponenti della Dc per le tangenti pagate dalla società Usa Lockheed per le forniture di aerei: «Non ci faremo processare sulle piazze». E quando nel 1976 raggiunse con Berlinguer un’intesa di governo volle, fortemente volle, che a guidarlo fosse Andreotti, per garantire l’unità e il ruolo della Dc. Anche nella prigione delle Br le sue lettere hanno come asse la famiglia e l’incerto domani della Dc («il futuro non è più solo nelle nostre mani»).

Questo scenario mi è tornato in mente quando sull’Unità ho letto che nei circoli Pd sono ammessi due quadri, Moro e Berlinguer, santi protettori del partito. Ma, se Moro fu il leader democristiano che con più coerenza e determinazione difese il ruolo della Dc e dei cattolici democratici, Berlinguer fu il più deciso sostenitore dell’identità comunista del partito. Il leader del Pci si separò umanamente e politicamente dal comunismo sovietico con nettezza e determinazione e ricercò un rapporto con quei dirigenti socialdemocratici che si battevano per la causa del Terzo Mondo (Olof Palme, Willy Brandt), ma restò un comunista che, con la democrazia e le riforme di struttura, voleva superare il capitalismo e realizzare una società socialista. Per questo il Pci doveva restare, con la sua autonomia, nel campo anticapitalista e antimperialista e separato dalle socialdemocrazie.

Poi c’è stato l’89 e il crollo del Muro e del «campo», e non sappiamo come avrebbero reagito Moro e Berlinguer. Certo diversamente da come confusamente hanno reagito i loro eredi. I quali pur non avendo elaborato un loro pensiero, una strategia e una cultura per fare un partito, mettono nei circoli le foto di Moro e Berlinguer identificandoli come padri del Pd. Invece furono leader di due partiti con identità radicalmente diverse anche se li unì una forte tensione politico-morale nella guida dei loro partiti. L’operazione Dc-Pci, Moro-Berlinguer la fanno proprio coloro che ripetono sino alla noia che le culture politiche del Novecento sono morte e sepolte. Oggi autorevoli promotori del Pd dicono che questo partito «implode» (Scalfari domenica su Repubblica). E con Scalfari tanti altri. Ma perché implode? Perché c’è Veltroni e non D’Alema o Parisi o un quarantenne? Non scherziamo. Cari amici democratici, lasciate in pace Moro e Berlinguer, anche perché non meritano di «implodere» con il Pd e, se volete, avviate un confronto serio e reale su cos’è oggi questo partito e cosa potrebbe essere domani. Intanto il Papa dice che all’Italia occorre una nuova generazione di cattolici impegnati nella politica. Per chi suona la campana?

da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Settembre 14, 2008, 10:17:26 am »

14/9/2008
 
Attenti, colonnelli
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Le dichiarazioni di Fini su fascismo e antifascismo, fatte davanti ai giovani di An, hanno un significato su cui è bene discutere. Anche perché, nella stessa sede, non un ex fascista ma Silvio Berlusconi, con il camaleontismo che lo distingue, aveva esaltato il ruolo di Italo Balbo in Libia per accattivarsi le simpatie di quei giovani.

L’intervento del Cavaliere è una chiave di lettura di una linea politica che tende a sbiadire tutto, a mettere sullo stesso piano chi difese la libertà e chi la cancellò, chi fu vittima di un tardo e feroce colonialismo e le vittime di quell’oppressione. L’elogio di Balbo voleva essere una pacca sulle spalle a tutti quei ragazzi, ai quali, invece, occorre dire la verità e aiutarli a riflettere e a capire. Da questo punto di vista le parole di Fini pronunciate dopo le cose dette da Alemanno e La Russa acquistano un significato particolare.

Il presidente della Camera, in questa occasione, ha parlato come deve chi rappresenta un’istituzione che esprime la libertà degli italiani. Fini ha detto con chiarezza che non si può equiparare «chi combatteva per una causa giusta di uguaglianza e libertà e chi, fatta salva la buona fede, stava dalla parte sbagliata». E alla destra, cioè alla sua parte, dice che i valori costituzionali di libertà, uguaglianza e giustizia sociale «sono valori a pieno titolo antifascisti». È un chiarimento importante, quello di Fini, col quale tende a collocare la destra come forza che ha nell’antifascismo e nella Costituzione un riferimento essenziale. Importante anche perché, come scriveva ieri Gian Enrico Rusconi sulla Stampa, sembra che il paese abbia perso l’orientamento. Cioè è allo sbando. E per recuperare un orientamento, come auspica il Capo dello Stato, il riferimento delle forze politiche e sociali alla Costituzione e all’antifascismo è essenziale.

Io non so sino a che punto i quadri che vengono dal Msi siano in grado e disponibili a portare fino in fondo il processo di revisione avviato dalla stesso Fini a Fiuggi. Le sortite di Alemanno e La Russa, due esponenti di primo piano di An, rivelano una difficoltà seria su cui è bene ragionare. Anche perché un approdo costituzionale della destra non riguarda solo chi milita a destra, ma il sistema politico nel suo complesso e l’interesse generale del paese. E questo per più motivi. Sino a oggi la destra che proveniva dal Msi era stata «sdoganata» da Berlusconi, il quale ha assunto le vesti del santo protettore della destra. Anche dopo Fiuggi. E a ben pensarci, Fini ha deciso di intrupparsi nel partito berlusconiano per lavare i panni di coloro che ancora sentono il richiamo della foresta fascista. Il partito unico, infatti, dovrebbe omologare tutto e tutti. E forse La Russa e Alemanno hanno voluto dire che accettano l’unificazione ma non l’omologazione.

Il problema vero di questo «equivoco» è però Berlusconi. Il quale vuole un partito padronale, senza una base politico-culturale e senza una somma di valori che lo identifichino. Infatti nel partito berlusconiano gli ex socialisti dicono che esprimono una politica di sinistra, l’ex comunista Bondi richiama il pensiero di Antonio Gramsci come riferimento culturale, gli ex radicali vedono nel partito del Cavaliere uno spazio per esprimere liberalismo e laicismo, gli esponenti di Comunione e Liberazione ritengono invece che quel partito è in sintonia con i vescovi. E potrei continuare. In questo quadro Alemanno e La Russa pensano che c’è spazio anche per richiamare la «parte buona» del fascismo. Forse, dico forse perché nulla è ancora chiaro, con le sue odierne prese di posizioni, Fini parla a nuora perché suocera intenda. E la suocera è proprio Berlusconi. Ma se è così, il presidente della Camera dovrebbe aprire un dibattito più vasto e coinvolgere il Pdl nel suo complesso per individuare e definire i connotati di questo partito. Fini di questi connotati ha individuato un tratto essenziale, la Costituzione e l’antifascismo. Bene. Ma un partito che ha questi riferimenti non può avere un padrone e deve avere una vita e una dialettica democratica. È possibile aprire in quel partito, su questi temi un dibattito e un confronto congressuale? Temo proprio di no.

da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Settembre 19, 2008, 06:04:29 pm »

19/9/2008
 
Capitalismo alla fine?
 
