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Autore Discussione: LEGGERE per capire... non solo la politica.  (Letto 150628 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Maggio 02, 2008, 10:50:25 am »

Occasioni perdute

Il liberismo e la speranza

di Francesco Giavazzi


Da una quindicina d’anni su questo giornale mi batto per il mercato, per le liberalizzazioni, per uno Stato meno invasivo. Sostengo i benefici della concorrenza e dell’apertura agli scambi, non per scelta ideologica ma perché penso che mercati aperti e concorrenza siano lo strumento per sbloccare un Paese nel quale la mobilità sociale si è arrestata e il futuro dei giovani è sempre più determinato dal loro censo, non dal loro impegno o dalle loro capacità. Nel frattempo nel mondo sono successe alcune cose. La globalizzazione dei mercati ha consentito a mezzo miliardo di persone di uscire dalla povertà: nel 1990 le famiglie in condizioni di povertà estrema erano, nel mondo, una su tre; oggi poco meno di una su cinque.

Ma con la globalizzazione si sono accentuate le diseguaglianze, soprattutto nei Paesi ricchi e poco importa che il motivo non siano le importazioni cinesi, ma piuttosto le nuove tecnologie che premiano chi ha studiato e penalizzano il lavoro non specializzato. (Negli Stati Uniti il salario orario di un lavoratore che ha smesso di studiare a 16 anni nel 1972 era, ai prezzi di oggi, 15 dollari; 11 nel 2006. Quello di un laureato è invece aumentato da 24 a 30 dollari l’ora). Come osservavano già tre anni fa Massimo Gaggi e Edoardo Narduzzi («La fine della classe media») in occidente è sparita la classe media tradizionale, quella che per mezzo secolo è stata il collante del sistema politico: al suo posto è nata una società nella quale chi ha scarsa istruzione è angosciato e cerca qualcuno che lo protegga. E non sempre il mercato dà buona prova di sé. Negli Stati Uniti è inciampato in un paio di infortuni.

Nel 2002 le frodi degli amministratori di Enron, Tyco e WorldCom. Oggi la crisi innescata dai mutui «subprime»: se non fossero tempestivamente intervenute le banche centrali, cioè lo Stato, i mercati rischiavano di precipitare. Talora un mercato neppure esiste, come nel caso dell’energia: prezzi e forniture di gas — l’80% dell’energia utilizzata in Italia—sono determinati da un cartello dominato dalla Russia. Pensare di aprire quel mercato alla concorrenza è un’illusione un po’ infantile, almeno fino a quando non avremo costruito una decina di rigassificatori e ci vorranno, se tutto va bene, un paio di decenni. La Cina non consente che il valore della sua moneta sia determinato dal mercato. Per mantenere un tasso di cambio sottovalutato accumula una quantità straordinaria di euro e di dollari. La crescita cinese continua a dipendere dall’industria e dalle esportazioni. A parole il partito comunista si dice preoccupato della crescente diseguaglianza, ma poi non fa quasi nulla per correggere il tiro e spingere la domanda interna, soprattutto i servizi, in primis la sanità. Sempre più i mercati aperti spaventano gli elettori. Nella campagna elettorale americana sia Obama che Hillary Clinton parlano con accenti critici della globalizzazione e si guardano bene dall’attaccare i sussidi pubblici che rendono ricchi gli agricoltori Usa a spese del resto del mondo, ad esempio dei coltivatori di cotone egiziani.

In Francia Sarkozy a parole (e non sempre) predica il mercato, ma provate ad aprire una linea aerea e a chiedere uno slot per un volo Linate-Charles De Gaulle: lo otterrete, ma alle 6 del mattino. La maggioranza degli italiani ha votato per un candidato, Silvio Berlusconi, che si è impegnato a salvare — con denaro pubblico — un’azienda che perde un milione di euro al giorno: non ho visto nessuno sfilare perché le nostre tasse vengono usate per tenere in piedi un’azienda da anni decotta. (Ho invece visto i tassisti romani festeggiare il nuovo sindaco della città che due anni fa aveva manifestato solidarietà per la violenta protesta dei tassisti contro le liberalizzazioni di Bersani). Insomma, il mondo sembra andare in una direzione diversa da quella auspicata da chi, come me, vorrebbe meno Stato e più mercato. I cittadini non sembrano preoccuparsene: anzi, premiano chi promette «protezione» dal vento della concorrenza. Che cosa non abbiamo capito, dove abbiamo sbagliato? Alcuni ritengono che il problema nasca dall’errato accostamento di «concorrenza » e «mercato».

Concorrenza significa regole: in assenza di regole non è detto che il mercato produca una società migliore di quella in cui vivremmo se venissimo affidati ad uno Stato benevolente. Affinché il mercato, la globalizzazione diventino popolari è necessario «governarli». E’ certamente vero, ma anche un po’ illuminista. Vedo anti-globalizzatori che occupano le piazze, ma non vedo cittadini che manifestano perché il Doha Round non fa un passo. La decisione dei capi di Stato dell’Ue di cancellare la concorrenza dai principi irrinunciabili stabiliti dal nuovo Trattato europeo è passata inosservata. Insomma, non mi pare che i cittadini reclamino più regole: la protezione che chiedono —e che alcuni politici promettono—è quella dei dazi e dei vincoli all’immigrazione, non l’antitrust. A me pare che i liberisti debbano porsi un compito più modesto: spiegare ai cittadini che l’alternativa al mercato, al merito, alla concorrenza è una società in cui i privilegi si tramandano di generazione in generazione, i fortunati e i prepotenti vivono tranquilli, ma chi nasce povero è destinato a rimanerlo, indipendentemente dal suo impegno e dalle sue capacità. Convincerli che il modo per difendere il proprio tenore di vita è chiedere buone scuole, non dazi.

Il «miracolo economico» italiano degli anni ’50 e ’60 fu il frutto del mercato unico europeo (e della lungimiranza di alcuni leader della Democrazia Cristiana che alla fine della guerra capirono l’importanza di entrare subito nella Cee). La caduta delle barriere doganali e l’ampliamento della domanda consentirono alle nostre imprese di allargare le fabbriche e raggiungere una dimensione che ne determinò il successo. La crescita tumultuosa di quegli anni creò opportunità per tutti. Non ho dati, ma penso che se qualcuno allora avesse chiesto agli italiani che cosa pensavano dell’apertura degli scambi, la maggior parte avrebbe risposto favorevolmente. L’Europa di allora è il Brasile, l’India, la Cina dei giorni nostri, ma i più oggi le considerano minacce, non opportunità. Mi pare che l’Italia si trovi in un «cul de sac». Da un decennio abbiamo smesso di crescere: dieci anni fa il nostro reddito pro-capite era simile a Francia e Germania, 27% più elevato che in Spagna, 3% più che in Gran Bretagna.

In questi anni abbiamo perso dieci punti rispetto a Francia e Germania, siamo stati raggiunti dalla Spagna e di nuovo superati dalla Gran Bretagna. Quando un Paese non cresce le opportunità scompaiono e ciascuno si tiene stretto quello che ha: mentre mercato, merito, concorrenza—i fattori la cui assenza è all’origine della mancata crescita—spaventano. I cittadini preoccupati chiedono protezione, qualcuno la promette e il Paese si avvita. (Il paragone, lo so, indispettisce, ma la storia del declino dell’Argentina —un Paese che ai primi del ’900 era ricco quanto la Francia—inizia, con Peron, proprio così). Il tentativo di convincere la sinistra che mercato, merito e concorrenza sono gli strumenti per sbloccare l’Italia—devo ammetterlo — è fallito. Con Prodi la sinistra ha perso un’occasione storica: anziché sbloccare la società ha essa pure offerto protezione. Ma chi ha protetto? Non chi temeva la globalizzazione — che infatti si è fatto proteggere dalla Lega—ma il sindacato, anzi i suoi leader. Temo ci vorrà qualche legislatura per riparare questo errore.

I nuovi interlocutori dei «liberisti» (come sostiene da qualche tempo Franco Debenedetti) oggi sono i «protezionisti»: sbagliano la diagnosi, ma hanno saputo cogliere e interpretare meglio della sinistra le angosce di tanti cittadini. E tuttavia la risposta alla «mobilità planetaria» non può essere il congelamento della mobilità domestica. Una società congelata non solo è ingiusta: si illude di proteggersi, in realtà spreca le sue risorse migliori e deperisce. E’ un lusso che forse possono permettersi gli Stati Uniti: per l’Italia sarebbe un suicidio.

30 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #46 inserito:: Maggio 03, 2008, 10:45:38 am »

«Il Fronte della gioventù ? Mi ha trasmesso valori. Nulla a che vedere con il fascismo»

Meloni: «Martiri anche le vittime del Fdg»

La deputata del Pdl: molti i nostri morti per cui la società non ha versato una lacrima

 
 
ROMA- «Anche i giovani militanti del Fronte della gioventù che morirono assassinati sono martiri dell'Italia, non della Destra». Lo ha detto la deputata del Pdl ed ex vicepresidente della Camera, Giorgia Meloni, da qualche anno uno dei nomi emergenti di An. «Se rinnegassi il Fronte della gioventù - ha spiegato la parlamentare intervenendo al programma web KlausCondicio - rinnegherei me stessa. Tutto ciò che mi porto dentro di pulito, di autentico, di ideale me lo ha insegnato il Fronte della Gioventù».


IL CASO DI NELLA - La Meloni è cresciuta nel movimento giovanile dell'Msi ed è stata al vertice del gruppo giovani di An. Conosce dunque bene la realtà di un movimento che, soprattutto negli anni settanta, è stato in dura contrapposizione con i movimenti studenteschi e i gruppi della sinistra. E tra i nuovi martiri la deputata pidiellina inserisce ad esempio Paolo Di Nella, rimasto nel cuore di molti militanti, a partire dal neosindaco di Roma, Gianni Alemanno, che porta al collo una collanina con la croce celtica che apparteneva proprio al giovane ucciso nel 1983, a colpi di spranga alla testa, mentre attaccava dei manifesti. «Fu ucciso a soli 20 anni - ha sottolineato la Meloni -, una morte ancora oggi rimasta impunita».


«IL FASCISMO? NON C'ENTRA NULLA» - La parlamentare ha poi spiegato cosa abbia significato per lei quell'esperienza politica. «Eravamo ragazzi con un'idea della ribellione finalizzata a costruire un mondo diverso, ragazzi che consideravano e considerano ancora il potere come uno strumento e non un obiettivo. Il Fronte della gioventù è la mia storia». «Per noi la violenza non è mai stata uno strumento dell'agire politico - ha aggiunto -. Al contrario c'è tanta nostra gente che si è dovuta difendere, poichè veniamo dalla storia di una comunità politica che, per un certo periodo del suo percorso, è stata considerata un bersaglio da tutti. La storia di quei ragazzi che morivano a 16 anni in mezzo alla strada ed era normale perchè ammazzare un fascista non era reato. Erano ragazzi nati nel 1965, venti anni dopo il fascismo, che non c'entravano nulla con il fascismo e per i quali la società non ha versato una lacrima. Io dico che storie analoghe ci sono state anche dall'altra parte della barricata e che solo oggi si sta rendendo giustizia a tutti quei ragazzi».


