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Autore Discussione: PARTITO DEMOCRATICO (dopo il voto).  (Letto 20386 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Giugno 23, 2008, 11:52:18 pm »

23/6/2008 (7:37) - RETROSCENA - LE STRATEGIE PER IL DOPO

Se Walter si stufa parte la sfida dei quarantenni

I favoriti: potrebbe essere l'ora del dalemiano Gianni Cuperlo o del bettiniano Nicola Zingaretti

FABIO MARTINI
ROMA


L’altro giorno Erminio Quartiani, cinquantenne deputato milanese del Pd, lo diceva scherzando ai colleghi: «Mica finisce che Walter ci saluta e se ne va in Africa?». Quella di Quartiani era una battuta, ma il problema è che da qualche tempo lo stesso interrogativo tormenta le riunioni notturne di una nuova lobby: quella che fa capo a Goffredo Bettini, uomo forte di Walter Veltroni. Già da settimane un drappello di quarantenni veltroniani - tra gli altri il ligure Andrea Orlando, il friulano Alessandro Maran, il lombardo Maurizio Martina, il veneto Andrea Martella, il romano Nicola Zingaretti - si incontrano e sotto la regia di Bettini, ragionano attorno a due scenari entrambi temuti: che succede se Veltroni, stanco delle tanti ostilità interne, non regge e decide di mollare? E che succede se invece Walter è costretto a lasciare dopo una possibile flessione del Pd alle Europee del 2009?

Certo, i “bettiniani” non discutono solo di questo, anche perché Walter Veltroni per ora non sembra avere alcuna intenzione di dar corpo alla vocazione africana. Il segretario tira dritto, ieri ha glissato sulla richiesta di sue dimissioni, mostra di pensare al futuro senza ansie. Certo, per ora la questione di un ricambio del leader è stato posto soltanto da Arturo Parisi ed è possibile che nelle prossime settimane, nei prossimi mesi e nei prossimi anni il leader del Pd riesca a riassorbire le tante spinte che vorrebbero portarlo fuori pista, ma è pur vero che il tema del dopo-Veltroni per la prima volta comincia ad occupare le chiacchiere e le riunioni delle correnti interne. Un tema di cui si occupano due “cenacoli” tra loro contrapposti. Quello di Goffredo Bettini, king-maker da una vita. Quello di Massimo D’Alema. E dai due circoli escono tentazioni analoghe: se proprio bisognerà trovare un successore a Walter, si potrebbe saltare la generazione dei 40-50enni più “visti” - personaggi come Pierluigi Bersani, Enrico Letta, Sergio Chiamparino, Rosy Bindi - e planare su quarantenni meno sperimentati.

Nel circolo di Goffredo Bettini il nome più accreditato è quello di Nicola Zingaretti. Quarantadue anni, romano, fratello minore di Luca - il commissario Montalbano - Zingaretti è salito alla ribalta nazionale 45 giorni fa, quando è stato eletto presidente della Provincia di Roma, compiendo il miracolo di ottenere nelle stesse sezioni elettorali della Capitale 59.000 voti in più di Francesco Rutelli. Protagonista di un cursus honorum da politico di una volta (segretario della Sinistra giovanile, consigliere comunale, segretario dei Ds di Roma, europarlamentare), Zingaretti assomma al profilo del “giovane vecchio” (in politica da 26 anni, un lessico che ricorda i quadri Pci), anche alcuni tratti naif. Nel suo sito, per spiegare “chi sono”, Zingaretti dice di sé: «Dal 1995 al 1997, come vicepresidente dell’Internazionale socialista giovanile, vivo in prima persona alcune tra le più significative vicende politiche degli ultimi anni: contribuisco a ricostruire la rete con i partiti progressisti in Bosnia».

Di pasta diversa è Gianni Cuperlo, uno dei pupilli di Massimo D’Alema. Quarantasette anni, triestino, una spessore culturale insolito per un politico - dalla comunicazione alla letteratura - un sito Internet e un blog molto letti, da un anno Cuperlo è uscito dall’officina dalemiana e nell’ultima Assemblea nazionale ha scandito una frase destinata a restare proverbiale. Rivolto a Veltroni «e a chi è stato alla guida negli ultimi 15 anni», ha chiesto «ad una intera leadership di lavorare per consegnare alle nuove generazioni un nuovo partito». Massimo D’Alema sta dunque meditando ad una riedizione del “metodo Deng”, il leader cinese che attorno a sé promosse una generazione giovane, tagliando fuori quella di “mezzo”? Alla fine l’enigma resta lo stesso di sempre: se davvero Veltroni un giorno dovesse uscire di scena, dopo uno strappo così cruento, il Pd è pronto a mettersi nelle mani di giovani di belle speranze? A quel punto non suonerà l’ora di Pierluigi Bersani? L’ex ministro, parlando di rinnovo generazionale, la mette così: «Non basta essere giovani, servono giovani di lungo corso, che abbiano già maturato esperienza, che godano di credibilità esterna». Se non è autoritratto, ci somiglia molto.

da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Giugno 23, 2008, 11:53:18 pm »

Il braccio destro del leader: il congresso? Nel Pd la maggioranza era contraria

Bettini: «Arturo è un picconatore»

«Siamo colpiti e amareggiati per un attacco così violento e fuori misura»


ROMA — Bettini, Parisi si è arrabbiato sul serio questa volta. Non la colpisce un affondo di questo tipo da parte sua?
«Mi colpisce e mi amareggia l'attacco al Pd e a Veltroni così violento e fuori misura. Discutere è necessario come il pane, ma farlo a colpi di piccone è insensato».

Veramente Parisi spiega qual è il senso della sua uscita.
«Ma cosa vuole Parisi? Veltroni è stato chiamato da tutti in un momento di sbandamento e di lotta nella coalizione del centrosinistra. Ha mobilitato milioni di persone alle primarie, ha costruito il partito, ha fatto una campagna elettorale appassionata e innovativa, suscitando tante energie».

E ha perso...
«Certo non siamo al governo, ma abbiamo costruito la più grande forza riformista della storia italiana. Queste cose ho visto che le spiega molto bene un commentatore intelligente e certo non di sinistra come D’Alimonte sul Sole 24 Ore. E’ facile dare lezioni quando si è sempre "trasportati" da chi fa la fatica e ha il coraggio di mettere la faccia in prima persona. Nel centrosinistra ci sono troppi commentatori perennemente garantiti».

Nel centrosinistra vi sono anche molti giovani, ma sono ancora lontani dalle leve del comando.
«Verrà ilmomento in cui finalmente i giovani più bravi del Pd prenderanno la scopa per rinnovare veramente. E mi ci metto per primo io tra quelli da rinnovare. Anzi ho detto più volte che sento la mia funzione dirigente quasi esclusivamente legata a questo obbiettivo e alla costruzione di un partito totalmente nuovo».

A un certo punto sembrava che doveste andare a un congresso anticipato. Ora invece non se ne parla più, che è successo?
«Walter e io ancora più convintamente dopo il voto abbiamo proposto di tenere subito un congresso per discutere e verificare il gruppo dirigente e la sua linea in un rapporto di massa con gli iscritti e gli elettori. Le opinioni sono state in grande maggioranza contrarie: insistere avrebbe rafforzato in alcuni la sensazione di avere di fronte un imperatore buono in lotta contro gli oligarchi. Si è scelta un’altra strada che ci porterà in autunno a un importante momento nazionale di discussione politico-programmatica. Ma guardiamo avanti perché l’assemblea di venerdì è stata un successo politico».

Un successo? Non c’era nessuno.
«Le sedie vuote? Era un venerdì di giugno e sono tre volte che riuniamo un’assemblea che è di fatto un congresso, non un semplice organismo dirigente. Si guarda ossessivamente al dibattito all’interno del Pd e quasi mai all’assenza totale di vita democratica dei partiti della destra italiana. Nell’assemblea si è discusso con serietà, a partire dalla relazione di Veltroni che ha parlato crudemente della sconfitta ma ha anche rivendicato i punti fondamentali di un progetto politico che ha già cambiato grandemente lo scenario italiano. Si tratta ora di iniziare un cammino con modestia e tenacia. Nell’assemblea Marini, Fassino, Follini, Bersani, Bindi e Cuperlo, per parlare solo di alcuni tra i più autorevoli, hanno portato contributi diversi e anche critici, ma tutti guardando in avanti. E poi l’assemblea ha finalmente cominciato a promuovere forze nuove e libere da appartenenze anche nella formazione della Direzione nazionale ».

Perché tutta questa insistenza sul concetto del guardare avanti?
«L’urgenza di guardare in avanti, senza mai perdere tuttavia lo sforzo di una ricerca delle ragioni profonde della difficoltà, non solo in Italia ma in tutta Europa, delle forze di progresso sta nel fatto che la luna di miele del governo Berlusconi si sta rapidamente consumando. Hanno fatto tante promesse. Ma la crisi dell’Alitalia, così come i rifiuti, gli strappi istituzionali e le bugie sui buchi del bilancio di Roma sono sotto gli occhi di tutti. Così come stanno lì le drammatiche condizioni dei salariati e dei pensionati i cui redditi Tremonti vorrebbe legare a una previsione dell’inflazione che è metà di quella reale. Insomma, si cominciano a intravedere tutti gli elementi per una grande mobilitazione di massa che noi faremo in autunno e che cambierà definitivamente, almeno lo spero, il clima nel Paese».

Maria Teresa Meli
23 giugno 2008

da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Luglio 20, 2008, 06:04:58 pm »

Pd, otto punti per ripartire


Goffredo Bettini


1. Via via che scorrono i giorni mi pare che nel nostro popolo, e tra i gruppi dirigenti, si consolidi il nucleo essenziale del giudizio sul voto.
Abbiamo subito una sconfitta per il governo del Paese. Da non sottovalutare. Che viene da lontano. Allo stesso tempo, in un corpo a corpo senza precedenti, abbiamo piantato sul terreno la bandiera di una speranza. Il PD. La più grande forza riformista della storia italiana. Simile, per qualità e dimensione, ai grandi partiti che in tutta Europa sono alternativi alla destra. Senza questa speranza la sconfitta si sarebbe trasformata in una disfatta. Ci sono ora, invece, le condizioni per ripartire e combattere.

