LA-U dell'OLIVO
Novembre 25, 2024, 09:18:47 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 [2] 3 4 ... 16
  Stampa  
Autore Discussione: LEGGERE per capire... non solo la politica.  (Letto 150953 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #15 inserito:: Aprile 19, 2008, 04:28:44 pm »

Il presidente pd della Provincia di Milano: qui si vive l'Europa come portatrice di insicurezza

«Non serve un ufficio a Milano. Imitiamo la Lega»

Penati: creiamo come loro una classe dirigente legata al territorio.

Sì alla formula federale

 
 
MILANO — Non dice «l'avevo detto » per non sembrare presuntuoso. Ma l'aveva detto davvero e in tempi non sospetti: che «il problema è il Nord», che i leghisti «non sono soltanto zoticoni», che «le nostre Regioni hanno bisogno di sentirsi più rappresentate » e perfino «che bisogna cacciare gli ambulanti e gli abusivi». Filippo Penati, una vita nel Pci, sindaco di Sesto San Giovanni, poi segretario provinciale del Pd milanese, oggi presidente della Provincia, guarda avanti facendo notare che «oggi c'è un novità».

Che anche altri si sono accorti che la Padania esiste?
«No. La novità sta nel fatto che, come spiegano bene il sindaco Sergio Cofferati e il presidente Vasco Errani, si è esteso anche all'Emilia Romagna il tema che credevamo riguardasse i lombardi, i veneti e poco più».

Quale tema? «La Padania non è un luogo geografico, ma un luogo politico con una dimensione territoriale in cui esiste omogeneità di problemi».
Quali problemi, allora?
«Il principale è che si sente il bisogno di un partito federale che si occupi più da vicino del Nord. Cofferati ed Errani pongono giustamente la questione: bisogna riconoscere la specificità del Nord e serve una politica che dia risposte specifiche».

Perché la Lega avanza?
«La Lega è il termometro che misura una febbre. Credo che uno dei problemi sia l'essere venute a mancare le categorie classiche: una volta c'erano i salariati e i datori di lavoro».

I padroni e gli operai? «Esatto. Oggi non ci si riconosce in queste classi: soprattutto perché si sono riunificate le modalità di lavoro ed, essendo proliferate le piccole e medie imprese, sono venute meno le ragioni di contrapposizione tra gli uni e gli altri. L'altro aspetto riguarda la comune attenzione prestata ai fenomeni della globalizzazione, per quanto riguarda il sistema economico, e la preoccupazione per i flussi migratori che in queste zone provocano insicurezza più che altrove».

Qui si svela il leghista Penati.
«Non sono leghista, ma questo è il punto. La gente da noi si chiede se l'Europa, su cui tutti avevamo scommesso come momento di rilancio e grande opportunità, è quella che fissa il prezzo delle zucchine o che governa il flusso ad esempio dei romeni. Abbiamo allargato ad altre nazioni, va tutto bene, ma siamo esposti a processi che forse ci sono scappati di mano».

L'Unione e l'allargamento ad altre nazioni sono diventate un problema?
«Per certi versi, qui il sistema delle imprese vive l'Europa come fonte di ulteriori lacci e come soggetto che ha portato insicurezze, perché la presenza non controllata di alcuni cittadini oggi non più extracomunitari ha creato fattori di insicurezza. La politica non dà risposte, quindi prevale nel cittadino il suo appartenere a una regione, più che a una classe sociale».

Ed è per questo che la Lega prende piede?
«Quello alla Lega non è un voto di protesta. Ma è il riconoscimento che c'è una forza che si occupa di questo malessere, di questo malumore diffuso da tempo e per questo ancora più radicato».

Sto per chiederle se lei ha votato Lega o Pd.
«Non scherziamo. La Lega sbaglia nelle risposte, che sono quasi sempre demagogiche e non condivisibili. Ma è innegabile che loro non girino la testa dall'altra parte».

Il Pd, invece?
«Le cose dette da Veltroni in campagna elettorale e scritte nella proposta del Pd hanno fatto fare un balzo in avanti notevole alla sinistra. C'è una nuova attenzione, ma certo non si può fare tutto in pochi mesi. L'importante, ora, è continuare su questa strada radicandosi sul territorio: come sapeva fare il Pci e come ha fatto la Lega selezionando e formando nel giro di pochi anni una classe dirigente che ha un legame fortissimo con la sua zona e i suoi elettori».

E, poi, costruire il partito federale?
«Non nel senso di una forma organizzativa, però. Non come quando i nostri ministri ci dicevano: "Veniamo ad aprire un ufficio a Milano". Non si chiede un decentramento del quartier generale, serve un partito che attorno alla proposta sul Nord annunciata da Veltroni costruisca una nuova classe dirigente e dia risposte alle urgenze di questi territori».

Elisabetta Soglio
19 aprile 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #16 inserito:: Aprile 20, 2008, 11:56:10 am »

Rusconi: «Questa destra è la rivolta dei territori»

Bruno Gravagnuolo


«Siamo in bilico su una doppia possibilità. O Berlusconi e Bossi riescono a trovare un compromesso accettabile sull’interesse generale del paese, oppure, come temo, si andrà verso la catastrofe». C’è allarme nelle parole di Gian Enrico Rusconi, germanista, politologo, storico, attualmente a Berlino come «Gast-Professor» alle Freie Universität, dove riusciamo a intercettarlo tra una lezione e l’altra. La sua tesi post-elettorale sull’Italia che va a destra suona: «Il governo Prodi ha dato un’immagine pessima di sé, di là dei suoi veri pregi e difetti. La sinistra dal canto suo ha abbandonato insediamenti e territori. E la Lega è la vera vincitrice. Contro il mercatismo, il globalismo e il venir meno delle tutele identitarie ed economiche».

E allora, dopo l’analisi della sconfitta e delle sue cause da dove ricominciare? Per Rusconi occorre innanzitutto vedere come evolverà il rapporto Bossi-Berlusconi. Per nulla pacifico e anzi dirompente. Poi l’opposizione vedrà come inserirsi nella partita. Senza cedere a ricatti o a cooptazioni, ma esibendo una «sua» idea dell’interesse pubblico e nazionale. E facendola valere sul piano programmatico, parlamentare e organizzativo. A cominciare dai territori, abbandonati all’avversario. Nel frattempo però si deve registrare bene l’accaduto, fotografare i soggetti sociali in campo. E cercare di spiegare bene il tutto, a se stessi e agli altri. All’Europa, che sempre meno capisce l’anomalia italiana. E ai tedeschi, che, dice sempre il professore, «vivono l’Italia con strisciante estraneità e ci considerano tutti berlusconiani. Immagini con che gioia da parte mia!». Sentiamo Rusconi allora.

Cominciamo da una domanda vecchia ma ancora buona: la Lega è di destra oppure no? Il politologo Sartori e l’ex ministro leghista Maroni lo negano. E lei?
«Modo non giusto di porre la questione. Parlerei di protezionismo sociale a favore di tutti quelli che non ce la fanno, dal piccolo imprenditore all’operaio sottopagato. E con il territorio a fare da argine, da barriera. In questo senso vanno le sortite di Tremonti contro il mercatismo, che avevano centrato il bersaglio. Mi chiedo e le chiedo, questo protezionismo sociale e locale è di destra o di sinistra?»

Il segno prevalente è di destra: individualismo proprietario. Anche se non possiamo fermarci qui. In fondo lo stesso fascismo non era sociale e autarchico?
«Certo, ma usciamo dallo schematismo. Sono esplosi i problemi della piccola gente che ha perso fiducia nella sinistra e nel sindacato. E questa massa d’urto medio-bassa va al di là del nucleo proprietario. Il vero problema è la fine dell’universalismo democratico, di sinistra. Che teneva insieme borghesia imprenditoriale e ceti subalterni. È questo che la gente dei territori rifiuta».

Bene, ma come è successo tutto questo? Colpa del mercatismo, e delle violente politiche di rigore monetarista e di bilancio fatte proprie dalla sinistra?
«Fino a ieri il territorio era rimasto fuori dalle preoccupazioni “borghesi” o di sinistra. Il fascismo non è mai stato territorialista, ma nazionale. Oggi invece proprio la contrapposizione tra locale e globale fa saltare la distinzione destra/sinistra, le polarità che prima si confrontavano sullo stato. Inoltre, che fine hanno fatto le buone amministrazioni di sinistra e il loro mito? Anche quest’eredità s’è fatta scippare la sinistra!»

Insisto: la sinistra non ha finito col soffocare i territori in nome del mercato universale e del rigore?
«Era inevitabile, ma il difetto è stato nel messaggio, nell’incapacità di comunicare. Il che è stato vissuto come abbandono, da parte dei ceti radicati sul territorio. Si è data l’impressione di voler enfatizzare i benefici del mercato universale, dall’immigrazione, all’innovazione, agli scambi, alla moneta. A detrimento del quotidiano e delle identità locali. Ovvio che il rigore fiscale e i tagli di spesa soffocano i territori! Ma allora, o si faceva una politica diversa, oppure si dovevano convincere i soggetti sociali nelle aree locali. Come? Con la capacità organizzativa e di rappresentanza solidale. E poi nessuno osa dirlo: il governo Prodi ha mandato dei segnali catastrofici. E ha avuto un’immagine peggiore di quel che è stato. Aggiungo una cosa: il vecchio socialismo riusciva a differire i bisogni sul domani radioso. A persuadere, e a dare identità. Oggi c’è una mutazione antropologica, il domani non è più un argomento, e le emergenze ci stanno tutte addosso, instantaneamente».