02 maggio 2008

da corriere.it
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« Risposta #47 inserito:: Maggio 04, 2008, 11:38:46 am »

4/5/2008
 
Furti, stupri e altre percezioni
 
LORENZO MONDO
 

Ricordate? Fino a ieri, chi tendeva a minimizzare l’influenza dell’immigrazione incontrollata sulla criminalità, esortava a distinguere tra la realtà effettiva e la «percezione» che ne avevano i cittadini. Assegnando alla parola percezione un significato limitante, di sensazione avulsa anziché corroborata dai fatti, si finiva per accusare di imbecillità le persone che nei quartieri più poveri e disagiati ma anche nelle villette isolate del ceto medio, dovevano affrontare gravi problemi di ordine pubblico. Le aggressioni, i furti, il degrado ambientale, l’inosservanza discriminante delle regole (a partire dalla corsa in tram e autobus senza pagare il biglietto), il consiglio rivolto da carabinieri impotenti ai cittadini, di chiudersi in casa tra le inferriate...

Non erano e non sono ansietà generate dai pregiudizi e dai sogni. D’altra parte, cade in una patente contraddizione chi, commuovendosi per il presunto rigore della legge contro gli immigrati, è forzato a considerare che essi concorrono per un terzo a intasare le nostre carceri. Avviene forse per caso? I dati più recenti forniti dal ministero dell’Interno segnalano che negli ultimi mesi si è avuta ad opera degli stranieri un’impennata dei furti e delle rapine, e una crescita costante delle violenze sessuali.

Adesso, dopo il risveglio dovuto al terremoto elettorale, tutti sembrano prenderne atto. Quasi tutti, perché non manca chi si esibisce ancora in parole e ragionamenti strani. La violenza sulle donne? Non bisogna esagerare e gettare la croce sugli stranieri, tenendo conto che la maggior parte di questi reati si consumano tra italiani dentro le mura domestiche. Ma come si fa a tirare in ballo queste abiezioni sommerse, per lo più non denunciate, per sottovalutare quelle che avvengono per le strade e nei viali ad opera di estranei? E siamo sicuri che nelle famiglie degli immigrati, a qualunque specie appartengano, intercorrano rapporti immacolati? In ogni caso, ci troviamo di fronte a una sommatoria di reati ai quali non si deve concedere tregua. Distinguere e sottilizzare comporta una perversione del sentimento di equità e di tolleranza. Non finiscono di stupire, in materia così grave, gli esercizi sofistici che mal si distinguono da una irrimediabile insipienza.
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #48 inserito:: Maggio 05, 2008, 12:44:32 pm »

Il centrosinistra «Clima bipartisan? Non è facile, l'esperienza è stata negativa»

D'Alema chiude al dialogo: a destra logiche padronali

Non si deve rincorrere il Pdl sulla sicurezza. Sul Pd: bisogna allearsi, con il 33% non si è autosufficienti


ROMA — Massimo D'Alema, ovvero la voglia di voltare pagina. Lo fa capire con chiarezza riuscendo ad infilare, incalzato da Lucia Annunziata a In mezz'ora, tutto ciò che voleva dire sulla crisi del centrosinistra. E del Pd. Partito, certo, che è anche il suo. Ma al momento soprattutto di Walter Veltroni. E dice cose che non faranno tanto piacere al segretario del Pd, in particolare quando fa notare che una forza che naviga attorno al 33 per cento «non può essere autosufficiente », ma deve allearsi. E quando sostiene che si è sbagliato a rincorrere la destra sul tema della sicurezza. L'analisi del voto la fa subito, senza giri di parole: «La sconfitta è stata grave». E non ci si illuda su facili inversioni di rotta: «La crisi è di lungo periodo perché la sintonia tra Berlusconi e il Paese, cominciata nel '94, non è mai finita. Serve quindi avviare una riflessione approfondita». E qui si toglie il primo sassolino dalle scarpe: «Peccato che fino a poco tempo fa quando dicevo queste cose venivo coperto di insulti».

Come quando, aggiunge, sosteneva un'altra cosa, in questo caso sulla Lega: «Per 15 anni ho detto che era una costola del mondo operaio e sono stato attaccato con durezza. Adesso, leggo, hanno scoperto che gli operai votano per la Lega». Fatto sta che ora al potere c'è proprio il Carroccio insieme al Pdl e che bisogna capire come contrastare questo blocco. D'Alema non è affatto convinto che con Berlusconi si possa instaurare facilmente un clima bipartisan per le riforme: «L'esperienza che ho avuto è stata negativa. Del resto la destra una visione padronale delle istituzioni. È come un istinto, non so se riusciranno a dominarlo». E il Cavaliere viene definito «capo dei poteri deboli », dato che «in Italia il capitalismo non è riuscito ad esprimere poteri forti». La strategia per vincere deve quindi cambiare.

Via allora alle alleanze con le altre forze dell'opposizione, che in pratica si riducono in Parlamento alla sola Udc (a parte Di Pietro con il quale il Pd si è presentato alle ultime politiche). È qui che cominciano le critiche più severe a Veltroni: «Bipolarismo non significa necessariamente bipartitismo. Anche il Pdl senza la Lega non avrebbe vinto. Dove si vota con un sistema basato sulle coalizioni chi ha il 33 per cento sbaglierebbe se alla vigilia del voto sostenesse l'autosufficienza ». E la sinistra radicale? Occorre un dialogo: «Non è più in Parlamento, ma non è scomparsa. Si tratta di una forza elettorale di circa tre milioni di voti che si è dispersa in parte anche nell'astensione. Le cose che hanno radici nel Paese non scompaiono».

Ma, soprattutto, bisogna cambiare discorso. Ad esempio, sulla sicurezza, guai a rincorrere lo schieramento opposto: «Quando si diffonde un sentimento di paura, se la risposta è la repressione e la chiusura, la destra è sempre più credibile di noi, anche se le soluzioni che offre sono illusorie. A noi spetta invece di costruire un'altra risposta che si basi sull'integrazione e il governo dei flussi di immigrazione». Alla fine il ministro degli Esteri (ancora per pochi giorni) torna sugli attacchi della Libia a Calderoli, ministro in pectore, ribadendo il «no» ad ogni ingerenza, ma precisando anche che nel 2006 il leghista sbagliò ad indossare quella maglietta con una vignetta anti-islamica. Il futuro di Massimo D'Alema? «Non sono antagonista di nessuno, non aspiro a cariche. Voglio solo esprimere ed esprimerò le mie opinioni». Fatto che forse lo rende ancora più «pericoloso » per chi nel suo partito la pensa diversamente.

Roberto Zuccolini
05 maggio 2008

da corriere.it
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« Risposta #49 inserito:: Maggio 05, 2008, 10:58:17 pm »

POLITICA

Tour del sindaco nei posti simbolo di Roma, omaggio alle Fosse Ardeatine

"Condannare qualsiasi forma di estremismo ideologico e totalitarismo"

Alemanno nei luoghi della memoria "La Resistenza non si discute"

E sulla Festa del cinema: "Scriverò ad ambasciatore Usa, nessuno vuole autarchia"

 
ROMA - "I valori della Resistenza non si discutono, sono valori di libertà contro gli occupanti. Non c'è nessuna polemica, ma grande rispetto e radicamento". Il neosindaco di Roma, Gianni Alemanno, un passato nell'Msi e un presente nella destra sociale di An, parla così di quanti sono caduti durante la lotta di Liberazione dal nazifascismo. Ma il primo cittadino respinge al mittante anche le accuse di "liste nere" per le star hollywoodiane, a proposito della Festa di Roma.

Sulla Resistenza/1. "I valori della Resistenza - continua Alemanno dopo aver deposto una corona di alloro ai piedi del monumento di Porta San Paolo - non devono essere messi in discussione dalle opere di chiarimento storiografico e di ricucitura nazionale, perché sono fondativi della Costituzione. Credo che ciò che ho detto sia condiviso da tutta An. Nella destra italiana non esiste spazio per la difesa del totalitarismo". Per il sindaco, però, bisogna anche fare luce sulla "componente dell'odio e della guerra civile, condannando gli abusi che furono fatti da tutte le parti". Senza però mettere in discussione i valori della Resistenza "che sono costitutivi della stato repubblicano".

Sulla Resistenza/2. Dopo l'altare della Patria e Porta San Paolo tocca alle Fosse Ardeatine, altro luogo simbolo. Alemanno le definisce "una ferita nel cuore di Roma", un richiamo "di quello che accade in una città quando perde la libertà e la capacità di autogoverno. Ecco perché dobbiamo essere presenti qui e rinnovare la memoria". Anche scrivendo nel registro delle presenze "mai più Roma dovrà subire questa aggressione. In ricordo di tutti i martiri".

Sul Papa. Nel corso del suo giro per rendere omaggio ad alcuni dei luoghi simbolo, Alemanno dice la sua sul rapporto con il Vaticano, capitolo di importanza cruciale per un sindaco della capitale: "Ho una grandissima stima nei confronti di Papa Ratzinger e penso che il rapporto tra il sindaco della città di Roma, il Vaticano e tutto il mondo cattolico, vada profondamente ricostruito dopo tante tensioni e difficoltà".

Sulla comunità ebraica. Poi è la volta della sinagoga. Dopo le polemiche in campagna elettorale Alemanno trova ad attenderlo il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici. "Noi riconosciamo alla Comunità ebraica il ruolo di coscienza di Roma, di memoria e di presenza di tutti quelli che sono stati i momenti terribili di questa città" dice il sindaco.

Sui fatti di Verona. L'attualità incalza. E il brutale pestaggio di Verona consegna ad Alemanno l'occasione per condannare "qualsiasi forma di estremismo ideologico a prescindere dalla parte da cui proviene. Ci sono frange estremiste a destra come a sinistra ma sono più espressione di emarginazione urbana che di vera politica. Faremo di tutto perchè la violenza politica scompaia definitivamente da tutte le nostre città. Da Verona come da Roma".

Sul cinema. Ecco le parole di Alemanno sulla questione: "Scriverò oggi una lettera sia all'ambasciatore degli Stati Uniti, sia al Corriere della Sera - dichiara, incalzato dai cronisti - per spiegare che nessuno vuole l'autarchia cinematografica".