 
 
 
 
EMENUELE MACALUSO
 
Il terremoto che scuote il sistema finanziario americano e con esso quello globale fa riemergere una discussione sulle tendenze del capitalismo e dell’anticapitalismo. La crisi dell’Alitalia, che è poca cosa nel quadro mondiale, accentua in Italia i toni del dibattito. Fausto Bertinotti ha scritto un piccolo saggio (martedì su Liberazione) in polemica con un articolo di Mario Deaglio (La Stampa di lunedì) per dire che la crisi non è nel «sistema» del capitalismo finanziario, ma del capitalismo, e trova modo per ribadire che «l’unica salvezza dell’umanità sta nel superamento del capitalismo». Del resto anche all’inaugurazione della Summer School(!) del Pd si è parlato del superamento del capitalismo in una formazione che vorrebbe somigliare al partito democratico americano. Come stiano insieme le due cose è uno dei misteri veltroniani. Ma anche il ministro Tremonti parla di un «ritorno a Keynes».

Io non credo che il capitalismo sia l’ultima categoria della storia e non siano possibili altre formazioni sociali, ma da tempo mi sono convinto che aveva ragione Eduard Bernstein quando non prefigurava la società del futuro, non proponeva un modello di riferimento, ma si affidava al movimento «che è tutto». E quindi ai mutamenti, alle riforme che la società via via chiede. E, avvertiva Bobbio, la sinistra deve indirizzare movimenti e riforme verso il progresso e l’uguaglianza. Bertinotti, giustamente, nota come il conflitto sociale sia un valore anche in un’ottica liberale. Ma - ecco il punto - quali sono, oggi, i contenuti del conflitto sociale?

Su questo Bertinotti ragiona come se i contenuti del conflitto e i mutamenti che intervengono nel mondo non andassero tenuti presenti. A un certo punto Fausto scrive: «Fu Reagan a schiantare la lotta dei controllori di volo. Fu la Thatcher a sterminare i minatori inglesi. Fu la Fiat a sconfiggere la classe operaia della grande industria nella vertenza dei 35 giorni». E senza porsi il tema cruciale del perché di quelle sconfitte, se fosse nei contenuti di quelle lotte la causa, commenta: «Tre eventi chiave di quel processo di “restaurazione rivoluzionaria” che nega sia la libertà dell’agire dei lavoratori, sia l’autonomia contrattuale del sindacato». Bertinotti e con lui altri pensano alla globalizzazione come «male assoluto» e non guardano a questi processi come fenomeni dello sviluppo capitalistico (ne aveva scritto anche la buonanima di Marx) per porsi il problema di come operare anche a livello mondiale, per governarli. A questo proposito non c’è dubbio, e lo dice anche Deaglio, che questi terremoti «confermano la superiorità sociale dei modelli europei» rispetto a quelli liberisti Usa. E chi richiama Keynes potrebbe anche ricordare lo Stato sociale costruito dai partiti socialisti europei. La stessa Thatcher ha dovuto fare i conti con quella realtà che non fu smantellata. E, mentre in Usa i licenziati delle banche lasciano il posto di lavoro con gli scatoloni, in Italia il liberista Berlusconi «offre» ai lavoratori dell’Alitalia la mobilità con 8 mesi di cassa integrazione. Anche lui deve fare i conti con la nostra Costituzione e con la storia del «conflitto sociale» nel Paese. Ma Bertinotti e altri che operano anche nel sindacato sbagliano se non individuano le ragioni del conflitto sociale per non ripetere gli errori fatti con i minatori inglesi, i controllori di volo Usa e alla Fiat in Italia.

Il fatto nuovo su cui riflettere è la crisi del sindacato corporativo. Chi pensava di difendersi meglio facendo pesare nella contrattazione il fatto di svolgere un lavoro essenziale e privilegiato, oggi deve rivedere le sue posizioni. E il sindacato confederale deve tornare a coniugare l’interesse delle categorie con l’interesse generale.

Il «caso» dei piloti della Delta descritto da Deaglio non è, come pensa Bertinotti, un inno alla globalizzazione. È la presa d’atto di una realtà con cui fare i conti. E quando lo stesso Deaglio ricorda l’esperienza fatta in Scandinavia, dove la flessibilità è stata integrata in un sistema di sicurezza sociale con ammortizzatori che consentono la riqualificazione dei lavoratori in mobilità e la garanzia di lavoro per tutti, ci dice anche che il «conflitto sociale» in Italia deve essere aperto su questo terreno. Si potrà così evitare la mortificante e intollerabile «offerta» di ammortizzatori sociali condizionati e come atto di «liberalità» di un generoso e paterno presidente del Consiglio. Un’indecenza.
 
da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Ottobre 07, 2008, 12:36:02 pm »

7/10/2008
 
Capitalismo coi piedi per terra
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
La crisi che ha scosso il sistema finanziario in Usa e nel mondo sollecita una discussione che investe governi, studiosi, uomini politici, giornali su come tamponare le falle.

Ma anche sulla salute e sull’avvenire del capitalismo. Su queste stesse colonne ho avuto occasione di dire che non penso che il capitalismo stia tirando le cuoia come scrivono tanti impenitenti anticapitalisti per storia e cultura e nemmeno so se esso ha, come ironicamente scrive Giuliano Amato (Il Sole 24 Ore di domenica scorsa), «i secoli contati».

Il tema di oggi non è quello della sopravvivenza del capitalismo, dato che questa categoria della storia nel tempo ha mutato i suoi caratteri. E li ha mutati perché c’è stato un movimento sindacale, il riformismo socialdemocratico, il New Deal rooseveltiano, insomma il capitalismo è cambiato perché ha dovuto fare i conti con la politica. E li ha fatti sia nel sistema democratico che in quello totalitario: il fascismo con l’Iri e il corporativismo e il nazionalsocialismo. Infatti non è vero che dove c’è il capitalismo c’è la democrazia dato che in Italia, in Germania, in Spagna negli anni del fascismo, del nazismo e del franchismo c’era - e come! - il capitalismo e lo statalismo che convivevano d’amore e d’accordo. Quel che mi preme sottolineare in questa nota è il fatto che i governi si muovono per tamponare la falla nell’immediato e non possono fare altro.

Invece manca un ragionamento sul domani prossimo venturo. Tutti parlano di regole che dovrebbero governare un mercato libero da vincoli e però non si capisce quali siano queste regole. La presidente della Confindustria Emma Marcegaglia ha detto che lo Stato fa bene a intervenire, a tamponare con le risorse pubbliche le falle ma poi deve lasciare «libero» il mercato. In attesa di una nuova emergenza. (A proposito, siccome le banche sono tutte al Nord e a pagare sono tutti gli italiani, compresi quelli del Sud, come risolve il caso il federalismo fiscale?). Per tornare al mio discorso c’è anche da chiedersi cosa pensano per l’oggi e per il domani le forze politiche, soprattutto quelle di sinistra. Si è evocato Keynes. Ma se è vero che il New Deal e le politiche riformiste europee di pieno impiego e Stato sociale avviarono un nuovo ciclo economico, è anche vero che esso poi esaurì la sua spinta propulsiva e provocò una crisi non solo economica ma sociale e politica.

