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Autore Discussione: I dati della Questura: meno reati, ecco svelato il grande inganno  (Letto 4161 volte)
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« inserito:: Aprile 20, 2008, 11:58:52 am »

Roma capitale o Roma succursale?

Vittorio Emiliani


Il vento che è soffiato da destra sul Paese alle elezioni politiche ha attribuito al duello Rutelli-Alemanno per la guida del Campidoglio un rilievo ancor più nazionale di quanto avveniva per il rinnovo del sindaco del primo Comune d’Italia. Nella drammatizzazione, voluta da destra, ci si dimentica che, quando Francesco Rutelli, allora il “ragazzo col motorino”, affrontò nel 1993 Gianfranco Fini per la stessa carica, ebbe al primo turno soltanto 3,8 punti percentuali in più di lui (39,6 contro 35,8 per cento) prevalendo poi col 53,1 contro il 46,9 per cento del rivale. Oggi, è vero, c’è un tasso di astensionismo maggiore, c’è una fascia più ampia di indecisi o di “incazzati”. E ci sono anche quelli che - secondo una tagliente espressione di Michele Serra - sono rimasti a casa il 13-14 aprile “a misurarsi la puzza sotto il naso”.

Questo ballottaggio va al cuore del confronto politico fra due schieramenti, uno progressista, l’altro conservatore-populista e che quindi, in questi ultimi giorni, esso esige un impegno quotidiano diretto a favore di Francesco Rutelli da parte di chi vuole andare avanti con una capitale sempre più europea, sempre più attrezzata nei servizi e nei trasporti, sempre più dotata culturalmente e socialmente, sempre meglio salvaguardata nel cuore antico e nell’Agro. Dal 1993 è cominciato infatti, con Rutelli sindaco, un nuovo ciclo, poi continuato in modo altamente positivo da Walter Veltroni, che ha da una parte conservato egregiamente Roma e le sue stratificate, straordinarie bellezze e dall’altra dato impulso all’economia, ai servizi, alle strutture culturali della città. «Una città in accelerazione», l’ha definita il Censis, con una ricchezza annualmente prodotta, circa 95 miliardi di euro, che supera quella dell’intera Ungheria o Repubblica Ceca. Con un Pil che sale nettamente di più della media europea, per non parlare di quella italiana. Altro che Roma “ladrona”. Con una occupazione cresciuta nel periodo 2001-2006 del 13,7 per cento e un tasso di attività femminile giunto al 45 per cento, superiore di quasi 7 punti alla media nazionale. Altro che Roma pigra e sfaticata.

Certo, una città che deve migliorare quantità e qualità dei servizi metropolitani. Rutelli, assieme a Walter Tocci e ad altri, inaugurò quella “cura del ferro” che Comune e Provincia possono e devono sviluppare sempre meglio con Trenitalia e con altre aziende. Risolto il nodo annoso degli abusivi di Tor di Quinto, occorre chiudere finalmente l’anello ferroviario, il nostro ring, e da lì far ripartire per tutto il territorio regionale l’integrazione su rotaia. Che un caro-carburante di lunga durata renderà sempre più necessario in tutto il Lazio, nell’area vasta che va dai Castelli (riempiti assurdamente di auto) alla pianura pontina (dove l’Alta Velocità libererà i binari ordinari per il traffico locale e regionale), allo splendido territorio dei laghi verso Viterbo e la Tuscia, alla troppo trascurata Sabina e all’Umbria. Credo che Francesco Rutelli possa e debba rivendicare in questi giorni meriti indubitabili, fatti concreti in tale materia, e non le vaghe promesse elettoralistiche di Gianni Alemanno. Sviluppo della rete ferroviaria, in superficie e in sotterranea (con tutti i problemi archeologici che Roma pone, e però compromessi dignitosi si possono trovare) vuol dire impulso al policentrismo romano. Già in atto, sempre secondo il Censis.