2. Per farlo, questo a me pare cruciale, occorre non perdere il filo che ci lega alla spinta, all’entusiasmo, all’innovazione che, innanzitutto, Veltroni è riuscito a mettere in campo nelle primarie, nella campagna di fondazione del Partito, nella competizione elettorale. È naturale che dopo la "botta" ci sia stata una fase sospesa. Ritengo fisiologiche incertezze e squilibri. Guai, tuttavia, a dimenticare che abbiamo messo in moto un "popolo", nuovo nella sua composizione. Esso si disperderà se la sospensione si dovesse protrarre oltre misura. E senza fondate ragioni.

3. I tempi di una nuova iniziativa nella società stringono. Il PD ne è consapevole. La crisi italiana si sta aggravando. Complice il governo di destra. Il Paese è spezzato. Socialmente: una parte non ce la fa proprio più. Salariati, pensionati, redditi fissi, giovani. Il ceto medio rischia di sprofondare. La carta dei poveri è l’implicita conferma che si dà per scontato questo processo. Poi, invece, c’è l’Italia dell’economia nera, illegale, criminosa. Dei manager superpagati, delle fortune finanziarie e delle "bolle" immobiliari. Quanto può reggere tutto ciò? Ma l’Italia è spezzata anche geograficamente e nel rapporto tra cittadini e istituzioni. Sta saltando un patto più generale che motiva lo stare insieme di una nazione, come ricorda sempre Reichlin. Si rivelano urgenti e fondate le ragioni per cui è nato il PD. C’è un’emergenza che chiama. Ci sono un coraggio, una missione, un senso nuovo dell’unità tra di noi che ci debbono guidare. L’impresa non è scontata. Ma immergendoci totalmente in questa Italia, così ricca di talenti e così dolente, possiamo forgiare il Partito. La sua vocazione maggioritaria. Ad un Paese spezzato dobbiamo rivolgere un "discorso" coerente ed unitario, che sappia riallineare nel nostro progetto la difesa delle parti più colpite del nostro popolo, con una prospettiva democratica valida per tutta l’Italia, ed un nostro posizionamento politico ed economico competitivo dentro il mondo, attraversato dai processi di globalizzazione.

4. Se questa è l’ispirazione di fondo, da perseguire con tenacia e pazienza, come non vedere anche le occasioni che la contingenza apre di fronte a noi? Avverto che possiamo rialzare la testa, anzi che la stiamo già in parte rialzando. Dopo il voto sembravamo chiusi in una morsa. Già le cose stanno cambiando. La luna di miele di Berlusconi sta esaurendosi rapidamente. È chiara la loro risposta. Accettazione della recessione e dell’inflazione. Abbassamento dei livelli di vita e dei consumi. Carità a chi non ce la fa, protezione per chi in qualche modo già ce l’ha fatta. E a completamento: l’ossessiva difesa dei loro interessi e di quelli del premier. In autunno verranno tempi ancora più duri. Tra la destra e la gente si apriranno crepe profonde. Tra il governo, e la risposta solo distruttiva che abbiamo visto a Piazza Navona, si apre dunque una prateria per un’iniziativa riformista. Per questo Veltroni ha voluto intrecciare la costruzione del Partito e il lancio del tesseramento con una grande mobilitazione di massa. "Salva l’Italia", appunto! Una petizione con cinque milioni di firme ed un fiume di popolo il 25 ottobre a Roma.

5. Non voglio nascondermi il fatto che ha contribuito ad una nostra fase di sospensione, un presunto contrasto nel gruppo dirigente su punti non secondari della nostra strategia. Il concetto, per esempio, di vocazione maggioritaria. Da alcuni letto come volontà di autosufficienza e scarsa attenzione per una politica di alleanze. Mille volte l’abbiamo detto: vocazione maggioritaria è volontà (necessità!) di rivolgere una nostra proposta riformista al Paese. Ponendo fine, per sempre, all’idea di essere i sensali che mediano le innumerevoli posizioni di alleanze tanto estese quanto litigiose e poco credibili; realizzate contro qualcuno e incapaci di governare, poi, per un progetto coerente. Lavoriamo per schieramenti coesi, affidabili nel loro profilo riformista. Dentro questa ottica o capovolgimento di logica, non abbiamo preclusioni o pregiudiziali verso alcuno nel campo democratico. Da soli non rivinceremo mai. Ma sappiamo che tali alleanze comportano un rinnovamento, in tutto il campo del centro-sinistra. Che ancora non c’è. Ecco perché mi pare un po’ accademico oggi, e del tutto irrealizzabile, parlare di un’intesa che va da Rifondazione all’UDC. O anche di un rapporto solo alla nostra sinistra. O solo alla nostra destra. Trovo tutto ciò politicistico, e alla fine statico. I partiti sono in una fase di forte transizione. Interloquiamo e spingiamo, piuttosto, per una loro riflessione positiva. Lasciamo allo sviluppo delle cose la maturazione di possibili futuri schieramenti elettorali per il governo.

6. Così come la discussione sulla legge elettorale (su cui è certamente utile avere un’iniziativa e una proposta anche in vista del referendum) ha, tuttavia, nel modo stringente con il quale è stata avanzata, un valore più simbolico, politico che concreto. Non voglio interpretare il pensiero di altri: ma nella sottolineatura della bontà del modello tedesco in D’Alema vedo la comprensibile preoccupazione di lanciare un messaggio ai possibili nostri interlocutori. Tutto ciò è positivo. Ma se questo è: non impicchiamoci sui modelli. In Parlamento, prima della caduta di Prodi, si era raggiunto un sostanziale accordo. Univa il modello tedesco con quello spagnolo. È la sostanza che ci deve interessare. È necessario un sistema elettorale che aiuti la costruzione di partiti che abbiano una loro autonomia, libertà, radicamento, profilo ideale. Nessuno pensa a soluzioni bipartitiche o di democrazia plebiscitaria. Ma deve essere chiaro l’obiettivo di ridurre la frantumazione patologica del nostro sistema politico, di ridare ai cittadini la possibilità di scegliere i propri rappresentanti e soprattutto di rendere chiaro prima del voto per quale governo e schieramento si vota, in una logica bipolare.

7. Democrazia dei partiti. Ma quali partiti? È vero che sono stati anni di antipolitica e di destrutturazione dei partiti. C’è stata qualche debolezza culturale ed ideale anche nostra. Forse. Ma il punto è un altro. Lo sfrondamento plebiscitario, populista, demagogico che ha contribuito a mettere le ali a Berlusconi, sta nel fallimento-esaurimento dei partiti della prima repubblica e nella loro assoluta incapacità di pensarsi in modo diverso. Il PD nasce per aprire una nuova stagione della politica. È la nostra scommessa più alta e difficile. Ci chiamiamo partito. Vogliamo fare le tessere. Organizzarci e radicarci. Ma dobbiamo farlo in modo nuovo. Non parlo solo di una decisiva funzione di formazione dei giovani, delle nuove classi dirigenti. Di un’animazione di ricerca culturale e ideale. Funzioni così scemate nei vecchi partiti e anche nella politica attuale di tutti i giorni. Dove pare che nessuno abbia più tempo per nessuno. E l’ansia del fare va tutta a discapito del pensiero profondo. Parlo di un’operazione ambiziosa che il PD deve tentare: ricostruire i termini di una nuova rappresentanza democratica. La rappresentanza è confronto, scambio, assimilazione di dati e poi, però, "potere" e "decisione". Ecco perché penso ad un partito che nello svolgimento della sua battaglia dia ai suoi iscritti "potere" e "decisione". I circoli debbono essere i "forum" di questa nuova rappresentanza. Decisioni impegnative (da quelle economiche a quelle sulle alleanze, da quelle sui temi eticamente sensibili alla selezione dei dirigenti), tutto deve passare attraverso campagne di discussioni libere, documentate, organizzate nazionalmente (anche con l’uso delle nuove tecnologie), dove ognuno vota con la propria testa, vale per uno, e contribuisce a costruire una volontà politica collettiva e democratica. Che peserà, in alcuni casi in modo vincolante. Abbiamo perciò bisogno come il pane, anche per istruire tali periodiche consultazioni, del pluralismo. E dobbiamo rafforzare le fondazioni, i centri di ricerca, le associazioni. Ma dico, anche a costo di sembrare vecchio, che personalmente sono contro le correnti: quelle catene di comando antidemocratiche che partono dal centro e vanno fino all’ultimo comune italiano e che alla fine non producono competizione delle idee, ma lotta per il potere; ossificando il nuovo partito nelle vecchie appartenenze. Quando ci sono i congressi si confrontano i leader e le loro piattaforme. Ma dopo ci dovrebbe essere una fusione generosa tra persone con storie diverse o senza storie, che possono continuamente unirsi e dividersi e poi riunirsi nella costruzione democratica e partecipata della volontà e decisione politica.

8. Il PD è la sola forza che ha dentro di sé le energie, i talenti, i leader che per forza, storia e autorevolezza possono tentare questa grande impresa riformista. Ad essi si intrecciano giovani di straordinario avvenire, cresciuti nella società, o nella Margherita, o nei DS. E oggi chiamati a grandi responsabilità. Sta a noi capire lo spirito del tempo, che invoca grandi prove e non un vivacchiare abitato dal ritorno di personalismi e chiusure antiche. Meglio una squadra che tenta una vittoria storica, piuttosto che singoli protagonisti, destinati tutti alla sconfitta.