Ora sembra che il pendolo si muova dalla parte opposta. L’eccesso di statalismo e di spesa sociale fu al centro della critica della destra liberista che con Reagan e la Thatcher diedero una risposta politica vincente. Ma, giustamente nessuno pensa di tornare al passato: né mercatismo, né statalismo, dice Tremonti. Ma cosa c’è in mezzo resta un mistero. Enrico Morando (sembra che sia il solo che nel Pd si ponga questi problemi) in un suo articolo apparso giorni addietro sul Foglio, partendo dal fallimento delle politiche mercatista e statalista, riprende il discorso della «Terza via» che, a suo avviso, è stata bene interpretata dai «revisionisti di centrosinistra» che si chiamano Clinton, Blair e Schroeder. La «crisi» della «Terza via», dice Morando, non è nella sostanza, nelle scelte di quella politica, ma «nell’evidente carenza di leadership globale (Blair non è più e Obama per quanto promette, non è ancora)». Io, invece, penso che la crisi di leadership rivela una crisi di politica. E mentre negli Usa il confronto elettorale ha al centro l’avvenire di quel Paese, non credo che la vittoria di Obama, che mi auguro, possa dare una leadership globale al centrosinistra, come non la diedero né Clinton, né Blair. Del resto è lo stesso Morando a dire che non c’è un’organizzazione mondiale del centrosinistra e la stessa Internazionale socialista non ha più voce.

Io penso che dobbiamo restare con i piedi a terra e vedere quali politiche, in Italia e in Europa, la sinistra e il centrosinistra sono in grado di proporre, non solo per fronteggiare l’emergenza ma per progettare il futuro. La sinistra non ha - come invece l’ebbe in passato - un’analisi del capitalismo di oggi. E conseguentemente non individua quali sono le leggi di cui si parla per governare e non paralizzare il mercato e quali interventi dovrebbe fare lo Stato senza cadere nello statalismo. È questo anche il tema che in vista delle elezioni dovrebbe affrontare il partito socialista europeo. La sinistra anche su questo tema - ed è il suo per eccellenza - non può giocare di rimessa dicendo solo no a quel che fa o non fa il governo. Deve avere una sua proposta, tale da dare anche un profilo al partito (il Pd) che non lo ha ancora. Se poi il capitalismo è millenario o no, lo deciderà la storia. E la storia dovrebbe farla anche la sinistra italiana. O no?
 
da lastampa.it
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« Risposta #21 inserito:: Ottobre 14, 2008, 08:43:24 am »

14/10/2008
 
Opposizione, fatela credibile
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
La manifestazione della sinistra radicale, che sabato scorso si è ritrovata in una piazza di Roma per contestare la politica del governo, è stata salutata da alcuni commentatori come una vera resurrezione.

Mentre altri l’hanno vista come conferma di un definitivo tramonto. Tuttavia a me pare che valutare il futuro politico della sinistra massimalista dal fatto che nella stessa piazza si ritrovassero sparpagliati leader e leaderini di quella sinistra, e con loro alcune migliaia di militanti delusi e arrabbiati, sia sbagliato.

Il dato vero, leggibile di quella manifestazione era l’assenza di una strategia politica. Francesca Schianchi sulla Stampa di domenica ci ha raccontato la manifestazione e abbiamo letto che Oliviero Diliberto ha detto che quel sabato era «il giorno dell’orgoglio comunista»; e Fausto Bertinotti è stato contestato perché aveva scritto che «comunista è una parola indicibile». È chiaro che l’ex presidente della Camera dava una valenza tutta politica alla parola «indicibile», ma è stata considerata la prova di una vergognosa abiura. I dirigenti del partito di Rifondazione comunista erano tutti presenti alla manifestazione, ma Vendola e Ferrero marciavano separati. Quest’ultimo vuole ancora «rifondare» il comunismo. Vendola pensa di unire le membra sparse di una «sinistra d’opposizione», con Mussi, Occhetto, Fava e altri. Con quale prospettiva non si capisce. Anche perché c’è già il Partito democratico, dove si ritrovano altri pezzi della sinistra tra cui D’Alema, Veltroni, Fassino e compagni, che si qualifica come opposizione e alternativa di governo. Un partito anch’esso anomalo rispetto alla sinistra europea. Infatti in Italia al partito del socialismo europeo aderisce solo il piccolo partito ora diretto da Nencini.

Ho fatto questa premessa per dire che la sinistra nel suo complesso continua a non capire due processi politici con cui fare i conti. Il primo attiene al fatto che con le ultime elezioni politiche in Italia il bipolarismo si è consolidato ma con una tendenza che va valutata bene perché si manifesta anche in Europa. Infatti nel nostro sistema a destra c’è un partito-coalizione (Pdl), alleato con una forza «anomala» come la Lega di Bossi; e a sinistra c’è un partito-coalizione (Pd) alleato con una forza anomala come l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Forze «anomale» che tendono a crescere anche perché hanno entrambi una cifra antisistema.

Il secondo processo, che si segnala anche su scala europea, è una seria difficoltà politica dei partiti socialisti (evidentissima in Inghilterra, Germania, Austria) i quali nelle elezioni perdono voti, ma non a favore della sinistra radicale, che perde terreno, ma in direzione opposta: i conservatori o la destra populista. Tuttavia i partiti socialisti, ancora una volta, mostrano di essere la sola forza di sinistra che cerca di fare i conti con le crisi e le trasformazioni del capitalismo, cercando di coniugare l’interesse generale con quello della difesa dei lavoratori e dei ceti più deboli. Lo fanno anche oggi che sono in difficoltà. Lo sta facendo in Europa Gordon Brown che sembrava ormai uno sconfitto. Del resto, in altri momenti i partiti socialisti, che sembravano essere stati messi fuori giuoco dalla destra di Reagan, della Thatcher o dai democristiani tedeschi di Kohl, hanno saputo rinnovare il loro patrimonio politico e culturale e tornare a governare i loro Paesi. Ebbene, fuori dai partiti socialisti europei, non c’è altro a sinistra che possa dare voce ai lavoratori e al tempo stesso guardare l’interesse generale della collettività nazionale e internazionale.

Quel che stupisce della manifestazione della sinistra radicale è la separazione di ciò che considera interessi del popolo da quelli più generali del Paese. Debbo dire che anche il Pd non giuoca bene la sua partita. Ha ragione Luca Ricolfi quando osserva che dire la verità, tutta la verità, su come stanno le cose è la premessa per essere credibili e per fare proposte adeguate ai fatti. E questo non c’è. La destra populista è quella che è, ma può essere ridimensionata se c’è un’opposizione credibile. Domenica, su la Repubblica, c’era uno studio di Ilvo Diamanti con sondaggi seri che ci dicono come il gradimento del governo, anche nel corso della crisi, è cresciuto ed è al 67%. Non penso che questo vantaggio si verifichi per particolari meriti dei governanti. Si verifica per il fatto che non c’è ancora un’alternativa credibile. La sinistra radicale da una parte e il Pd dall’altra mostrano una sostanziale impotenza. E temo che le «grandi» manifestazioni, quella già fatta e l’altra del Pd il 25 ottobre, legittime e certo da non demonizzare, in questo quadro servano proprio a confermare questa impotenza tutta politica. Volete o no ragionare sui fatti?

 
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« Risposta #22 inserito:: Ottobre 21, 2008, 11:25:14 am »

21/10/2008
 
Pd debole anche senza Di Pietro
 

EMANUELE MACALUSO

 
Di Pietro è lontano dalla cultura democratica», ha detto Walter Veltroni annunciando, nel corso della trasmissione Che tempo che fa, la fine dell’alleanza tra il suo partito e quello personale dell’ex pm. Certo, il fatto che il segretario del Pd scelga la tv di intrattenimento per comunicare ai militanti e agli elettori una decisione politica rilevante ci dice «che tempo che fa» nell’universo politico di questo Paese. Del resto, non so chi alla vigilia delle elezioni nel Pd decise di dare a Di Pietro quello che era stato negato ai socialisti: un’alleanza che, grazie a una balorda legge elettorale, premiava il partito dipietrista che usufruiva del «voto utile», invocato da Veltroni.