Troppo di questa capitale continua a ruotare, in modo congestionato, attorno a piazza Venezia. Rutelli, negli otto anni da sindaco, ha il merito di aver attivato uno sviluppo virtuoso dei grandi quartieri periferici nati nel modo più “selvaggio” quando le amministrazioni dc avevano il sostegno dei missini, padri riconoscibili di Alemanno. Le borgate hanno segnato a fondo la storia di Roma nel ‘900, una delle prime, Primavalle, la creò il fascismo per deportarvi dichiaratamente i sovversivi e comunque i popolani meno “fedeli” dei quartieri storici demoliti per tracciare Via dell’Impero e Via della Conciliazione. Il risanamento delle ex borgate è stato realizzato con grandi costi sociali e con sforzi enormi dalle giunte di sinistra Argan-Benzoni, Petroselli-Severi, Vetere-Severi, dando loro una prima forma urbana.

Rutelli e Veltroni hanno avuto il merito di rafforzare l’identità delle periferie, borgatare e non, creandovi nuovi servizi socio-culturali importanti, per esempio il teatro a Tor Bella Monaca o, più recentemente, al Quarticciolo e, ancor prima, una rete di decine di biblioteche che sono poi veri e propri centri culturali. Sappiamo che nelle ex borgate c’è stato anni fa, con grande, amara sorpresa, un voto di massa non più a sinistra ma per una certa Dc, quella sbardelliana, ed ora c’è una maggior difficoltà per il consenso di centrosinistra. I Municipi romani hanno visto, il 13-14 aprile scorso, una generale riaffermazione del centrosinistra e della sinistra, con punti più deboli o meno forti a Cassia-Prima Porta (la sola peraltro dove lo schieramento progressista risulti sin qui minoritario, con un 39,7 per cento), a Boccea-Montespaccato, a Balduina-Primavalle (curiosa commistione fra dormitorio medioalto borghese ed ex borgata), a Torre Angela-Borghesiana e anche ad EUR-Spinaceto e a Trieste-Salario tradizionalmente un po’ più a destra.
Tutte circoscrizioni dove nelle elezioni per i Municipi il centrosinistra si attesta comunque sul 45-47 per cento, mentre a Ostia (che va ormai considerata una città a tutti gli effetti e come tale trattata), a Centocelle-Prenestino e a Montesacro-Talenti è di poco sotto il 50.

Credo che qui si debba insistere su di una politica che punti ad irrobustire l’armatura di servizi sportivi, di strutture sociali e culturali, di teatri, di biblioteche, e anche, perché no, di musei: perché non potenziare i "musei di scavo" che darebbero una storia e una matrice riconoscibile anche al popolo di immigrati e quindi di sradicati che ha fatto vivere quei confusi e poco umani, all’origine, agglomerati urbani? Il problema degli immigrati è grande in tutta l’area romana. Nel Comune si contano 250.640 regolari, con la Provincia si sale a circa 370.000. Roma, è vero, ha nel Dna storico il fatto d’essere città cosmopolita. Dall’antichità. Non a caso vi è insediata, con tratti tradizionali suoi propri, ed è bellissimo che sia così, la comunità ebraica più antica esistente, in modo ininterrotto, fuori dalla Palestina. Comunità che non vuole giustamente dimenticare le grandi sofferenze patite sotto lo Stato pontificio e, soprattutto, il terribile prezzo pagato all’Olocausto, ai lager nazi-fascisti. E noi con loro. Loro che sono i romani di più lontana discendenza, i più veri in fondo. Sacrosanto, quindi, il monito del neo-presidente della Comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici contro l’ombra del fascismo che si rifà minacciosa con Storace il quale per il ballottaggio appoggia subito, guarda caso, Gianni Alemanno, cresciuti entrambi sotto la fiamma.