(5 maggio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #50 inserito:: Maggio 05, 2008, 11:09:41 pm »

Il salotto immaginario

Roberto Cotroneo


Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere della sera" indicava un elemento tra i motivi della sconfitta della sinistra: il fatto che il partito democratico sia "lontano dalle masse e vicino ai salotti". Galli della Loggia non è l’unico ad affermare questo; nei giorni scorsi tutti i commentatori, anche i più sofisticati, dopo aver fatto analisi del voto attente e puntuali, aver controllato seggi e tessuti sociali, centro e periferie, alla fine questa frasona, diciamo così, l’hanno tirata fuori. Come un dato incontrovertibile, come un fatto che si spiega da sé. I salotti. La sinistra va nei salotti e non si occupa del popolo, delle masse e dei poveretti. E i salotti, a furia di frequentarli, si finisce che un po’ anche ti rimbambiscono.

Perché sono come corti di Bisanzio: molli, tentatori, ambigui, zeppi di intellettuali che si trascinano da un divano all’altro, mangiando la solita tartina, quel "Gauche Caviar", quel "Toskaner Fraktion" che alla sinistra non fa bene. E certo poi che in realtà cosa vai a lamentarti dopo. Se sei abituato a frequentare solo intellettuali raffinati, a fare il cicisbeo tra una terrazza al Pantheon e una a piazza san Babila, passando per qualche giardino sul mare di Capalbio, poi è ovvio che vincono quegli altri. Che invece loro non fanno salotto, neanche sulle sedie provano a poggiarsi. Nel centro destra bevono solo Tavernello: sono veri, popolari, conoscono tutte le strade nome per nome delle periferie delle grandi città, peggio di un Tom Tom, che sanno che cosa è la gente, quella vera. Non sono dei ricchi camuffatti da intellettuali di sinistra.

Ora, l’analisi della sconfitta della sinistra è una cosa seria. E Galli della Loggia ha ragione a dire che la sinistra italiana, nei suoi vertici, è sempre stata élitaria e molto borghese. E non valeva solo per il Pci, ma anche per il gruppo del Manifesto e persino per i gruppetti di Lotta Continua.

Ma i salotti per favore no. Quelli non ci sono. Diciamolo a chi ci legge e che magari vive a Domodossola o a Potenza. I salotti, le terrazze, i giardini sul mare, tutta questa roba qui, non esiste nel modo in cui è descritta. Tutto parte dalla "Terrazza" un bel film di Ettore Scola, datato 1980, dove si faceva il verso, con ironia e intelligenza, a un certo mondo intellettuale italiano, che in quegli anni si frequentava, si vedeva, perché alla fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta, esisteva un’intensa vita culturale e sociale nel nostro paese. Allora poteva accadere che in cene allargate di amici, accanto ad Alberto Moravia o a Enzo Siciliano, o a Mario Schifano, o a Bernardo Bertolucci, capitasse anche il politico o l’alto dirigente di partito. Capitava di assistere a discussioni e dibattiti come ai soliti birignao.

Poi tutto questo via via è andato sfumando. I salotti, quelli dove si ritrovano potenti, e algidi intellettuali della sinistra sono scomparsi. E l’unica notizia di salotti che possediamo, come una sorta di mitologia, è quello di Maria Angiolillo a Roma, ai piedi di Trinità dei Monti. Salotto immortalato, da un grande della fotografia di cronaca come Umberto Pizzi. Lì si che si vedono i politici, e talvolta qualche intellettuale di turno (quei pochi ancora non estinti) pronti a fermarsi davanti al flash del fotografo, a sancire che loro nel potere ci sono, che loro frequentano i luoghi giusti, e che loro contano. E se vi andate a vedere i reportage dei salotti di questi ultimi anni, utilizzando quella preziosa fonte di informazione che è Dagospia, il sito di Roberto D’Agostino, troverete che questi signori sono quasi tutti di destra: politici di destra, potenti di destra, e via dicendo.

Di salotti di sinistra non se ne vede uno. In compenso di feste di destra è pieno lo stivale: con ricevimenti, balli & sballi scatenati, champagne senza barbera, cibo in quantità, acconciature improbabili, balconate a vista delle signore, perizomi e tanga en plein air, sguardi alcolici già a metà serata, nodi delle cravatte troppo allentati.

E alla fine sono sempre gli stessi. Gente che ha vinto le elezioni perché non è elitaria, non è triste e pensosa, non scrive libri, e non collabora a seriosi convegni, ma che sulle periferie e la gente si è distratta almeno quanto il centro sinistra. Perché, eccetto Alemanno che per adesso alle feste non si è visto, tutti gli altri ci sono: da An a Forza Italia, ça va sans dire, fino alla Lega Nord, che a Ponte di legno non si sa come gozzoviglia, ma a Roma certo non si distingue da tutti gli altri e al suo nord est ci pensa quanto basta. Al punto che ormai si fanno le mappe sul dove si possono trovare a cena i dirigenti di An, e non si è visto un solo ristorante del Tiburtino, o di Tor Bella Monaca, note zone periferiche della capitale, ma semmai posticini da 250 euro a testa, dove notoriamente si incontrano cittadini disagiati che ti spiegano i loro perché, e le loro sofferenze.

Intanto Gianfranco Fini viene fotografato mentre si fa qualche giorno al Luxury Hotel Quisisana di Capri, e mentre la sinistra ripassa l’opera omnia di Anthony Giddens con letture a voce alta in qualche misterioso salotto, a destra passano da Ischia a Capri, da Taormina a San Vito lo Capo, dall’Isola d’Elba a Portorotondo e a Cala di Volpe, dove le ostriche, come si sa, costano anche meno che nelle trattorie del Trullo (altro quartiere abbandonato dal salottismo di sinistra) e i millésime non sono più quelli di una volta, e qualche Cristal sa anche di tappo.

Nel frattempo però tocca sorbirsi pure questo tormentone di Capalbio e dell’Ultima spiaggia, la piccola Atene del Mediterraneo, terra di Achille Occhetto, di Alberto Asor Rosa, e di Claudio Petruccioli, oltre che di Francesco Rutelli e Ferdinando Adornato e un sacco di gente, che avendo casa a Roma ha finito per trovarsi un luogo di vacanza in un posto decente a circa due ore di macchina (se non c’è traffico). Si potrà anche pensare che c’è gente che va all’Ultima spiaggia per frequentare e conoscere, ma siccome (mi dicono) è un posto da trenta ombrelloni, il mare è così così, e il ristorante non è certo il "Gambero Rosso" di Pierangelini a San Vincenzo, non è che poi c’è proprio da sgomitare per andarci. Sarà per la linguina alle vongole di Capalbio che la sinistra ha perso le elezioni? E se così fosse, perché allora Geronimo La Russa, figlio di Ignazio, ha già dichiarato che espugneranno Capalbio? Cosa faranno? Verrà lanciata un’Opa degli ombrelloni? Con i furbetti del centro destra che rastrellano le prime file ?

Mentre si attende la scalata a Capalbio, a Roma ormai è ora dell’aperitivo, i salotti aprono attorno alle dieci della sera, e tutti i dirigenti della sinistra, oltre che i quadri medi, si preparano a tramisgrare per divani e terrazze, o prenotano ristoranti importanti e guardano con il solito disprezzo tutto il centro destra, che ora che ha vinto, è costretto a coccolare con l’attenzione che si merita il suo elettorato, prenotando mega sale da banchetti tutte rigorosamente negli hinterland più degradati, o come si direbbe a Roma, oltre il raccordo anulare. E dopo mezzanotte, finiti i gamberetti surgelati in salsa rosa, inizia l’altra salsa, quella che si balla, e se c’è tempo anche il trenino con la samba. E vai col tango. Direbbe Staino.

roberto@robertocotroneo.it


Pubblicato il: 05.05.08
Modificato il: 05.05.08 alle ore 8.20   
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« Risposta #51 inserito:: Maggio 07, 2008, 04:26:07 pm »

Sinistra democratica

Lun, 05/05/2008 -

Sd saprà capire e ricominciare?
 
di Claudio Fava*


E’ bene a Sinistra Democratica discutere su ciò che è accaduto e sulle cose che dovremo decidere. Ed è bene che ciò si faccia in punta di verità, affrontando intanto una domanda dolorosa ma necessaria: abbiamo fatto bene ad andarcene dai DS? A cercare una strada nostra e a rifiutare l’approdo ecumenico nel Partito Democratico?

Io sono convinto di sì. Il progetto del PD (e lo dico senza che ciò suoni da conforto per i nostri errori) ha rivelato le contraddizioni, le semplificazioni e le reticenze che avevamo previsto con largo anticipo. Se fossimo rimasti dentro, magari con il pretesto di dar vita alla sinistra del PD, oggi saremmo ridotti a una delle molte correnti incattivite di quel partito, accanto a veltroniani, dalemiani, amici di Letta, ex popolari, fedeli di Prodi e reduci di Rutelli. Roba da nozze con i fichi secchi.

Bene facciamo a non nutrire rimpianti. E bene faremo a non emulare il Pd nei sui vizi. Per cui, compagni e amici, facciamo sforzo di sincerità. Siamo rimasti – nelle forme organizzative, nei rapporti personali, nell’elaborazione della nostra attività – la mozione di minoranza di un partito (che nel frattempo aveva cessato di esistere). Di più. Siamo stati percepiti come una somma di mozioni: ci battevamo, con onesta generosità, per una sinistra unita e plurale ma intanto facevamo fatica a elaborare il lutto dai DS, dalle sue formule congressuali, dalle sue pratiche autoreferenziali. Abbiamo continuato a coltivare con religiosa sacralità i concetti di “area”, “sensibilità”, “componente”: categorie che forse un tempo hanno avuto una loro ragione d’essere, ma che oggi fanno parte di un malinconico rituale politico.

Sia chiaro: non si tratta di rifiutare una dialettica forte, vera e perfino aspra sulle cose da fare, sui gesti da compiere, sui riferimenti culturali e politici da assumere: si tratta di non incartare questa dialettica in un gioco delle parti. E’ ciò che ci mandano a dire gli elettori smarriti, quelli migrati altrove o rimasti a casa: dateci un segno che una nuova stagione della politica non sarà soltanto la somma di vecchie liturgie e di vecchi gruppi dirigenti. Ci chiedono un segno concreto che sappia mettere in discussione linguaggi, categorie, pratiche. Quel segno, diceva bene Carlo Leoni qualche giorno fa, passa anche attraverso la capacità di rivedere e di rilanciare le forme della partecipazione alla vita di Sinistra Democratica.