Senza quell’alleanza, senza il «voto utile», Di Pietro e i suoi seguaci sarebbero rimasti fuori dalle aule parlamentari, perché non avrebbero mai superato lo sbarramento del 4%. Ma, francamente, in questa storia Di Pietro non può essere accusato di incoerenza e frode politica. Semmai c’è da chiedere a Veltroni, e non solo a lui, come mai e perché solo nell’ottobre del 2008 si è accorto che Di Pietro è lontano dalla cultura democratica. Era vicino a quella cultura quando nel 1996 il Pds di D’Alema, Fassino e Veltroni lo candidò con un gran rullo di tamburi nel collegio rosso del Mugello? E lo era quando diventò ministro dei governi di centrosinistra?

Elo era quando fu scelto, nel 2008, alleato privilegiato del Pd? Non scherziamo con cose serie, che non sono solo cose che riguardano il gruppetto che oggi guida il Pd. La verità è un’altra e andrebbe esaminata con serietà e rigore perché attiene proprio alla cultura politica del Pd. Il quale ancora oggi non si capisce che cosa sia. Infatti, Rutelli, uno dei fondatori del Pd, un anno dopo la nascita del suo partito, ne chiede nientemeno che la rifondazione. L’incerta cultura politica attiene anche ai temi della giustizia e Di Pietro è stato considerato, da sempre, un simbolo a cui riferirsi.

Io non sono tra coloro che considerano l’operazione «mani pulite» un complotto per distruggere i partiti della prima Repubblica e soprattutto il Psi di Craxi e la Dc di Forlani. La crisi del sistema politico si era aperta alcuni anni prima del 1993-1994 e si era accentuata nel 1989 con la caduta del muro di Berlino, la fine del Pci e con il fatto che cambiavano tutti i parametri su cui dopo il 1948 si era costruito quel sistema. Ma nessuno dei leader di allora, Craxi, Forlani, Occhetto e i loro collaboratori capirono e agirono di conseguenza. La conferma venne con le elezioni del 1992 (prima di Tangentopoli) quando la Lega di Bossi conseguì un successo straordinario: 80 parlamentari. Ma nonostante questo la politica dei partiti che pure avevano fondato la Repubblica e scritto la Costituzione, non cambiava: Craxi pensava di tornare a Palazzo Chigi e Andreotti e Forlani al Quirinale. Le cose andarono come sappiamo.

La corruzione certo c’era, ma Tangentopoli esplose quando il sistema politico implose. In questo contesto i dirigenti del Pds, tutti insieme, pensarono di tifare per Di Pietro «simbolo» dell’operazione «mani pulite» (lo fecero anche i giornali e le tv di Berlusconi) considerata la leva per la rigenerazione del sistema politico. A vincere la corsa non furono però i dirigenti del Pds (Occhetto, Fassino, Veltroni, Violante ecc.), ma Berlusconi che prevalse nelle elezioni del 1994. E Di Pietro lasciò la magistratura e pensò di usare la sua immagine di giustiziere nel nuovo sistema politico. Infatti prima pensò di imbarcarsi con la destra, ma poi capì che la «continuità» della sua immagine poteva trovarla solo a sinistra. E a sinistra D’Alema, Fassino, Veltroni e altri, che non avevano una loro autonoma elaborazione sui temi della giustizia che anche Tangentopoli aveva messo in forte evidenza, scelsero Di Pietro come uomo-giustizia il quale ha dato alla politica della coalizione di centrosinistra un’impronta giustizialista. Un’impronta che ha consentito all’ex pm di fare un partito personale in grado di condizionare il Pd non solo sui temi della giustizia, ma anche sul tema centrale che attiene ai rapporti tra governo e opposizione.

Insomma il Pd era ormai ostaggio di Di Pietro e non aveva più spazio di manovra politica. Oggi le cose cambiano? Certo, ma la guida politica del Pd, non solo di Veltroni, ancora una volta, si rivela debole perché incerta è la sua cultura politica. Rutelli vuole rifondare il partito? E su quali basi? Se si vuole aprire un dibattito reale, insisto su ciò che ho già scritto su queste colonne: occorre un congresso vero, su mozioni diverse e con candidati che esprimano una cultura e una posizione politica chiara e leggibile per tutti gli italiani.
 
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« Risposta #23 inserito:: Ottobre 29, 2008, 11:03:55 pm »

29/10/2008
 
Ma la politica non è solo propaganda
 
EMANUELE MACALUSO
 
Il gran confronto sul numero dei partecipanti ai comizi di Veltroni e Berlusconi pare si sia concluso senza vinti e vincitori. Barano tutti. Quel che manca invece è un confronto vero e forte sulla crisi economica e sociale che scuote, col mondo, il nostro Paese. I comizi, le grandi o piccole assemblee popolari sono certo momenti di democrazia, ma lo sono se i cittadini riescono, grazie a un ragionare collettivo, a essere protagonisti dei cambiamenti necessari a dare soluzione ai problemi all’ordine del giorno. Anche l’opera del governo e le sue iniziative legislative dovrebbero essere tali da sollecitare l’opposizione a misurarsi con temi d’interesse generale.

Non basta dire, come fa Berlusconi, che le sue sono le soluzioni più giuste per i problemi del Paese e se non piacciono all’opposizione ha una maggioranza per imporle. Non c’è confronto se la ministra dell’Istruzione dice che il decreto 133 è quello che è, e in ogni caso tale resterà; e dall’opposizione si chiede che quel provvedimento venga ritirato e basta. La politica è anche mediazione, capacità di trovare soluzioni valide e più largamente condivise e non mediocre opportunismo.

Per questo versante mi hanno colpito le dichiarazioni del rettore del Politecnico di Torino, il quale non accetta tagli indiscriminati e al tempo stesso chiede riforme serie. Non pensa, e lo dice, che oggi l’Università vada bene così com’è. Il propagandismo, cara Gelmini, non serve. Dire che chi non è d’accordo con i suoi provvedimenti vuole la conservazione è falso. Spero che non sfugga a nessuno che i problemi della scuola e dell’Università, come tutti gli altri, oggi debbono essere visti e riconsiderati nel quadro più vasto e generale che impone la crisi economico-finanziaria. Ma per farlo occorre un’analisi corretta del fenomeno e una strategia adeguata per affrontarla. Si tratta di una crisi che certamente non travolge il sistema capitalistico, ma ne cambierà i connotati che abbiamo conosciuti. Quali saranno i nuovi non si capisce ancora e nessuno ha una ricetta pronta.

La storia ci ha insegnato che le crisi economiche del capitalismo contengono in sé i fattori per la sua trasformazione. Ma per individuare quei fattori e operare per la trasformazione occorre l’intervento tempestivo e consapevole della politica. Solo la politica può ridisegnare il rapporto, di cui oggi tanto si parla, tra Stato e mercato. È un’opera difficile che però qualifica una forza riformista. Difficile, perché l’esperienza ci dice che lo Stato come gestore della società è fallito, ma ci dice anche che il mercato come regolatore della società è fallito. Quale sia oggi, nella situazione data, nell’economia globalizzata, il ruolo della politica, la quale non è globalizzata, è il tema su cui cimentarsi.