Ma anche altre comunità hanno qui insediamenti remoti, legati alla storia della Chiesa, fra San Stanislao dei Polacchi e San Salvatore alle Coppelle, oppure comunità più recenti e però di massa, cattoliche come quella filippina, e musulmane, come quelle maghrebine ed egiziane, con la più grande e bella Moschea d’Europa. Sia che si tratti di integrazione, sia che si tratti di coesistenza, sono processi lunghi, tormentati e difficili. La costruzione di una società multietnica non è una passeggiata, come forse una certa sinistra radicale aveva immaginato. Sta allo Stato creare le condizioni affinché quei processi, così complessi, avvengano con meno disagi, meno sofferenze, meno traumi per tutti. Altrimenti la criminalità recluta sempre più facilmente fra gli immigrati più deboli la propria manovalanza.

Rutelli sa bene - come lo sa Nicola Zingaretti per la Provincia - che, col ritorno di Berlusconi al governo, le organizzazioni assistenziali, per lo più cattoliche, come la Caritas, così attive a Roma, pure per i rifugiati politici (se ne occupa meritoriamente il Centro Astalli dei gesuiti), avranno minori finanziamenti dallo Stato. Sa bene che toccherà al Comune, e ad altri Enti locali, gravarsi di un compito di supplenza più pesante. Ma se vogliamo più sicurezza, dobbiamo creare le condizioni affinché essa ci sia, dialogare con le comunità straniere, anche con le più chiuse (come quella cinese, peraltro numerosa, circa 20.000 persone, e concentrata all’Esquilino), chiedere loro il severo rispetto delle leggi, secondo il giusto slogan «massima integrazione-massima legalità». Nell’ultimo anno la comunità straniera di Roma, giunta, coi soli regolarizzati quasi al 10 per cento della popolazione - in essa occupano i primi posti Romeni, Polacchi, Ucraini e Albanesi - è cresciuta di altre 14-15.000 unità. Molte sono donne (colf, badanti, ecc.), numerosi ormai anche i titolari di imprese e impresine (sui 12.000), per la maggioranza celibi e nubili, una linfa giovane. Da non sprecare. Se vogliamo che Roma resti - checché se ne dica - la meno insicura, dati alla mano, delle metropoli occidentali.

La cultura è il grande “motore” delle città moderne e lo è, sempre più, anche a Roma. Credo che Francesco Rutelli possa rivendicare a sé e alla sua giunta di aver portato fin verso la conclusione la più grande operazione culturale dell’ultimo mezzo secolo: il nuovo Auditorium di Renzo Piano, il Parco della Musica, che, con oltre un milione di spettatori paganti è diventata oggi la più grande macchina culturale del nostro continente. Grazie alla riuscita collaborazione fra Musica per Roma (presidenti Bettini e Borgna) e l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (presidenti Cagli, Berio e di nuovo Cagli). Contemporaneamente la rete dei Musei comunali, col ritorno in campo degli splendidi Capitolini, sta registrando crescenti successi di pubblico. Mentre teatri di prosa e di musica vendono a Roma oltre il 17 per cento dei biglietti di tutta Italia, pur essendo la popolazione dell’intero Lazio il 6-7 per cento di quella del Paese. E si può fare anche di più e di meglio.

Questa culturale è la risposta migliore alle denigrazioni del vergognoso dossier imbastito da Berlusconi contro Roma. Perché “contro Roma” sarà, di necessità, il governo PdL-Lega Nord nel quale quest’ultima, “celtica”, nemica della capitale dalla propria nascita, avrà un ruolo decisivo. Un Alemanno alla guida di Roma (a parte che il binomio evoca tempi bui già a nominarlo) farebbe scadere la capitale d’Italia a quel ruolo di “succursale” di Palazzo Chigi che essa non ha più da molto tempo. Almeno da quel 1976 in cui il Campidoglio venne pacificamente riconquistato dalla sinistra. “Succursale” e ostaggio di un governo assai più nordista - perché più influenzato da quanti gridano “Roma ladrona!” - degli stessi esecutivi presieduti negli anni scorsi da Silvio Berlusconi. Che non lo scordino i romani al momento del voto per il ballottaggio, per Francesco Rutelli e per Nicola Zingaretti.