Ed è questo un punto discriminante. Di fronte al comprensibile passo indietro di Fabio Mussi dai ritmi e dalle responsabilità della sua funzione di coordinatore, vogliamo ridurre questa partecipazione a una frettolosa contabilità di assemblee locali per eleggere il nuovo coordinatore del movimento? Magari per tornare a contarci e ricontarci? Tutto qui? Credo che sarebbe ingeneroso nei confronti di Mussi, come se davvero il colpo d’ala di Sinistra Democratica sia legato alla scelta d’un nuovo “leader”, dimenticando che Fabio - responsabile come tutti noi per le scelte, i ritardi e gli errori di questa fase – più di noi ha saputo mantenere in questi mesi la linea di una assoluta, intransigente coerenza con il progetto fondativo del nostro movimento. Ma sarebbe ingeneroso anche nei confronti della nostra gente che chiede protagonismo e partecipazione sulla politica nel suo complesso. Sulle cose da fare. Sui terreni concreti su cui misurarsi. Sul modo di rendere il Sinistra Democratica un luogo inclusivo, aperto, contaminato e finalmente arricchito anche da chi non proviene dall’esperienza dei DS.

Partecipare vuol dire allargare, aprire, condividere. Anche per questo non mi riconosco più in un dibattito su quale debba essere la nostra tradizione politica di riferimento: se quella comunista, quella socialista, l’ambientalista… E’ un vecchio gioco, una collezione di nomi e di memorie che alla fine non produce nuova politica ma solo gestione dell’esistente. Qualcuno crede che verremo giudicati per un’astratta evocazione delle categorie del socialismo o del comunismo, o piuttosto per le scelte, i gesti, le azioni? A Vicenza s’è vinto non per aver messo al centro le proprie tradizionali appartenenze ma perché un candidato sindaco, e la coalizione che lo appoggiava, ha detto ciò che il governo Prodi non aveva saputo dire, ovvero sulla base militare di Dal Molin non decideranno gli americani ma i vicentini, con un referendum che restituirà a ciascuno di loro piena sovranità sulla loro vita.

E’ stata una battaglia ascrivibile al socialismo europeo? Alla falce e martello? Gli elettori non se lo sono chiesti. Si sono chiesti semplicemente se questa sinistra li avrebbe saputi tutelare e rappresentare di fronte all’arroganza di quella base.

Insomma, cari compagni, abbiamo o no l’umiltà e il coraggio di comprendere cosa ci sia dietro quel “tre” politico che ci è stato assegnato alle ultime elezioni? Gli italiani ci mandano a dire che questo è un paese diseguale, sgraziato, confuso, ingenuo, un paese di caste e non di classi, un paese in cui stanno male, malissimo, il laureato disoccupato, il ceto medio con stipendi in caduta liberta, l’operaio che rischia di crepare in fabbrica, il ricercatore universitario a 800 euro al mese, il precario invecchiato in attesa del posto fisso, il commerciante meridionale condannato a pagare il pizzo...

Gli elettori di sinistra che ci hanno voltato le spalle non vogliono sapere se faremo parte della famiglia del socialismo europeo o dell’internazionale comunista, e nemmeno se falce e martello saranno ancora un minuscolo logo in fondo al nostro simbolo come le prescrizioni di un medico. Vogliono sapere chi siamo, cosa vogliamo fare per questo paese, come ci faremo carico della sua concreta, drammatica richiesta di cambiamento. Vogliono sapere in che modo crediamo di ricostruire una forma della politica che parta dal basso e dagli altri, non da noi stessi.

Gli elettori di sinistra ci chiedono di aprire le nostre finestre e di guardare fuori, per capire cosa accade oltre la linea del nostro consueto orizzonte. Che è cosa più complicata e meno rituale del semplice “ritorno sul territorio”. Mayakowski, poeta e comunista, alla fine si ammazzò perchè stufo di un comunismo fatto di regole, liturgie e primi della classe. Ma prima ci mandò a dire, in un solo verso, tutta la sua rabbia, tutta la sua disperazione, tutta la sua verità: “Esci partito dalle tue stanze, torna amico dei ragazzi di strada”.

*del Direttivo di Sinistra Democratica

da sinistra-democratica.it
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« Risposta #52 inserito:: Maggio 07, 2008, 11:51:55 pm »

 
Il centralismo carismatico

di Francesco Cundari | 28 aprile 2008


Nella nuova stagione, nel nuovo bipolarismo, ma soprattutto nel nuovo partito che Walter Veltroni ha guidato alle elezioni del 13 e 14 aprile, a quanto pare, non è previsto il dissenso.

Non sono ammesse critiche da parte di eletti, elettori o dirigenti del Pd, che sarebbero un segno di resistenza al cambiamento, manovre di apparato, trame di palazzo. Insomma, un complotto. E non sono ammesse critiche neppure dalla stampa.
“I giornali abbondano di rampogne e di suggerimenti nei suoi confronti – ha provato a dire sabato un giornalista dell’Unità – ad esempio il Riformista…”. La frase è rimasta in sospeso. “Liberiamoci dai condizionamenti dei giornali che vengono letti prevalentemente da quelli che fanno politica – lo ha interrotto Veltroni – il Riformista, peraltro di proprietà di un parlamentare eletto dal Pdl, vende 2000 copie e fa la spiega a noi che abbiamo preso 12 milioni di voti. Mi verrebbe da dire: per prima cosa pensa a vendere di più tu”.

Il lettore dell’Unità non saprà mai di quali “rampogne” e di quali “suggerimenti” parlasse il giornalista, né cosa avesse da dire il Riformista al segretario del Pd. Chiarito che il quotidiano diretto da Antonio Polito non ha titolo per parlare, infatti, l’intervista passa serenamente oltre.
L’evocazione del Riformista serve soltanto ad ammonire i lettori dell’Unità a non giocare con quei bambini, a non parlarci, ma soprattutto a non ascoltarli. Fa parecchio freddo, in questa nuova stagione. E’ bene rientrare in casa presto, senza fermarsi a parlare con gli sconosciuti.

Se il nuovo corso non prevede critiche, figurarsi se prevede autocritiche. Il voto del 13 e 14 aprile ha lasciato il Pd al 33,1 per cento, consegnato a Silvio Berlusconi la più solida maggioranza di sempre, ridotto all’impotenza l’Udc, cancellato la Sinistra arcobaleno. Quello che esce dalle urne è il parlamento più a destra nella storia della Repubblica. Grazie al voto utile, il Pd ha raccolto buona parte del 7 per cento perduto in appena due anni dalla Sinistra arcobaleno, eppure ha guadagnato soltanto l’1,9 rispetto al 2006 (e avendo nelle sue liste i Radicali, questa volta). La verità è che il Partito democratico non solo non ha sfondato al centro, non ha compiuto alcuna rimonta, non ha strappato al Pdl nemmeno un decimale di punto (e non è mai stato, sia detto per inciso, a “due punti di distacco” dall’avversario). La verità è che è accaduto l’esatto contrario: è il Pdl che ha strappato consensi al Pd, sfondando al centro ed espellendone l’avversario (che ha compensato le perdite a spese della Sinistra arcobaleno). Eppure, nell’intervista all’Unità, l’unica conclusione che Veltroni trae dall’esito del voto è questa: “Non si torna indietro. Strategia, scelte programmatiche e linguaggio sono giusti”.

Quanto la disfatta subita sia da addebitare all’esperienza del governo Prodi e quanto alle scelte di Veltroni, naturalmente, può e deve essere oggetto di una discussione approfondita (e magari, per l’occasione, si potrebbe discutere pure delle rispettive responsabilità nella caduta dell’esecutivo). Certo è che dopo i ballottaggi, quale che sia il risultato, una simile discussione non sarà più rinviabile. E dovrà essere approfondita, serena, pluralistica – certamente – ma anche libera. Libera, innanzi tutto, dall’asfissiante cappa di conformismo che sin qui ha caratterizzato la dialettica interna ed esterna al Pd, ben oltre la misura che le difficoltà del governo prima e la campagna elettorale poi avrebbero giustificato.
Quello che proprio non si può fare è negare l’evidenza. Continuare a raccontarsi la favola della grande rimonta e del successo oltre ogni previsione. La campagna elettorale è finita. E non sarà arrotondandosi il risultato dello 0,9 – come fa Veltroni sostenendo che il “primo dato” da considerare è che “abbiamo un partito riformista del 34 per cento” – o sostenendo che il raffronto non va fatto con le politiche del 2006, bensì con le provinciali del 2007, che si costruiranno le fondamenta di un roseo avvenire.

Terminati i ballottaggi, definitivamente chiusa questa interminabile campagna elettorale, non ci saranno più alibi. Scriviamo di proposito prima di conoscere il risultato del voto nella capitale, augurandoci che Francesco Rutelli vinca. Ma sentire da Veltroni che l’eventuale sconfitta in Campidoglio non è da addebitare a lui perché non è lui il candidato sindaco – dopo avergli sentito ripetere per tutta l’intervista che la sconfitta alle politiche è da addebitare al governo guidato da Romano Prodi, che non ci risulta fosse il candidato premier – lascia molto, ma molto perplessi. Ed è addirittura scandaloso che Veltroni metta tra le principali colpe dell’ex premier persino l’indulto, dopo avere partecipato alle manifestazioni per l’indulto e per l’amnistia. Un comportamento che ricorda quello di John Belushi in Animal House, quando va a consolare il ragazzo in lacrime dinanzi all’automobile che gli amici hanno ridotta un rottame, gli mette una mano sulla spalla, lo guarda negli occhi e gli dice: “Vedi, hai commesso un errore. Ti sei fidato di noi”. Proprio così: ti sei fidato di noi. Come l’inno del Pd.

La verità è che la leadership veltroniana si è tradotta sin qui in una sorta di centralismo carismatico, o forse dovremmo dire di cesarismo burocratico, capace di sommare in sé i peggiori vizi dei vecchi partiti comunisti e dei nuovi partiti personali modello Forza Italia (o Italia dei Valori, che è lo stesso). Dunque non deve stupire che alla scelta di andare da soli, proprio come nel 2001, seguano ora la chiusura identitaria e la lotta contro il regime. “Ho chiesto a molti colleghi stranieri – dice Veltroni – cosa sarebbe successo se nel loro paese un candidato avesse eletto a eroe un mafioso.

Mi hanno risposto dicendo che sarebbe una cosa incompatibile con qualsiasi carica pubblica. In Italia invece questo è possibile”. Finita la nuova stagione, si torna ai girotondi. E anche più indietro, fino agli avanzi scaduti del vecchio Pci post-berlingueriano. Per dirla con le parole di Veltroni, si torna alla lotta contro “la volgarizzazione della società, la spietata individualizzazione, il genocidio di ogni idea di regola e di spirito pubblico”. Ma la strada della chiusura identitaria e del culto della propria diversità, che non ha funzionato nemmeno con Enrico Berlinguer, suona semplicemente grottesca se ripercorsa oggi, assieme a Massimo Calearo.