* Coordinatore Iniziativa Politica PD



Pubblicato il: 20.07.08
Modificato il: 20.07.08 alle ore 14.58   
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« Risposta #18 inserito:: Luglio 27, 2008, 11:08:08 am »

Dietro le quinte

Pd, spunta l'incubo del «nuovo Prodi»

«È una campagna per farci fuori»

Lo spettro del «federatore» e la tentazione Casini



ROMA — La mattina dopo Walter Veltroni è ancora nero. E si sfoga al telefono con un compagno di partito: «E' la seconda offensiva contro il Pd in pochi mesi: prima hanno appoggiato la manifestazione di piazza Navona che era chiaramente contro di noi, ora questa storia di Tavaroli...». La voce del leader tradisce disappunto, nervosismo e stanchezza. Nel quartier generale del Partito democratico ci si interroga ancora sugli articoli de la Repubblica. E tra un dubbio e l'altro, si insinua il sospetto che dietro ci sia di più, che la partita non la stia giocando solo quel giornale ma i cosiddetti «poteri forti» (il responsabile organizzativo del Pd Beppe Fioroni usa un altro termine che evoca scenari poco rassicuranti: «La massoneria»). Quale che sia la definizione usata si fa strada l'ipotesi di «una campagna orchestrata» con lo scopo di screditare tutta la dirigenza del partito, e, in definitiva, il Pd stesso.

Piero Fassino, che ancora l'altro giorno invitava i compagni di partito a non trarre conclusioni fantapolitiche e a «non fare dietrologie», con i collaboratori, ora, ragiona così: «È in atto un tentativo di delegittimare la classe dirigente del centrosinistra». Sembra proprio esserne convinto, il ministro degli Esteri del governo ombra: «Prima l'hanno fatto con me, quando ero segretario dei Ds, hanno orchestrato una campagna pensando che fosse meglio Walter. E adesso che Veltroni è diventato leader del Pd delegittimano anche lui, bocciandone dopo pochi mesi pure la linea politica...». Ma a che scopo tutto ciò? Quale sarebbe l'obiettivo finale di questa manovra di cui il Pd ora sospetta? Qualcuno, nel partito, cita l'editoriale di Andrea Romano sulla Stampa di qualche giorno fa, quello in cui si parla della necessità di «un nuovo Prodi», di un personaggio che vesta i panni del «federatore» per mettere in piedi e insieme un centrosinistra in grado di competere con il centrodestra nella prossima legislatura.

Un federatore, naturalmente, che faccia le veci di Walter Veltroni.
E Giorgio Tonini, che del segretario è amico, ammette che possa «esserci il tentativo di delegittimare l'intera leadership del Partito democratico che si proponeva l'obiettivo di ripristinare il primato della politica. Si fa così perché si punta all'arrivo dell'"uomo della Provvidenza" che dovrebbe ristrutturare il centrosinistra». Ermete Realacci, un altro dei dirigenti del Pd di rito veltroniano, è convinto che «i giornali abbiano interesse ad avere una politica debole perché così possono giocare un ruolo di supplenza». Fioroni pensa che però questa manovra sia destinata al fallimento: «Siamo un partito del 33 per cento. Potremo anche prendere un po' di meno, ma avremo sempre un bacino del 30 per cento, per cui di certi piani faremo carta straccia. Tra l'altro non vorrei che oltre all'idea di mettere sotto tutela il Pd ci sia anche dell'altro... magari questi signori pensano che coinvolgendo anche il nostro partito nelle vicende giudiziarie la loro situazione con la giustizia migliori...». Il responsabile organizzativo del Pd non aggiunge altro, ma dal modo in cui parla, si capisce che a Largo del Nazareno si teme che la partita non sia ancora chiusa, che possano esserci offensive di altro genere contro il partito.

Gianni Cuperlo, dalemiano di rito eterodosso, cerca di sdrammatizzare: «Ma perché ci vorrebbero indebolire? Più in ginocchio di così ». Scherza il deputato del Pd, ma poi comincia a riflettere ad alta voce: «Un nuovo Prodi? E chi potrebbe essere? L'ex presidente della Confindustria Luca Cordero di Montezemolo?». E riprende lo scherzo: «Ma no... ha un nome troppo lungo. Come si fa a metterlo tutto intero in un manifesto in cui si annuncia un suo comizio? Non c'entra mica...». Di nuovo stop allo scherzo, e Cuperlo continua così: «Comunque è difficile che Montezemolo sia assimilabile al centrosinistra. Io non potrei votarlo... Pier Ferdinando Casini? Ecco invece lui lo potrei votare». Già, Casini. Da qualche tempo nel Transatlantico di Montecitorio corre voce che Massimo D'Alema starebbe pensando al leader dell'Udc come candidato alla presidenza del Consiglio nella prossima legislatura, con la prospettiva di un centrosinistra ristrutturato in altro modo rispetto a quello attuale. Vera o falsa che sia questa voce che rimbalza tra le mura della Camera, comunque è indicativa di quel che si agita dentro il Partito democratico. Perché tentare la carta Casini è un modo per giocare d'anticipo, per tirare fuori un leader che sia sì nuovo, ma che sia comunque un politico. E non «l'uomo della Provvidenza » che tanto preoccupa Tonini, né quello della «massoneria» che tanto fa arrabbiare Fioroni.


Maria Teresa Meli
24 luglio 2008(ultima modifica: 25 luglio 2008)

da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Agosto 14, 2008, 05:16:15 pm »

POLITICA IL PERSONAGGIO

"Si mette in conto anche di andare contro gli interessi della città per contrastarmi"

Torino, Chiamparino sfida il Pd "Se non servo, posso andarmene"

Il sindaco scrive al segretario piemontese Morgando: ditemi se sono una risorsa


di PAOLO GRISERI

 

TORINO - Caro partito, fammi capire se ti servo ancora. Non è un iscritto della base ma Sergio Chiamparino, il sindaco più popolare del Pd, a prendere carta e penna per esprimere tutta la sua amarezza al segretario piemontese, Gianfranco Morgando ("ti ho invitato a essere il segretario di tutti, sono rimasto sostanzialmente inascoltato"). Un partito in cui, scrive Chiamparino, "si mette in conto anche di andare contro gli interessi della città per contrastare le mie opinioni e soprattutto, credo, il mio possibile ruolo".

Un partito in cui "possono esprimersi soltanto i dirigenti che contrastano le mie posizioni" e dove le "logiche di pura redistribuzione del potere sembrano le uniche a dominare, non so se solo a Torino". Dunque, anche se "può sembrare paradossale", Chiamparino chiede di "capire se quel che la mia amministrazione ha realizzato in questi anni è o no una risorsa su cui investire per il futuro". Poi l'attacco finale: "Se guardo agli atti concreti di questo nostro partito, non l'ho capito. È invece importante saperlo, se non altro perché ognuno si assuma le proprie responsabilità anche in vista delle prossime scadenze elettorali".

La lettera pubblica diffusa ieri rappresenta il momento di massima tensione tra il sindaco di Torino e il partito locale. Ieri pomeriggio i vertici nazionali preferivano non entrare nella polemica facendo comunque sapere che la stima e la fiducia in Chiamparino sono intatte, come dimostra la sua nomina a ministro ombra per le riforme. Dunque il paradosso è che il sindaco di Torino sembra più in sintonia con i vertici nazionali che con il partito locale.

Nessuno è profeta in patria e i nodi che vengono al pettine ora sono certamente i frutti avvelenati di una polemica che risale alle primarie di ottobre quando da Roma si tentò di imporre l'elezione di un candidato rutelliano alla guida del partito piemontese. I massimi esponenti del Pd regionale, da Chiamparino a Mercedes Bresso, a Piero Fassino sostennero la scelta del vertice nazionale mentre dalle urne uscì, un po' a sorpresa, il nome di Gianfranco Morgando, sostenuto da un'alleanza tra la componente cattolica e la sinistra interna. Uno smacco per il sindaco che aveva da poco ottenuto la riconferma con il 66 per cento dei voti dei torinesi.

Quella storia, in realtà, non è mai finita. Oggi Chiamparino accusa Morgando di non aver saputo riunire il partito dopo le divisioni di ottobre. E lascia intendere un possibile divorzio dal Pd piemontese: "Ognuno si assuma le sue responsabilità in vista delle prossime scadenze elettorali".

Chiamparino, al suo secondo mandato, non è rieleggibile e nella lettera diffusa ieri annuncia che non si ricandiderà comunque alla guida dell'amministrazione torinese, anche se venisse istituita la città metropolitana. Il sindaco di Torino starebbe invece riflettendo sulla possibilità di rilanciare quell'idea del Pd del Nord che aveva proposto lo scorso anno in occasione della fusione tra Ds e Margherita.

Per ora il segretario regionale Morgando preferisce non commentare la lettera del sindaco: "Sono in vacanza all'estero - ha fatto sapere ieri - commenterò quando tornerò in Italia". Solidale con Chiamparino è invece il suo predecessore, Valentino Castellani: "Sergio ha ragione, il partito piemontese non può rimanere imbrigliato nelle logiche di fazione tradendo le aspettative della base".

(14 agosto 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #20 inserito:: Agosto 18, 2008, 04:22:50 pm »

POLITICA

Il segretario del Pd ha scritto al sindaco di Torino in rotta con i vertici piemontesi

"In quella città in corso una esperienza amministrativa, sociale e politica esemplare"

Veltroni e la rabbia di Chiamparino "Tu e Bresso moderni riformisti"

L'iniziativa dopo l'ultimatum del primo cittadino al segretario regionale

"Ditemi se quel che la mia amministrazione ha realizzato è o no una risorsa"

 

ROMA - Ha aspettato che passasse il Ferragosto, Veltroni, per cercare di gettare acqua sull'ennesima polemica divampata in un punto nevralgico del Pd, nella Torino 'rossa' di Sergio Chiamparino. Il sindaco ha dato uno scossone al torpore di mezz'estate dei democratici, per prendere carta e penna e chiedere ai vertici regionali del partito, senza troppi giri di parole, di fargli sapere se "quel che la mia amministrazione ha realizzato in questi anni è o no una risorsa su cui investire per il futuro".