Ma il vecchio socialismo democratico faceva lievitare i redditi. Oggi invece da sinistra non si tutelano né i redditi, né i territori. E vince il liberismo territoriale e proprietario. Non è per questo che i ceti medio bassi vanno a destra, e finiscono in bocca alla Lega?
«Questo è un dato di fatto incontrovertibile, anche se ce ne siamo resi conto tradivamente. Lo sfondamento egemonico della cultura liberista a misura di territori, e a danno della sinistra, è stato evidente. Magari Gad Lerner non se ne rendeva conto, ma molti lo avevano capito, benché lo dicessero sottovoce. Adesso però la vera domanda è un’altra: la sinistra può ancora recuperare oppure è troppo tardi?»

E cosa si risponde?
«Dipende prima di tutto da questo governo. Ce la farà a superare la conflittualità interna con la Lega o no? Da queste prime battute di confronto con Bossi, parebbe di no. Guardi, tra il leghismo e il berlusconismo non c’è coincidenza. E Berlusconi non lo ha ancora capito. Prevedo forte tensione tra le due realtà, anche pensando alla profonda personalizzazione dell’incontro-scontro tra i due leader. Con Berlusconi che si dichiara garante in prima persona del rapporto con Bossi. E Bossi che dice: mi fido solo di lui, parlo solo con lui. Ma con entrambi che tagliano fuori gli altri alleati. Ciò corrisponde tra l’altro a una acuta degenerazione iper-personalistica della politica, che inficia l’immagine del centrodestra. Roba devastante».

Duello intestino, che potrebbe far saltare la coalizione?
«A mio avviso i due leader non capiscono affatto ciò che si sta profilando, anche perché non si aspettavano questo exploit leghista. Sono stupiti entrambi».

C’è il rischio di un’implosione italiana, magari su federalismo fiscale e secessione strisciante? Detto diversamente: andremo più verso la Baviera o verso l’ex Jugoslavia?
«Né l’uno, né l’altro esito. Intanto la destra dovrebbe aver imparato le lezioni del governo Prodi, e del precedente centro destra: non litigare e non mettere in piazza i contrasti. Per quanto riguarda la Baviera o un possibile Lombardo-Veneto, bisogna stare attenti. Non si possono fare paragoni insostenibili, e immaginare analogie tra Cristiano Sociali bavaresi e Lega che radicalmente altra cosa. Il punto è: La Lega resterà un partito rivendicativo e conflittuale, oppure metterà capo a un vero progetto regionale? I Cristiano sociali in Germania governano un Land. Uno stato storico: la Baviera. Questi invece parlano di Padania, che francamente non esiste, meno che mai nei termini della Baviera, che ha mille anni! I leghisti stanno rivalutando il sociale privato e comunitario. Ma dovrebbero riscoprire il senso del pubblico, ricrearlo, per fondare un futuribile Lombardo-Veneto. Non dico nazione, dico “pubblico”. Interesse generale, articolato sul territorio».

La vedo dura.
«Sì, non hanno gli strumenti per farlo. Al massimo sono in grado di esprimere comunitarismo. Questo però è un problema di tutti, da nord a sud. E qui apro e chiudo una parentesi: non capisco perché Bassolino non abbia avuto il buon gusto civico di dimettersi. Di là delle sue colpe o meno. Tornando alla destra però, il governo si gioca tutte le sue carte esattamente su questo: il senso pubblico. O ne esibiscono un esempio plausibile, o finirà male. Con la frantumazione generale, magari non Jugoslava, che mi parrebbe esagerata...»

Deve essere la sinistra o quel che ne resta, a farsi banditrice di un nuovo senso pubblico nazionale?
«Il vero dilemma è: dare una mano a un eventuale progetto di questo tipo o no? E qui subentra il timore di favorire l’avversario. Cosa che non varrebbe altrove, perché ad esempio la Baviera non s’è mai scontrata violentemente con lo stato, e lì non avrebbero mai detto le cose intollerabili di un Bossi sui fucili, neanche per scherzo. La Baviera si distingue, dentro un’idea comune di stato. Ma non si contrappone. E oggi anche grazie alle doti mediatrici della Merkel».

Lega dissolutiva o federalmente compatibile?
«O Berlusconi e Bossi si reinventano un senso pubblico di corresponsabilità che rilegittima lo stato, o viceversa si va al logoramento progressivo. Quanto alla sinistra, deve corresponsabilizzarsi anch’essa, a certe condizioni beninteso».

E se invece si spartiscono l’Italia frantumando interessi e territori, e all’insegna di presidenzialismo o premierato?
«Allora sarà il disastro, ma se è così lo vedremo entro quindici giorni».

Pubblicato il: 19.04.08
Modificato il: 19.04.08 alle ore 10.18   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #17 inserito:: Aprile 20, 2008, 11:57:15 am »

Quel che resta dei Verdi

Luigi Manconi


Quella dei Verdi italiani è una vicenda malinconica, malinconicissima. La sua penultima tappa, (l’inchiesta giudiziaria su Alfonso Pecoraro Scanio) è, in realtà, la meno significativa: se non perché un destino maligno ha voluto maramaldeggiare su una formazione politica che comunque vede esaurirsi il proprio ciclo. E perché, poi, l’inchiesta di Henry John Woodcock raggiunge Pecoraro che, tra i politici italiani (Antonio Di Pietro compreso) è il meno sensibile, per così dire, alle garanzie e alle tutele previste dal procedimento penale. Così che la presunzione di innocenza che vale nei confronti di Pecoraro mai è stata invocata dallo stesso a salvaguardia dei propri avversari politici. Ritengo, d’altra parte, che quella presunzione di innocenza verrà confermata, probabilmente, dallo sviluppo ulteriore delle indagini: e Pecoraro - credo, spero - verrà prosciolto. E infatti i comportamenti di Pecoraro, più che a fattispecie di reato, sembrano rimandare a modelli di azione politica, a uno stile di vita pubblica e a forme di relazione che richiamano la categoria di “familismo amorale” (nel suo significato originario).

Eche - con la leadership pecorariana - sono diventati metodo di gestione del partito dei Verdi.
Premesso ciò, va detto che questa vicenda giudiziaria è solo un brutto finale di una storia - quella, appunto, dei Verdi italiani - che, col rovinoso risultato elettorale del 13/14 aprile, può considerarsi, se non esaurita, assai prossima a esserlo (aldilà dei sussulti di sopravvivenza che pure potrebbe avere in futuro). Ed è un vero peccato, oltre che una sconfitta politica che considero assai grave e che riguarda non solo i Verdi: così come considero disastrosa l’esclusione dal Parlamento di Rifondazione Comunista. Quest’ultimo fatto merita un ragionamento specifico, che svilupperò nei prossimi giorni; qui tratto in primo luogo dei Verdi perché più li conosco e più mi sono stati a cuore. Ora il rischio (altissimo) è che le grandi questioni ambientali, che giocano un crescente ruolo cruciale per il destino del pianeta e di chi lo abita, una volta usciti di scena i Verdi, non vengano assunte da altri con sufficiente forza e convinzione (e capacità di imporle all’agenda politica).

Insomma per quanto paradossale possa apparire, la scomparsa dei Verdi italiani lascia un vuoto incolmabile. Sia chiaro: questo vuoto non si apre oggi. Chi scrive si dimise da Portavoce nazionale dei Verdi quasi un decennio fa, a seguito del deludente risultato ottenuto alle Europee del 1999: ma quello sconfortante 1,8% venne ridotto da chi mi seguì (Grazia Francescato, e poi fino a oggi, Pecoraro) a dimensioni ancora più modeste (intorno all’1%, o giù di lì, nelle successive elezioni politiche, dove il simbolo dei Verdi si appaiava ad altri simboli: quello dei socialisti e, addirittura, quello del Pdci). Evidentemente, già quel 1,8% era risibile: ma quando, nel 2001 e nel 2006, i risultati delle liste unitarie con socialisti e comunisti italiani furono ancora più esigui, il destino del partito ambientalista appariva definitivamente segnato. E a spiegarlo non vale, certo, la responsabilità peraltro assai rilevante, dell’attuale gruppo dirigente. Già in precedenza, altri leader, di notevole solidità culturale e politica (da Alex Langer a Francesco Rutelli, da Gianni Mattioli a Massimo Scalia a Edo Ronchi) non erano riusciti a proiettare i Verdi fino alla soglia del 4% e a dar loro un ruolo politico nazionale simile a quello giocato in altri paesi europei. Sembra difficile dire, quindi, che la colpa sia tutta, e nemmeno prevalentemente, di gruppi dirigenti inadeguati.

Si deve tornare, allora, all’interpretazione elaborata da alcuni dei Verdi che si dimisero dal partito tra la fine degli anni ‘90 e i primi del 2000. Quell’interpretazione era così riassumibile: l’ecologia è un tema troppo grande per affidarlo a un partito del 2%. Detto in altri termini, in Italia non ha senso culturale, né spazio politico né autonomia di programma e di iniziativa, né - infine - possibilità di ottenere estesi consensi un partito monotematico concentrato interamente sulla questione ambientale. La prova provata risale a molti anni fa e ai primi passi dei Verdi italiani.

Nel 1985, alle elezioni amministrative, pur presenti solo in otto regioni, i Verdi ottengono il 2,5%. A distanza di pochi mesi, nell’aprile del 1986, si verifica uno dei massimi disastri ambientali della modernità (l’esplosione nella centrale nucleare di Chernobyl). Questo evento, così drammaticamente evocativo dei temi “verdi”, incrementa di appena lo 0,1 la percentuale elettorale conseguita dai Verdi alle elezioni politiche del giugno del 1987: ma nel novembre dello stesso anno, l’80,6% degli italiani approva il referendum abrogativo del nucleare. Si manifesta allora, per la prima volta, quello scarto profondissimo tra sentimento e opinione, da una parte, e scelta di voto, dall’altra; scarto che, nel ventennio successivo, non verrà mai colmato e nemmeno ridotto. Nel 2000, appena prima delle elezioni regionali, dove i Verdi conseguono poco più del 2% dei voti, oltre il 78% degli italiani dichiara di apprezzare l’iniziativa delle “domeniche a piedi”, voluta dal ministro verde dell’Ambiente. E, infine, alle elezioni politiche del 2001 - a ridosso delle vicende della “mucca pazza” e dell’elettrosmog - mentre una parte significativa degli italiani percepiva, con particolare intensità, quelle minacce alla salute, una quota rilevante di elettori verdi sceglieva - serenamente, suppongo - altri simboli. Si confermava, dunque, quella duplice e convergente difficoltà a tradurre in partecipazione politico-organizzativa l’apprezzamento per le battaglie condotte e a trasferire nell’urna elettorale l’adesione emotivo-culturale al messaggio condiviso (la sicurezza alimentare, per esempio).