Pubblicato il: 19.04.08
Modificato il: 19.04.08 alle ore 10.17   
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 24, 2008, 11:50:58 pm »

I dati della Questura: meno reati, ecco svelato il grande inganno

Vittorio Emiliani


A Ballarò il candidato-sindaco del centrodestra, Gianni Alemanno, ha dipinto martedì sera un quadro «terroristico» di Roma, parlando di «sgoverno», di «situazione terribile», di «città fuori controllo». La più sonora smentita gli viene dai dati reali della Questura di Roma: nel raffronto fra i primi trimestri dell’anno, dal 2006 al 2008, l’ultimo presenta il segno meno in quasi tutti i reati.

Meno omicidi volontari (da 9 a 6), meno violenze sessuali (dalle 53 dell’anno passato alle 35 di quest’anno), meno furti, molti di meno, meno rapine (- 35%), meno reati connessi alla droga e così via. Dati che confermano, del resto, la tendenza nazionale al calo annunciata dal ministro dell’Interno Giuliano Amato che ne ha scritto, inascoltato, sul primo numero della rinata rivista Amministrazione civile del suo dicastero.

Pochi giorni or sono, il New York Times ha scritto, fra l’altro, che, a Roma, «uscire a cena è una cosa perfettamente sicura, grazie ad una bassa percentuale di criminalità», la capitale non è stata mai così sicura, anche «dopo il crepuscolo», dai tempi dell’imperatore Traiano. Firmato Jan Fisher che vive qui e sa quello che dice su giorni e notti romane.

Del resto, se la Roma odierna fosse quella dipinta a tinte fosche dal candidato-sindaco della destra, per quale masochismo sarebbero venuti l’anno scorso nella Città Eterna oltre 9 milioni di turisti che vi hanno soggiornato per alcuni giorni? Masochisti fino in fondo perché, intervistati dalla Doxa, oltre la metà di loro, il 51 per cento, ha risposto che non era alla prima vacanza sul Tevere. Dunque erano già stati fra noi e si erano trovati così bene da volerci tornare. Tutto ciò l’anno scorso, in pieno «sgoverno» veltroniano, secondo il fantasioso e cupo Alemanno (nomen/omen).

Il quale però non si è fermato lì e per quasi tutta la serata ha continuato a dipingere a tinte fosche la realtà romana, costellata di delitti, di stupri, di rapine e così via. Abbiamo già fornito la secca smentita che viene dai dati reali. Ma aggiungiamo qualcosa. Noi non siamo soliti attribuire ai sindaci le responsabilità relative al tasso di criminalità di questa o quella città, ben sapendo che i loro poteri in materia sono abbastanza scarsi. Però, siccome l’onorevole Alemanno insiste nel gettare la croce (celtica?) addosso a Rutelli e a Veltroni, andiamo a vedere, in base al Rapporto del Viminale sul 2006, cosa è successo realmente a Roma e cosa è accaduto oggettivamente a Milano dove, fra Lega, Forza Italia e An, il governo della città il centrodestra ce l’ha dallo stesso 1993 in cui Rutelli fu eletto per la prima volta in Campidoglio. Possiamo così constatare che negli omicidi volontari Roma è a 1 ogni centomila abitanti contro 1,7 di Milano che risulta superiore persino alla media nazionale di 1 e mezzo. Pessima graduatoria quindi. Che rimane tale per le rapine dove Milano (sempre riferendosi ai centomila abitanti) ne registra quasi il doppio di Roma, o per i furti in appartamento (336 contro i 257 di Roma).