Il casus belli risale alle primarie di ottobre quando da Roma si tentò di imporre l'elezione di un candidato rutelliano alla guida del partito piemontese. Nonostante la presa di posizione dei massimi esponenti del Pd regionale, da Chiamparino a Mercedes Bresso, a Piero Fassino, che sostennero la scelta del vertice nazionale, dalle urne uscì il nome di Gianfranco Morgando, appoggiato da un'alleanza tra la componente cattolica e la sinistra interna. Un colpo per il sindaco che aveva da poco ottenuto la riconferma con il 66 per cento dei voti dei torinesi.

Poi la proverbiale goccia. L'iniziativa di un "deputato del Pd" (Stefano Esposito, ndr) che "arriva a proporre d'escludere Torino dalla legge che istituisce le città metropolitane". E il vaso trabocca. Chiamparino si rivolge direttamente ai vertici regionali del partito: il segretario Gianfranco Morgando e il presidente Sergio Soave. Il sindaco ammonisce sul rischio delle correnti: "So che, forse, sono inevitabili - dice - ma so anche che quando queste sono prevalse sui rispettivi partiti, questi sono rapidamente implosi".

Walter Veltroni prova ora a ricucire. Ricorda di aver avviato proprio da Torino la sfida del Partito democratico, aggiunge di averlo fatto anche "perché in
quella città è in corso una grandissima esperienza amministrativa, una esperienza sociale e politica che considero esemplare", rinnova la propria stima a Sergio Chiamparino che "con il suo lavoro sta testimoniando tutto questo nel modo migliore". Il segretario sottolinea che il sindaco e il suo lavoro , "sono parte costitutiva di una moderna idea dell'azione riformista. Ed è la stessa ispirazione che muove il lavoro e l'esperienza di una donna forte e determinata come Mercedes Bresso".

Basterà a calmare gli animi? Presto per dirlo. Per ora si deve registrare il silenzio dei vertici regionali del partito e una nota congiunta di sei esponenti del Pd, giunta ieri, dunque prima della dichiarazione di Veltroni. Bresso e Chiamparino "stanno indiscutibilmente amministrando bene, ma non possono ergersi a difensori contro una lottizzazione che non c'è". Affermano i parlamentari Marco Calgaro, Stefano Esposito e Giorgio Merlo ed i consiglieri regionali Paolo Cattaneo, Stefano Lepri e Roberto Placido. "Si faccia pure un'analisi serena delle nomine fatte in questi anni - dicono i sei rimandando le accuse al mittente -. Si scoprirà, piuttosto che una gran parte è slegata dal vaglio dei partiti e dei cittadini e risponde direttamente al 'partito' (o alla corrente) del sindaco e del governatore".

Chiamparino, al suo secondo mandato, non è rieleggibile e nella sua lettera annuncia che non si ricandiderà comunque alla guida dell'amministrazione torinese, anche se venisse istituita la città metropolitana. Il sindaco di Torino starebbe invece riflettendo sulla possibilità di rilanciare quell'idea del Pd del Nord che aveva proposto lo scorso anno in occasione della fusione tra Ds e Margherita: "Ognuno si assuma le sue responsabilità - dice - in vista delle prossime scadenze elettorali".

(17 agosto 2008)


da repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Agosto 18, 2008, 11:17:09 pm »

18/8/2008 (8:16) - INTERVISTA

Sergio Chiamparino: "Le correnti pensano solo alle poltrone"
 
«Grazie Walter, dobbiamo salvarci dalla lottizzazione»


FEDERICO MONGA
TORINO


Chiamparino, Veltroni la porta ad esempio su come si deve costruire il Pd.
«Non nascondo che l’intervento del segretario sull’esperienza di Torino come riferimento per le politiche riformiste, in questi giorni di continui attacchi, mi faccia piacere».

Non si sente un po’ come il primo della classe poi odiato da tutti, alla Derossi da libro Cuore?
«Il punto vero è un altro. Non ho sentito nessuno, all’interno del Pd, fare un’analisi analitica e lucida su cosa abbiamo fatto».

Torino città laboratorio anche per il Pd partito che non c’è?
«Le difficoltà torinesi non sono solo figlie di sindromi sabaude, sono riflesso di difficoltà generali. Ad esempio la sconfitta elettorale non ha aiutato».

Le elezioni sono passate da quattro mesi e il Pd è allo sbando.
«Partiamo dal caso torinese. Io punto il dito contro le correnti».

Ci sono sempre state.
«E sono inevitabili e persino utili. Soprattutto in una fase di costruzione del partito, come la nostra. Però se le correnti sono il tutto, se si esprimono solo sul terreno della lottizzazione allora il partito soffoca. L’esperienza della prima repubblica è finita così».

E’ una lotta di potere e di soldi? In ballo ci sono le grandi fusioni delle municipalizzate dei trasporti tra Torino e Milano e dell’energia tra Torino, Bologna e Genova, la Compagnia di San Paolo e la Banca Intesa.
«Devo notare che le correnti all’interno del Pd torinese, fino ad ora si sono fatte sentire o quando dovevano criticarmi o quando si parlava di nomine e di poltrone».

I detrattori dicono che lei risponda a logiche di potere fuori dai partiti.
«Forse vorrebbero che si tornasse alla lottizzazione, un’idea vecchia della politica. Con me si può discutere di tutto. Ma chi ha responsabilità istituzionali ha il dovere istituzionale di scegliere le persone. Io, come i presidenti delle Regioni, ne rispondo da solo. Semmai si devono discutere le strategie. Sulle persone mi metto di traverso».

Dietro le persone c’è una strategia.
«Mi faccio una critica: ho impiegato troppo tempo a costruire questo percorso che ha portato un sindaco a prendersi l’intera responsabilità delle scelte sulle nomine e ad andare oltre le vecchie lottizzazioni».

I suoi compagni, pardon colleghi di partito, le hanno dato dell’autoritario, del leggero.
«Per trovare attacchi del genere bisogna andare tra l’opposizione più accanita dei tempi più caldi».

Da due partiti, storicamente con organizzazione molto ramificata a un partito leggero o liquido. Cosa cambia?
«E’ un dibattito vecchio. La pesantezza di un partito non è data dall’organizzazione, dal numero di riunioni o di organi. Ma dall’autorevolezza. Dalla capacità di fare proposte serie che convincano i cittadini. Bisogna misurarsi sulle proposte non sui posti da occupare».

Come si garantisce la democraticità?
«Io vengo da un partito che aveva un’organizzazione pesante ma che non brillava per democraticità».

Non si rischia di fare un Pdl senza però il capo Berlusconi?
«Noi facciamo le primarie. Mi pare che sia un grande esempio di democraticità e le faremo per tutte le candidature a sindaco e a presidente di Provincia e Regione. E poi toccherebbe ai segretari garantire la democraticità. Non è mio compito».

Non le piace il segretario piemontese Morgando.
«Mi pare che non si sia impegnato, come anche altri, nell’essere il segretario di tutti».

Bisogna cambiare?
«No. Si deve solo discutere».

Alla festa del Pd ci andrà o no?
«A due condizioni. Primo si devono affrontare i temi che ho proposto perché mi sembra che a livello nazionale abbiano avuto un certo rilievo. Secondo i segretari piemontesi e torinesi devono dirmi se condividono le accuse che mi sono state fatte di essere evanescente e autoritario».

Altrimenti va solo alla festa di An?
«In quel caso so dove vado. So chi incontro e credo che possa essere interessante un dibattito con Alemanno».

Il Pd rischia di perdere anche nel Torinese? Rischia di cadere anche il villaggio di Asterix?
«La gente vede che c’è una lotta interna agli addetti ai lavori e capisce che il Pd è solo capace di litigare».


da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Agosto 21, 2008, 10:47:43 am »

Tonini: «Il Pd rischia di finire come l´Unione»

Maria Zegarelli


«Attenzione, se continuiamo così finisce come con l´Unione». Giorgio Tonini, della Direzionale nazionale del Pd, legge con preoccupazione le roventi polemiche che a livello nazionale e locale stanno attraversando il partito. «Ci vorrebbe più pazienza», commenta dopo aver letto, tra le altre, le dichiarazioni di Cacciari e Parisi e il resoconto dei quotidiani dell´estate bollente del Pd.

Tonini, Cacciari critica il gruppo dirigente del segretario Veltroni. Dice: non sono persone autorevoli. Non c´è tregua?
«Io faccio parte del gruppo dirigente, c´è un conflitto di interessi... Ma provo ugualmente a rispondere. Sono stato tra i primi a dire dopo le elezioni che erano necessari una verifica democratica e un congresso. Sono convinto che sia necessario il prima possibile un passaggio congressuale democratico che coinvolga prima gli iscritti e poi tutti gli elettori, perché dobbiamo definire la nostra strategia di opposizione in vista di una rivincita sul centrodestra. Ma per fare un congresso e chiamare gli iscritti a dire la loro bisogna avere gli iscritti: il tesseramento è appena iniziato e non si concluderà prima della fine dell´anno».

Parisi, ma anche Cacciari, chiedono il congresso. Si anticiperà la data?
«Il congresso è previsto entro il 2009, dobbiamo decidere se tenerlo a scadenza naturale, dopo le elezioni europee, o anticipatamente. Non vedo perché, però, debba essere brandito come un´arma polemica all´interno del partito. Se c´è un elemento che vedo come un limite di questa discussione così eccitata è che sembra ci sia davvero poca pazienza. Siamo un partito nato un anno fa, che sta facendo tutto per la prima volta».

È "soltanto" lo scotto che state pagando per l´accelerazione dovuta alle elezioni?
«Probabilmente sì. Abbiamo dovuto affrontare una difficilissima battaglia elettorale, eppure il risultato ci consente di guardare con fiducia al futuro. Ci ha votato un italiano su tre, adesso spetta a noi dare una prospettiva al partito. Fino ad ora abbiamo dovuto dare struttura e regole, avviare la campagna del tesseramento. una stagione di Feste che non sono più quelle dell´Unità e della Margherita, ma del Pd. Abbiamo creato una campagna di opposizione intensa, con la raccolta di firme, che sono già più di un milione e speriamo di arrivare a cinque, ad ottobre ci sarà la grande manifestazione di protesta e di proposta, a settembre ci sarà la summer school di Cortona... ».