È stato detto e ridetto che dopo la crisi del ’29 Roosevelt mosse i tasti della politica e promosse il New Deal. In Europa prevalse quello che è stato chiamato il «compromesso socialdemocratico» e il «Welfare State». Ma oggi la politica, cioè i partiti che l’esprimono, i governi, le opposizioni parlamentari, i sindacati, quali analisi fanno? E che cosa propongono? Siamo entrati in una fase in cui tutti si rivolgono alla politica: la Confindustria, gli agricoltori, i sindacati, le associazioni dei piccoli produttori, dei risparmiatori e dei consumatori. Tutti chiedono più intervento della politica, ma se leggiamo i sondaggi vediamo che i soggetti della politica, governo e opposizione, perdono consensi. E forse li perdono proprio perché non si vedono in campo strategie che indichino una strada che guardi all’oggi e al futuro.

Data la mia età non vorrei apparire nostalgico, ma è bene ricordare che all’inizio degli Anni Sessanta, quando si manifestò un cambiamento di fase (il miracolo economico), il Pci convocò presso l’Istituto Gramsci un grande convegno, con Amendola, sulle «tendenze del capitalismo» e si svolse un dibattito che fa riflettere ancora oggi. La Dc convocò un suo seminario di studi sulla nuova fase a S. Pellegrino ponendo le basi della politica di centro-sinistra, lo stesso fece il meglio della cultura socialista, con Lombardi, Giolitti, Guiducci, Rossi Doria e altri. La Malfa scrisse saggi, articoli e «note» sul bilancio dello Stato che suscitarono grandi discussioni anche in Parlamento. Oggi c’è solo uno scontro sulla propaganda. Ma la politica è un’altra cosa. Ed è quel che manca.
 
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« Risposta #24 inserito:: Novembre 12, 2008, 10:11:03 am »

12/11/2008
 
Sindacati, occorre una svolta
 

 
EMANUELE MACALUSO
 
Ieri su questo giornale abbiamo letto l’articolo di Paolo Baroni che raccontava e commentava lo sciopero di un gruppo di lavoratori dell’Alitalia e ciò che ha significato per la vecchia e la nuova azienda del trasporto aereo. E soprattutto per i viaggiatori e la collettività tutta. Questo sciopero ha diviso anche i sindacati autonomi e ha messo in evidenza la loro crisi. Infatti quando si perde la bussola che regola il rapporto tra l’interesse di categoria e l’interesse generale, tutto è possibile. Le posizioni estreme non hanno confini: l’esasperazione delle fasce più colpite dalla crisi dell’azienda non trova argini e si manifesta con atti come quelli avvenuti lunedì negli aeroporti.

Si tenga presente il fatto che la crisi dell’Alitalia, con la conseguente riduzione dell’occupazione, si manifesta in un momento di grave difficoltà dell’economia globale e chi perde il lavoro sa che oggi è molto difficile trovarne un altro. Ma la riflessione sul ruolo del sindacato autonomo, e anche di quello confederale, non può fermarsi all’oggi dato che l’oggi è frutto di ciò che è avvenuto ieri. Mi riferisco al fatto che nel momento in cui l’Alitalia registrava perdite consistenti e continue, il sindacato ha puntato solo sull’intervento dello Stato per colmare i deficit e non sul risanamento dell’azienda.

Equesto perché il risanamento metteva in discussione anche i rapporti sindacali, o meglio parasindacali, con le direzioni aziendali che all’Alitalia si sono succedute. Le quali hanno coltivato questi rapporti pensando solo ai loro interessi personali, alle loro retribuzioni e liquidazioni miliardarie. Sia chiaro, non penso che i lavoratori dell’Alitalia avessero chissà quali privilegi, c’era molta gente che faticava e aveva retribuzioni solo decenti. Ma nel momento in cui l’azienda cominciava ad affondare sembrava che il problema non fosse loro, dei sindacati, dei lavoratori, ma della politica che doveva provvedere. Ora - questo è il punto - il sindacato non può estraniarsi dalle vicende che attengono alla salute o alla malattia delle aziende, soprattutto se sono pubbliche. E non solo da esse. Si tenga conto che le pesanti perdite dell’Alitalia sono state pagate da tutti i cittadini, anche da quelli che nella loro vita non hanno mai preso un aereo.

Insomma, se oggi la situazione di quell’azienda è precipitata non c’è anche, ripeto anche, una responsabilità del sindacato corporativo? Io penso di sì. E non si può però dire che quello confederale abbia le carte in regola solo perché nei giorni scorsi ha firmato un accordo con la Cai di Colaninno e con il governo. L’opera di prevenzione cui ho accennato non è stata fatta nemmeno dai sindacati confederali. E il nodo Alitalia è la spia di un problema più generale, politico, sociale e culturale che attiene al ruolo che storicamente il sindacato ha assolto nel nostro Paese.

Nei giorni scorsi Mannheimer ha pubblicato sondaggi che ci dicono come una larga parte di cittadini (il 50 per cento) ritenga che il sindacato rappresenti ormai solo gli interessi di una minoranza di lavoratori. Non sarà proprio così, ma il problema c’è e ho l’impressione che i dirigenti sindacali non ne siano allarmati e siano impegnati ad accentuare la separazione tra le confederazioni. I maggiori sindacati della Cgil non hanno firmato i nuovi contratti (metallurgici, lavoratori del commercio, statali) sottoscritti da Cisl e Uil. La trattativa con la Confindustria sulla contrattazione articolata mette in evidenza la stessa separazione. Ho l’impressione che le tre Confederazioni, anziché fare uno sforzo per elaborare piattaforme comuni, accentuino le loro divisioni per marcare una, la Cgil, la sua intransigenza, e le altre, Cisl e Uil, il loro «senso di responsabilità». E invece i primi appaiono subordinati all’opposizione parlamentare e gli altri al governo. Un disastro.

Anche perché la crisi economica porrà problemi sempre più ardui al sindacato. E il contrasto tra le Confederazioni alimenta il corporativismo, con torsioni estremistiche o accomodanti che preannunciano solo sconfitte per i lavoratori e per il Paese. Attenzione, se nel sindacato non si verifica una svolta, quel che vediamo con lo sciopero dell’Alitalia non sarà uno scenario isolato. Voglio dire che si apre una fase in cui il ruolo del sindacato sarà essenziale. E coniugare i diritti dei lavoratori con l’interesse generale è nella storia del movimento sindacale italiano. Lo è ancora? Questo è oggi il tema che sta davanti a tutte le Confederazioni.

 
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« Risposta #25 inserito:: Novembre 19, 2008, 06:04:12 pm »

19/11/2008
 
Il Pd sospeso tra essere e non essere
 
 
EMANUELE MACALUSO

 
Due fatti richiamano la nostra attenzione sul Pd e la sua politica, sulla sua identità di cui si è tanto parlato. La prima notizia riguarda l’assemblea parlamentare della Nato che si svolge a Valencia. Il Pd vi partecipa con sei parlamentari: quattro - Franco Marini, Giovanni Vernetti, Arturo Parisi ed Enzo Bianco - hanno le credenziali del gruppo liberaldemocratico; uno, Antonello Cabras, sta con il gruppo socialista; Fassino è assente perché, con D’Alema, partecipa a Città del Messico all’Assemblea annuale dell’Internazionale socialista. Il viaggio dei due dirigenti del Pd che provengono dai Ds è stato criticato da altri esponenti dello stesso partito che provengono dalla Margherita.