Nello scenario truculento messo in piedi alla bell’e meglio da Alemanno c’è il discorso, in sé gravissimo, sulla droga. Anche in questo caso però gli va molto male, peggio anzi del previsto. Perché se a Roma, nel 2006, è stata denunciata una persona per spaccio di stupefacenti, a Milano, nello stesso anno, ne sono state denunciate poco meno di due. Di questi, quanti sono risultati stranieri? Uno immagina che nell’inferno romano cupamente affrescato da Gianni Alemanno siano, in percentuale, molti di più i delinquenti di nazionalità straniera, e invece no, essi risultano molti di più a Milano: quasi il 58% là contro il 40% qui. Percentuali che, in ogni caso, esigono più prevenzione, attenzione e rigore repressivo. Su un reato il candidato-sindaco della destra potrebbe avere le sue ragioni: per i furti di auto e moto Roma batte Milano, ma, insomma, non è un reato cruento o pericoloso come ammazzare qualcuno oppure spacciare droga.

Insomma, se esistesse un delitto di «terrorismo sociale e turistico», l’onorevole Alemanno potrebbe esserne accusato con ampia facoltà di documentazione e di prova. In effetti ha ragione Francesco Rutelli ad usare un solo aggettivo, liquidatorio, per quel suo comizio: irresponsabile. Apprendisti stregoni che scherzano col fuoco, che lo alimentano, aiutati da telegiornali e giornali dove l’Italia, e Roma con essa, per un omicidio avvenuto chissà dove fanno grondare di sangue il video per giorni e giorni. Così la provincia di Pavia - dove c’è, sì e no, un omicidio l’anno - per la vicenda irrisolta di Garlasco si tinge di sangue. Così Perugia dipinta, da mesi ormai, come una sorta di Sodoma e Gomorra d’Italia.

E poi ci lamentiamo se all’estero, nella stessa Europa, ci considerano un Paese fermo, seduto, anzi ripiegato su se stesso. Nella graduatoria degli omicidi volontari l’Italia è scesa, in cifra assoluta, dai 1.441 del 1992 ai 621 nel 2006, e da 4 ogni centomila italiani a 1,5. Con una netta diminuzione (specie in Sicilia) degli assassinii dovuti alla criminalità organizzata e con un aumento invece dei delitti passionali o familiari, cresciuti da 97 a 192 l’anno. La criminalità organizzata comunque «firma» tuttora un quinto degli omicidi volontari. Nonostante questa presenza malavitosa, tuttora sanguinaria, il tasso di omicidi si colloca in Italia in linea con le medie europee.

Sulle violenze sessuali - che oggi ben più di ieri vengono denunciate da chi le subisce - ha detto bene Rutelli: per una quota elevata, purtroppo, esse avvengono ad opera di persone conosciute dalla vittima, consanguinei oppure partner, parenti, amici, quindi fra le mura domestiche. La violenza sulla donna o sul minore non viene percepita fra quelle mura come un crimine vero e proprio. Sciaguratamente. Poiché questo appena descritto è lo scenario oggettivo della criminalità in Italia rispetto al resto dell’Europa e del mondo, poiché questo è il quadro autentico della criminalità a Roma che l’Interpol ha definito qualche anno fa la capitale più sicura fra quelle dei Paesi sviluppati, come mai la propaganda «sfascista» sull’Italia e su Roma può attecchire tanto? Perché la nostra informazione, in speciali modo quella in tv, con rare eccezioni, proietta - soprattutto nei periodi in cui al governo c’è il centrosinistra - una immagine largamente distorta della realtà criminale dando conto, spesso come prima notizia negli «strilli» dei Tg, di un delitto avvenuto chissà dove, amplificato poi per mesi, se la notizia è morbosamente ghiotta (Cogne, Garlasco, Perugia, ecc.), da tutti i possibili talk-show, a cominciare da Porta a porta. Ogni tanto vedo i Tg europei e non trovo nulla di paragonabile, di «oscenamente» paragonabile. E pensare che, secondo il Censis, oltre il 60% si forma proprio dalla tv un’opinione sulle cose. Che inganno, che manipolazione, che tremenda responsabilità civile.