Molto criticata...
«Come tutte le cose nuove. Capisco che possono esserci cose che vanno bene bene e altre che vanno corrette. Capisco anche che ci siano critiche dall´esterno e dall´interno, sono normali. Ma quando sento dirigenti che hanno avuto e hanno grandi responsabilità politiche stupirsi per la difficoltà con cui si sta costruendo un partito nuovo, penso non sia degno della loro intelligenza».

Veltroni ha lanciato un appello ai gruppi parlamentari a non farsi del male. Non le sembra che sia caduto nel vuoto?
«Questo dibattito interno somiglia in maniera spaventosa a quello che c´era dentro l´Unione. C´è il rischio che Veltroni vesta i panni di Prodi, di colui che fa gli appelli all´unità inascoltato, perché continua questo malcostume tipico del centrosinistra italiano per il quale se non c´è una differenza tra di noi bisogna inventarla per costruirci su una polemica a puri fini di visibilità di gruppo, di corrente, di questa o di quella persona che deve conquistarsi un titolo di giornale».

Lei sta dicendo che il Pd rischia di finire come l´Unione?
«Dico che se non la smettiamo si creano le stesse condizioni che hanno portato alla fine del governo Prodi e alla dissoluzione all´Unione di centro sinistra. I tanti elettori delusi, amareggiati dalla prova includente del centrosinistra, hanno visto nel nascente Pd una grande speranza di una prospettiva riformista che unisse le forze attorno a un progetto per il riscatto del Paese e che facesse del dibattito interno una risorsa. Non possiamo dare l´idea di un partito che riprecipita in questo deprimente dibattito di tutti contro tutti».

Non teme possa esserci un contraccolpo durante la fase del tesseramento?
«Ancora una volta i nostri elettori si dimostrano più maturi dei loro dirigenti e le feste affollatissime, la partecipazione ai dibattiti ne sono un esempio. Il problema è che se continuiamo a dare di noi stessi questa immagine all´esterno facciamo un grande favore a Berlusconi e al centro destra. Per dare fiducia ai cittadini dobbiamo mostrare coesione e compattezza che non vuol dire smettere di confrontarci e discutere. Vuol dire farlo in maniera propositiva e costruttiva, altrimenti rischiamo di non cogliere le tante potenzialità di questa fase».

Non è guerra tra correnti?
«Le correnti sono inevitabili in un partito grande come il nostro. Se però diventano cordate verticali che cercano le ragioni della loro esistenza e della loro diversità anziché nascere attorno a proposte e idee si rischia il meccanismo degenerativo che abbiamo conosciuto nell´Unione».


Pubblicato il: 20.08.08
Modificato il: 20.08.08 alle ore 11.14   
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« Risposta #23 inserito:: Agosto 21, 2008, 10:59:57 am »

Parla Fassino «Incomprensibili gli attacchi al sindaco. Da parte mia nessun interesse personale. E il 2011 è lontano...»

«No a logiche da vecchio partito Giù le mani dal modello Torino»



TORINO —Attaccare Sergio Chiamparino è incomprensibile, strumentale, autolesionista. Meglio sarebbe valorizzare i risultati raggiunti e un «modello Torino» che può continuare la sua corsa ma potrebbe anche incepparsi in mancanza della strategia politica necessaria a sostenerlo. Piero Fassino, l'ultimo segretario dei Ds, il ministro degli Esteri del governo ombra, è anche e forse prima di tutto l'uomo politico italiano più legato alla città-fabbrica dove è cresciuto. «Non posso non mettere passione quando ne parlo, perché è di lì che vengo e perché più volte Torino è stato un caso esemplare. L'interesse personale non c'entra nulla», premette, liquidando così le voci che lo vorrebbero già candidato a sindaco per il 2011. Ma è difficile, sentendolo intervenire sulle polemiche di questi giorni, non cogliere un'idea di città, un progetto per il futuro che potrebbero farne uno tra i nomi più probabili, soprattutto nell'attuale scenario nazionale.

Fassino, perché Chiamparino e la sua amministrazione sono così importanti per il Pd e mobilitano segretari e leader nazionali?
«Chiamparino non è solo un bravo sindaco, come tutti gli riconoscono a cominciare dai cittadini. È uno dei protagonisti dell'operazione di cambiamento che a Torino, con lui segretario del Pds, nel 1993 anticipò di due anni la nascita dell'Ulivo eleggendo Valentino Castellani a Palazzo Civico. Con quella scelta, che non fu indolore per il partito, si unirono le forze di diverse culture riformiste nella migliore tradizione di una città complessa, quella di Gramsci ma anche del beato Cafasso, di Gobetti e di Frassati, di Angelo Tasca, Vittorio Foa e Norberto Bobbio. Scelte come questa, così come i risultati raggiunti nel governo della città, sono un patrimonio di tutto il Pd, compresi quelli che oggi polemizzano, e attaccare il sindaco sulla spinta di qualche piccolo scontro sulle nomine appare francamente incomprensibile».

C'è il rischio che il giocattolo si rompa, che il «modello Torino» si incrini? «Mi auguro di no. Ma non dobbiamo dare nulla per scontato. Oggi giriamo per la città, la troviamo bellissima, siamo contenti di sapere che ha un Politecnico all'avanguardia o una vivacissima vita culturale. Ci pare ovvio, ma non lo è. Dal 1980 a oggi Torino ha dovuto cambiare pelle, superando crisi durissime e continuando a trasformarsi, e deve continuare».

Nel 1980 c'era anche lei alla guida del Pci torinese...
«Sì, e fu l'anno dello choc, della grande crisi alla Fiat che fino a quel momento aveva garantito gli equilibri della città. Solo allora si capì che la fabbrica poteva anche tornare indietro, licenziare, rimpicciolirsi. E che occorreva un patto tra produttori, tra lavoratori e impresa, ma anche che Torino non poteva continuare a reggersi su un'unica vocazione. La città ha cominciato allora a ripensarsi, a percorrere strade nuove. L'indotto auto si è messo a lavorare per giapponesi, tedeschi, americani, ma non bastava ancora. Ci si è dovuti inventare altro, dal Salone del Libro a quello del Gusto, dal nuovo Egizio al Museo del Cinema e, su tutto, la grande metafora delle Olimpiadi. Intanto, la Fiat di Marchionne ha ottenuto risultati importanti e non effimeri, e i presupposti perché possa continuare appaiono molto migliori di dieci anni fa. Sullo sfondo c'è il 2011: gli anniversari dell'Unità d'Italia, dal 1911 al 1961, sono già stati importanti per cambiare questa città».

Perché, allora, si parla d'altro e si litiga sul sindaco «autoritario»?
«Perché nonostante l'affermazione che occorre maggiore autonomia per chi amministra i comportamenti di molti, nei partiti, non sono ancora cambiati. Se ci fosse un dibattito o anche uno scontro sul futuro della città lo capirei, ma se la ruggine nasce da qualche nomina bancaria dico che non è materia d'intervento di un partito. Se poi ci si vuole posizionare in vista dei prossimi tre anni di elezioni, ricordo che non si può piegare la politica di un partito solo alle proprie ambizioni. Al 2011 manca ancora tanto tempo, e per scegliere il candidato faremo le primarie come abbiamo deciso nelle regole del Pd».

Se nel frattempo le correnti non avranno strangolato il partito...
«Non credo, non dobbiamo avere paura dei gruppi che si organizzano, a condizione che ciò avvenga su posizioni politiche vere. Quanto alla salute del Pd, si tratta di un bambino che da poco si è deciso di far nascere. Tra un po' camminerà da solo e a mano a mano si formerà una personalità autonoma».

Vera Schiavazzi
20 agosto 2008

da corriere.i
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« Risposta #24 inserito:: Agosto 23, 2008, 11:31:40 pm »

Festa nazionale del Partito Democratico

Bettini: «Nel Pd non ci sono fazioni»

«Nella nuova fase conteranno gli iscritti»

Poi il coordinatore nazionale difende Veltroni dalle critiche:«Berlusconi confonde legalità con giustizialismo»

 
 
FIRENZE - Goffredo Bettini, coordinatore nazionale del Pd, non condivide quanto dichiarato da Enrico Letta sui rischi di divisioni all'interno del partito. «Non ci sono fazioni, ci sono molti leader, ci sono molti rivoli che hanno costruito e stanno costruendo il Pd. Io confido che adesso si apra una nuova fase in cui conteranno gli iscritti e ci sarà una democrazia degli iscritti che disciplinerà molte cose», ha detto Bettini, a margine dell'apertura della festa nazionale del Partito Democratico, alla Fortezza da Basso di Firenze.

IL CONGRESSO - «Io non vedo nulla di drammatico nel congresso - ha sottolineato Bettini -. Noi ne abbiamo previsto uno nell'ottobre del 2009 come data massima. Se ci dovessero essere delle divergenze marcate sulla linea politica prima delle europee il congresso sarebbe necessario». «Altrimenti noi abbiamo l'assemblea programmatica - ha aggiunto - che potrebbe essere una grandissima occasione per mettere a punto in modo democratico e con gli iscritti la linea politica, l'assetto del nostro gruppo dirigente per dare ancora più forza al nostro partito e alla nostra iniziativa».

«GLI ALTRI SONO PARTITI FINTI» - «Noi siamo un partito vivo, vero e pluralista, radicato, che si sta strutturando - ha detto Bettini -. Ci sono polemiche, ci sono differenze di opinione, l'importante è poi lottare e avere un'iniziativa comune. Gli altri sono partiti finti. In Piemonte, la destra risolve preventivamente i problemi firmando dal notaio il contratto sulla divisione del potere, 70% a Fi, 30% ad An».