La verità è che non si può annunciare un partito democratico, aperto e radicato, se in quello stesso partito nessuno – nemmeno la realtà – ha diritto di mettere in discussione la parola, le scelte e i risultati del leader. E questa non è una critica a Veltroni.

da www.leftwing.it
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« Risposta #53 inserito:: Maggio 08, 2008, 06:31:24 pm »

CRONACA

Nella antica scuola della città, dove studiavano la vittima e il carnefice

Viaggio in una comunità che si specchia nei suoi giovani alla ricerca delle radici dell'odio

Raffaele e le anime nere di Verona educazione di un neonazista

dal nostro inviato GIUSEPPE D'AVANZO

 
VERONA - Nicola e Raffaele - Nicola dieci anni prima di Raffaele, dieci anni prima di essere ucciso da Raffaele - hanno studiato nello stesso liceo, lo "Scipione Maffei", fiero di essere il più antico liceo d'Italia. Nato nel 1804, promosso da Bonaparte, il "Maffei" è orgoglioso della sua storia bicentenaria, ma anche delle virtù custodite, generazione dopo generazione, in una carta dei valori che onora "lo spirito critico; la laboriosità; la legalità; l'assunzione di responsabilità; la coscienza dei diritti e dei doveri".

È un impegno che si respira nelle aule dell'antico convento domenicano annesso alla Chiesa di Santa Anastasia, a due passi da Piazza Erbe, da Piazza dei Signori, dal cuore storico di Verona. Il liceo non è un luogo abitato da svuotati, sprecati. Né è attraversato dall'"analfabetismo emotivo", dalla "follia morale", dall'"ospite inquietante" del nichilismo, o come più vi piace definire l'infelice condizione giovanile del nostro Paese. Al "Maffei" si discute molto. Si lavora molto. Si impara a dare forma di parola alle emozioni, nutrimento e argomenti per le passioni e le idee.

Qui è radicata la consapevolezza che la democrazia sia "ars dubiae". Si ha fiducia "nella tolleranza, nel rispetto, in una solidarietà generosamente disponibile, in un reale e radicale rispetto di se stessi e degli altri". Sono pratiche quotidiane e non predicazione (gli studenti, per dire, si tassano ogni anno di 250 euro e quest'anno hanno deciso spontaneamente di aumentare l'obolo di solidarietà). E allora bisogna chiedersi dove nasce la muffa aggressiva che ha rovinato i giorni di Raffaele e spezzato la vita di Nicola?

"Ce lo siamo chiesti - dice con "doloroso stupore" il preside Francesco Butturini - e ancora ci interrogheremo con i docenti, gli studenti, i genitori. Ci siamo chiesti se abbiamo fatto tutto quanto in nostro potere per educare gli studenti alla buona cittadinanza. Noi crediamo di aver sempre cercato attraverso l'insegnamento quotidiano e le attività educative complementari, che qui non sono poche, di inculcare negli allievi i principi della civile convivenza. Non è stato sufficiente per insegnare a Raffaele ciò che è lecito, ciò che non lo è, ciò che non è nemmeno pensabile o ipotizzabile. Mi sento sconfitto, come ho detto ai ragazzi, ma non complice. Non siamo stati né indifferenti né distratti. Quando Raffaele si rifiutò di entrare in sinagoga durante un viaggio di studio; quando affrontò il presidente dell'associazione vittime della strage di Bologna rivendicando l'innocenza di Luigi Ciavardini, segnalammo quell'atteggiamento alla famiglia. Al contrario, la questura non ci informò che Raffaele era indagato da un anno. Avremmo potuto fare di più e continueremo a farlo nel dialogo e nel confronto con i ragazzi. Senza dimenticare Raffaele. Non intendiamo abbandonarlo in questo momento e speriamo che Raffaele accolga il nostro invito; comprenda il suo tragico errore; accetti di incamminarsi su una strada radicalmente differente da quella finora seguita".

* * *

Il preside non vuole e forse non può dire di più. Il deficit del circuito istituzionale e mediatico (perché la Digos non allertò la scuola? perché i giornali cittadini non diedero conto, come d'abitudine, dei nomi degli indagati?) descrive un'occasione perduta di "recupero", di disvelamento, ma non spiega le ragioni della "caduta" di Raffaele in un "rito della crudeltà", per nulla occasionale o impulsivo, che nel tempo si è esercitato nel cuore di Verona contro "i negri"; i capelluti "comunisti" dei centri sociali; tre paracadutisti delle Folgore nati al Sud; un povero cristo con la maglia del Lecce; un tipo che mangiava un kebab; un ragazzino maldestro nell'usare lo skateboard. Pedina, "soldatino" - Raffaele - di una cerchia che, visitata dai poliziotti, disponeva di manganelli, pugnali, coltelli, un'accetta e di libri che negavano l'Olocausto, di bandiere con la croce uncinata, di foto di Hitler e Mussolini. L'aula della II E, che Raffaele frequenta (o frequentava), è al di là dell'antico chiostro in fondo al corridoio. I compagni e le compagne di Raffaele hanno come il muso. In questi giorni i giornalisti, protestano, hanno manipolato le loro opinioni, le hanno rimaneggiate per creare uno sciocco sensazionalismo. Non vogliamo difendere Raffaele, dicono, perché quel che ha fatto è gravissimo e se ne deve assumere tutto il peso, ma se ci chiedete se fosse un mostro, allora no, noi dobbiamo rispondere che non lo era, che non si è mai comportato da mostro. Era in modo radicale di destra e discuteva con chi non lo era, o era di sinistra, senza aggressività. Si è rifiutato di entrare in sinagoga, ma siamo abbastanza certi che, se avesse avuto un compagno di banco ebreo, non lo avrebbe maltrattato o deriso a scuola, dove il suo comportamento è stato sempre corretto. Questo vuol dire, chiedono, assolvere Raffaele? Vuol dire raccontare, dicono, quel che sappiamo di lui. Che non era tutto. Purtroppo.

* * *

Accanto alla fontana senz'acqua del chiostro, Giulia Tombari e Simone D'Ascola provano a ragionare - ancora una volta, in questi giorni - su quei perché. Come è potuto accadere a un loro compagno di scuola? Giulia è minuta, nervosa, stanca. Dice parole secche e sincere. Le accompagna con un gesto. Indica il grande arco che dà sulla strada. "Qui non c'è spazio per l'ignoranza che produce l'ottusa violenza senza scopo di Raffaele. Raffaele è stato travolto da quel che c'è là fuori, oltre quel cancello. Se un responsabile e una responsabilità si deve cercare, va trovata non in questo liceo, ma nella città. In quella Verona dove può capitare - e capita spesso - che si senta dire in autobus "non siedo qui, accanto a questo negro" e nessuno che, intorno, disapprovi o censuri quelle parole... Magari chi le ascolta, non oserebbe mai pronunciarle, ma le giustifica". Simone è alto, allampanato, meno disinvolto di Giulia. Come Giulia, ha idee lucide e asciutte. "In questa storia, si usano le parole per nascondere quel che è accaduto e ancora può accadere. Si dice: Raffaele era un bullo. Non lo era. Si dice: è un delinquente. Non lo era. Si dice: è solo una mela marcia, è un caso isolato. È falso che sia la sola mela marcia del cesto, il caso non è isolato ma addirittura, nella sua assurdità, ordinario. Si dice: la politica non c'entra. E invece, c'entra, eccome, se politica è l'odio per il diverso, se politica è un'ideologia diffusa là fuori - anche Simone indica l'arco, il cancello, la strada - che legittima chi vuole liberarsi di chi non è uguale a te, per colore della pelle, per convinzioni, per religione, per la lunghezza dei capelli. Tutto questo ha un nome: razzismo, xenofobia. Se si usano le parole appropriate, le ragioni della morte di Nicola - e di quel ha combinato Raffaele con i suoi amici - saranno evidenti. È quel che dovreste fare: chiamare le cose con il proprio nome".

* * *

Chiamare le cose con il loro nome. È naturale pensare che sia un buon consiglio mentre si risale via Massalongo e poi corso Santa Anastasia verso Piazza Erbe. Come appare necessario rimettere insieme la realtà di un corpo sociale che solitamente si offre frammentata, sconnessa, quasi in penombra, occultata da parole accortamente ambigue. Chiamare le cose con il loro nome, dunque. Le violenze e i pestaggi nel cuore di Verona sono comuni e ritualizzati. Piazza Viviani, via Mazzini, Veronetta, Volto San Luca, Corso Cavour, piazza Erbe ne sono state le scene negli ultimi mesi.

Puoi essere picchiato per un nonnulla. Puoi prendere una bottigliata in testa per un amen. Non importa la ragione occasionale. Non è quello che conta. Non è per lo spino rifiutato che muore Nicola. Nicola muore, dicono, "perché ha il codino", perché dunque è diverso, perché "non è conforme" e gli (improvvisati o professionali) addetti al futuro della città e alla custodia del suo passato e delle sue risorse escludono i diversi: "diverso - dice il procuratore Guido Papalia - è non solo il diverso per razza, ma diverso perché si comporta il mondo diverso; pensa diversamente; ha un atteggiamento diverso; si veste in modo diverso e quindi non può convivere nel centro della città che i razzisti vogliono chiusa ai diversi". In uno stato di smarrimento sociale, si radunano per difendersi le persone spaventate - la paura è coltivata con sapienza a Verona che molto ha faticato per raggiungere il benessere di oggi. Passano all'azione in nome di "un'identità minacciata". Identità, insegna Zygmunt Bauman, è un concetto agonistico. È come un grido di battaglia. Fragile e perversamente "coraggioso", Raffaele sente quel grido, lasciata l'aula del "Maffei" e le fatiche democratiche di "maffeiano".

Lo sente allo stadio dove impiccano il fantoccio di un calciatore "negro". Lo ascolta forte nella propaganda dei "nazistoni" del "Blocco studentesco". Lo intende nello stile di vita dei suoi compagni di bevute e di scorribande notturne tra le stradine della città. Afferra quel sentimento nella pianificazione del prossimo pestaggio, nelle risate, nella soddisfazione che segue. Raffaele avverte soprattutto che quel che fa, quel che pensa è condiviso perché in città c'è un sentimento che non lo biasima e non lo biasimerà. Hanno ragione Giulia e Simone.

È "politico" tutto questo? Quale ipocrita può negarlo: certo che lo è. E non vuol dire che ci sia un partito politico, una fazione di un partito politico, un gruppuscolo che organizza o programma quelle violenze. Vuol dire che c'è a Verona una "cultura" dell'esclusione che irrigidisce e sorveglia il confine tra "noi" e "loro" e "loro" diventano anche quei veronesi - moltissimi, e tra i moltissimi Nicola - che rifiutano o non avvertono il "potere seduttivo" di quell'"appartenenza".