La ragione principale di tale limite va individuata nella struttura del sistema politico italiano: in particolare, nel sovraffollamento di quello spazio tra centro democratico e sinistra tradizionale dove i Verdi inevitabilmente si collocavano; e nella sovrapposizione dei temi trattati e di quanti si candidavano a trattarli. Basti pensare a come le questioni di diritto e di libertà, affrontate in Germania e in Francia principalmente dai Verdi, nel nostro Paese risultavano “contese” tra questi ultimi, Rifondazione e i radicali. Insomma, in Italia, nel corso degli ultimi due decenni, i cittadini, anche quelli che condividono gli obiettivi dei Verdi, hanno ritenuto che le offerte elettorali di altre formazioni fossero - proprio sul piano elettorale - più meritevoli di consenso: forse perché ritenute maggiormente efficaci. Cinque, sei anni fa, fummo in molti, sulla base di tale ragionamento - e dell’assunto per il quale l’ecologia è un tema troppo grande per affidarlo a un partito del 2% - a immaginare che potesse essere il Partito democratico la casa al cui interno alloggiare comodamente (e se necessario scomodamente e conflittualmente) la questione ambientale, come una delle grandi tematiche intorno alle quali aggregare il nuovo partito riformatore. Un luogo dove la cultura ecologista avrebbe potuto incontrare altre culture della trasformazione e dell’innovazione sociale ed economica e dei diritti di cittadinanza.

E per questo si è lavorato. Oggi, il bilancio che si deve trarre è decisamente negativo: i Verdi come partito autonomo monotematico rischiano di esaurirsi definitivamente. (A Roma non avranno alcun consigliere comunale). Già la precedente alleanza con i Comunisti autoritari del Pdci alle elezioni del 2006 ne aveva gravemente compromesso l’identità: quest’ultima, nel corso della più recente campagna elettorale, è letteralmente evaporata. Certo, questo non significa ancora la sparizione dei Verdi: il “paradigma Giorgio La Malfa” insegna che - con il controllo del simbolo, del nome e della tesoreria - si può andare avanti per decenni. Ma i Verdi non sono paragonabili a un detrito del Partito repubblicano e, dunque, la loro sorte non dovrà essere la medesima. Centinaia di militanti che si dichiarano Verdi continuano e continueranno a operare, spesso positivamente. Tuttavia, è vero che un partito che aveva corruscamente proclamato la propria autonomia e che risulta l’appendice più marginale e inerte di un cartello elettorale sconfitto, è difficile che possa ritrovare una identità e un ruolo significativi. E si è trattato, palesemente ed esclusivamente, di un mero cartello elettorale, dal momento che non si è stati capaci o non c’è stato il tempo - sempre che fosse possibile - di combinare virtuosamente le rispettive culture di origine e di trarne un soggetto nuovo.

Ma il bilancio negativo non si ferma qui. All’interno del Partito democratico, la componente ambientalista, pur presente, non sembra ancora in grado di orientarne né il programma politico né il discorso pubblico. La presenza, all’interno del gruppo dirigente, di ambientalisti di notevole qualità (come Ermete Realacci e Roberto Della Seta) non sembra oggi in grado di connotare la fisionomia del Pd. Per lo meno, non lo è stato fin’ora: ma - guai a dimenticare questo dato - siamo appena agli inizi di un percorso inevitabilmente lungo e, pertanto, non solo è lecito ma è anche doveroso avere fiducia. Ma questo impone un salto di qualità a tutti coloro che hanno a cuore la questione ecologica/economica/energetica come non uno dei temi, ma il tema cruciale del presente e del futuro. Si pensi all’emergenza-cereali, e alle sue esplosive implicazioni a livello planetario ma anche locale (ne ha scritto su questo quotidiano Vittorio Emiliani): su essa non una parola - e come poteva essere altrimenti? - nel corso della campagna elettorale; ma certo non si potrà continuare a tacere. In ogni caso, sarà innanzitutto il Partito democratico il luogo nel quale necessariamente queste tematiche dovranno essere trattate, tradotte in obiettivi programmatici, fatte oggetto di vertenze e di conflitti. Questo richiede che il Partito democratico si ponga anche il problema dei Verdi. E che i Verdi di buona volontà e di rette intenzioni si pongano il problema del Partito democratico.

Pubblicato il: 19.04.08
Modificato il: 19.04.08 alle ore 10.18   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #18 inserito:: Aprile 20, 2008, 12:04:40 pm »

Per il federalismo fiscale solidarietà da 15 miliardi

di Dino Pesole
 

Riparte il cantiere del federalismo fiscale, sulla spinta del successo ottenuto dalla Lega nord.
Ed emerge subito una prima, rilevante questione da risolvere: la consistenza del fondo perequativo che dovrà garantire le Regioni del Sud, soprattutto nella fase di passaggio dal vecchio al nuovo sistema. Lo stesso premier in pectore, Silvio Berlusconi, ha parlato di «federalismo solidale» e di «fiscalità compensativa».

E si fa strada l'ipotesi di affiancare al modello di perequazione nazionale disciplinato dallo Stato, modelli di perequazione finanziati dalle Regioni, per assicurare agli enti locali le risorse per esercitare le funzioni loro conferite. L'ipotesi di base prevede l'istituzione di un fondo perequativo, per il solo fabbisogno sanitario, di 13 miliardi, cui andrebbe ad aggiungersi un costo di circa 1-2 miliardi per l'Irpef.

Si parte dal corposo dossier messo a punto alla fine del 2005 dall'Alta Commissione sul federalismo fiscale, presieduta da Giuseppe Vitaletti. Obiettivo principale è colmare il vuoto normativo determinato dalla mancata applicazione del nuovo Titolo V della Costituzione, nella parte in cui si stabilisce che i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni «hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa», stabiliscono e applicano «tributi ed entrate proprie» e dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali «riferibili al loro territorio».
Il lavoro della commissione Vitaletti può costituire una base di partenza, soprattutto laddove prevede una stretta correlazione tra il prelievo fiscale e il beneficio connesso alle funzioni esercitate. I tributi propri non potranno rappresentare la principale fonte della finanza regionale, «che dovrà essere costituita in gran parte da compartecipazioni». Il tutto in ossequio alla più recente giurisprudenza della Corte Costituzionale (sentenza n.37 del 2004). La disciplina transitoria dovrà consentire «l'ordinato passaggio dall'attuale sistema, caratterizzato dalla permanenza di una finanza regionale e locale ancora in piccola parte derivata, e da una disciplina statale unitaria di tutti i tributi».

I tributi propri regionali (l'Irap rientra nella competenza statale) dovranno essere istituiti con legge regionale, mentre il fondo perequativo, in ossequio all'articolo 119 della Costituzione (terzo comma), dovrà essere fissato con legge dello Stato «senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante». Nella scorsa legislatura, su questo fronte non si son fatti passi in avanti. Gli elettori hanno respinto la "devolution" varata dal centro destra, e il disegno di legge approvato dal governo Prodi il 1° agosto 2007 è rimasto impantanato alla Camera fino allo scioglimento anticipato del Parlamento.

Ora con il cambio di maggioranza e il nuovo governo Berlusconi pronto a insediarsi, si comincerà da capo. Al quartier generale della Lega il punto fermo è il progetto deliberato dal Consiglio della Lombardia il 19 giugno 2007, in cui si dispone che una parte cospicua della ricchezza prodotta resti sul territorio. Parola d'ordine, evocata del resto a più riprese nei giorni scorsi da Umberto Bossi. Il sistema delle compartecipazioni regionali vede l'Iva al primo posto, con una quota non inferiore all'80%, ma alle Regioni dovrebbe affluire anche il gettito delle accise, dell'imposta sui tabacchi e di quella sui giochi.




ATTUAZIONE TITOLO V

Il Senato delle Regioni

L'Alta Commissione sul federalismo fiscale Istituita nel 2003, la Commissione presieduta da Giuseppe Vitaletti lavorò per due anni e e produsse un dossier di 118 pagine con le indicazioni per adeguare il modello di federalismo fiscale all'articolo 119 della Costituzione.

Autonomia tributaria
La Commissione riconobbe che gli enti territoriali e locali godono di un livello significativo di autonomia tributaria (pari al 47% nelle Regioni, al 44% nelle Province e al 46% nei Comuni). Per rendere funzionante il nuovo Titolo V della Costituzione veniva indicata la necessità di istituire un Senato federale

Patto di stabilità
Secondo la Commissione il finanziamento degli enti territoriali mediante entrate tributarie proprie potrà favorire un uso più efficiente delle risorse, ma per rispettare il patto di stabilità interno «appare essenziale il riconoscimento agli amministratori locali di un effettivo potere fiscale». Dunque, oltre alle compartecipazioni, maggiori tributi propri che tuttavia non potranno rappresentare la principale fonte della finanza regionale
 
da ilsole24ore.com
18/04/2008
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #19 inserito:: Aprile 21, 2008, 01:51:20 am »

INtervista all'ex pm

Di Pietro: Silvio? Mai dialogo

La sua è una «dittatura dolce»

«L'Idv non è la Lega del Pd: loro solo una lista civica»

 
 
ROMA — Antonio Di Pietro, è di nuovo scontro sulla sicurezza: a Roma in un giorno un'anziana uccisa e una giovane violentata. «Dicevano che bisognava allontanare dalle istituzioni i cosiddetti giustizialisti e ora invece Berlusconi rilancia strumentalmente il tema della sicurezza. Con la complicità del sistema dell'informazione, che non fa sapere ai cittadini la verità...».