Pubblicato il: 24.04.08
Modificato il: 24.04.08 alle ore 13.09   
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Vittorio Emiliani

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« Risposta #2 inserito:: Maggio 13, 2008, 04:38:23 pm »

Noi, i romeni e la xenofobia

Luigi Bonanate


È incoerente che, nel momento in cui un problema sorge all’interno di una società, la prima risposta immaginata sia l’inasprimento delle leggi. Si deve certo reprimere il reato che è in via di commissione (anzi, è un dovere), e a questo sono adibite le forze dell’ordine. Ma non serve por mano alla legislazione se le leggi che ci sono non vengono rispettate. Perché leggi nuove dovrebbero essere più rispettate soltanto perché più dure? Quando i governi si sostituiscono ai poliziotti fanno nascere, come è noto, lo stato di polizia. Sfido qualsiasi giurista (di destra o di sinistra) a dimostrarci che il sistema legislativo italiano è incapace di determinare le fattispecie criminose o che le sue forze di polizia sono inette o negligenti. Leggi e poliziotti fanno quel che possono, mentre la politica deve far maturare, all’interno del dibattito pubblico, un consenso generalizzato sulle soluzioni migliori per la società. Le leggi servono a indicare le regole della convivenza sociale. Per questo, detta anche i regolamenti, cioé il «come si fa» che comprende a sua volta le indicazioni relative alle violazioni. E una cosa è certa: fin dalla nascita dei principi della legislazione il diritto è stato concepito come un sistema di convivenza e non di repressione. Nasce non per proibire e punire, ma per indirizzare e organizzare.

Mi si dirà: belle parole, ma astratte, e intanto che noi discutiamo la delinquenza rom/romena continua a impazzare, e anzi se ci vede deflettere da una linea di rigore e di durezza, dilagherà. Cerchiamo di vedere chi ha ragione. Da una parte, il nostro Paese è invaso di decine di migliaia di immigrati, una notevole parte dei quali è clandestina. Di questi ultimi non pochi sono romeni. I romeni, a loro volta, provengono da uno stato sovrano che è da poco entrato nell’Unione Europea e nel sistema-Schengen che regolamenta i movimenti delle persone all’interno dell’intera comunità (di tutto ciò l’Italia è, consapevolmente, un ventisettesimo). La legislazione italiana, quella romena e anche quella europea sono lì pronte a sorvegliare e regolamentare il movimento delle persone. Possiamo pensare che queste ultime siano tutte delinquenti e criminali? La badante di mia madre è una futura ladra, che non attende che il momento propizio per derubarla? I maschi romeni sono tutti stupratori che si appostano dietro i cespugli prima di saltare addosso alle nostre donne?

Come mai tanti romeni? Da parte loro, si adattano bene alla nostra lingua e alle nostre abitudini, così come dev’essere successo a molti nostri imprenditori, se è vero che 25.000 imprese romene lavorano grazie a capitale italiano. Diremo che il denaro ha più diritto di muoversi che le persone? Ora il ministro della Difesa Melescanu ci taccia di xenofobia e ci ricorda che i romeni — come gli inglesi, i francesi o gli spagnoli — sono, fino a prova contraria, ugualmente concittadini dell’Unione che hanno diritto di abitarla come noi e ci diffida dal maltrattarli. Dovevamo votare contro la loro ammissione nell’Unione, o non facevamo sul serio? E pensare che avevamo creduto che l’apertura dei confini verso l’Est europeo fosse una buona cosa, una grande occasione di indennizzo e di rinascita per dei Paesi che per 50 anni avevamo compatito perché sotto il giogo sovietico: per poi scoprire che erano tutti delinquenti? Dovremmo ora invece riflettere attentamente all’accusa che ci è stata rivolta e che è una delle più gravi che un Paese possa rivolgere a un altro: una volta avrebbe provocato una dichiarazione di guerra!

