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Autore Discussione: Gian Carlo Caselli. Chi non vuole il 41 bis  (Letto 4399 volte)
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« inserito:: Luglio 07, 2007, 05:23:29 pm »

Io nel mirino del Sismi

Gian Carlo Caselli


Acquisizione di dati in modo capillare e continuativo. Monitoraggio di attività, movimenti e corrispondenza informatica. Dossier custoditi a Roma, in via Nazionale, in una sede (separata) del Sismi.

Messa così potrebbe sembrare un’ordinaria attività di intelligence.

Invece è tutt’altra cosa. Primo, perché oggetto dei dossier sono giudici e Pm, uffici giudiziari, libere associazioni (italiane ed europee) di magistrati. Poi perché ben strano è l’oggetto delle «inchieste». Fatti specifici, zero. Men che mai ipotesi di un qualche illecito. Neppure l’ombra di pericoli per l’indipendenza e l’integrità dello Stato (confine che delimita attribuzioni e competenze del Servizio segreto militare). Niente di niente. Ma non per i solerti schedatori. Una colpa gravissima secondo loro c’è: i magistrati pensano! Pensano e operano, a volte, in maniera che al potere politico dominante non piace. Sono magistrati che rispettano la legge? Danno prova di indipendenza? Proprio qui sta il punto. In quanto perversamente inclini ad una giustizia uguale per tutti sono scomodi per chi comanda. Sono pericolosi e vanno tenuti d’occhio. Magari neutralizzati.

Il Csm (organo che la Costituzione pone a presidio dell’indipendenza della magistratura) riceve questi strani dossier. Li esamina e alla fine approva - all’unanimità - una relazione argomentata e severa.

Con questa relazione il Csm rileva diversi punti:
· l’acquisizione della documentazione ebbe inizio subito dopo le elezioni politiche del 2001;
· fu disposta perché i magistrati oggetto di attenzione venivano considerati (in ragione dell’attività giudiziaria svolta o delle posizioni assunte nel dibattito politico-culturale) non in sintonia con la nuova maggioranza di centro-destra;
· si svolse in modo continuativo fino al settembre 2003 e in modo saltuario fino al maggio 2006;
· si proponeva di intimidire i magistrati impegnati in delicati processi, con perdita di credibilità e significativi ostacoli all’indipendente ed efficace esercizio della giurisdizione (oltre ai danni, professionali e di immagine, per i singoli);
· poteva contare sull’ausilio di appartenenti all’ordine giudiziario, anche rivestenti «qualificato incarico di supporto governativo».

Inquietante e stupefacente che tutto ciò sia potuto avvenire nell’Italia del terzo millennio. Registrandolo, il Csm non ha fatto altro che il suo mestiere. Ecco invece fior di opinionisti e di politici (compresi alcuni magistrati prestati alla politica) che incredibilmente se la prendono proprio con il Csm. Non chiedono di individuare i responsabili della squallida vicenda. Non invocano approfondimenti, trasparenza e chiarezza. Si scagliano contro il Csm. È la solita storia: quando lo specchio rivela un bubbone, invece di curarlo c’è sempre qualcuno disponibile a rompere lo specchio. Si chiama eclissi della questione morale. Negare sempre - anche di fronte all’evidenza - che possa esserci del marcio, quando serve per blindare certi interessi. Aggredire pesantemente chi cerca di far emergere la verità. Agitare cartellini rossi contro l’arbitro che pretende il rispetto delle regole, mai contro chi potrebbe averle violate. Questa è la democrazia «moderna».