E qual è la verità?
«Che è stato proprio il Cavaliere dal 2001 al 2006 ad aver creato insicurezza. Agli italiani non importa nulla della separazione delle carriere, chiedono più poliziotti nelle strade, rimpatrio immediato dei clandestini, inasprimento dei reati contro i bambini e le donne...».

Mentre lei sciorina il suo programma, il Pdl accusa l'ex sindaco di Roma.
«Veltroni non troverà in me un esponente critico, è stato un buon sindaco per la sua città e un riformista coraggioso per la coalizione. Noi siamo il partito del fare, il Pdl è quello delle parole. Bisogna ridurre da tre a due i gradi di giudizio e varare una legge di una riga per l'esecuzione anticipata della pena, dopo il primo grado di giudizio, per i reati più gravi...».

Consigli a Berlusconi, visto che siete all'opposizione.
«Non per questo rinuncio alle mie battaglie. Col suo conflitto di interessi, il controllo globale dell'informazione e la sua idea di giustizia Berlusconi è un pericolo. Il suo ritorno è l'avvento della dittatura dolce, vuol riformare la legge sulla par condicio e andare alla resa dei conti con la magistratura. La sua politica si basa sul libero arbitrio, dando dell'eroe a Mangano ha rivalutato la classe mafiosa. Tocca a noi aprire gli occhi ai cittadini».

Anche se Veltroni decidesse di dialogare con Berlusconi sulle riforme?
«Noi non potremmo mai offrire fiducia al governo Berlusconi. Già due volte ha detto che dialogava sulle riforme e si è sporcato le mani. Se la magistratura non si adegua lui la porta dallo psichiatra? Bene, per me il dialogo si è fermato lì».

Si dice che non voglia fare il gruppo unico col Pd perché da sola l'Idv ottiene cinque milioni di rimborsi in più.
«È squalificante e riduttivo, i soldi non vanno a noi ma all'attività del gruppo. Io ho detto che siamo pronti a unirci in Parlamento sulla base del programma, però una annessione non giova a Veltroni. La verità è che c'è una parte del Pd che vede come una liberazione la possibilità che il gruppo unico non si faccia».

Marini? D'Alema? Parisi?
«Vedo due anime, una isolazionista e l'altra aperta a una nuova alleanza. Noi siamo disposti a costruirla da subito con un percorso costituente che può arrivare fino al partito unico, però non devono chiuderci le porte. Se il gruppo non si fa subito perché hanno bisogno di chiarirsi le idee noi gli diamo il tempo ma loro devono darci i ruoli che ci spettano, nel governo ombra e in Parlamento ».

Quali e quanti posti, ministro?
«Se Veltroni intende riservarci un angolino in un cassetto, tipo usa e getta, fa un dispetto a tutti quegli italiani che hanno visto nell'Idv una possibilità di riscatto. Isolarci sarebbe un grave errore, come lo è stato l'ostracismo in campagna elettorale ».

Veltroni disse che non vedeva bene per lei il ministero della Giustizia. Aspira a farlo almeno nel governo ombra?
«Dagli incarichi che ci verranno affidati capiremo quale dialogo Veltroni vuole aprire con noi. Ci sono ruoli che spettano all'opposizione, a cominciare dalla presidenza degli istituti di vigilanza».

È disposto ad allearsi con l'Udc, come piacerebbe a D'Alema?
«Se Casini sottoscrive un impegno formale a non candidare persone condannate allora sì. L'alleanza bisogna allargarla ai moderati e ai cattolici o abbiamo perso in partenza».

L'Idv è la Lega del Pd?
«Con tutto il rispetto per gli elettori della Lega, il partito di Bossi è una lista civica che porta avanti i meri interessi di un territorio, noi invece siamo radicati da Mondovì a Canicattì». E l'attacco di Montezemolo al sindacato? «La diagnosi è condivisibile, l'operaio non si sente rappresentato da questa classe dirigente sindacale. Ma una cosa è portare in ospedale un malato e un'altra è affidarlo per le cure a Dracula».

Monica Guerzoni
20 aprile 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #20 inserito:: Aprile 21, 2008, 05:28:45 pm »

In una scuola a Napoli

Temi choc: «La Camorra ci protegge»

«C'è gente che odia la camorra, io invece no, anzi a volte penso che senza la camorra non potremmo stare»



NAPOLI - «La camorra ci protegge, e se qualcuno vuole farci male i clan ci difendono». Parole scritte, secondo quanto pubblica il quotidiano Il Mattino, in un tema in classe da una alunna di 13 anni della scuola «Salvo D'Acquisto» di Miano, periferia nord del capoluogo campano. «Quando esco - scrive un coetaneo - vedo nel mio quartiere grandi mappaglie di persone che spacciano, ma a noi della zona ci proteggono». Temi scritti nella stessa scuola in cui è stato realizzato un fotoromanzo anticamorra. «Nel mio quartiere vedo di tutto, come droga, spacciatori ecc., ma non mi spavento. Noi cittadini siamo abituati - scrive un terzo alunno - C'è gente che odia la camorra, io invece no, anzi a volte penso che senza la camorra non potremmo stare, perché ci protegge tutti, pure il fatto che che tutti pagano il pizzo non è giusto, ma chi paga resta protetto». «Se qualcuno di un'altra zona avesse l'intenzione di farci del male o di ricattarci - scrive ancora la tredicenne - loro ci difendono, ma se c'è tra loro una discussione non guardano in faccia proprio a nessuno e ci vanno di mezzo persone innocenti».

LA DROGA - Temi che mostrano, fra l'altro, una vera conoscenza del fenomeno: «La camorra a Miano c'è e noi la conosciamo bene - scrive un altro ragazzino - perché si svolge tutto davanti a noi, come per esempio a spacciare la droga che è una cosa che noi vediamo tutti i giorni. Molti ragazzi cominciano a spacciare a 13 anni, diventano più importanti, e una volta che ci sei entrato non ne esci più e se provi a uscirne vieni ucciso».

IL RETTORE - Padre Fabrizio Valletti, rettore gesuita della chiesa Santa Maria della Speranza di Scampia, commenta così questi temi: «Non mi meraviglia. Sono elaborati del vissuto giovanile. Il sistema criminale di cui parliamo fornisce risposte concrete, spesso garantisce stabilitá economica e punti di riferimento territoriali. Bisogna partire da queste analisi, per moltiplicare punti di aggregazione e centri di formazione permanenti nelle aree di periferia». L'istituto per la verità è lo stesso dove i ragazzi hanno realizzato un fotoromanzo anticamorra per dire no alla criminalità e alle violenze striscianti che spesso subiscono solo perché studiano nel quartiere.


21 aprile 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #21 inserito:: Aprile 22, 2008, 12:08:18 pm »

ECONOMIA IL COMMENTO

Alitalia, i nomi dei colpevoli

di MASSIMO GIANNINI


ORA saranno soddisfatti. I "difensori della nazione" e i "paladini dell'occupazione". Il Pdl che ha appena vinto le elezioni e il sindacato che ha appena perso la faccia. Il ritiro di Air France significa la fine dell'Alitalia e certifica la sconfitta dell'Italia.

Si compie il destino di un'azienda depauperata e depredata da decenni di cattiva gestione finanziaria e di pervasiva "usucapione" politica. Si chiude nel peggiore dei modi un "buco nero" costato alla collettività 15 miliardi in 15 anni, 270 euro per ogni cittadino, neonati compresi.

Solo le false anime belle, adesso, possono far finta di meravigliarsi per la rottura decisa dai francesi. Cosa si aspettavano, dopo che una partita strategica come Alitalia è stata giocata strumentalmente in un'ottusa campagna elettorale, come un derby pecoreccio tra Malpensa e Fiumicino? Cosa speravano, dopo che il futuro industriale del nostro vettore aereo è stato consumato inopinatamente in un assurdo negoziato "peronista", come una banale vertenza sui taxi? In questo sciagurato Paese, purtroppo, funziona così. Ma nel resto d'Europa, evidentemente, il mercato ha ancora le sue regole, i suoi tempi, i suoi effetti.

Ci sono nomi e cognomi, nell'elenco dei colpevoli di questo bruciante fallimento del Sistema-Paese. Sul fronte politico, Berlusconi ha brillato per l'insostenibile leggerezza con la quale ha maneggiato l'affare Ali-France, e per l'insopportabile cinismo con il quale ha sventolato il pretestuoso vessillo dell'"italianità" a fini di marketing elettorale. La sua crociata anti-francese non ha conosciuto confini diplomatici né limiti etici. In un vortice di annunci auto-smentiti, ha posto veti impropri. Ha inventato cordate improbabili, a metà tra il pubblicistico e il familistico. Ha messo in pista concorrenti immaginari, come l'Aeroflot dell'amico Putin, che gentilmente si è prestato al gioco nella ridente cornice sarda di Villa Certosa, dove il luogo della vacanza personale si traveste da sede della rappresentanza istituzionale. Jean-Cyrill Spinetta ha sopportato anche troppo le intemperanze del premier in pectore. Piuttosto che perdere altro tempo e farsi dire no dal nuovo governo, ha preferito giocare d'anticipo.