Chiamare le cose con il loro nome. È difficile contestare che il sindaco di Verona, Flavio Tosi, alimenti la "naturalezza" di quel grido di battaglia "identitario". Che diffonda il presupposto che "si appartiene per effetto della nascita". Non per altro, qualsiasi cosa tu sia e faccia. Flavio Tosi non è un fascista. È un leghista che ama i fascisti, li coccola, li asseconda, forse cinicamente se ne serve. Oggi che la tragedia si è consumata, è evasivo, a volte frivolo, a volte ringhioso quando gli si ricorda che appena in dicembre ha sfilato accanto a nazisti del Veneto Fronte Skinheads; che appena qualche anno fa (11 settembre 2005) offrì le sue parole solidali - con una visita in carcere - a cinque giovani fascisti che avevano massacrato e accoltellato due ragazzi di sinistra, frequentatori di un centro sociale.

Tosi ha grandi ambizioni politiche (sarà il nuovo governatore del Veneto nel 2010?) e questa storia tragica, da cui non riesce a uscire senza danno pubblico o con un alleato in meno, può azzopparlo. L'opposizione gli ha chiesto che si scusi di quelle spensieratezze. Tosi non ha trovato ancora la forza di farlo. Chiamare le cose con il proprio nome. Verona - città straordinariamente generosa nella solidarietà e nel volontariato - assiste al suo incrudelimento distratta, indifferente, senza rimorso o colpa. Guarda da un'altra parte per non vedere, per non vedersi, per non interrogarsi. Come il vescovo, monsignor Giuseppe Zenti. Scrive ai giovani della città. Immagina di inviare sms per conto di Nicola. Scrive: "Abbiate fiducia nelle grandi vette. Valorizzate i giorni della giovinezza. Fatevi onore. Fateci vedere quanto valete. Realizzate una vita di grande qualità, degna dell'essere giovani".

Come se esistessero soltanto le scelte personali e non anche le responsabilità collettive, i modelli culturali, i quadri pubblici, l'assenza della benché minima opera di manutenzione sociale (senso civico, legalità). Come se Nicola e Raffaele non fossero caduti su quella "trincea profonda e invalicabile scavata in città tra il "fuori" e il "dentro" di un territorio e di una comunità". Al portone del Bra, ricorda Francesco Butturini, è scolpita una frase dell'Amleto: "Non c'è mondo, fuori di questa città". C'è a Verona chi sembra crederlo per davvero. Raffaele lo ha creduto. Troppo facile ora dirlo solo un delinquente. Troppo ingiusto dire, la morte di Nicola, "un caso isolato".

(8 maggio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #54 inserito:: Maggio 12, 2008, 11:49:05 pm »

Il solito colpo per salvarsi dalle promesse

Stefano Fassina


Ci risiamo. Il Governo Berlusconi IV ripete, senza fuochi d’artificio, il canovaccio del Berlusconi II di sette anni fa. Allora, la grancassa era il Tg1 della sera ed il nostro ministro dell’Economia era dotato di colorati grafici per denunciare il «buco» nei conti pubblici. Oggi, si accontenta di Rai Tre e rinuncia all’ausilio degli strumenti didattici di un tempo per annunciare che «l’andamento delle entrate fiscali non è buono…insomma, tesoretto zero». Cambiano i salotti televisivi, ma l’obiettivo è lo stesso: cercare appigli per giustificare l’impossibilità di soddisfare la valanga di irresponsabili promesse fatte durante la campagna elettorale.

Il tentativo del ministro Tremonti non regge. La prima obiezione che viene da fare al ministro è la seguente: quali elementi di novità ha oggi rispetto ad un mese fa quando, insieme al leader del suo schieramento, faceva campagna elettorale? L’Istat non ha ancora pubblicato la stima del Pil per il primo trimestre 2008 (lo farà il 23 maggio). Pertanto, per l’anno in corso, rimane valida la previsione contenuta nella Relazione Unificata del 18 marzo (+0,6%), dato in linea con le più recenti previsioni di consenso (si veda The Economist di questa settimana). Quindi, nessuna novità dall’economia reale. I dati di finanza pubblica disponibili dopo il 14 Aprile - il fabbisogno di cassa dello Stato (la differenza tra entrate effettivamente riscosse e spese realmente effettuate) e le entrate fiscali dei primi quattro mesi dell’anno - sono entrambi migliori delle previsioni, nonostante il forte rallentamento dell’economia. In particolare, il fabbisogno cumulato da gennaio ad aprile migliora di quasi 3 miliardi di euro il risultato raggiunto nel corrispondente periodo del 2007, anno chiuso con un deficit di 8 miliardi inferiore a quello previsto per quest’anno. Le entrate da Gennaio ad Aprile aumentano con un passo doppio rispetto all’andamento nominale dell’economia: +7% le prime; +3,6 la seconda. È vero che l’Iva da scambi interni nel mese scorso -come indicato nel comunicato del Vice Ministro Visco di fine aprile- è calata rispetto allo stesso mese del 2007. Tuttavia, è anche vero, ma il nostro ministro dimentica di dirlo, che Irpef, Ires, Irap, imposte di registro e contributi sociali vanno a gonfie vele.

La seconda obiezione viene direttamente dalla Commissione Europea che nei giorni scorsi ha chiuso la procedura d’infrazione per deficit eccessivo aperta, guarda caso, nel 2005, riconoscendo il risanamento strutturale della finanza pubblica compiuto dal Governo Prodi. I dati dovrebbero essere noti, ma vale la pena ricordarli: grazie al recupero di evasione fiscale, il debito pubblico nel 2007 è tornato lungo un sentiero discendente, dopo l’impennata del 2005 registrata sotto la gestione Tremonti. La spesa primaria corrente è stata stabilizzata, dopo un aumento di 2,5 punti di Pil dal 2001 al 2005 o, se si vuole considerare un indicatore meno sensibile al ciclo, dopo aver toccato tassi di crescita doppi rispetto al biennio 2006-2007.

In sintesi, l’extragettito oggi esiste. Ed esiste anche il tesoretto, perché, oltre al miglior andamento delle entrate, le previsioni di spesa riportate nella Relazione Unificata sono, per usare un eufemismo, estremamente prudenziali (il misurato predecessore di Tremonti a via XX Settembre l’aveva anche scritto nella sua Nota introduttiva all’ultima Relazione Unificata). E la conferma non viene dai gossip, tra l’altro fondati, riportati da autorevoli quotidiani. Viene dai dati sul fabbisogno e dalle previsioni di istituzioni indipendenti (Commissione Europea, Ocse, Fondo Monetario), migliori di quelle elaborate dalla Ragioneria Generale dello Stato.

Infine, sulle strade alternative al tesoretto per finanziare le riduzioni di imposte e gli aumenti di spesa promessi in campagna elettorale. Ci piace il Tremonti paladino dei consumatori contro le banche ed i monopolisti petroliferi. Ci piace, perché segnala di voler proseguire il lavoro avviato dal Governo Prodi e dai ministri del Pd. In particolare, il lavoro avviato attraverso le riforme della tassazione sulle imprese (Ires, Irpef, Irap), riforme che hanno spostato carico fiscale per circa un miliardo di euro dalle micro, piccole e medie imprese alle banche e alle assicurazioni. E avviato attraverso gli interventi per la portabilità e la rinegoziazione dei mutui e per la riduzione dei costi dei conti correnti. Quindi ci piace Tremonti in versione Robin Hood all’assalto dell’establishment. Tuttavia, temiamo che sia solo demagogia. Infatti, per rendere credibile i suoi propositi, il pugnace ministro dovrebbe illustrare quali misure per la concorrenza intende introdurre per evitare che eventuali minori costi oggi per famiglie ed imprese siano più che compensati domani data la forza di market makers di banche ed imprese petrolifere. In ogni caso, la demagogia regna sovrana poiché l’eventuale tosatura delle rendite godute dalle imprese in oggetto non ha l’ordine di grandezza necessario per finanziare gli oltre 7 miliardi di promesse prioritarie (abolizione completa dell’Ici, detassazione degli straordinari, bonus bebè, pacchetto sicurezza) in programma, per ora, nei primi Consigli dei ministri del Berlusconi IV.

Insomma, come sfrontatamente ha ammesso il Ministro Tremonti dalla docile Lucia Annunziata: «un conto è fare campagna elettorale e un conto è essere al governo». Ma la demagogia ha le gambe corte. Può essere utile, sostenuta dalle batterie di fuoco mediatico controllate dal Grande Capo, a vincere le elezioni. Poi, alle prova del Governo, per quanta manipolazione facciano le televisioni e i giornali controllati o per convenienza allineati al Presidente del Consiglio, si scioglie come neve al sole, come avvenuto dal 2001 al 2006. Tuttavia, non illudiamoci, non basterà a vincere al prossimo giro elettorale. Per vincere domani, dobbiamo essere in grado di riconoscere, oggi, giorno per giorno, la realtà dei problemi e saper proporre valide soluzioni alternative. Addossare le cause di tutti i principali problemi del Paese a Berlusconi, come abbiamo spesso fatto nel precedente quinquennio governato dalla destra, perdendo un occasione decisiva per rinnovare cultura politica e classi dirigenti, non basterà ad affermare un progetto riformista, neanche la prossima volta.
www.stefanofassina.it

Pubblicato il: 12.05.08
Modificato il: 12.05.08 alle ore 9.32   
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« Risposta #55 inserito:: Maggio 13, 2008, 08:22:07 am »

12/5/2008
 
Sicurezza a passo di carica
 
 
 
 
 
CARLO FEDERICO GROSSO
 
Se riuscirà ad approvare, a metà settimana, il ventilato provvedimento lampo in materia di sicurezza il governo Berlusconi avrà fatto tombola, dimostrando, almeno su questo punto, un’efficienza davvero stupefacente. Unica incognita è se il Presidente della Repubblica, al quale compete controfirmare i decreti-legge, sarà d’accordo nel riconoscere l’esistenza dei motivi d’urgenza.

Al di là della forma del provvedimento, importante per chi, iniziando a governare, vuole dimostrare rapidità ed efficienza, la riforma del sistema sicurezza risponde a esigenze sentite da molta gente. Non è in effetti tollerabile che delinquenti pericolosi, arrestati dalla polizia, siano immediatamente scarcerati dai giudici, che i processi vengano celebrati dopo mesi anche quando vi è flagranza di reato, che i condannati non vadano in carcere perché coperti da troppi premi e benefici. Ben vengano, pertanto, giudizi immediati, razionali restrizioni della legislazione premiale, limitazioni nell’impiego della sospensione condizionale della pena.