«LA LUNA DI MIELE DEL GOVERNO E' FINITA» - Poi l'affondo contro il governo Berlusconi. «Tante promesse sono svanite. Stiamo vedendo che la luna di miele di questo nuovo governo è già finita, le promesse sono state ancora una volta promesse mancate, le tasse non verranno ridotte, l'inflazione galoppa molto al di là di quella programmata dal Governo». Bettini ha poi sottolineato che ancora una volta a soffrire sono «i pensionati, coloro che vivono del salario, dei redditi fissi, ancora una volta si vuol far soffrire di più la parte più sofferente della società». L'Italia «non è un Paese in cui possiamo accettare così senza combattere la stasi e la depressione».

«BERLUSCONI CONFONDE LEGALITA' CON GIUSTIZIALISMO» - C'è spazio anche per commentare le dichiarazioni del premier sulla giustizia. «Ritengo che ci sia una certa confusione quando Berlusconi dice che Veltroni è giustizialista», perché il premier in realtà «confonde legalità con giustizialismo», dice Bettini. «Noi siamo per la legalità e lo abbiamo dimostrato. Lo riconosce Battista in un bellissimo editoriale sul Corriere della Sera», ha aggiunto Bettini, che poi ha sottolineato come «noi abbiamo un'attenzione enorme anzi, abbiamo come priorità i diritti e la libertà della persona ma pensiamo che sia molto importante la legalità. Prima di parlare delle questioni che riguardano la giustizia - ha concluso - è importante risolvere i problemi della gente dal punto di vista economico e sociale».


23 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #25 inserito:: Agosto 25, 2008, 12:36:43 pm »

Sul palco Il duello

Tremonti sfida i fischi

E Bersani: la sinistra lasciala fare a noi



FIRENZE— Non era partito affatto male. «Sono contento di stare qua», aveva esordito Giulio Tremonti, sorretto da un timido applauso. Ma poi il ministro dell'Economia si è subito complicato la vita. Prima c’è stata un’innocente allusione di stile tremontiano ai contrasti interni al Partito democratico. «Questa è una Fortezza (La Fortezza Da Basso di Firenze, dov'è la Festa del Pd, ndr) — ha detto Tremonti — ed è sempre meglio una Fortezza che un Loft (l'ex quartier generale romano di Walter Veltroni, ndr)». Poi una serie di battibecchi con il pubblico. Che non l'ha risparmiato quasi mai. «Stringi, Tremonti!» E lui: «Se questo è il dialogo per me può anche finire qui». Giù fischi. E più fischiavano, più il ministro dell'Economia raccoglieva le provocazioni. Di nuovo sulla Fortezza. «Nella Fortezza ci sono anche le prigioni, ma per fortuna sono chiuse, così non rischio di finirci dentro...». Altri inevitabili fischi. Insomma, una serata non imprevedibilmente storta. Alla quale, ironia della sorte, il superministro dell'Economia nemmeno avrebbe dovuto essere presente.

L'appuntamento con Tremonti alla festa del Partito democratico era infatti per giovedì prossimo. Ma Umberto Bossi l'ha convinto a seguirlo, tanto l'occasione era importante. Dopo che il leader del Carroccio aveva incassato il via libera del sindaco di Torino Sergio Chiamparino, punta di diamante nel Pd del fronte degli amministratori locali, doveva essere la prova generale per l'alleanza con l'opposizione sul federalismo fiscale: probabilmente l'unica arma che la Lega Nord ha per forzare la mano con un Silvio Berlusconi che su questo tema non appare concentrato come forse lo stato maggiore leghista vorrebbe e portare a casa, sul serio, la riforma federale. Per questo Bossi aveva voluto al suo fianco il ministro dell'Economia, l'uomo chiave per il successo, anche politico, dell'intera operazione. A cambiare il copione, però, ci ha pensato lo stesso Tremonti, con la fattiva collaborazione dell'eterno duellante Pier Luigi Bersani. «Tremonti, se ha ragione chi dice che per attuare la riforma federale ci vorranno almeno cinque anni, nel frattempo non è che possiamo mangiare pane e federalismo». «Bersani, non possiamo nemmeno mangiare pane e balle...». E via di questo passo.

Con il ministro che attacca chi si è illuso affidandosi «al Dio mercato», pensando di risolvere tutto scacciando «dall'economia» la presenza pubblica. Spiega che il federalismo fiscale significa migliorare i servizi pubblici locali e di conseguenza la vita dei cittadini. Loda il modello Toscana, «che ha un sistema di bilancio e di sanità migliore di altre Regioni», dando così una stoccata al governatore lombardo, Formigoni. Poi cita, cosa che recentemente gli capita non di rado, Karl Marx, ma anche Pier Paolo Pasolini. Chiosando: «L'egoismo si trova bene in ogni luogo...». Frasi che qui forse potrebbero scatenare l'applauso ma che invece cadono nell'indifferenza di una platea decisamente più ben disposta nei confronti di Bossi. Pronta ad accendersi quando Bersani racconta di aver intercettato un giorno sul bagnasciuga un dentista evasore fiscale che candidamente gli aveva confessato il suo profondo sollievo per la fine del governo di Romano Prodi: prova ulteriore, secondo l'ex ministro dello Sviluppo economico, che l'evasione fiscale starebbe riprendendo vigore. E addirittura impietosa nell'applauso fragoroso che accoglie l'ultimo suggerimento indirizzato da Bersani al suo interlocutore: «Tremonti, lasciala fare a noi la sinistra...». Stavolta è uno a zero per il piacentino del Pd. Ma al ministro dell'Economia non mancherà l'occasione per rifarsi. La via del federalismo è ancora lunga e tortuosa.

Sergio Rizzo
25 agosto 2008

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« Risposta #26 inserito:: Agosto 25, 2008, 12:38:02 pm »

Bossi, mano tesa ai democratici: federalismo, si deve collaborare

«Dialogo serio, ringrazio il Pd».

Insulti alle bandiere padane, poi applausi al Senatùr

DA UNO DEI NOSTRI INVIATI


FIRENZE — «Iccheccifà qui il Bossi?». Lo stupore dura un attimo, perché al Senatùr seguono in fila indiana Roberto Calderoli, camicia verde choc e pantaloni arancioni, e Giulio Tremonti, in un tripudio di fazzolettini verde padano. Roba da non crederci, visto che siamo alla festa dell'Unità, anzi del Pd. Lo straniamento aumenta quando attacca a parlare Sergio Chiamparino e in platea applaude compunto un ragazzetto tutto ricci: è Renzo Bossi, il figlio del Capo. Non tutto va liscio nella giornata del dialogo, perché è vero che Bossi viene applaudito, ma i momenti di tensione non mancano. Come quando, un leghista, uno del centinaio venuto a sostenere il Capo, in un eccesso di entusiasmo sventola un bandierone del Carroccio. Giù urla e insulti, «viva l'Italia» e «razzisti». Ma dura poco, perché il Senatùr fa un cenno ai suoi e le bandiere scompaiono come d'incanto.

La strategia distensiva viene concordata con un consulto in Direzione, prima dell'incontro. Bossi chiede la complicità di Chiamparino e Bersani: «Mi raccomando, non litighiamo, non ci conviene, teniamo i toni bassi». Seguono «risate omeriche» e scherzi bossiani sulla «montagna che è per vecchi, meglio il mare». Non se lo ricorda più nessuno, neanche lui, ma Bossi a una festa dell'Unità c'era già stato. Era il 6 settembre del '94 e si era a metà strada tra il primo governo Berlusconi e il ribaltone. Allora si era a Modena e, guarda il caso, era venuto a parlare di federalismo con Bassanini e Bersani. A quei tempi venne presa come una strizzatina d'occhio al Pds e ora qualcuno spera che la storia si ripeta. Il Bossi fiorentino ora spiega che occorre «unità d'azione politica»: «Dobbiamo collaborare». Chiamparino raccoglie. Sorrisi d'intesa con Calderoli e applausi. Poi tocca a Bersani, che rispetta a metà il patto di non ostilità: «Se il federalismo si fa bene, è utilissimo al Paese, altrimenti è la sciocchezza finale con la quale chiudiamo il libro». La bozza Calderoli? «Un maiale tutto di prosciutti». Nel senso del libro dei sogni.

Tremonti comincia a infastidirsi, ma Bossi si intromette: «Non fare arrabbiare il mio amico». Poi si alza e dà il cinque a Bersani, che ride e allarga le braccia divertito. Poi continua, aprendo la porta — «Siamo interessati» — e subito socchiudendo: «Non possiamo andare avanti ad armi di distrazione di massa». All'uscita, il contatto tra i leghisti e il popolo del Pd produce qualche scintilla. Battibecchi e battutacce: «Hai rosso anche il culo»; «A Bossi gliele paghiamo noi le spese d'ospedale». Il Senatùr minimizza. La sua strategia è frutto di un dubbio crescente e cioè che Berlusconi abbia ricominciato a pensare ad altro. Tanto che Bossi ironizza sul premier: «L'Ici? Voleva abolirla Veltroni, poi è arrivato Berlusconi a gridare anch'io anch'io». Se il federalismo arranca da una parte, non c'è di meglio che puntellarlo dall'altra. Solo che, dall'altra, c'è il Pd spaccato. Calderoli alla fine, è molto deluso: «Dialoghiamo bene con Chiamparino, con i sindaci, ma non con i dirigenti. Che delusione Bersani, ancora un po' e tirava fuori la falce e martello.
E Veltroni è peggio di lui, era meglio Prodi». Bossi si attarda sul palco e saluta: «Ringrazio il Pd, abbiamo cominciato a dialogare sul serio, è un bel risultato». Daniele Marantelli, deputato del Pd e artefice dell'incursione del Senatùr a Firenze, parlotta con Renzo Bossi: «Mi raccomando, tieni calmi i tuoi». Ma non ce n'è bisogno. E il Capo se ne torna a casa soddisfatto.

Alessandro Trocino

25 agosto 2008

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« Risposta #27 inserito:: Agosto 29, 2008, 06:49:17 pm »

Domenici: «Con noi si fa la nuova classe dirigente Pd»

Simone Collini


«Gli amministratori locali sono uno strumento fondamentale per ricostruire una classe dirigente capace di dare risposte al Paese», dice Leonardo Domenici. «Il Pd deve stare attento a non acquisire i difetti mostrati in questi anni dalla politica nazionale». Che, spiega il sindaco di Firenze, sono «la debolezza e la tendenza a vedere antagonismo e rivalità, anziché collaborazione, in quanti governano i territori».