Sul fronte sindacale le colpe sono anche più gravi. Epifani, Bonanni e Angeletti, e con loro la colorita galassia degli "autonomi", hanno brillato per l'inaccettabile miopia con la quale hanno affrontato la drammatica crisi dell'Alitalia, alla quale hanno dato da sempre il loro fattivo contributo. Per troppi anni, dai tempi di Aquila Selvaggia, le confederazioni e i mille cobas sparsi nei nostri cieli hanno usato la compagnia come una zona franca, nella quale i livelli retributivi e le quote occupazionali erano le sole "variabili indipendenti" da tutti gli altri parametri aziendali: dall'efficienza del servizio alla produttività del lavoro. Cgil, Cisl e Uil si sono distinte per l'intollerabile demagogia con la quale hanno cercato fino all'ultimo di intralciare il piano industriale dell'unico partner di livello mondiale che aveva accettato di sporcarsi le mani nel disastro dell'Alitalia. All'insegna della più insensata difesa corporativa. Dal cargo, da salvare nonostante abbia 5 aerei con un organico di 135 piloti e fatturi 260 milioni con una perdita di 74 milioni. Ad Alitalia Servizi, da salvare grazie a Fintecna in un'operazione impensabile perfino al tempo dell'Efim e degli altri carrozzoni pubblici delle PpSs. Anche in questo caso, Spinetta non poteva continuare con questo indecoroso tira e molla. Ha preferito anticipare i tempi, con tanti saluti alla gloriosa Triplice.

Il governo Prodi non ha gestito al meglio questa privatizzazione. Ma Tommaso Padoa-Schioppa ha avuto almeno il merito di aprire la "pratica", dopo un'intera legislatura nella quale il vecchio governo della Cdl si era ben guardato dal farlo. E di avvisare tutti una settimana prima del voto: "Serve un segnale immediato - aveva detto all'Ecofin in Slovenia - perché se la decisione sull'offerta Air France viene rimandata a dopo le elezioni il commissario sarà inevitabile". Così è stato. Così sarà. Ora l'Alitalia svola verso il baratro. In cassa ci sono soldi per un altro mese, non di più. Il Consiglio dei ministri che si riunirà oggi può fare solo due cose: approvare il prestito-ponte da 100 milioni, e decidere il commissariamento della compagnia. In ogni caso, è una lezione amarissima per tutti. Per il leader del centrodestra che ora dovrà evitare almeno il fallimento, dopo aver dimostrato tutta la sua improvvisazione politica e il suo ritardo di fronte alle sfide del libero mercato. E per i leader confederali, che non sono stati capaci di cogliere "l'ultima chiamata" e hanno mostrato tutto il loro incolmabile deficit culturale rispetto alle logiche della globalizzazione.

In questa fiera delle irresponsabilità, ancora una volta, le due "caste" hanno dato il peggio di sé. Sulle spalle dell'Italia, che vorrebbero "rialzare". E sulla pelle dei lavoratori, che dovrebbero tutelare.

(22 aprile 2008)

da repubblica.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #22 inserito:: Aprile 22, 2008, 03:22:19 pm »

I ragazzi e la camorra: quelle voci lontane

Enrico Fierro


Se fossimo uomini d’onore dovremmo chiedere scusa ad Anna, Antonio ed Elisa.
Dovremmo chinare la testa di fronte alle loro vite e alle loro angosce che non abbiamo saputo vedere, sfiorati come eravamo dalle nostre vuote certezze di cartapesta. E dovremmo farlo con l’umiltà di chi, pur avendo tutti gli strumenti (gli studi, il mestiere, il potere, la responsabilità), non si è accorto neppure della loro esistenza. «Noi» siamo i privilegiati, quelli che lavorano nei giornali, quelli che qualche libro lo hanno letto, noi siamo quelli che stanno nelle università, quelli che si sono fatti eleggere al Comune, alla Regione, alla Camera.

«Noi» siamo quelli che, in un modo o nell’altro, esercitano un potere. «Noi» siamo quelli - democratici e di sinistra, illuminati e progressisti - che dopo quel 14 aprile che somiglia sempre più ad un modernissimo e tragico 18 aprile, oggi hanno scoperto l’est e l’ovest del Nord. Con la meraviglia dell’entomologo che osserva un insetto mai visto prima, abbiamo ammesso che sì, quel pezzo d’Italia non lo conoscevamo e ne ignoravamo il malessere. «Noi» siamo quelli - nei giornali, democratici, illuminati e pure di sinistra, nei partiti che vogliono cambiare l’Italia e nei luoghi che contano - che oggi dovrebbero umilmente prendere atto del proprio fallimento. Perché sappiamo poco di un altro malessere, quello che cova nelle viscere profonde del Sud. Sappiamo poco di «loro». «Loro» (Anna, Antonio, Elisa e gli altri) sono i ragazzi e le ragazze della scuola «Salvo D’Acquisto» di Miano, che una brava giornalista, Daniela De Crescenzo ci ha raccontato su un grande giornale del Sud, Il Mattino. Daniela ha letto i temi nei quali questi ragazzi parlano della Camorra. Quella «mappaglia di persone che vedo nel mio quartiere, che spacciano ma a noi ci proteggono», come scrive la tredicenne Anna.

Miano, periferia nord di Napoli, quartiere stretto tra Scampia e Secondigliano, qui vivono 30mila persone, il 30% sono disoccupati, i giovani non possono neppure permettersi il lusso di sperare nel futuro perché il 50% di loro è senza lavoro. La gente si «arrangia», tanti mangiano il «pane» della camorra. «Molti ragazzi cominciano a spacciare a tredici anni - scrive Alberto - e diventano importanti». «Penso che senza la camorra non potremmo stare perché ci protegge tutti, pure il fatto che tutti pagano il pizzo non è giusto, ma chi paga resta protetto», si legge nel tema di Antonio. Pensieri di ragazzi costretti a vivere in quartieri dove manca tutto, con case brutte, palazzoni orrendi, quartieri dove l’unico Stato (con le sue leggi, la sua polizia, le sue tasse, le opportunità di lavoro, di arricchimento e di felicità che offre) è la Camorra. A Miano, come a Secondigliano e Scampia, pochi anni fa si è combattuta una guerra spietata tra clan - i Di Lauro e gli “spagnoli” - per il controllo del traffico di droga. Tutto sotto gli occhi di questi ragazzini. La Camorra l’hanno vista, osservata, spesso sono stati inebriati dalla sua aura di potenza, di ricchezza e di ascesa sociale. Un «palo» (l’ultimo gradino della complessa scala camorrista), uno che deve controllare che nella zona non entrino estranei («sbirri» o membri di altri clan) guadagna fino a 150 euro al giorno. Può comprarsi la maglietta «Dolce e Gabbana», svettare sul motorino, farsi una dose di coca. «Quando scendo vedo i bambini, perché sono i bambini che spacciano, in grandi macchine. Uno qualsiasi che lavora non se le può permettere», si legge in un tema. Già, a Miano - come a Scampia, Secondigliano e negli altri quartieri-stato della camorra -, chi ha la fortuna di avere un lavoro è uno «qualsiasi». Questo vedono i bambini in un quartiere grande come una cittadina di quel Nord (operoso, spina dorsale del Paese, realtà dalla quale ripartire, e vai con tutte le dotte, allarmate e ripetitive analisi di questi giorni) che non conoscevamo. Ma sappiamo cosa è diventata Napoli, eterna e tragica metafora del Sud? No, non lo sappiamo, o facciamo finta di non saperlo, perché ci siamo aggrappati alle nostre certezze e non abbiamo visto, non abbiamo ascoltato, non ci siamo allarmati di fronte alle cose che esperti, scrittori, magistrati ci dicevano. Nell’aera metropolitana che si muove attorno alla città vivono 4 milioni di abitanti (un terzo del Belgio, dieci volte più del Lussemburgo, poco meno della Nuova Zelanda), il 30% ha precedenti di polizia, la camorra conta 78 clan organizzati con 3mila affiliati, ma il numero di quanti vivono dell’«indotto» criminale è ben più alto. Franco Roberti, il procuratore distrettuale antimafia di Napoli, da tempo ci avverte che la camorra non è affatto una «emergenza», «ma è parte integrante, anche con le sue faide più sanguinose e con i suoi delitti più efferati, della storia di Napoli ed è elemento costitutivo della societa` dell’area metropolitana sviluppatasi intorno» alla città. Una camorra forte anche economicamente. In Campania il rapporto tra fatturato criminale e Pil è pari al 32% (in Sicilia siamo al 39 e in Calabria addirittura al 120%). Questa è l’Italia dove vivono Anna, Alberto, Elisa e i ragazzi di Miano. «La sera - scrive Annalisa - vedo gente che si scambiano dosi sotto al mio balcone, mia madre mi chiede di andare a buttare la spazzatura e mi trovo una montagna più alta di me». Non abbiamo visto, non abbiamo ascoltato, non abbiamo capito, chi poteva (la politica, democratica, progressista e illuminata) non è riuscita ad offrire un «pizzico» di felicità ai ragazzi di Miano. E il futuro non promette nulla di buono. È il Nord la nuova frontiera da conquistare. Napoli, il Sud, Annalisa e i ragazzi di Miano sono stati cancellati dall’agenda della politica.

Pubblicato il: 22.04.08
Modificato il: 22.04.08 alle ore 9.38   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #23 inserito:: Aprile 23, 2008, 11:10:40 am »

Scelte politiche

Pasticci e paradossi


di Massimo Franco


Qualcuno ha parlato di una specie di Consiglio dei ministri per procura. Un governo di centrosinistra che decide un provvedimento voluto da Silvio Berlusconi; e per di più con il dubbio corposo che incontrerà l’ostilità dell’Unione europea. Ma non è la sola anomalia che spunta intorno alla tormentata vicenda di Alitalia. L’impressione è che Romano Prodi non volesse il commissariamento della compagnia di bandiera come ultimo lascito del proprio governo; e che Berlusconi non intendesse iniziare il terzo mandato con Alitalia sull’orlo del fallimento.