Siamo ormai alla vigilia delle elezioni europee e il Pd si ritrova ancora diviso sulla sua collocazione internazionale. Veltroni ha cercato un compromesso: restare fuori dal Pse e collegare il Pd al gruppo parlamentare socialista. Un pasticcio all’italiana che non regge. Faccio notare che con le prossime elezioni tutto il Pdl (compresa An) si collocherà nel Partito popolare europeo. Infatti in Europa, nei parlamenti nazionali e in quello europeo, le forze che si fronteggiano sono il Pse e il Ppe. E nel mondo sono in discussione temi cruciali che attengono alla crisi economica, al ruolo che debbono svolgere gli Stati nazionali e l’Europa nel loro rapporto con gli Usa e più in generale con la comunità internazionale. Il problema dell’identità del Pd e della sua collocazione in Europa non è, quindi, un fatto formale ma attiene alla sua politica e interessa tutti i cittadini.

Veltroni non capisce che gli equivoci sull’identità di un partito condizionano la sua politica e la sua stessa esistenza. E lo vediamo anche nel momento in cui si verifica l’altro dato su cui ragionare: l’elezione del senatore Riccardo Villari a presidente della commissione parlamentare Rai. I fatti sono noti: Villari, contravvenendo a una regola parlamentare (il presidente della commissione Rai è indicato dall’opposizione), è stato eletto con i voti del Pdl e, dopo tanto discutere e trafficare, ha detto che, nonostante gli inviti e le pressioni che sono venuti dal Pd e dal suo segretario, non si dimette. A questo punto nel Pd si pone una questione che ancora una volta coinvolge quella che si definisce come identità di un partito: Villari, che, eletto dal Pdl, rifiuta l’invito del suo partito a dimettersi, può restare ancora nel Pd? O deve essere espulso come chiedono alcuni dirigenti di quel partito?

Su questi interrogativi ho letto riferimenti «storici» che non sono nella storia. A leggere i giornali sembra che in passato le espulsioni per motivi politici li facesse solo il Pci. E si ricorda l’espulsione dei deputati Valdo Magnani e Aldo Cucchi che, dopo la rottura del Cominform con la Jugoslavia, si schierarono contro la posizione assunta dal Pci che sostenne la condanna di Tito. Ma negli stessi anni la Dc espulse i deputati Mario Melloni (Fortebraccio) e Ugo Bartesaghi che votarono contro la costituzione dell’esercito europeo. E ricordo agli «storici» che nel 1958 la direzione Dc (Fanfani, Moro, Segni, Rumor ecc.) espulse Silvio Milazzo, eletto dall’Assemblea regionale siciliana presidente della Regione dopo le ripetute bocciature del candidato Dc, Barbaro Lo Giudice. Un «caso» analogo a quello che vede eletto Villari da una maggioranza diversa da quella a cui partecipa il suo partito. Potrei continuare. La verità è che i partiti della prima Repubblica, prima della loro crisi, avevano una loro identità e anche delle regole, che, giuste o sbagliate, accettate dagli iscritti, facevano rispettare.

Il problema del Pd è tutto qui: quali sono le regole alle quali richiamarsi? Il Pd è un partito il cui segretario è eletto da primarie alle quali partecipano non solo gli iscritti al partito ma tutti i cittadini elettori, con i parlamentari nominati dai capi corrente (senza correnti!), con organi dirigenti evanescenti. La verità è che il Pd è sempre tra l’essere e non essere, tra il dire e il fare, tra il non dire e non fare. Nel «caso» Villari quindi richiamare i precedenti «storici» è una mistificazione, prevedere quel che il Pd farà è un azzardo. È meglio aspettare.

P.S. Mentre scrivo apprendo che Orlando e un altro parlamentare dell’Italia dei Valori si sono dimessi dalla Commissione di vigilanza Rai e Di Pietro auspica una candidatura «condivisa». Insomma, ancora una volta a decidere nel e del Pd è l’ex pm: prima affossandolo e dopo mostrando di tirarlo fuori dal fosso. Una conferma delle cose che ho scritte.
 
da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Dicembre 02, 2008, 08:35:23 am »

2/12/2008
 
In scena l'ultima questione morale
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Dopo il suicidio dell’ex assessore napoletano Giorgio Nugnes - scrive Giuseppe D’Avanzo su la Repubblica - c’è chi impropriamente evoca i suicidi di Gabriele Cagliari, Raul Gardini, Sergio Moroni e altri verificatisi negli anni di Tangentopoli. Accostare fatti che sono avvenuti in anni e situazioni molto diverse è sempre un azzardo. Tuttavia quel richiamo ha un senso, dato che riemerge una questione morale e si riacutizza il rapporto tra politica e giustizia in un quadro politico in cui i partiti-coalizione (Pd-Pdl) non hanno né storia né identità e sono, in forme diverse, entrambi coinvolti. Da questo punto di vista i richiami alla questione morale e alla «diversità» berlingueriana della sinistra (identificata nel Pci), come giustamente rilevava ieri su queste colonne Federico Geremicca, non hanno senso. Quei richiami a cui spesso ricorre Veltroni sono semmai la spia di una crisi di identità, dal momento che lo stesso segretario del Pd è teso a tagliare tutti i fili che legavano la «vecchia» sinistra con il «nuovo» partito di centrosinistra, tranne se stesso e altri esponenti del partito. Un «partito pigliatutto» che tende a identificarsi con la società così com’è, il modello dell’ultima edizione della Dc è, a mio avviso, causa della sua crisi. Un partito-coalizione come quello di Berlusconi può mietere consensi mettendo dentro tutto e tutti, da Previti ai giovani di Comunione e Liberazione, perché c’è il cemento della conservazione o il rifiuto di ciò che evoca ancora la sinistra.

La quale, invece, paga un prezzo alla sua stessa storia sia per l’eccesso di moralismo (a volte ipocrita), sia per i compromessi fatti proprio sul terreno della questione morale anche da un quadro di partito che proviene non solo dalla Dc, ma dal Pci. E paga la concorrenza sleale di Di Pietro che continua ad alzare la bandiera della moralità e a identificarsi con le procure, senza se e senza ma. I comportamenti di Di Pietro vanno discussi sul piano politico, dato che su quello giudiziario è stato sempre assolto dai reati di cui è stato accusato anche se con motivazioni moralmente discutibili. E il piano politico attiene proprio a quello della riforma della giustizia. Ma proprio su questo terreno il Pd sembra essere sul banco degli accusati con un Pm (il Di Pietro) che è suo alleato. Il tema è scottante, anche perché il rapporto tra politica e giustizia si ripropone. E si ripropone, per molti versi, nella forma e nella sostanza, come nei primi Anni Novanta: la debolezza e l’inquinamento della politica danno spazio a una visione giustizialista della giustizia. In questi anni dalle forze politiche sono venute sempre più frequenti critiche e accuse, a volte pesanti, alle procure e alla magistratura. Berlusconi ha ripetutamente accusato procure e giudici di indossare toghe politicamente rosse e di persecuzione sistematica. Il fatto che l’accusa venga dal capo del governo è grave, gravissimo, ma nel Pdl non c’è nessuno che su questo terreno fiati. Tutti allineati. Da parte del Pd c’è un formale rispetto per la magistratura, spesso in allineamento alla posizione dell’Associazione dei magistrati, ma anche un sostanziale rifiuto di quasi tutte le decisioni che riguardano suoi esponenti. Geremicca ieri ha fatto un elenco significativo ma incompleto. Tuttavia anche nella magistratura riemerge una tendenza a considerare i tribunali sedi di purificazione della politica. I magistrati che in passato si sono impegnati su questo terreno dovrebbero riflettere sulle ragioni per cui il tema della corruzione (non solo politica!) quindici anni dopo Tangentopoli si ripropone con tanta acutezza e perché la magistratura registra un basso tasso di fiducia tra i cittadini. Non sono solo le «campagne di diffamazione» a creare questo clima. Sappiamo che spesso il filo che separa le responsabilità politiche da quelle penali è sottile e a volte i magistrati non ne tengono conto. Del resto ci sono delle assoluzioni che su questo tema fanno riflettere. Se tutto è mafia nulla è mafia, diceva Leonardo Sciascia. Attenzione, quindi, ci sono modi diversi di delegittimare la giustizia e a volte i comportamenti di alcuni magistrati vi contribuiscono. Ma, per concludere, ripeto che il nodo è nella politica: se non è in grado di disinquinare se stessa e di definire con chiarezza il rapporto con la giustizia, la crisi si aggraverà e gli esiti possono essere più pesanti del passato anche perché c’è un’altra crisi che stringe la società, quella economica e sociale. E il loro intreccio può essere veramente dirompente. Non solo per il sistema politico.