Allo sconcerto istituzionale, chi scrive deve aggiungere lo sgomento personale. Il mio nome ricorre più volte nei dossier di via Nazionale. E ho lavorato a Torino, Palermo e Bruxelles, sedi che sono nel mirino di quei dossier. Ora, da più di 30 anni vivo sotto scorta. Prima le inchieste sul versante dell’antiterrorismo (Brigate rosse e Prima linea); poi la decisione di andare a Palermo subito dopo la morte di Falcone e Borsellino: una sequenza di esperienze professionali particolarmente rischiose che hanno imposto speciali misure di protezione, per me ed indirettamente per la mia famiglia. Ricordo bene i soldati di leva (era in corso l’operazione «Vespri siciliani») che a Palermo presidiavano 24 ore su 24 il pianerottolo della mia abitazione, armati di tutto punto, con intorno - sulla porta di casa - sacchetti di sabbia e rotoli di filo spinato, come fossimo in trincea. Sarò sempre grato agli uomini che (rischiando essi stessi ogni giorno) hanno saputo assicurarmi una relativa serenità. Uomini che in almeno in quattro o cinque occasioni mi hanno salvato la pelle, impedendo che fossero attuati avanzatissimi progetti di attentato. Come in quel Natale che invece di portarmi da Palermo a Torino mi sballottarono da una città all’altra, spesso chiuso dentro un furgone blindato, finchè - dopo giorni e giorni - non cessò lo stato d’allarme. Indigna scoprire oggi che mentre lo Stato mi proteggeva coi suoi uomini migliori, pezzi dello stesso Stato si davano da fare per neutralizzarmi... Dare con una mano e cercare di togliere con l’altra è schizofrenico. Sintomatico di un forte disagio della nostra democrazia. Per favorirne la deriva basterà far finta di credere che in via Nazionale non è successo nulla. E prendersela col Csm che osa dissentire.

Pubblicato il: 07.07.07
Modificato il: 07.07.07 alle ore 11.15   
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 10, 2007, 03:14:03 pm »

10/7/2007
 
Il cuore nero della Repubblica
 
GIOVANNI DE LUNA
 

Il Sismi come il Sifar. C'è una lunga litania di tentativi di colpi di Stato, depistaggi, insabbiamenti che accompagna la storia dei servizi segreti nell'Italia repubblicana. Limitandoci a quelli che più da vicino ci ricordano Pio Pompa e il suo «archivio» possiamo citare i 150 mila dossier del Sifar scoperti nel 1974 (poi distrutti, ma ritrovati anche nelle carte di Licio Gelli); i 20 mila fascicoli illegali prodotti dai servizi di sicurezza e di informazione venuti alla luce nel 1999; le migliaia di documenti, frutto di indagini clandestine e illecite condotte - attraverso l'utilizzo di banche date istituzionali - da un'associazione a delinquere che comprendeva impiegati della Telecom insieme con servizi segreti nazionali e internazionali, ritrovati nel 2006. C'è dunque un «cuore nero» della nostra Repubblica dove il «segreto» assume i contorni inquietanti dell'anti-Stato. E a ogni scandalo che coinvolge i nostri servizi sembra che la storia si ripeta, in una sorta di eterno ritorno di un qualcosa che ormai appartiene alle nostre istituzioni, e ne connota irreversibilmente le identità e il funzionamento; ma non è così, e questo scandalo è diverso e più preoccupante degli altri.

Esiste una fisiologia nel segreto e negli arcana imperii; nessun potere, nemmeno quello democratico, potrebbe funzionare adeguatamente vivendo interamente alla luce del sole, senza nessun tipo di attività segreta. Con una sorta di rassegnata consapevolezza Norberto Bobbio ha parlato di una tendenza naturale e quindi ineliminabile «di ogni forma di dominio a sottrarsi allo sguardo dei dominati nascondendosi e nascondendo, ovvero attraverso la segretezza e il mascheramento». Il potere statale si è sempre avvalso del segreto come mezzo di potenza. Il problema è che la logica della segretezza e il prevalere della ragion di Stato, portati oltre limiti ragionevoli, possono non solo condurre alla menzogna e all'inganno dell'opinione pubblica, ma anche provocare danni e guasti per l'azione degli stessi governanti.