Lo xenofobo è chi ha pregiudizialmente in odio gli stranieri, e questo nostro atteggiamento verso i romeni potrebbe dispiacere anche ai tedeschi o ai danesi... Come rintuzzeremo la sfida di Melescanu? Fermeremo gli immigrati sul bagnasciuga? Sarebbe meglio che tutti insieme ci sforzassimo di affrontare quello che è uno dei grandi problemi dell’umanità nell’era della globalizzazione: né gli italiani hanno inventato la criminalità né i rumeni sono santi, ma stiamo partecipando (ci piaccia o no) alla formazione di una nuova struttura sociale universale. Le razze si confondono, non perché ci piaccia di più Naomi Campbell rispetto alla figlia (o al figlio) della lattaia all’angolo, ma perché la composizione delle classi sociali, la crescita della popolazione qui meno e là più, le disuguaglianze di reddito e di chances di vita, di fortuna di nascita o di sfortuna (tutte cose che una volta condannavano irrimediabilmente e senza appello chi era nato dalla parte «sbagliata»), non sono più accettate e subite passivamente. Non risolveremo mai nulla se ci affideremo ai ministri della Difesa; servono ad altro. Noi non siamo in guerra, ma dobbiamo fronteggiare una immensa transizione umanitaria. La soluzione repressiva è persin ridicola, se ci si pensa: riusciremo mai a mettere in galera tutti i criminali che ci sono al mondo? Dovremmo piuttosto preoccuparci di creare condizioni di partenza (per ogni essere umano) sempre meno differenziate, che riequilibrino, almeno in parte, le condizioni di partenza di tutti. Non è forse questa una clausola elementare di ogni sano pensiero liberal-democratico?

E nel frattempo? Spiace che quei tratti di particolarismo xenofobo che sembravano esclusivi della Padania sbarchino a Roma e colorino l’attuale governo (le cui prime dichiarazioni trasudano aggressività). Nessuno desidera neppure che quest’ultimo debba affannarsi a risolvere problemi non suoi; ma dobbiamo capire che se la strategia è repressione+espulsione, il governo imbocca una via difficilissima, certamente violenta e tendenzialmente poco democratica. L’alternativa è quella dell’accoglienza unita all’integrazione: anche a costo... che ci costi! Perché mai non dovremmo poter essere chiamati a fare dei sacrifici per affrontare una situazione che è prodotta da trasformazioni storiche epocali, che possiamo governare ma non bloccare?


Pubblicato il: 13.05.08
Modificato il: 13.05.08 alle ore 13.15   
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 14, 2008, 07:07:25 pm »

14/5/2008
 
Giustizia fai da te
 
 
 
 
 
LUCA RICOLFI
 
Polizia costretta a intervenire a Napoli per evitare il linciaggio di una rom sospettata di aver tentato di rapire una bambina. Baracche (fortunatamente vuote) di un campo rom incendiate nel quartiere Ponticelli di Napoli. Molotov contro un altro campo nomadi a Novara. Ronde di ogni specie e colore che sorgono un po’ dappertutto per proteggere i cittadini da ladri e malviventi. È bastato che il centro-destra vincesse le elezioni, e il clima del Paese è cambiato quasi all’istante. Anziché aspettare il varo dei provvedimenti del governo, molti sembrano aver deciso di fare da sé. Né si può dire che a questo spirito vagamente autoreferenziale si sottragga completamente il governo stesso, almeno a giudicare dal semplicismo di varie ricette di cui si sente parlare in questi giorni.

Non sono buone notizie, perché la giustizia «fai da te» non risolve i problemi, è pericolosa, spesso porta con sé abusi, prevaricazioni, vendette private, in breve genera altra ingiustizia. Ma proprio perché è una strada sbagliata, dobbiamo capire che cosa la alimenta. Il modo migliore per farlo, a mio parere, è leggersi Non sulle mie scale (ed. Donzelli 2001), un piccolo libro in cui Italo Fontana, psicoanalista torinese, racconta come, alla fine degli Anni 90, la vita della sua famiglia sia stata devastata da una doppia calamità: l’installarsi di decine di criminali immigrati nelle soffitte del suo condominio, e la completa sordità delle istituzioni cittadine.