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« Risposta #27 inserito:: Dicembre 10, 2008, 10:50:19 am »

10/12/2008
 
La questione morale è politica
 
EMANUELE MACALUSO
 

E’ trascorso poco più di un anno da quando quasi tutti i giornali, le tv pubbliche e private auspicavano la nascita del Pd, come un geniale progetto in grado di radunare le forze riformiste del centrosinistra e di dare un assetto al sistema politico fondato sul bipolarismo. Chi osava dubitare del fatto che nasceva un partito che avrebbe semplificato e modernizzato la politica italiana veniva bollato come un nostalgico del passato.

Come una scoria residuale del secolo scorso segnato dalle competizioni ideologiche e dalla partitocrazia. Quei partiti, in molte zone erano solo apparati, non più di funzionari con stipendi modesti, ma di «consulenti», «esperti» amministratori di società pubbliche e semipubbliche che fanno capo alle Regioni e agli Enti locali. Uno degli inventori di questo sistema fu Leoluca Orlando, a Palermo negli Anni Novanta, che pure ebbe il merito di dare all’amministrazione della città un’impronta antimafiosa.

Ho fatto questa premessa per dire che, a mio avviso, oggi nel Pd non c’è una «questione morale», anche se in qualche amministrazione la magistratura indaga (le indagini non sono certezze!) perché ci sono indizi di inquinamenti. C’è, invece, una «questione politica». E coloro che esaltavano la «geniale operazione», che metteva in campo il Pd, oggi martellano questo partito sulla «questione morale» tacendo sulla politica. E gli orfani del «grande progetto» discutono come sarebbe bello il Pd senza D’Alema o senza Rutelli, senza Veltroni o senza Parisi, senza Veronesi o senza la Binetti. Il professor Filippo Andreatta, che si è battuto per un Pd tutto nuovo, lunedì scorso sul Corriere della Sera in un articolo significativamente titolato «Il partito delle troppe ipocrisie», notava che i partiti fondatori del Pd «sono stati troppo caratterizzati da ideologie forti e professionismo politico per essere in grado di attrarre stabilmente un bacino di elettori potenzialmente maggioritario e significativamente più grande di quello Ds e Margherita». Vero, ma questa realtà non era presente ed evidente quando nacque il Pd?

Il problema è cosa fare ora. Federico Geremicca ieri nella sua nota osservava che il Pd cerca di mettere ordine nell’agenda delle sue «emergenze politiche» e fatica a trovare il bandolo della matassa. E non lo troverà se non affronta con spirito di verità gli «equivoci politici» su cui è nato: collocazione europea, temi eticamente sensibili e laicità, giustizia, rapporto tra Stato e mercato e riforma del Welfare. Nodi, sembra, che non possono essere sciolti senza sciogliere il partito. La prima scelta dovrebbe riguardare l’assetto democratico del Pd. Il quale ha un segretario eletto con le «primarie» senza regole e una direzione nominata dal segretario, come osserva l’ex ministro Parisi. Le primarie sono una cosa seria se sono regolate da una legge e se tutto il sistema, come negli Stati Uniti, si regge su quelle regole. Volete questo sistema? Presentate una legge di riforma complessiva.

Il risultato dell’equivoco è questo: false primarie a cui partecipano gli elettori (non registrati quindi di ogni colore) e gli iscritti, invece, sono tenuti fuori di ogni dibattito o scelta politica. Perché non chiamare gli iscritti, anche con referendum, a decidere se in Europa gli eletti del Pd debbono stare nel Pse o in un altro gruppo? Perché non chiamare gli iscritti a decidere sul testamento biologico o la separazione delle carriere dei magistrati? Un partito che non è impegnato nel dibattito politico, nel confronto e nelle decisioni, inevitabilmente si rinchiude nei fortilizi del potere locale e, inevitabilmente, per esercitare e mantenere quel potere allignano pratiche clientelari e anche corruttive. Veltroni ha scritto una lunga lettera al Corriere della Sera (sabato 6 dicembre) dicendo che il Pd deve «sapere selezionare i propri dirigenti e i propri rappresentanti sulla base della loro capacità politica insieme, indissolubilmente, alla loro moralità». Ma non dice una parola perché questo non è avvenuto e come fare per ottenere quel risultato. Siamo alle solite: discorsi generici e dichiarazioni di buone intenzioni. Ma se si continua così il pericolo che questo partito imploda è reale con danni non solo per la sinistra, ma per la democrazia italiana, anche perché non si intravedono alternative.
 
da lastampa.it
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« Risposta #28 inserito:: Dicembre 18, 2008, 10:36:16 am »

18/12/2008
 
Ben oltre Veltroni
 
EMANUELE MACALUSO
 

Bufera sul Pd». È il titolo che in questi ultimi giorni tutti i giornali hanno usato per segnalare fatti che sono catalogati come la questione morale che coinvolge pesantemente il partito di Veltroni. Su queste stesse colonne ho avuto occasione di dire che nel Pd è aperta in forma ormai lacerante una questione politica che mette in discussione l’esistenza stessa di questo partito.

Molti osservatori hanno richiamato le vicende che travolsero il Psi e il suo leader Craxi nella stagione di tangentopoli, per sottolineare il carattere morale della crisi di una forza politica investita da inchieste giudiziarie. Ma proprio l’esperienza del Psi mi fa insistere sul nodo politico non sciolto.

Il Psi nel 1976, quando Craxi in una seduta drammatica del comitato centrale fu eletto segretario, aveva toccato la percentuale di voti più bassa della sua storia nelle elezioni regionali del 1975 e in quelle politiche del 1976: meno del 10 per cento. In quegli anni la sfida e la rimonta del Psi furono giocate tutte sul terreno politico: la presa di distanza dai governi Andreotti fondati essenzialmente sull’asse Dc-Pci, come anticipo di una strategia volta a rompere quell’asse.