Semmai, possono preoccupare altri aspetti. Di fronte alla prospettiva delle menzionate riforme, ci si deve domandare se il sistema carcerario sarà in grado di reggere all’impatto di tante contemporanee novità. È stata compiuta, ad esempio, una seria previsione di quanto potranno incidere sulla popolazione carceraria, e pertanto sulla tenuta delle strutture penitenziarie, i provvedimenti prossimi venturi? Sono stati calcolati quanti nuovi posti carcere saranno necessari? Si sono ipotizzate le misure idonee a fronteggiare eventuali rivolte dei detenuti?

Ed ancora. Si è valutato quanto i nostri Tribunali, che già oggi, molte volte, arrancano inseguendo gli arretrati, potranno reggere all’urto dell’accelerazione di molti processi? Si è pensato a come affrontare in tempi rapidi i nuovi, inevitabili, problemi di organizzazione degli uffici? Non vorrei che, come molte volte è accaduto nel passato, l’ansia di approvare rapidamente una riforma inducesse a trascurare le sue ricadute pratiche, determinando, quantomeno nell’immediato, il suo fallimento.

Si ipotizza, inoltre, di aumentare le sanzioni per i reati di allarme sociale. Dati i tempi, può essere una strada percorribile, anche se raramente in passato misure di questo tipo sono risultate utili. Si deve in ogni caso ricordare che, cambiando le pene, occorre essere attenti a non sbagliare le loro dimensioni. Se si sbaglia, l’aumento anziché disincentivare i delinquenti può diventare criminogeno. Se, per esempio, la sanzione prevista per il sequestro di persona o per la violenza carnale diventa troppo simile a quella dell’omicidio, al delinquente potrebbe risultare indifferente sequestrare e violentare ma poi anche uccidere.

Che dire, infine, delle misure previste in tema di immigrazione ed espulsione degli stranieri? Le novità sembrano di una durezza mai vista. Si parla di introdurre il reato di ingresso abusivo, di concedere la residenza soltanto allo straniero che dispone di uno stipendio lecito e di una casa, di espellere chiunque si trovi in Italia illegalmente, di confiscare l’alloggio a chi affitta ai clandestini, addirittura di sospendere Schengen.

Bloccare gli sbarchi illegali costituisce una priorità. Può darsi che di fronte al dilagare della delinquenza, alla conseguente insicurezza dei cittadini, all’efferatezza di taluni crimini, i provvedimenti ipotizzati corrispondano a sentimenti diffusi. Il problema, come sempre, è peraltro trovare un equilibrio fra le esigenze contrapposte: tutela dei cittadini ed istanze umanitarie, difesa sociale e necessità di coprire i posti di lavoro non occupati dagli italiani, tutela della cittadinanza e globalizzazione dei rapporti economici, politici e sociali, controllo degli stranieri ma rigorosa salvaguardia dei diritti fondamentali della persona e nessuna compressione delle garanzie costituzionali. Quest’ultimo profilo è irrinunciabile. Mai, ad esempio, controllo coatto del Dna per gli stranieri che chiedono il ricongiungimento familiare, una vecchia ma sciagurata idea della Cdl.

Berlusconi sta puntando in alto. Vuole farcela velocemente dove il governo di centrosinistra, che ha dimenticato per strada l’ottimo pacchetto sicurezza elaborato fra mille difficoltà dal ministro Amato e per responsabilità della sinistra radicale non è riuscito a convertire in legge un suo importante decreto sull’espulsione degli stranieri, ha clamorosamente fallito. Il tempo ci dirà se le misure che la destra sta predisponendo risolveranno quantomeno alcuni dei problemi del Paese. Se nel primo Consiglio dei ministri il nuovo esecutivo riuscirà davvero ad approvare il provvedimento attorno al quale sta lavorando, si dovrà comunque riconoscere che il passo di chi ora governa è, per il momento, ampiamente accelerato rispetto al passato. Il Partito democratico si appresti pertanto, con la dovuta umiltà, a una lunga traversata del deserto.

 
da lastampa.it
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« Risposta #56 inserito:: Maggio 13, 2008, 03:56:12 pm »

13 maggio 2008

AREA RASSEGNA STAMPA | Rassegna stampa

Gentiloni «Non servono martiri televisivi O metteranno Raitre sul rogo»

Intervista di Maria Teresa Meli - Il Corriere della Sera


ROMA — Paolo Gentiloni, lei che è stato ministro delle Comunicazioni che giudizio dà del caso Travaglio?
«Penso che Cappon e Fazio abbiano fatto bene a prendere le distanze e a fare le loro scuse. Non mi scandalizzerei se sulla Rai si facessero inchieste che riguardano le più alte cariche dello Stato, ma trovo assolutamente ingiustificabile che si lancino accuse in diretta Tv senza contraddittorio e in prima serata».

Voi del centrosinistra state demonizzando Travaglio...
«Io personalmente non demonizzo nessuno. Escludo però che si possa usare in quel modo la televisione. E non mi piace la tendenza, che già vedo, a trasformare in nemici coloro che prendono le distanze da Travaglio».

A chi si riferisce?
«Grillo e Di Pietro ne hanno dette di tutti i colori e Fazio Paolo Ruffini, che hanno preso le distanze da Travaglio, passano per collaborazionisti. Su questa strada non andiamo lontano. E purtroppo l'eccesso di vocazione al martirio finisce per ottenere l'effetto opposto a quello desiderato: può essere utilizzato per colpire le cose migliori che ci dà il nostro servizio pubblico».

Che intende dire? Ha paura che l'intemerata di Travaglio si ritorca contro Rai 3?
«Rai 3 è il pezzo di tv italiana che assomiglia più al servizio pubblico. È diventata la terza rete generalista nel nostro Paese. Il suo programma di punta è quello di Fazio e non vorrei che la vocazione al martirio di Travaglio portasse al rogo il conduttore di quella trasmissione e Ruffini e, magari, diventasse pretesto per epurazioni al vertice. Insomma, io voglio un Paese normale in cui Travaglio può rivolgere accuse a chicchessia ma non può farlo in prima serata davanti a più di quattro milioni di telespettatori senza che qualcuno possa replicargli».

Ma sulla Rai opposizione e maggioranza non potrebbero dialogare?
«Difficile che la coperta del dialogo possa coprire la vergogna del conflitto di interessi. Ma trovo che almeno sulle regole per la Rai ci si possa confrontare e trovare delle proposte di compromesso politico. Tre settimane fa il presidente Petruccioli ha ipotizzato di non procedere immediatamente alla nomina del nuovo Cda rai. Ha proposto di verificare prima se non si possa modificare la legge Gasparri che fa sì che la Rai sia subordinata ai partiti e governata dall'indecisione. Ecco secondo me questa proposta potrebbe essere un buon punto di partenza per il confronto».


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« Risposta #57 inserito:: Maggio 13, 2008, 04:04:41 pm »

13/5/2008
 
L'antifascismo con la destra al potere
 
GADI LUZZATTO VOGHERA

 
Un ex fascista alla presidenza della Camera, uno alla guida della capitale del Paese, tutto questo in una Repubblica fondata sui valori della resistenza. Paura degli ossimori? Paura di un ritorno al passato? In fondo, l’affermazione dei peggiori regimi fascisti europei è passata attraverso normali percorsi democratici e non dopo sanguinosi golpe militari.

Non è mai bene ricorrere ai déjà vu nell’analisi delle situazioni politiche, e francamente la strategia di gridare «al lupo» per i trascorsi della nuova leadership della destra italiana non ha ottenuto risultati soddisfacenti negli ultimi quindici anni. A sinistra si è preferito chiudersi a riccio, a difesa di una «democrazia fondata sui valori dell’antifascismo», si è optato per la demonizzazione dell’avversario, concepito come una sorta di alieno, e alla lunga si è perso il contatto con la realtà sociale del Paese.

La sinistra ha abdicato alla sua vocazione principale: elaborare una proposta di governo partendo da un’analisi spassionata della realtà economica e sociale, indirizzando le scelte verso un riequilibrio delle disparità sociali. Più risorse e più servizi a chi sta male (agli emarginati, alle classi disagiate, ai malati, agli anziani, alle giovani famiglie), in un’ottica riformista. Giacché oggi tutta la sinistra è fondamentalmente riformista, anche perché una sinistra «rivoluzionaria» non riuscirebbe a garantirsi un futuro politico (a meno che non si scelga la strada delle Brigate Rosse, che tuttavia più che rivoluzionarie sono criminali).

Al governo la sinistra ha assunto la faccia seriosa di chi si occupa con competenza di risanamento dei conti, senza concedere nulla ai numerosi segnali d’allarme lanciati dalla società e in questo modo ha rinunciato ad ascoltare la società stessa, preferendo assumere l’atteggiamento (assai snob e paternalistico e assai poco di sinistra) di chi ti governa e ti educa perché «lui sa» qual è il bene per te. E - d’altra parte - la sinistra antagonista al governo ha tristemente continuato a dispensare i suoi «no» a tutto, senza riuscire in alcun modo a incidere su problemi cronici del nostro Paese quali la carenza di infrastrutture e di un sistema di trasporti integrato, la programmazione di una strategia energetica di lungo periodo, la riorganizzazione del sistema di smaltimento dei rifiuti, il risanamento del territorio, l’attuazione di una strategia dell’accoglienza e dell’integrazione dei migranti, la riorganizzazione del sistema di sicurezza nel territorio nazionale con la semplificazione e la razionalizzazione dei nostri corpi di polizia (siamo l’unico Paese al mondo con almeno una decina di corpi separati che si detestano e spesso si ostacolano).

Di fronte a questa Waterloo politica, ha ancora senso chiedersi se ci fanno paura gli ex fascisti al governo? Ha senso fare gli offesi se Berlusconi o la Moratti non partecipano alle celebrazioni per il 25 Aprile? Forse sarebbe più utile - nel mantenere il riferimento ai valori della democrazia fondata sulla resistenza antifascista - smettere di «celebrare» la memoria e cominciare a lavorare sulla memoria stessa per fare sì che questa diventi uno strumento utile per interpretare la realtà del presente. Oggi, che si affaccia sulla scena politica un partito nuovo (ed è veramente nuovo) come il Pd, radicato nel territorio, con un seguito consistente e con una prospettiva di cinque anni di lavoro organizzativo e di opposizione costruttiva; oggi, che al governo c’è una destra che non compie l’errore di richiamarsi al passato remoto delle radici fasciste; oggi è possibile costruire un ragionamento più compiuto sulle ferite lasciate in questo Paese dal suo passato fascista. Lo si dovrà fare per forza, perché si affaccia nel breve periodo l’inderogabile compito di mettere mano a una revisione profonda della nostra Costituzione, e se la sinistra rimarrà legata a una visione retorica e celebrativa del passato non riuscirà a contribuire in prospettiva e a incidere sull’elaborazione di un patto costitutivo condiviso.
 
da lastampa.it
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« Risposta #58 inserito:: Maggio 13, 2008, 04:40:52 pm »

Opposizione, gli errori da evitare

Dario Franceschini



Caro Furio,

ho letto con attenzione la tua lettera e ti ringrazio perché mi hai dato l’occasione per riflettere e anche per cercare di spiegare cosa intendevo dire con la frase che tu hai citato, necessariamente stringata come è inevitabile in un’intervista.