La divaricazione tra i fatti reali che vengono nascosti e la loro rappresentazione ufficiale provoca fenomeni di autoinganno e conduce a decisioni politiche errate. In uno scenario molto più rilevante per la storia del mondo, la pubblicazione dei Pentagon Papers da parte del New York Times nel 1971 rese evidente, ad esempio, come l'intera catena di decisioni che portò all'intervento americano in Vietnam nasceva dall'ostinata volontà del Pentagono di ignorare i fatti e la realtà per inseguire l'ottusità burocratica dei servizi. Pensiamo alla situazione che avrebbe potuto realizzarsi se il governo avesse preso sul serio i dossier del Sismi: il nemico principale del nostro paese sarebbe stato identificato nella «Spectre» dei magistrati democratici europei e l'interesse nazionale da tutelare sarebbe diventato quello personale del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Una distorsione letale per il funzionamento delle nostre istituzioni, un pericolo reale per l'Italia che deve guardarsi da ben altri nemici.

Ed è in questo senso che lo scandalo Sismi appare come inquietantemente nuovo rispetto al passato. Questa tendenza alla deviazione privatistica del funzionamento delle istituzioni era già emersa nel confronto tra i dossier Sifar del 1974 e quelli Telecom del 2006; da un lato un illecito commesso da organi dello Stato, dall'altro un'attività illegale posta alla confluenza tra pubblico e privato. Ora con i dossier di Pio Pompa questa tendenza si fa ancora più evidente. I servizi segreti appaiono come i protagonisti di una guerra per bande, coinvolti nello scontro tra le varie fazioni politiche, pronti a una loro singolarissima interpretazione dello spoils system che li porta a negare ogni forma di riserbo istituzionale. In passato la dimensione «invisibile» della politica non è mai stata in grado di sopraffare completamente quella «visibile» del confronto libero e aperto tra le varie opzioni che si fronteggiano sul terreno della rappresentanza politica. Ma allora il lato oscuro della Repubblica si confrontava con una politica forte e un sistema dei partiti pienamente legittimato, c'era la guerra fredda e la lotta tra comunismo e democrazia assorbiva e nobilitava anche i risvolti personalistici e affaristici degli intrighi tramati all'ombra dei servizi. Oggi quel grande mantello ideologico non c'è più, gli appetiti egoistici disvelano senza limiti la loro natura, il senso dello Stato si appanna in una crisi di legittimazione complessiva del nostro sistema politico.

Mettiamola così: il potere invisibile può anche essere rimasto quello di sempre; il linguaggio di Pio Pompa sembra riecheggiare in modo quasi grottesco quello insieme allusivo e burocratico degli informatori dell'Ovra; ma è il potere visibile a essersi inceppato, ed è questo che rende inquietante uno scandalo che in altri tempi poteva essere liquidato con qualche allarme e molta ironia.
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 16, 2008, 11:13:50 pm »

Proposte per la giustizia

Gian Carlo Caselli


Chiunque vinca le elezioni dovrà affrontare il problema di una giustizia sempre più lenta e inefficiente. Lasciando da parte ogni ideologismo, i punti da cui obbligatoriamente partire - per tutti - sono questi:

1) Si spende in modo insufficiente rispetto alle esigenze e quel poco si spende male.

2) Ormai insostenibile è la situazione del personale ausiliario: a causa della mancanza di nuove assunzioni e del pensionamento (anticipato o meno) di un numero crescente di soggetti, la scopertura degli organici tocca oggi il 12,59% su scala nazionale, con picchi in negativo (che talora arrivano oltre il 25%) prevalentemente nel Nord Italia ; - una situazione che sta facendo diventare il personale amministrativo della giustizia una... specie (non protetta) condannata all’esaurimento.

3) In nessun Paese europeo vi sono sistemi processuali farraginosi e complessi come quello italiano: ciò sia nel civile (per la stessa varietà dei riti), sia nel penale, dove la procedura è ormai diventata una prateria sterminata per eccezioni d’ogni tipo, un percorso ad ostacoli pieno di trappole e insidie, nel quale il confine fra garanzie e formalismi (quando non privilegi) è spesso sottilissimo.

Con la conseguenza che imputati eccellenti e meno eccellenti trovano preferibile (anzichè esercitare i loro sacrosanti diritti di difesa nel processo) cercare di ritardarne la celebrazione tempestiva.

4) In tutti i Paesi europei le impugnazioni sono nettamente inferiori (sia per numero sia per durata) rispetto all’Italia e ciò ovviamente si ripercuote - in modo assai pesante - sulla durata complessiva dei processi.