Il prestito di 300 milioni di euro concesso ieri sera da Palazzo Chigi fotografa questo pasticcio un po’ paradossale. Assicura alla società ossigeno per un paio di mesi. E concilia questi due interessi convergenti, confidando di non entrare in rotta di collisione con le direttive europee: speranza tutta da verificare. Ma per il modo in cui la polemica fra nuova e vecchia maggioranza ristagna, si intuisce che gli scenari peggiori non sono scongiurati. Ed ognuno si prepara ad attribuirne la responsabilità all’avversario.

La gravità della situazione è segnalata dalla spiegazione del prestito- ponte: «motivi di ordine pubblico». E il fronte berlusconiano proietta anche sul dopo voto le accuse preelettorali sulla trattativa con Air France. Quanto si sta delineando, insiste, è la conseguenza di una scelta compiuta maldestramente da Prodi e dal ministro dell’Economia, Tommaso Padoa- Schioppa. Il dettaglio singolare è che l’estrema sinistra sembra dare in qualche misura ragione al fronte berlusconiano, additando Alitalia come una conferma del fallimento della politica economica del Pd. Lo stesso ministro uscente Antonio Di Pietro critica il prestito deciso dai propri alleati.

Prodi e Walter Veltroni replicano sottolineando che della cordata alternativa evocata da Berlusconi non c’è ancora traccia. Elencano le pressioni politiche che a loro avviso hanno spaventato i francesi fino a provocare l’interruzione delle trattative. Fanno notare che in nome dell’«italianità» si è detto no ad Air France, ma stranamente non si esclude un’intesa con la compagnia russa Aeroflot. In realtà, tutti sono consapevoli che si tratta di scenari aleatori.

Perché si mettano insieme dei nuovi compratori, si calcola che occorreranno mesi. Per questo, gli uomini di Berlusconi hanno invocato «risorse congrue». E «noi abbiamo aderito alla richiesta di Berlusconi», ha dichiarato ieri sera Prodi: forse anche perché il Pd non voleva trovarsi l’Alitalia commissariata mentre si vota per il sindaco di Roma. Ma non c’è soltanto il fantasma dei licenziamenti e di una sospensione dei voli: bisogna tenere conto dei vincoli di Bruxelles. Proprio ieri il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, ha annunciato che il commissario italiano destinato a succedere a Franco Frattini avrà la delega dei trasporti.

La decisione è stata presa senza informare il governo italiano: una procedura che ha irritato Prodi, il quale forse ha indovinato un gioco di sponda col centrodestra italiano. In teoria, infatti, l’incarico a un esponente vicino al Cavaliere potrebbe aiutare palazzo Chigi a tentare un salvataggio di Alitalia assecondato dalle istituzioni europee. Il fallimento viene scansato come un epilogo estremo e remoto. Ma in realtà, ci si prepara comunque a un ridimensionamento secco. Tutti ammettono che, se per miracolo si materializzerà un compratore, tre o quattro mila persone potrebbero essere licenziate: sempre che non si arrivi all’amministrazione controllata o peggio. È probabile che fino al ballottaggio di domenica e lunedì per il Campidoglio, la schermaglia non farà passi avanti. C’è solo da sperare che dopo, il ritorno alla realtà non sia troppo traumatico.

23 aprile 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #24 inserito:: Aprile 24, 2008, 09:01:18 am »

24/4/2008
 
I prodiani non esistono
 
ROMANO PRODI

 
Caro direttore,
anche se non mi sfuggono le regole che governano il mercato dei media, per cui bisogna sempre andare alla ricerca di notizie forti, di risse e di litigi perché altrimenti le vendite calano (poi, stranamente le vendite calano lo stesso, ma questo è un altro discorso…), rilevo che il «clamoroso» articolo di Geremicca sulle tensioni tra i «prodiani» e il sindaco di Bologna pubblicato ieri dal suo giornale torna su notizie più volte smentite.

Perché sia definitivamente chiaro, ribadisco ancora una volta - e spero sia l’ultima - che l’ipotesi di candidarmi a primo cittadino della mia città è del tutto lontana dai miei progetti e dai miei pensieri.

Così come mi fa piacere confermare ancora in questa occasione la mia stima per Sergio Cofferati, con il quale, a dispetto di quanti vanno sostenendo il contrario, continuo ad intrattenere rapporti improntati alla massima lealtà ed amicizia.

Colgo inoltre l’opportunità di questa lettera per una breve dissertazione.

Non sono mai intervenuto, in tutti questi anni, per correggere un vezzo giornalistico che, purtroppo, ha dilagato: quello di ricorrere, in mancanza di mie prese di posizione o di mie indicazioni su determinati argomenti, alla categoria dei cosiddetti «prodiani». Ebbene credo che sia giunto il momento, viste anche le mie recenti decisioni, che sia io oggi a dare una notizia agli amici giornalisti: i prodiani non esistono! E non esistono per il semplice motivo che io non ho voluto, quando in tanti mi esortavano a farlo, fondare un mio partito, così come non ho mai voluto che in mio nome sorgessero correnti.

Ho sempre chiesto a chi lavorava con me, ai miei più stretti collaboratori lealtà e coerenza su un solo progetto: quello del Partito Democratico. Credo di esprimere un sentimento comune a tutti quelli che, a seconda dei momenti e delle stagioni, si sono sentiti etichettare come prodiani, chiedendovi: per favore, chiamateci semplicemente «democratici».
 
da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #25 inserito:: Aprile 24, 2008, 11:57:18 pm »

La cordata di don Salvatore

Rinaldo Gianola


A volte ritornano. Anzi, per la verità, non se ne sono mai andati. Nella stagione del «nuovo» centrodestra non vorremmo apparire pregiudizialmente anti-berlusconiani, ma poi sono i fatti, purtroppo, che ci tirano per la giacca.

Chi è il primo imprenditore a spendersi per la cordata italiana di Berlusconi per la privatizzazione di Alitalia? Salvatore Ligresti. Si poteva immaginare, e illudersi, che l’appello di Berlusconi stimolasse la mobilitazione immediata di Montezemolo, Della Valle, Benetton, Marchionne, Tronchetti Provera o almeno di Abete.

E invece niente: si parte da Ligresti. Altri, forse, si aggregheranno. Ma è il costruttore di Paternò a tracciare il solco. Non parla mai, ma quando lo fa lascia il segno.

Ora, con la crisi drammatica in cui versa l’Alitalia, non bisognerebbe guardare troppo per il sottile. Chi ci mette i soldi è benvenuto.
E poi Berlusconi deve avere un certo feeling con Don Salvatore, la cui leggenda di costruttore iniziò con la ristrutturazione di un sopralzo nella popolare Porta Genova, a Milano, e oggi arriva fino ai grattacieli «storti» di Libeskind che non piacciono allo statista di Arcore. D’altra parte se per il futuro premier e per l’amico Dell’Utri lo stalliere mafioso Mangano era «un eroe», la presenza nella cordata tricolore di Ligresti, visto il suo passato con la giustizia, è un fattore di garanzia.

Con Ligresti non siamo alla Terza Repubblica, come si illude qualche commentatore, siamo invece alla restaurazione della Prima Repubblica, alla commistione tra politica e affari come filosofia imprenditoriale e come azione di governo. Il costruttore, che vuole dare «una mano ad Alitalia, per il Paese, la compagnia, i lavoratori» forse pensando che un favore concesso oggi al premier produrrà grandi vantaggi domani quando ci sarà da costruire una città per l’Expo 2015, è da oltre trent’anni uno dei padroni di Milano.

Il suo potere non venne scalfito nemmeno negli anni di Mani Pulite, nemmeno quando il 16 luglio 1992 finì a San Vittore e ne uscì solo dopo mesi di carcere e soprattutto dopo aver firmato una deposizione in cui svelava i rapporti con Bettino Craxi, l’utilizzo delle mazzette per controllare appalti e licenze edilizie. Condannato a due anni e quattro mesi di reclusione con affidamento ai servizi sociali, poi coimputato con l’ex finanziere Sergio Cusani e lo stesso Craxi nell’inchiesta Eni-Sai, quindi scampato con patteggiamenti vari nelle inchieste per tangenti a Pieve Emanuele, per i lavori al Tribunale di Milano, per lo scandalo della vendita del patrimonio immobiliare Ipab. Sono tutti episodi che avrebbero abbattuto un mulo, ma non Ligresti. Che anzi, dopo Tangentopoli, riuscì a risollevare il suo gruppo dalle difficoltà in cui era precipitato grazie a un forte sostegno di Mediobanca, rafforzando la sua posizione nelle assicurazioni e nella finanza. D’altra parte il costruttore non è il tipo da arrendersi davanti alle inevitabili sorprese e alle disgrazie della vita: nel 1981 la moglie Antonietta Susini fu vittima di un rapimento terminato con il suo rilascio, dopo il pagamento di un riscatto.

Dei presunti rapitori, indicati all’epoca dei fatti come mafiosi, due furono assassinati, un terzo scomparve nel nulla. Con questo curriculum, arricchito da aristocratiche frequentazioni (la famiglia nera dei La Russa, dall’avvocato Antonino fino al figlio Ignazio risciacquato nelle acque di Fiuggi e oggi destinato al ministero della Difesa, e quei maghi della Borsa come Michelangelo Virgillito e Raffele Ursini da cui “acquistò” il primo pacco di azioni Sai), era naturale che fosse accolto con tutti gli onori tra i padroni del Corriere della Sera. Ligresti è stato ed è un personaggio di primissimo piano del potere: capace un tempo di stringere alleanze con Pirelli, De Benedetti, Cuccia e oggi di posizionarsi nei salotti dove si prendono le decisioni che contano. Certo, nell’assenza generale degli imprenditori tutti pronti a giurare fedeltà ad Alitalia ma nessuno disposto a scendere davvero in pista, la novità di Ligresti non va sottovalutata.