Presa di distanza che fu marcata anche nel momento del rapimento e dell’uccisione di Moro. La sfida poi si qualificò anche nel terreno delle riforme che investivano il sistema, sul giudizio della società degli Anni Ottanta e sui compiti della politica per assecondare o contrastare i processi sociali che in quegli anni si verificavano. Non è questa la sede per un esame completo di quella fase (i cui giudizi furono e sono ancora diversi), che portò Craxi alla presidenza del Consiglio con un governo di alto profilo (c’erano Scalfaro, Martinazzoli, Ruberti, Visentini, Spadolini, Andreotti ecc.). Ma una cosa è certa: fu una fase di elaborazioni e lotte politiche che coinvolsero tutta la sinistra nel suo complesso (il contrasto Pci-Psi), la Dc, i sindacati, le forze economiche. La «questione morale», anche allora, esplose nel momento in cui si pose una questione politica enorme, elusa soprattutto dai partiti di governo, Dc e Psi. C’è il 1989 e il crollo del Muro di Berlino, si accentua la crisi in Urss e la sua implosione si conclude nel 1991.

Cambia il mondo. Ma il sistema politico italiano, che dalla Guerra fredda era stato condizionato, invece non cambia. Anzi non cambia nulla. Occhetto nell’89 fa la svolta della Bolognina, cambia nome al Pci, ma lo lascia nel limbo. Craxi segretario del Psi, che vinceva il grande duello col Pci, anziché sfidare il Pci-Pds sul terreno dell’unità della sinistra nel socialismo democratico, cerca con tutti i mezzi di tornare a Palazzo Chigi con la Dc di Andreotti e Forlani. I quali pensano a chi dei due potrebbe andare al Quirinale, come se nulla fosse cambiato. Voglio dire che il Psi di Craxi, chiusa l’esperienza governativa, non fa più politica e tutto - come nella Dc - si svolge nella gestione del potere locale e centrale, nei grandi e piccoli enti pubblici. E il finanziamento illegale ai partiti si intreccia con la corruzione personale. Rino Formica in quegli anni disse che si vedono «conventi poveri e monaci ricchi». Questo lungo richiamo mi serve per dire che, diversamente da come nacque il Psi di Craxi, il Pd nasce senz’anima, senza lotta e passioni politiche con una fusione fredda tra Ds e Margherita che si traduce in un’ammucchiata di personale politico prevalentemente aggrappato ai poteri locali e impegnato nella riproduzione di se stesso, come il Psi nella seconda fase. Il sindaco di Pescara, ora agli arresti, con una deformazione istituzionale, era anche segretario regionale del Pd. E non è il solo caso.

Questo quadro si colloca dentro un contesto in cui si constata che il Pd non è in grado di decidere nulla. Faccio solo pochi ma significativi esempi: Europa e Pse, bioetica, giustizia, alleanza con Di Pietro, riforma del welfare secondo la proposta di Ichino e Morando ecc. Si capisce che su questi temi, che definiscono l’identità di un partito, non c’è lotta politica, voto con maggioranze e minoranze, vita democratica chiamando gli iscritti a votare e decidere. I discorsi del Lingotto, richiamati da Veltroni e i suoi amici come l’avemaria, sono acqua sul marmo. E quando leggo (vedi Il Riformista di ieri) che Veltroni deve dimettersi subito, mi chiedo: e dopo? Chi si propone con una linea politica e un modo di essere diversi? È questo il primo nodo da sciogliere. Altrimenti ci sarà solo una lenta o rapida implosione. Venerdì si riunisce una pletorica direzione del Pd. Sarà in grado di aprire un vero dibattito? Ne dubito.
 
da lastampa.it
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« Risposta #29 inserito:: Gennaio 20, 2009, 04:59:51 pm »

20/1/2009
 
Quel che resta di Walter
 
EMANUELE MACALUSO
 

Giovedì 15 gennaio un lettore della Stampa, Silvio Montiferrari, ha scritto una lettera a Lucia Annunziata per dire che a fronte di un mio «sconsolato articolo» sulla mancata fusione tra le componenti che hanno dato vita al Pd, «sabato 25 ottobre 2008 a Roma c’era il popolo dell’Ulivo (ora il Pd) con le sue mille bandiere». Francamente sconsolante mi pare la tendenza che si avverte nel leader del Pd Veltroni e in tanti suoi sostenitori a non vedere la realtà per quella che è, non come si vorrebbe che fosse, confondendo la propaganda con la politica. Proprio ascoltando Walter in quella manifestazione ho avuto conferma di quel che ho scritto su questo giornale. A mio avviso la domanda centrale che bisogna farsi è questa: cosa resta della strategia indicata da Veltroni, al Lingotto di Torino, di volere, costi quel che costi, un partito a «vocazione maggioritaria» e un sistema politico bipartitico, archiviando l’Ulivo e la coalizione prodiana di centrosinistra, fondata essenzialmente sull’antiberlusconismo?

A mio avviso non resta più nulla. Intanto dopo il Lingotto il Pd si alleò con il partito personale di Di Pietro, il quale, grazie alla campagna veltroniana del voto utile, poté superare lo sbarramento del 4 per cento. Successivamente, grazie a quell’avallo e alla spregiudicata e concorrenziale politica di Di Pietro, abbiamo visto transitare elettori del Pd verso l’Italia dei Valori. Questo dato ci dice che nella base elettorale del Pd resiste un equivoco politico tra quelle che sono le posizioni di Di Pietro e quelle che dovrebbero essere del partito di Veltroni. Ma, il dato politico centrale è che all’interno del Pd maturava il convincimento che la «vocazione maggioritaria» era solo una vocazione senza riscontri con la realtà, poiché il partito perdeva consensi e si determinava un evidente isolamento. Anche perché, dopo le elezioni, uno dei dati per cui si poteva prefigurare una riforma politica bipolarista, cioè un’intesa tra Pd e il partito di Berlusconi, non si era realizzato. Anzi la conflittualità tra i due poli si manifestava come in passato.

Ecco infatti D’Alema che parla di «amalgama mancato nel Pd» e della ricerca di alleanze guardando a Casini. Ecco Rutelli e molti altri che pensano a un partito di centro più robusto, alleato del Pd. Ecco Parisi che considera un errore la fine dell’Ulivo e delle alleanze a sinistra che si erano realizzate con il governo Prodi. Potremmo continuare. E intanto il Pd è paralizzato perché le strategie sulle alleanze definiscono anche i contenuti della politica sui temi che sono all’ordine del giorno: basta ricordare il testo sulla giustizia messo insieme da D’Alema e Casini. Non Di Pietro!

Ma c’è stato anche un fatto politico con cui il gruppo dirigente del Pd ha archiviato la strategia del partito a vocazione maggioritaria. Infatti nei giorni scorsi si è svolta una riunione dei «capicorrente senza correnti» del Pd in cui si è discussa della possibilità di modificare la legge per le elezioni europee insieme con Berlusconi, introducendo un consistente sbarramento senza preferenze. In quella sede Veltroni ha dovuto prendere atto che il tentativo di riproporre il bipartitismo coatto, grazie alla legge elettorale anche se la politica va in direzione opposta, è abortito.

A questo punto a me pare che la crisi del Pd (nei sondaggi di Mannheimer è al 23 per cento) va anzitutto ricercata nella crisi di una strategia che è rimasta solo come slogan propagandistico. Veltroni infatti non prende atto di un dato politico ormai evidente a tutti e non indica una strada diversa. Dire, come ha detto a Ballarò, che anche i grandi partiti europei registrano nei voti e nei sondaggi degli alti e bassi è un’assurdità. Quei partiti hanno un amalgama antico e consolidato e una strategia verificata negli anni. Far finta di niente non è una politica. E se non si chiarisce il punto il Pd rischia un’implosione distruttiva. Prendere atto della realtà e dire se e come modificarla dovrebbe essere la regola di chi guida un partito. O no?
 
da lastampa.it
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