La giustizia non funziona, ma i problemi che essa deve affrontare sono sempre più estesi e complessi: la corruzione; il crimine organizzato e le complicità di cui gode; la mala-sanità, la mala-amministrazione e la mala-politica quando l’uso del potere si fa pessimo fino a configurare reati; gli infortuni sul lavoro; la sicurezza e via elencando... Se non si vuole che la Repubblica italiana si fondi sempre più sull’illegalità, è assolutamente necessario e urgente portare a livelli che siano almeno decenti il funzionamento del sistema giustizia. Ancora una volta potrebbe invece affiorare la tendenza (anche trasversalmente, come testimoniano gli applausi bipartisan al dimissionario ministro Mastella) a programmare la riforma non della giustizia ma dei giudici.

Il vizio di accusare i magistrati di politicizzazione o peggio, di giustizialismo, di invadenza, di eversione, di costituire un’emergenza democratica è un vizio duro a morire. Ora, è noto che a forza di ripeterle anche le balle più colossali finiscono per sembrare vere, e tuttavia non si può abdicare al dovere di ragionare. Ragionando, si vedrà che l’intervento giudiziario è in espansione in tutti i sistemi democratici. Ovunque esso occupa le prime pagine e i suoi effetti creano frizioni con il potere politico od economico, fino a turbare destini di governi. Gli esempi che si possono fare sono infiniti: sono stati i giudici a smembrare l’impero informatico di Microsoft; il presidente Clinton è stato più volte processato per certe tracce lasciate su di un abito; la prima elezione del presidente Bush è stata decisa da un giudice della Florida; vari esponenti dell’attuale amministrazione Bush sono coinvolti in una delicata inchiesta che riguarda l’innesco della guerra in Irak; a Chirac si chiede conto di certe assunzioni fatte come sindaco di Parigi; l’ex primo ministro de Villepin è coinvolto in un’inchiesta collegata ad un affare di tangenti per alcune fregate vendute a Taiwan; Bertie Ahern, primo ministro irlandese, è accusato per finanziamenti illeciti della sua campagna elettorale; in Israele quattro indagini sono state avviate contro il primo ministro Olmert per fatti di corruzione, mentre il presidente della Repubblica Katsav e il ministro della giustizia Ramon han dovuto dimettersi perché accusati di molestie sessuali.

L’espansione della giurisdizione è dunque un fenomeno che ha dimensioni oggettive, e ciò sembra escludere che vi siano, quantomeno in misura prevalente, forzature soggettive. Il caso italiano non fa eccezione a questo «trend», ma presenta due particolarità. Mentre ovunque nel mondo i «potenti» coinvolti in vicende giudiziarie non si sognano neanche un po’ di prendersela coi loro giudici, ma accettano «naturalmente» che la giurisdizione possa esercitarsi anche nei loro confronti, in Italia - e soltanto in Italia - il magistrato che sfiora certi interessi deve mettere in conto che potrà essere aggredito con insulti d’ogni tipo (ovviamente cosa ben diversa dalle critiche motivate, sempre legittime); - e l’aggressione si risolve in un sostanziale rifiuto della giurisdizione, con la nota tattica del difendersi non tanto «nel» quanto piuttosto «dal» processo.