Chiamparino accusato dagli esponenti del Pd torinese di avere modi autoritari, Cofferati tacciato di avere un brutto carattere: sono problemi personali quelli emersi quest'estate oppure, come dice lo stesso sindaco di Bologna, si tratta di problemi politici che vanno affrontati?
«Per una riflessione che vada un po' in profondità bisogna partire da un po' più lontano e ricordare che nel nostro Paese il primo grande elemento di novità politica e istituzionale fu rappresentata nel '93 dalla legge per l'elezione diretta dei sindaci. I cittadini hanno mostrato di gradire molto quella riforma elettorale e credo che nessuno abbia nostalgia dei sindaci o dei consigli comunali che duravano tre o quattro mesi. Quindi è chiaro che oggi i sindaci hanno maggiori responsabilità e maggiori poteri. Contemporaneamente, nel corso di questi ultimi anni c'è stata una sorta di ricentralizzazione della vita politica nazionale».

Che cosa intende?
«C'è stato un tale indebolimento della politica a livello nazionale che in alcuni momenti si è teso a scaricare sui livelli locali e sui territori la propria crisi e le proprie difficoltà. Pensiamo alla campagna fatta sui costi della politica, sulle amministrazioni sprecone, dissipatrici delle risorse pubbliche. È stato uno dei momenti più infelici e più bassi nel rapporto tra livello nazionale e realtà locali».

Pure falsità?
«Basta guardare i dati Istat per vedere che l'ultima performance dei conti pubblici del 2007 vede i comuni a + 325 milioni di euro».

E lei come se la spiega allora quella campagna?
«C’è una sorta di meccanismo unico che mette insieme politica, poteri economici e finanziari, mondo dei media, altri apparati dello Stato, che si autoalimenta e autoconserva e che tende ad escludere o a fare entrare solo parzialmente altre realtà, come possono essere i livelli di governo locale.

Il Pd, in tutto questo?
«Il Pd deve decidere se la politica deve vivere soltanto in una logica verticistica e centralizzata oppure se deve tornare a basarsi su un rapporto forte con i territori».

Il caso di Torino come lo giudica?
«Emblematico. In fin dei conti tutto è partito da una polemica sulla città metropolitana, sul fatto che Sergio Chiamparino sostiene un certo punto di vista, che io condivido, e c'è stato un parlamentare del Pd che si è invece detto pronto a presentare una proposta di legge perché Torino non stia più nel novero delle città metropolitane. Il punto è: i parlamentari, con una legge elettorale per cui bastava occupare un posto in lista per essere eletti, in che rapporto stanno col territorio? Diventa più importante il rapporto con i sindaci del territorio o con il segretario politico, o peggio ancora con il capo componente che ha garantito quel posto in lista? Questo è un problema che esiste in generale per la politica nazionale e che va posto anche per il Pd».

Come va affrontato, secondo lei?
«Io sono assolutamente contrario sia al partito dei sindaci sia a esasperare il conflitto tra territorio e centro. La scelta giusta non è quella di creare una rivalità o una alterità. Bisogna assorbire nella direzione politica nazionale esperienze di governo locale che sono state e sono importanti. Quindi prima di tutto il problema è aprire».

Secondo lei andare a congresso in tempi rapidi, magari prima delle europee, può contribuire a risolvere il problema di cui parlava?
«La necessità che io vedo è quella di offrire sia a livello nazionale che locale delle sedi vere di confronto e di dibattito, per prendere delle decisioni e poi portarle avanti con coerenza. Siamo a settembre, non so se sia conveniente montare adesso un congresso in fretta e furia, tenendo conto che nel 2009 non abbiamo solo le europee ma andranno al voto 4400 comuni. Insomma, mi sembra che abbiamo già parecchio da fare».

Il voto amministrativo presuppone una discussione sulle alleanze. Come deve muoversi il Pd secondo lei? «Io nel '99 e nel 2004 ho fatto una scelta precisa, quella cioè di costruire una coalizione in cui non fosse presente Rifondazione comunista. E per questo ho accettato di pagare dei prezzi, perché sono dovuto andare al ballottaggio. Si possono avere anche coalizioni articolate, certo. Però l'importante è che i cittadini sappiano che su determinate questioni non si fanno compromessi lessicali ma scelte chiare, precise. L'altro presupposto fondamentale è che siano le realtà locali a decidere, perché non può esistere un orientamento unico che poi viene calato dall'alto sulle singole realtà. Il problema è cercare di avere buoni candidati, fare le primarie, scegliere bene anche dove non si fanno le primarie e poi soprattutto correre per vincere ma anche per garantire un governo delle città stabile».

Parlava di primarie e candidature. A Firenze la discussione è piuttosto accesa…
«Quel che è certo è che in una città in cui alle politiche il Pd ha preso quasi il 49% è difficile pensare che non sia questo partito a esprimere il candidato di una coalizione di centrosinistra. Sì, fare le primarie, ma spetta al Pd l'onere e l'onore di indicare un candidato».

Visto quello che dicevamo prima: al Pd nazionale o a quello locale?
«Penso che prima di tutto sia a livello locale che bisogna avanzare delle proposte. Poi, è chiaro che questo è un discorso che non va fatto in contrapposizione tra i diversi livelli. E poi ci sono precise regole di cui tener conto. Diventa essenziale stabilire il processo, i percorsi, attraverso cui il Pd arriva all'individuazione dei propri candidati».

Alcuni amministratori locali del Pd non firmeranno la petizione Salva l'Italia: lei che farà?
«La firmo, perché un conto è quello che si fa con il nostro ruolo istituzionale, io di sindaco e anche di presidente dell'Anci, e un conto sono le proprie convinzioni e i propri punti di vista politici».

Come presidente dell'Anci, condivide il timore della Cgia di Mestre, secondo la quale con il federalismo fiscale prospettato nella bozza Calderoli i comuni del sud rischiano il collasso?
«Intanto, i comuni italiani sono a rischio collasso se non ci mettiamo d'accordo sulla quantità del rimborso per il mancato gettito Ici sulla prima casa che dobbiamo avere entro la fine di quest'anno. Il collasso dei comuni rischia cioè di essere una cosa molto più attuale».

E del federalismo fiscale che dice? Non è che i comuni chiederanno di reintrodurla, l'Ici?
«Non vogliamo reintrodurre l'Ici, però abbiamo avviato un confronto per superare l'attuale situazione e prevedere un nuovo tributo».

Del tipo?
«Un tributo federale sugli immobili, che possa portare sotto la responsabilità dei comuni pressoché l'intera imposizione immobiliare che oggi c'è nel nostro Paese, che non riguarda soltanto l'Ici. Ci sono molte imposte che vanno direttamente allo Stato e quindi è fondamentale una riforma di questo tipo che individui un nuovo tributo che dia autonomia e responsabilità ai comuni.

Dai primi contatti con Calderoli cosa emerge?
«Su questo punto c'è stata un'apertura da parte del ministro. A settembre bisogna entrare nel merito».

Pubblicato il: 29.08.08
Modificato il: 29.08.08 alle ore 11.33   
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« Risposta #28 inserito:: Agosto 29, 2008, 07:04:11 pm »

29/8/2008
 
Torino, il dito e la luna
 
 
 
 
 
SERGIO CHIAMPARINO
 
Il dibattito che ho sollevato ed anche le polemiche che ne sono nate avevano come obiettivo, esplicitamente dichiarato nella mia lettera al segretario Gianfranco Morgando, di evitare esattamente ciò che, con il solito acume, Luigi La Spina paventa.

L’esperienza torinese di questi ultimi quindici anni può andare dispersa sia per il Centro Sinistra, che non ha certo un diritto ereditario a governare Torino (e questo è importante per me, per molti, ma non per tutti, anzi!) sia, soprattutto, per la Città che in questi anni ha saputo non solo centrare il grande obiettivo olimpico, ma anche misurarsi adeguatamente con la crisi Fiat, realizzare la metropolitana, coniugare in modo significativo e riconosciuto innovazione, attrattività della città e coesione sociale.

Ora tutto ciò può essere messo a repentaglio se invece di proseguire su questa strada, misurandosi con l’importante scadenza del 2011, con le nuove difficoltà della situazione economica ed industriale di cui ha parlato su questo giornale Gianfranco Carbonato, con i vincoli imposti da un bilancio complesso ma tutt’altro che fuori controllo come qualcuno vuol far credere, prevarranno le inevitabili ripercussioni sulle cose da fare degli scontri di potere finalizzati al rinnovo dei vertici istituzionali ed in particolare alla mia successione.

Uccidere il padre, psicoanaliticamente parlando può andar bene, mangiarsi tutta l’eredità no.

Da parte mia, affronterò i temi che ho accennato per questa seconda metà di legislatura in un documento che presenterò al più presto, come mi ero impegnato a fare, in Consiglio Comunale.

Ho poi aperto questa discussione ferragostana, assumendomene anche i rischi, compreso quello di apparire permaloso o debole o distante dai problemi reali della gente, che peraltro credo di non avere dimenticato - come, se si vuole, dimostrano anche le recenti ordinanze sulla sicurezza - anche per un’altra ragione, esattamente opposta a quella che mi viene addebitata. Vale a dire perché sono convinto dell’importanza decisiva dei partiti, a condizione però che siano veicoli di reale rappresentanza di interessi e di valori e non macchine (o macchinette!) distributrici di potere e nemmeno caricature di quelli che sono stati seri e nobili partiti ma che non ritorneranno più. E perché sono convinto che vi siano ancora tutte le condizioni perché ciò non avvenga. Rivolgendomi ai vertici locali del partito, per il rispetto che porto loro ed a tutti coloro che guardano, elettori e militanti, al Pd.