Dopo la tormentata esperienza della precedente legislatura, abbiamo deciso di voltare pagina rispetto all’esperienza del vecchio centrosinistra.

In questi anni le differenze profonde tra noi e i nostri alleati hanno reso faticosissima l’azione di governo, paralizzata da una continua, estenuante, ricerca della mediazione. Troppa eterogeneità programmatica, dalla politica estera a quella economica, al tema della sicurezza: la vecchia coalizione non è riuscita nemmeno ad approvare il decreto presentato dopo la terribile aggressione di Giovanna Reggiani.

Allora per quale ragione Di Pietro e Diliberto, Mastella e Pecoraro militavano nello stesso campo? Così differenti nella visione della società, nel progetto di governo che cosa, dunque, li accomunava? Senza dubbio il sentirsi radicalmente alternativi a Berlusconi e al centrodestra.

In questo senso, credo sia innegabile, il principale collante della vecchia coalizione era l’anti-berlusconismo.

Quel modello consisteva in una sorta di santa alleanza di tutti coloro che non si riconoscevano nel Cavaliere, a prescindere dall’identità di vedute e di proposte per il futuro del Paese. Un’alleanza “contro” e non “per”.

Ma essere “contro” non basta. Abbiamo preso atto che non è sufficiente essere alternativi a Berlusconi per governare insieme. Cito un altro esempio: negli ultimi giorni della precedente legislatura la sinistra radicale ha votato contro il decreto di rinnovo di tutte le nostre missioni militari internazionali. Una posizione lontana anni luce dalla nostra, dall’idea che la pace si persegue con senso di responsabilità, con la consapevolezza che lavorare per una soluzione politica non significa ritirare unilateralmente la nostra presenza militare.

Anche il conflitto di interessi, se vogliamo, è stato una vittima della rissosità della coalizione. Un testo era stato approvato in commissione, ritenuto troppo blando dal Pdci ed eccessivamente punitivo da Udeur e socialisti. Il provvedimento era comunque stato faticosamente ricalendarizzato per Gennaio ma è caduto il Governo.

Ora la domanda che dobbiamo farci e su cui dobbiamo riflettere e chiarirci nel partito è se vogliamo proseguire nella strada imboccata, sapendo che ci aspetta un cammino lungo e difficile, o se invece dobbiamo archiviare la fase della “vocazione maggioritaria” come una parentesi e rimetterci a lavorare per costruire una coalizione più larga possibile contro la destra, magari questa volta da Casini a Ferrero.

Io non ho dubbi: il lavoro per rendere il nostro paese più moderno e europeo, basato su due grandi partiti alternativi e alcune forze intermedie e non su una miriade di sigle, è appena cominciato e deve proseguire. Sarebbe stato bello farlo da una posizione di maggioranza ma abbiamo il dovere di farlo anche dall’opposizione, con iniziativa politica e ridiscussione delle regole istituzionali e elettorali.

Leggo poi una tua orgogliosa rivendicazione dell’esperienza de l’Unità che, come vostro affezionato lettore, posso sottoscrivere. In questi anni ho sempre letto con piacere e attenzione gli articoli di Sylos Labini, Biagi, Stajano, Modigliani, Sartori, Stille, Chierici e di tanti altri, anche quando non li condividevo.

Il vostro giornale è una voce preziosa, che arricchisce il pluralismo informativo di questo Paese. E In questa fase in cui il Partito Democratico sta avviando una riflessione sul voto e sulle prospettive, state dando un contributo importante di analisi competenti e appassionate, di approfondimenti e provocazioni.

Dobbiamo certo capire dove abbiamo sbagliato, perché una parte così rilevante del paese ha apprezzato la nostra iniziativa ma non ci ha votato. Francamente non credo che fra in nostri errori ci sia la carenza di anti-berlusconismo e che la ricetta sia quella di aumentarne le dosi. Non si tratta di indulgente buonismo perché è anzi nostra ferma intenzione fare un’opposizione senza sconti. Semplicemente penso che l’urgenza sia un’altra, e cioè quella di tornare a sintonizzarci con la società italiana, di comprendere le paure e le domande che la attraversano. Il sentimento di insicurezza, il timore per un possibile peggioramento delle condizioni di vita che attanaglia le famiglie. La richiesta di innovazione e semplificazione che arriva dal mondo della piccola e media impresa, le ansie del ceto medio, e di un mondo operaio che ha preferito votare lega. Dobbiamo insomma incrociare un’Italia profonda, mettendo da parte anche un certo immotivato complesso di superiorità, la convinzione di rappresentare comunque, magari ingiustamente incompresi dal popolo, la parte migliore del Paese. Guai ad assecondare la caricatura per cui gli elettori della Pdl sono tutti xenofobi, evasori o tele-dipendenti. La nostra scommessa in questa legislatura dovrà anzi essere quella, con le idee e i comportamenti, di convincerne molti delle nostre ragioni. Solo così torneremo a vincere.

Pubblicato il: 13.05.08
Modificato il: 13.05.08 alle ore 8.37   
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« Risposta #59 inserito:: Maggio 14, 2008, 07:05:58 pm »

14/5/2008
 
Condannati al dialogo
 
 
 
 
 
LUIGI LA SPINA
 
Gli apprezzamenti si sprecano e le interpretazioni pure. La nuova incarnazione berlusconiana, quella dialogante ed ecumenica, riscuote ampi consensi e solleva speranze persino un po’ affrettate. Si parla addirittura di una nuova fase della politica italiana, dopo 15 anni di scontri ideologici durissimi, di colpi bassi, di attacchi personali.

Le aperture allo schieramento avversario che hanno caratterizzato il discorso con cui il premier ha presentato alle Camere il suo nuovo governo vengono spiegate con la forza che gli deriva da una ampia maggioranza parlamentare, dall’omogeneità politica nel ministero, dalle difficoltà dell’opposizione. Ma anche dalla consapevolezza di quanto siano gravi ed urgenti i problemi che l’Italia deve risolvere e di come sia arduo cercare di affrontarli senza un clima di rispetto e di collaborazione, sia pure in ruoli diversi, tra istituzioni, partiti, forze sociali.

Difficile prevedere se questa specie di «luna di miele» parlamentare durerà a lungo o si infrangerà di fronte alle prime concrete scelte governative sulla sicurezza, sull’economia, sullo Stato sociale. È possibile che le buone, reciproche intenzioni siano sopraffatte, abbastanza presto, dagli egoismi partitici e dalle convenienze personali. Lo scetticismo, nato nella Grecia antica, sembra aver trovato in Italia la sua patria d’elezione. Poiché le prediche, soprattutto in politica, non servono a nulla, gli ottimisti possono contare solo una eventualità per confortare le loro speranze: una coincidenza di interessi tra i due maggiori partiti presenti in Parlamento.

L’Italia è ferma e, quindi, in un declino relativo non solo nel mondo, ma anche in Europa. Dall’inizio del secolo il bilancio, piuttosto disperante, è ormai chiaro. La crescita dell’economia è nettamente inferiore a quella degli altri Paesi del nostro continente. Le infrastrutture, cioè strade, ferrovie, trasporto aereo e marittimo sono assolutamente insufficienti per consentire la competitività delle nostre aziende sui mercati. Il caso Alitalia è l’emblema di una vera crisi nazionale, in questo campo. Il sistema dell’istruzione, quella della scuola secondaria e dell’università, squassato da riforme contraddittorie e continue, non assicura ai giovani competenze che si richiedono per lavori qualificati, corrispondenti alle attese di chi ha investito, per molti anni, nella formazione personale. Il divario economico e sociale fra il Sud e il Nord d’Italia, in questi anni, si è approfondito e anche qui, la questione della spazzatura in Campania può essere presa a simbolo di una generale, drammatica condizione, tra criminalità organizzata e degrado civile.

Di fronte a questo quadro che sarebbe sbagliato ritenere troppo pessimistico, il sistema politico, sempre dal 2000 in poi, non ha prodotto una riforma dello Stato che potesse sveltire il processo di decisione da parte della classe politica: dai poteri del premier al bicameralismo perfetto, dal federalismo a una buona legge elettorale. Brutte mezze riforme si sono succedute, con risultati o insufficienti o addirittura negativi. Le corporazioni, dal pubblico impiego ai professionisti e, persino, quelle dei taxisti hanno sempre sconfitto qualsiasi tentativo di limitare i loro privilegi. La giustizia non è diventata, in questi anni, né più celere né più certa. Nel frattempo, tra cittadini e classe politica è aumentato il distacco, con aspetti di sfiducia e di qualunquismo inquietanti.

Ecco perché, forse per la prima volta nella nostra storia recente, si può verificare, in questa legislatura, una vera coincidenza di interessi tra maggioranza ed opposizione. Berlusconi sa che neanche il grande divario parlamentare tra i due schieramenti gli sarà sufficiente per garantire al suo governo il successo. Veltroni ha bisogno di dimostrare che solo un’opposizione diversa, propositiva e non aspramente ostile, può accreditare una nuova identità, finora molto confusa e astratta, al partito dei riformisti italiani.

Il vero banco di prova di questa intesa bilaterale, però, non saranno, molto probabilmente, i prossimi concreti provvedimenti del Berlusconi quarto: quelli sulla sicurezza e sull’economia, dalla totale soppressione dell’Ici alle tasse ridotte sugli straordinari. Ma il clima di dialogo tra maggioranza e opposizione, nonostante il voto in contrasto su queste misure, si prolungherà fino al vero possibile accordo, quello sulle due leggi elettorali, per il voto europeo e per quello nazionale. In modo che si possa evitare il referendum.

Per il presidente del Consiglio, questa scadenza, infatti, costituisce l’unico elemento sul quale non ha, per i prossimi mesi, il pieno controllo. Nella sua maggioranza, tra l’altro, le idee in proposito non convergono totalmente e il risultato della consultazione potrebbe non corrispondere alle sue attese. Anche perché è prevedibile che il Pd si lanci in una robusta e popolare campagna per l’approvazione dei quesiti, nel tentativo di ottenere una sia pure parziale rivincita sull’esito delle legislative. D’altra parte, Veltroni spera di ridurre il carattere esasperatamente proporzionalista del suffragio europeo, perché potrebbe sottrarre al suo partito quella fetta di consensi acquistati, un mese fa, dalla propaganda per «il voto utile». Quale migliore occasione, allora, per utilizzare il clima di dialogo instaurato ieri alla Camera al fine di raggiungere un obiettivo che conviene a tutti e due?
 
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