Altra peculiarità del nostro Paese è che i processi di Tangentopoli, mafia, mala-politica, mala-sanità e mala-amministrazione pongono un problema drammatico: se la situazione che ne risulta costituisca un dato esteso ma pur sempre marginale della nostra democrazia, ovvero ne sia diventata elemento strutturale. Una positiva risposta a questi interrogativi si avrebbe se la politica esercitasse il suo indiscutibile primato anche utilizzando gli elementi di conoscenza che scaturiscono dalle inchieste giudiziarie, intervenendo con nuove leggi o controlli più adeguati. E invece di tutto questo abbiamo avuto ben poco dal ’90 ad oggi. Per contro emerge una certa tendenza (trasversale) a mal concepire il primato della politica, a farne la base per pretendere una sorta di sottrazione ai controlli di legalità. Ecco allora che la giustizia nel nostro Paese non funziona, ma invece di chiedere «più» giustizia si chiede «meno» giustizia, tutte le volte che si incrociano determinati interessi. Ecco allora che alla magistratura si chiede di fare un passo indietro, invece di potenziarne gli strumenti, mentre si scatenano - oggi come ieri - martellanti campagne secondo cui la giustizia è ridotta a campo di battaglia dove consumare vendette e scontri politici. Senza comprendere che l’autoreferenzialità della politica e la sua pretesa di autoassolversi in perpetuo sono nocive prima di tutto alla credibilità della politica stessa e finiscono anzi per alimentare quell’antipolitica che non basta esorcizzarla perchè non si manifesti o non si estenda. Soltanto la cattiva politica può fingere di non sapere che l’indipendenza della magistratura e l’obbligatorietà dell’azione penale servono al consolidamento della democrazia. La buona politica lo sa, ma spesso rimane afona, non si fa sentire.

Dunque, riforma della giustizia certamente sì, ma partendo dal rispetto della giurisdizione (come garante dei diritti dei cittadini e delle regole di convivenza, nonché fattore di equilibrio del sistema istituzionale) e quindi dal rispetto che in qualunque paese civile è dovuto ai magistrati. Solo così, oltretutto, si potranno concretamente avviare credibili percorsi di responsabilità dei giudici e serie valutazioni della loro professionalità e produttività. C’è un grande bisogno anche di questo, non di «normalizzazione» della magistratura. Obiettivo sempre presente in certe agende: che se fosse realizzato qualcuno brinderebbe, ma non sarebbe un bel giorno per il nostro Paese.

Pubblicato il: 16.02.08
Modificato il: 16.02.08 alle ore 8.29   
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« Risposta #3 inserito:: Luglio 10, 2008, 05:07:53 pm »

Chi non vuole il 41 bis

Gian Carlo Caselli


C’era una volta che i mafiosi nessuno li cercava. Poi si cominciò a catturarne qualcuno, ma non sempre restavano in carcere. Robusti killer allenati alla ferocia, spietati torturatori e compiaciuti esecutori di efferate sentenze di morte, di colpo diventavano fragili omiciattoli, cagionevoli di salute, afflitti da mali d’ogni tipo che li rendevano incompatibili col carcere. Quei pochi che in carcere ci rimanevano, vivevano ben diversamente dai detenuti comuni. Per loro, la prigione era un grand hotel.

Tanto che la storia della mafia è stata - per certi versi - anche storia del potere mafioso “nonostante” il carcere e persino “dentro” il carcere. Il detenuto mafioso , abituato a dettar legge ovunque, per decenni è riuscito a trasformare anche il carcere in una porzione del territorio nel quale esplicare il suo dominio, una dépendance della borgata dove spadroneggiava prima della cattura. Un paradossale rovesciamento dei rapporti di forza, dove la parte debole - invece del detenuto - era lo Stato. E il fatto che il mafioso detenuto potesse mantenere intatto il suo potere, nonostante la carcerazione, costituiva un’esibizione di forza che ne accresceva l’autorevolezza, rafforzava il mito dell'impunità mafiosa, vanificava quelle iniziative di contrasto dell’organizzazione mafiosa che una minoranza di uomini onesti cercava di portare avanti.