Perché è utile leggere o rileggere quel testo? Perché vi si trova una spiegazione profonda di quanto sia difficile, per chi crede nella legalità, nella democrazia, nella solidarietà, nella libertà individuale, mantenere nel tempo l’animo sereno e la mente aperta, senza farsi prendere dalle peggiori pulsioni. Il cocktail micidiale, che richiede sforzi disumani per non esplodere, è fatto di tre ingredienti:
a)la scoperta che molti immigrati clandestini non sono poveretti alla ricerca di un lavoro dignitoso ma persone arroganti, prepotenti, violente;
b)la scoperta che le attività criminali e i luoghi del loro esercizio sono perfettamente noti alle autorità;
c)la scoperta che, anche di fronte alle vessazioni più drammatiche, le autorità non intervengono e non rispondono, opponendo il classico «muro di gomma».

Se ci riflettiamo un attimo, non è difficile rendersi conto che i tre ingredienti sono tutti presenti nella situazione attuale. I cittadini sono esasperati perché le attività criminali si svolgono sotto i loro occhi, perché si sa perfettamente dove si spaccia, dove si arruolano manovali in nero, dove si viene derubati, dove non si può camminare senza pericolo, ma si sa pure che - per i motivi più diversi - le istituzioni non interverranno.

Le istituzioni talora non intervengono perché le leggi non glielo consentono, e da questo punto di vista non si può che augurare al nuovo governo di riuscire a cambiare le norme che impediscono di perseguire efficacemente il crimine. Ma nella maggior parte dei casi le istituzioni non intervengono per due altri ordini di motivi, che ben poco hanno a che fare con le leggi. Il primo è l’inerzia amministrativa, ossia l’incapacità di capire che la libertà di espressione diventa una presa in giro se non c’è anche il diritto dei cittadini a ottenere risposte. Il secondo è la mancanza di risorse organizzative, fisiche, materiali: personale, uffici efficienti, banche dati, processi rapidi, carceri all’altezza di un paese civile. Il rischio, in questo momento, è che il governo si illuda che l’azione chiave sia l’inasprimento delle pene. Non è così: se c’è un risultato solido della ricerca empirica sulla devianza è che la gravità delle pene ha un effetto deterrente minimo, mentre ne ha uno molto più incisivo la probabilità di essere condannati, catturati o anche semplicemente disturbati. Ciò è tanto più vero in una situazione in cui è noto a tutti, e in primis ai criminali, che in Italia le pene sono e resteranno ancora a lungo puramente virtuali, visto che la magistratura è ingolfata di pratiche e mancano almeno 30 mila posti nelle carceri. È per questo che il nostro Paese è diventato la mecca del crimine.

Ecco perché oggi, con la gente che tende ad autorganizzarsi, la capacità delle istituzioni di «esserci» diventa la variabile fondamentale. Ma esserci come?

In attesa che i processi diventino più brevi e l’edilizia carceraria faccia il suo corso, a me pare che le uniche strade che possono dare risultati immediati siano il ripristino del controllo del territorio (non solo nelle regioni di mafia, ma anche in tante aree del Nord) e una massiccia opera di interferenza negli affari illegali della criminalità, dalla chiusura di attività al sequestro di beni alla confisca di patrimoni. Senza questa nuova visibilità dello Stato e delle istituzioni temo che il cambiamento delle leggi darà ben pochi risultati, e la «giustizia fai da te» verrà sempre più percepita come l’unica strada percorribile. Perché la «giustizia fai da te», come la mafia, prospera dove lo Stato si ritira o non fa il suo dovere. Abbiamo già un primo Stato, quello legale, e un secondo Stato, la criminalità mafiosa. Forse non è il caso di preparare le condizioni che potrebbero far sorgere il terzo Stato, quello dei cittadini esasperati.
 
da lastampa.it
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