E perché infine sono convinto che, se si vuole che l’esperienza politica torinese possa essere o diventare anche un riferimento nazionale, come l’eco del dibattito suscitata in questi giorni lascerebbe pensare, e non solo per la cronica carenza estiva di notizie, questo passa prima di tutto per il prendere sul serio gli interlocutori locali. C’è chi in questi giorni mi dice: «Tu indichi la luna e loro guardano il dito, lasciali perdere». Può essere. Ma se anche una sola persona a cui si indica la luna (ammesso che sia così!) vede solo il dito, sento la necessità di dirglielo, magari litigando, anche per capire se per caso non sto sbagliando io.

 
da lastampa.it
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« Risposta #29 inserito:: Agosto 31, 2008, 10:40:22 pm »

Chiamparino: «Pd attento, così perderai Torino»

Ninni Andriolo


«Scontri di potere - aggiunge - che rischiano di pregiudicare l´andamento dell´amministrazione negli anni che restano». A Torino le comunali sono fissate per il 2011, l´anno prossimo si voterà per la Provincia, nel 2010 per la Regione... «Credo che cisia la possibilità di dare continuità alle esperienze positive di questi anni. Ma, voglio sottolinearlo, non c´è un diritto ereditario del centrosinistra a governare. Torino non è Bologna o Firenze, città con forte insediamento della sinistra. Noi raccogliamo mediamente un terzo dei voti e qui tutto dipende dalle alleanze, dal sistema di relazioni e dalle cose che si fanno».

"Continuità" o "ereditarietà"? Chiamparino non rieleggibile che vuole decidere d´imperio il suo successore?
«Sono il primo a comprendere che la continuità con l´esperienza amministrativa non deve significare ereditarietà. Nel cambio delle persone bisogna ricercare soluzioni guardando in avanti, ma senza distruggere ciò che di buono è stato fatto. La continuità va preservata, a meno che non si abbia un giudizio sostanzialmente negativo sull´esperienza di governo locale. L´opinione pubblica cittadina a me pare che quel giudizio negativo non ce l´abbia».

Una divaricazione tra il giudizio della città sul sindaco e quello che circola nel Pd, quindi?
«Io temo di sì. Ma il problema è più generale. Lo stesso che solleva Leonardo Domenici. Non vorrei che si desse una lettura retrodatata del ruolo pure importante delle forze politiche. Alla fine del secolo scorso si è registrato un passaggio fondamentale per la nostra democrazia che oggi, non a caso, non è più sotto la tutela dei partiti».

Per Domenici l´elezione diretta dei sindaci rappresenta il momento della svolta...
«La grande crisi del sistema politico degli inizi degli anni ‘90 può essere interpretata, oltre che per gli effetti della caduta del muro di Berlino o di Tangentopoli, con il fatto che nel nostro sistema democratico - che si reggeva prima sui partiti - si è creato un rapporto più diretto tra istituzioni e cittadini. L´elezione diretta dei sindaci è l´unica innovazione istituzionale di cui la gente si è accorta». Inevitabilmente residuale il ruolo dei partiti, e quindi del Pd, a livello locale?
«La realtà che ho descritto sopra richiederebbe, da parte di chi ha responsabilità di partito, una riflessione attenta per riposizionare il ruolo delle forze politiche in un contesto nuovo. Nella direzione, cioè, della rappresentanza di interessi e di valori e non della sostituzione dei partiti alle istituzioni»

Le cose dell´amministrazione "decise dai consigli comunali e dalle giunte e non già dalle forze politiche", per dirla con Cofferati?
«Esatto. E non si tratta, come potrebbe apparire, di una banale distinzione di responsabilità o di funzioni, ma di un processo di maturazione democratica. C´è stato un lungo periodo in cui i partiti hanno svolto ruoli al tempo stesso di rappresentanza della società e di supplenza, di numi tutelari delle istituzioni. I partiti, cioè, surrogavano i processi decisionali, e non è un caso che si siano trasformati in luoghi di mera redistribuzione del potere. In una certa fase questo è stato utile. Dopo quel meccanismo non ha retto di fronte alla maturazione dell´opinione pubblica».

Non sarà che la realtà è meno complessa e si riduca ai sindaci e ai governatori tentati dall´autosufficienza? Fa un certo effetto leggere di amministratori Pd accusati di autoritarismo...
«I dati caratteriali non possono spiegare i problemi politici di fondo, questi vanno discussi e non celati. Se di fronte ai temi che ho cercato di mettere in evidenza prima le risposte che vengono date sono "sei un oligarca" - così mi sono sentito ripetere pochi giorni fa - o "sei affetto da berlusconismo", allora vuol dire che c´è un problema di analisi politica da mettere a fuoco»

Inevitabile, quindi, che sindaci e governatori catalizzino consensi che annebbiano il ruolo del partito e dei suoi gruppi dirigenti?
«Qui diventa ancora una volta essenziale la distinzione riassunta da Cofferati. Il limite che avverto è esattamente quello di un partito che non è in grado di calarsi sufficientemente nei cambiamenti della società, in modo da riuscire a interpretarli. I partiti devono ricominciare da lì e attraverso l´immersione tra la gente devono saper produrre differenza di opinioni, di orientamenti, di progettualità. A quel punto lo stesso confronto, o lo stesso scontro, per indicare le leadership istituzionali costituirebbero un arricchimento».

Insomma, a Torino c´è un partito che non sta tra la gente e un sindaco Pd che fa l´esatto contrario?
«Se tutto nasce dall´idea di una sorta di ereditarietà del centrosinistra a governare, e se l´unico problema è quello di chi controlla più e meglio il partito, a quel punto rischiano assieme sia Torino che il centrosinistra. E corriamo anche il pericolo di perdere le occasioni per costruire il Pd. O il partito vive di più dentro la città o rischia di rimanere al palo»

Lei ha inviato una lettera molto critica ai vertici del Pd piemontese...
«Ho indicato due temi: un giudizio sull´esperienza della mia amministrazione e l´accenno critico sulle correnti come mera aggregazione di potere. Ci si misuri in modo esplicito. Mi si dica dove non va l´esperienza amministrativa torinese. Ho solo sentito, al contrario, polemiche sulla presunta subalternità ai poteri forti. A questo punto voglio un confronto alla luce del sole. Non chiedo che si dica che sono bravo. Mi interessa, invece, un´analisi critica e una discussione esplicite».

Che cosa le rimproverano e come replica?
«Abbiamo fatto male a intervenire e investire per dare una mano alla Fiat a riportare la produzione a Mirafiori? Abbiamo fatto male a fare le Olimpiadi in quel modo? Se si ritenevano le scelte subalterne bisognava dirlo allora: quando c´erano gli operai in cassa integrazione che manifestavano. Si vuole discutere ora? Benissimo, lo si faccia. Ma lo si faccia apertamente».

L´accusa è: il Pd discute nelle sedi proprie, mente il sindaco interviene a mezzo stampa...
«Se uno ha un ruolo pubblico è fatale che abbia il diritto, ma soprattutto il dovere, di corrispondere con l´opinione pubblica. Nessuno, in ogni caso, può dire che i temi che ho sollevato con una lettera al segretario regionale non li abbia sviluppati anche nelle sedi di partito. Ricordo l´assemblea regionale di sei mesi fa o la direzione del dopo voto nelle quali dissi esplicitamente in positivo quello che ho detto in negativo a Morgando...» E cioè?
«Hai vinto le primarie, anche se di poco, e sei il segretario. Si azzerino le divisioni del 14 ottobre, porta avanti tu un percorso che rimescoli le carte e consenta a tutti di sentirsi protagonisti. Non ho fatto mancare il mio contributo al partito. Recentemente, poi, ho condito questi temi con un messaggio forte: se con me non si vuole discutere apertamente non vado alla festa del Pd».

Alla fine andrà, però...
«Si, è stato fissato un dibattito sui temi che ho posto e raccolgo volentieri l´occasione che mi viene offerta».

Torino, intanto, deve fare i conti con le casse vuote del Comune... «Non ci siamo certo indebitati per andare al Casinò. Non si può dire che Torino ha fatto cose buone e poi puntare il dito contro i debiti del Comune. L´operazione Fiat è costata al sistema degli enti locali 70 milioni, quella olimpica qualcosa che si avvicina ai 350-400 milioni. La metropolitana il 40% di un miliardo e duecento milioni di euro. E queste sono solo le cose grosse. Insomma, non è che i soldi li abbiamo buttati via. Su questi problemi, poi, si innesca una politica che, diciamo la verità, anche prima di Berlusconi non è stata mai molto mite nei confronti dei comuni. Nasce anche da qui il fatto che il federalismo fiscale possa essere un elemento di modernizzazione del Paese».

Lei è un sostenitore convinto del federalismo fiscale...
«Il processo più innovativo di un percorso di riforma fiscale è quello di dare più risorse e più funzioni ai grandi centri urbani, perché è lì che può pulsare lo sviluppo. Se non si definisce un ruolo preciso dei grandi sistemi urbani manchiamo uno degli appuntamenti più importanti».
Lei fa parte del governo ombra Pd. C´è chi chiede il congresso anticipato del partito, è d´accordo?
«Se il congresso avviene nelle attuali condizioni non vedo cosa possa cambiare, il rischio anzi è che si peggiori la situazione. Diverso è se si aprisse un confronto politico su alcuni nodi di fondo. In genere prima si fanno emergere i nodi politici e poi, semmai, li si affronta in un congresso. In modo tale che questo non si traduca semplicemente in una nuova conta, in una ridefinizione di gruppi e gruppetti che continuano a non fare uno sforzo per misurarsi con la realtà. Io, ad esempio, non ho ancora capito dove andranno a sedersi in Europa i nostri parlamentari, o il profilo del Pd sui temi cruciali della laicità, della bioetica, ecc. Siamo ancora un partito che ha difficoltà a dire che cosa fa sulle coppie di fatto...Il congresso? Se serve a dipanare questi nodi facciamolo. Altrimenti non serve a nulla la semplice risistemazione delle vecchie figurine in un album nuovo».

Pubblicato il: 31.08.08
Modificato il: 31.08.08 alle ore 10.54   
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