È il segno che Berlusconi sta chiamando a raccolta gli amici fidati ai quali è pronto a chiedere oggi un sacrificio, un impegno, che sarà certo ricompensato in futuro. Fino a ora nel pasticcio della cordata berlusconiana conta molto di più l’outing di Ligresti che non l’opera del cosiddetto superconsultente, e ipervalutato, Bruno Ermolli.

Lo sforzo di Berlusconi, inoltre, non avrebbe solo la finalità di mettere una pezza al dramma Alitalia, ma vorrebbe usare questa emergenza per dimostrare la sua vocazione di una politica aperta, capace di coinvolgere tutte le forze possibili per risolvere il caso. Tanto per capirci, nell’entourage berlusconiano nessuno si sorprenderebbe se il capo chiedesse (o magari lo ha già fatto) un impegno anche a Carlo De Benedetti per Alitalia, anche se per l’Ingegnere potrebbe ripetersi il rischio di trovarsi l’opposizione della sua adorata Repubblica, come avvenne nel 2005 quando Berlusconi era pronto a investire nel fondo M&C lanciato dallo stesso De Benedetti ma poi non se ne fece nulla per la ribellione delle redazioni dei suoi giornali.

Ma le cose, in politica come negli affari, cambiano velocemente. De Benedetti, nei prossimi anni, punterà sull’energia (proprio ieri è arrivato il via libera al suo rigassificatore di Gioia Tauro) e la sanità, settori dove la politica conta molto. Alla domanda di una valutazione sull’ipotesi di una cordata italiana, ieri l’Ingegnere ha risposto con un «no comment». Ma l’asso da giocare può essere solo quello di una grande banca.

Se Berlusconi, a fronte di un piano industriale credibile che certo non può fare Ermolli e di uno sbocco internazionale, riuscisse a convincere Intesa SanPaolo o Unicredit a entrare in azione, allora il quadro potrebbe cambiare. Solo con il volenteroso Ligresti il cavaliere non andrà lontano. Anche per oggi non si vola.

Pubblicato il: 24.04.08
Modificato il: 24.04.08 alle ore 13.09   
© l'Unità.
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #26 inserito:: Aprile 25, 2008, 12:00:29 am »

Poltrone

La scelta del neo senatore: continuerà a lavorare per costruire il nuovo Dna della politica del lavoro

Offerta a Ichino. Ma lui resta nel Pd

Letta propone un ministero. Il giuslavorista si consulta con Veltroni


MILANO — Già qualche giorno fa si era parlato di un'offerta di un ministero da parte di Silvio Berlusconi a Pietro Ichino, giuslavorista neo eletto nelle file del Partito democratico. E il professore aveva cortesemente declinato l'invito. Ieri la richiesta è arrivata ufficialmente attraverso una telefonata di Gianni Letta, indiscrezione ripresa da La7. Ichino ha preso tempo ma, dopo essersi consultato con Walter Veltroni, ha deciso di continuare a lavorare per il Pd, sia pure con una logica del tutto diversa da quella della vecchia sinistra.

Il tentativo di Berlusconi di avere un membro dell'opposizione nel governo evoca il caso Kouchner, l'esponente socialista nominato ministro degli Esteri dal presidente francese Sarkozy. Ma già qualche giorno fa il docente di Diritto del Lavoro aveva spiegato, sul sito www.pietroichino.it: «Un mio coinvolgimento nel governo Berlusconi non è pensabile, per le profonde differenze che dividono il suo programma da quello che ho contribuito a fondare e nelle cui liste sono stato eletto». Detto questo, però, Ichino aggiungeva: «Questo non toglie che tra la maggioranza e il Pd possano verificarsi delle convergenze su singole materie di politica del lavoro».

D'accordo con Walter Veltroni, Ichino aveva spiegato di essere «pronto a cooperare con la maggioranza, nel rispetto dei rispettivi ruoli per il progresso del nostro Paese».

Ieri Letta, incaricato di tessere i rapporti tra gli alleati e con l'opposizione, ha ribadito la richiesta del Cavaliere, lasciando a Ichino «tutto il tempo necessario per decidere». Il professore si è detto lusingato dell'offerta e ha chiesto qualche giorno prima di dare una risposta definitiva. Poi si è consultato con il leader del Pd Walter Veltroni e ha deciso di continuare la sua strada nel partito del centrosinistra. Agli amici ha anticipato che proseguirà nell'impegno a costruire il Dna della politica del lavoro del nuovo partito su basi profondamente diverse rispetto a quelle della vecchia sinistra.

Quella sinistra che non lo ha mai molto amato a causa del suo sostegno alla legge Biagi. Una legge sulla quale, ha spiegato, c'è stato un «fenomeno di faziosità bipartisan. Ne hanno fatto un simbolo a destra e a sinistra, come se quella legge avesse segnato una svolta epocale. Che invece non c'è stata affatto».

Polemiche aveva suscitato anche la sua richiesta di allontanare i dipendenti statali «fannulloni». A causa delle sue battaglie per la riforma del mercato del lavoro, il senatore del Pd ha subito anche minacce da parte delle Br.

Alessandro Trocino
24 aprile 2008

da corriere.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #27 inserito:: Aprile 25, 2008, 12:03:19 pm »


Una lettera a Veltroni...



On. Veltroni,

mi chiamo Walter come Lei e sono un elettore di centro destra. sono stato anche un amministratore comunale e provinciale nella mia città Novara. Walter come Lei saprà dervia dalla radice tedesca Walt (potente). Questo nome era assegnato dai padri per buon augurare il futuro ai propri figli. Lei ha avuto la potenza di spazzare via la sinistra antagonista che ha fatto per ben due volte cadere Prodi. Non é sttao mastella e tutti noi lo sappiamo bene, ma Lei ha avuto un merito che le riconosco: racchiudere l'anima degli italiani in 4 forze poltiche, lasciando sull'uscio tutti gli altri. Bene, se vorrà incere le prossime elezioni dovrà scendere dagli stereotipi della sinistra e tornare tra la gente del nord. sa perché la lega ha avuto un sacco di voti? perché la lega é l'unico partito popolare e populista rimasto.

Neanche il berlusca ha potuto tanto ed infatti, ha perso 800.000 voti. Qui da me tuti sapevano che la Lega avrebbe fatot il pieno. Primo perchè il berlusca sta sulle balle a tanti, secondo perchè i lavoratori, ed io sono uno di quelli, erano stufi di prendere le tranvate sulle gengive da parte di prodi & co. Lei avrebbe dovuto dire: faremo una patrimoniale sulle banche e faremo pagare alla banche i sacrifici dei lavoratori! Invece, Lei non l'ha detto e i settentrionali hanno votato lega, perché in questo fottuto paese il fondo lo si fa sempre ai più deboli, mai ai più forti. Lei avrebbe dovuto dire: I clandestini li mandiamo a casa, invece non l'ha detto, la Lega si! Lo sa che un clandestino si rivolge alle asl autocertifica che é disoccupato e non paga nessuna prestazione? I poveri cristi invece, si rivolgono alle asl, non hanno detrazioni e pagano tutto! bella giustizia sociale vero?

Lei avrebbe dovuto dire cose che non ha detto e si é fatto scavalcare a sinistra dalla lega! Dirà che farnetico; forse. Ho molti amici nel PD per i miei anni di militanza politica. Quest'autunno fui invitato ad un loro pre congresso e fui lasciato libero di esprimere la mia oipinione. Prefigurai, come Cassandra, la vostra sconfitta, e le sconfitte dei prossimi anni se non cambierete.

Sapete come si fa a vincere le elezioni? assumete un elettore di centro destra, uno come me, una persona semplice, del popolo e fatevi insegnare a parlare alla pancia dle paese, e poi non vi leccherete più le ferite provocate dal berlusca. Prodi ha fatto solo danni per due anni e pretendevate di farlo dimenticare mettendolo in soffitta? Sbagliato! Lo ricordavamo benissimo e lo abbiamo ricordato anche nelle urne. Non fate un PD del nord fareste l'ennesima cazzata! Io ho conosciuto personalmente Bossi, quando stava bene. E' un animale politico attento e furbo, sa quando parlare alla pancia e quando alla testa. Lei é un uomo capece ed intellegente l'ammiro sinceramente, ma é ancora troppo infarcito di buonismo di sinistra e questo paese ha bisogno di essere governato prendendo a calci nel culo un pò d'italiani che ne hanno approfittato. Impari a parlare il linguaggio della gente, come faceva peppone e tornerà a guadagnare voti, altrimenti assuma un elettore di centro destra e le faremo, gratis, un corso accelerato.

Spero di rivederla a Novara come durante la sua campagna elettorale, meno buono ma con le idee più chiare.

Arrivederci
Valter

Valter - 21-04-2008 - 20:53:47


da www.veltronipresidente.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #28 inserito:: Aprile 25, 2008, 12:15:03 pm »

25/4/2008 (6:44)

Grillo e la liberazione, l'Italia si spacca
 
Beppe Grillo in piazza San Carlo a Torino

L'appello di Napolitano: la data è solonne, manteniamo sempre viva la memoria

FLAVIA AMABILE & ALESSANDRA PIERACCI


ROMA
La campagna elettorale e l’anti-politica saranno le protagoniste di questo 25 aprile. A Milano per la prima volta si scenderà in piazza senza un sindaco fra la folla e a Roma si discute della provocazione di Luca Romagnoli della Fiamma Tricolore che chiede la cancellazione della Festa facendo insorgere il Pd e la sinistra. E così appare anche più forte il richiamo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ricorda che il 25 aprile è «una data solenne» e chiede agli italiani di mantenere «costantemente viva la memoria» degli ideali di quell’epoca e soprattutto ai giovani di «contrastare i nuovi autoritarismi e integralismi, che rappresentano la negazione dei principi e dei valori che ispirarono la lotta per la Liberazione».