Giovanni Falcone, che ben conosceva questa vergognosa situazione di favore per criminali che avrebbero dovuto essere fronteggiati senza sconti, quando (di fatto cacciato da Palermo) cominciò a lavorare a Roma al ministero della Giustizia, mise in cantiere - tra l’altro - la normativa sui “pentiti” e l’adozione di nuove norme per i mafiosi detenuti allo scopo di realizzare un trattamento differenziato, modulato sulle specifiche e concrete esigenze di quel tipo di reclusi, senza per altro indulgere ad istanze di tipo meramente vendicativo-retributivo. Mentre Falcone metteva a punto questo progetto, la Cassazione (forte di una presidenza diversa rispetto al passato) confermava le condanne del “maxiprocesso”. Per la prima volta, pesanti pene definitive da scontare in un carcere di giusto rigore. Per i mafiosi, una vera rovina, insopportabile. La strage di Capaci nasce anche di qui: una vendetta postuma contro Falcone e al tempo stesso il tentativo di soffocare nel sangue le riforme progettate. Riforme che di fatto saranno approvate soltanto dopo la strage di via d’Amelio, soltanto dopo che all’assassinio di Falcone seguì quello di Paolo Borsellino. Per cui quella sui “pentiti” e l’art. 41 bis dell’ordinamento giudiziario (parentesi: ancora una volta la dimostrazione che la legislazione antimafia è piena zeppa di bis, ter, quater, quinquies...: una legislazione sempre soltanto del “giorno dopo”) sono norme letteralmente fecondate dall’intelligenza e intrise del sangue di Falcone e Borsellino. Un “particolare” che non si dovrebbe mai dimenticare.

L’efficacia del regime del 41 bis, combinata con la legislazione premiale sui collaboratori di giustizia, fu all’origine di una vera e propria slavina di “pentimenti”, che consentirono di infliggere a Cosa nostra colpi durissimi e che avrebbero potuto essere definitivi se qualcosa non si fosse messo di traverso non appena l’azione degli inquirenti venne doverosamente indirizzata - oltre che verso i mafiosi “doc” - anche contro i loro complici eccellenti. Frattanto, col trascorrere degli anni, il regime del 41 bis registrò sostanziali modifiche nell’attuazione pratica, tali da indebolirne la capacità di corrispondere alle finalità per cui era stato pensato e approvato (recidere o quanto meno ostacolare i collegamenti dei mafiosi detenuti con l’esterno del carcere). Finchè si sono addirittura moltiplicate - ed è il problema oggi sul tappeto - le decisioni della Corte di Cassazione e di vari Tribunale di Sorveglianza che hanno revocato e continuano a revocare i decreti di 41 bis volta a volta emanati del Ministro della giustizia.

In punto revoche, per vero, la giurisprudenza non è univoca. Vi sono sentenze (ad esempio la n. 163/07 della Cassazione) secondo le quali, accertata la «persistente operatività della cosca sul territorio di appartenenza», «per affermare il venir meno della pericolosità sociale del condannato e della sua capacità di mantenere collegamenti con la cosca, occorre individuare elementi specifici e concreti in grado di supportare tale convincimento, che non possono identificarsi né con il mero trascorrere del tempo dalla prima applicazione del regime differenziato, né, tanto meno, essere rappresentati da un apodittico e generico riferimento a non meglio precisati risultati di trattamento penitenziario». La giurisprudenza decisamente prevalente, invece, fa leva proprio sul decorso del tempo e sulla regolare condotta del detenuto per escluderne la pericolosità attuale: di qui le numerose sentenze che decretano, anche in casi clamorosi, la fine del 41 bis. Ora, poiché si tratta di sentenze che secondo l’orientamento giurisprudenziale non univoco ma nettamente prevalente corrispondono ai parametri di legge, è evidente che la normativa del 41 bis deve essere rivista alla ricerca di un giusto punto di equilibrio fra rispetto dei diritti dei detenuti ed esigenze di giusto rigore, quando si tratta di mafiosi che non hanno mai dato nessun segnale concreto (neppure minimo) di distacco dall’organizzazione criminale cui appartengono in forza di inoppugnabili condanne. Dando per scontato (salvo che si voglia, come dicono i siciliani, fare solo del “babbio”) che la questione del regime carcerario dei mafiosi rimane un nodo centrale nell’azione statale di contrasto alla mafia, e che ogni erosione - o peggio svuotamento - della funzionalità ed efficacia di tale regime carcerario rischia di vanificare i risultati raggiunti dalle forze dell’ordine e dalla magistratura. Il ministro Alfano - gliene va dato atto - si è detto convinto che occorrano modifiche legislative per stringere le maglie del 41 bis. Speriamo che non si tratti di uno di quei casi in cui, agli annunzi suggestivi, non seguono poi fatti concreti.

Pubblicato il: 10.07.08
Modificato il: 10.07.08 alle ore 9.36   
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