Ma intanto in tutt’Italia i riflettori mediatici saranno puntati anche su una Liberazione diversa, quella di Grillo, che sarà a Torino oggi pomeriggio. Il comico ha mobilitato 400 piazze e annuncia centomila persone per il V2-Day, una manifestazione per «una libera informazione in un libero Stato». «Il 25 aprile - spiega il comico - ci siamo liberati dal nazifascismo. Sessantatré anni dopo possiamo liberarci dal fascismo dell’informazione».

Grillo chiede ai suoi di firmare a favore di tre referendum: «per l’abolizione dell'ordine dei giornalisti, l’abolizione dei finanziamenti pubblici di un miliardo di euro all'anno all'editoria, l’abolizione della legge Gasparri e del duopolio Partiti-Mediaset», annuncia dal suo sito. A firmare accanto a tanti altri, ci sarà anche Antonio Di Pietro, ministro uscente e leader dell’Idv, sempre attento a presidiare le piazze dell’anti-politica che lo hanno premiato alle elezioni. In realtà anche tra i fans di Grillo non mancano le polemiche. A Genova gli «aggrillati» si sono divisi in due piazze con un seguito di accuse e querele e due manifestazioni distinte.

Il V2-Day contro l’informazione è stato accolto con un attacco da parte di alcuni giornali. «Il Giornale» è andato a scavare nel passato del comico, il settimanale «Panorama» ha fatto un calcolo scoprendo che da quando ha aperto il blog le sue entrate sono raddoppiate, «Il Riformista» lo accusa di «minacce in stile Br» ai giornalisti e «Repubblica» parla dell’«ennesima provocazione» nei confronti della Resistenza e che «ovunque si fronteggeranno le folle chiamate a raccolta dal comico genovese con quelle che intendono ricordare la Liberazione».

Dal suo blog Grillo risponde, al suo solito: «tutte str...dettate dalla paura e dagli interessi di bottega» perché «il V2-Day è la continuazione della Liberazione e non vuole fronteggiare proprio nessuno che si ispiri a quella data. I partigiani, gli operai, gli uomini liberi del 25 aprile sono nostri fratelli. Il 25 aprile non è di proprietà degli intellettuali di sinistra, una definizione corrispondente a un vuoto pneumatico».

Silvio Berlusconi ancora una volta non sarà in piazza oggi. «Lavoro, lavoro, lavoro, considerandomi in debito con gli italiani che hanno deciso di liberarci dalle dittature che incombevano sul nostro Paese». Non ci sarà nemmeno Fausto Bertinotti per la prima volta perché aveva annunciato di voler prendere qualche giorno di ferie. Ci sarà invece Gianni Alemanno, che andrà a Palidoro vicino Roma, per ricordare Salvo D’Acquisto il brigadiere dei carabinieri ucciso lì dai nazisti.

Il segretario Udc Lorenzo Cesa chiede «una riflessione» sul 25 aprile «che vada oltre le celebrazioni formali: la destra estremista e antisemita rappresenta, oggi come allora, un elemento di grave pericolo per la vita delle istituzioni» ma il riferimento al ballottaggio a Roma per l’elezione del sindaco è troppo evidente per non venire sommerso di critiche da parte di tutti i politici da Fi a An con Teodoro Buontempo che chiede: «Dica apertamente se vuole votare a sinistra».

da lastampa.it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #29 inserito:: Aprile 26, 2008, 09:41:44 am »

La sindrome di Enea


Silvano Andriani


Dopo la sconfitta elettorale del 2001, sulle colonne di questo giornale, l’avevo chiamata «sindrome di Enea». Si tratta della tendenza della sinistra italiana a ritenere di dovere andare al governo per salvare il Paese, mettersi sulle spalle il vecchio Anchise per portarlo fuori dalla città in fiamme. Salvo ad accorgersi, dopo, di aver preso sulle spalle non il proprio padre, ma il proprio avversario politico. Era capitato negli anni 70, si era ripetuto negli anni 90 ed è successo ancora.

Anche questa volta, quando ci chiederanno cosa ha fatto di significativo il governo Prodi, diremo che ha risanato il bilancio pubblico evitando al paese la catastrofe finanziaria verso la quale era stata avviata. So bene che Togliatti era un grande estimatore di Quintino Sella, ma mi appare innaturale una sinistra che sembra avere come principale vocazione quella di essere l’erede della destra storica.

Veltroni ha cercato di cambiare aria: ha parlato non di catastrofi, ma addirittura di un possibile miracolo italiano.

Se qualcuno pensava che in due mesi di campagna elettorale si potesse annullare il doppio svantaggio derivante dalla straordinaria capacità del governo uscente di perdere consenso e da un deficit culturale accumulato nel giro di molti anni, si faceva delle illusioni. Si è riuscito semplicemente a cambiare la conformazione del campo di gioco nel quale si svolgerà il confronto politico e non mi pare poco.

Quanto al deficit culturale, in esso vi è una componente tipicamente italiana che proviene dalla storia della sinistra italiana che comporta una scarsa dimestichezza col pensiero riformista del Novecento sia con quello di provenienza socialdemocratica, dei Myrdall e dei Tinberghen, sia con quello liberaldemocratico dei Keynes e dei Beveridge e che porta anche a non distinguere bene, talvolta, nel grande mare della tradizione liberale tra liberaldemocratici e liberisti. La seconda componente riguarda invece la sinistra europea.

È evidente che stiamo assistendo alla crisi della cultura della destra neo-liberista che ha dominato negli ultimi trenta anni e del modello di sviluppo nato dalle politiche da essa adottate. È fallita l’idea di potere governare il mondo imponendo un unico modello di democrazia. L’aumento delle disuguaglianze ed il conseguente irrigidirsi delle strutture della società vanifica la promessa di rendere attraverso il mercato le persone in grado di realizzare le proprie capacità e di essere valutati secondo i propri meriti. Le crisi finanziarie stanno sgretolando il mito dei mercati come meccanismi razionali e capaci di autoregolarsi ed i grandi scandali societari il mito della capacità dei mercati di controllare le imprese.

Un sondaggio Financial Times/Harris Poll

del Luglio scorso mostra che il consenso al processo di globalizzazione nei Paesi avanzati dell’Europa è diventato nettamente minoritario, fanno eccezione solo i Paesi nordici che hanno mantenuto un assetto di tipo socialdemocratico, mentre un sondaggio più recente ci dice che negli Usa il 58% degli intervistati valuta negativamente l’attuale processo di globalizzazione e solo il 28% lo valuta positivamente.

In questi frangenti ci si aspetterebbe che la sinistra stesse vincendo alla grande, invece in Europa perde quasi dappertutto e, se si votasse ora, perderebbe quasi certamente anche in Inghilterra. Di fronte ai fallimenti del neo-liberismo ed alla crescita di insicurezza nelle condizioni di lavoro, di vita e di ordine pubblico che la globalizzazione provoca per la maggioranza della popolazione la sinistra risulta spiazzata dal prevalere al suo interno di una cultura, anch'essa di origine anglosassone, la cosiddetta terza via, sostanzialmente acritica, se non apologetica. Quando Tony Blair ha risposto a chi denunciava la crescita delle disuguaglianze e della povertà, per le quali l’Inghilterra è ora ai massimi livelli in Europa, che riducendo i guadagni di Beckam non si risolvono i problemi del Paese, ha dato prova non solo di un certo cinismo, ma anche di incapacità a comprendere le contraddizioni ed i guasti provocati dal tipo di sviluppo in atto. Barak Obama, accusando Bill Clinton di essere stato uno degli artefici della finanziarizzazione dei sistemi economici, ha detto semplicemente ciò che altri, come il Nobel J. Stiglitz, aveva già affermato dissociandosi a suo tempo dal governo di Clinton.

Giulio Tremonti nel suo recente libro svolge una critica radicale dell'attuale modello di sviluppo. E, nel tentativo disperato di attribuirne la responsabilità alla cultura di sinistra, compie una vera e propria acrobazia intellettuale inventando perfino lo slogan «dal comunismo al consumismo». Nel libro mancano parole chiave: Reagan, Thatcher, Friedman, neo-liberismo, neo-con, tutte le parole che attestano l’innegabile matrice di destra del modello di sviluppo attuale. Il mito del mercato autoregolato e l’ideologia individualista sono tipici della cultura della destra. Il travisamento compiuto da Tremonti è tuttavia facilitato dalla subalternità che la cultura della sinistra ha dimostrato finora. Le sue conclusioni mi sembrano assai discutibili, ma egli ha ragione a vantarsi di essere stato negli ultimi anni l’unico personaggio politico italiano a svolgere una critica dell’attuale processo di globalizzazione. Qualcuno, con altro taglio, lo ha fatto anche a sinistra, ma si tratta in genere di intellettuali che non fanno più parte dell’establishment politico e sono rimasti inascoltati.

Il Partito Democratico ha inevitabilmente sinora concentrato l’attenzione sulla conformazione del sistema politico italiano e su temi di più facile comunicazione nella campagna elettorale. Da ora dovrebbe affrontare i temi più generali che sono di fronte all’impegno di rinnovare la cultura e le politiche riformiste, a cominciare dall’impegno a superare il deprimente provincialismo che ha portato ad escludere completamente la dimensione internazionale dal dibattito politico. Con i tempi che corrono il riformismo in un Paese solo mi sembra un’idea peregrina.

La rivoluzione in atto nel sistema politico italiano sta portando all’emergere di una nuova generazione di dirigenti della sinistra. Finalmente. Ma le nuove generazioni se vogliono davvero candidarsi a svolgere un ruolo politico devono farlo non semplicemente attraverso l’anagrafe, ma producendo un nuovo pensiero e, sopratutto dopo una sconfitta elettorale, una critica esplicita del passato. Mi pare sia giunto il tempo di alzare la celata e mostrare il proprio viso.

Pubblicato il: 25.04.08
Modificato il: 25.04.08 alle ore 8.10   
© l'Unità.
Registrato
Pagine: 1 [2] 3 4 ... 16
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!