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« Risposta #75 inserito:: Maggio 22, 2008, 11:53:23 pm » |
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Sceneggiate napoletane
Enrico Fierro
Il miracolo di San Silvio non c’è, e del resto nessuno - propaganda politica a parte - a Napoli se l’aspettava. Il programma per far uscire la città dall’eterna emergenza rifiuti è basato su una filosofia da lacrime e sangue. Insomma, la cartolina della «finestra a Marechiaro» - tanto cara al Berlusconi di qualche anno fa - è cancellata, al suo posto un futuro pieno di incognite e carico solo di amare certezze: discariche e inceneritori. Perché, volato a Napoli con l’intero governo, Berlusconi ha dovuto prendere atto di una realtà gravissima che ha già travalicato i limiti della decenza civile.
Accantonato battute e promesse, messo da parte il cantore Apicella, Berlusconi ha capito che la partita che si gioca sui rifiuti è difficilissima. Ma con quali carte, il presidente del Consiglio intende giocarla? Alcune delle decisioni contenute nei 17 articoli del disegno di legge, si ispirano ai vari decreti varati dal governo Prodi, altre sono nuove, altre ancora sono discutibili. Una decisione, la più importante, raccoglie consensi bipartisan e apprezzamenti unanimi: la nomina di Guido Bertolaso a sottosegretario con ampie deleghe e poteri. Il Capo della Protezione civile si è già occupato di rifiuti a Napoli dal 5 maggio al 7 luglio scorso. La sua fu una esperienza infausta: aveva un piano per la riapertura di alcune discariche ma fu bloccato da una raffica di veti, anche questi bipartisan, litigò col ministro Pecoraro Scanio e fu scarsamente sostenuto dal governo che lo aveva nominato. Questa volta, assicurano sia al governo che all’opposizione, Bertolaso farà bene. Il suo compito è da far tremare le vene ai polsi: entro 30 mesi, ha detto Berlusconi, deve assicurare la fuoriuscita dall’emergenza, assicurare l’apertura di almeno otto discariche e l’apertura di quattro termovalorizzatori. Quella sulle discariche è l’aspetto più spinoso. Berlusconi non ha indicato dove saranno costruite, i luoghi sono top-secret e i siti verranno sorvegliati dall’esercito. Siamo di fronte ad una massiccia militarizzazione del territorio, scelta non apprezzata dall’intero Consiglio dei ministri e contestata dallo stesso ministro della Difesa Ignazio La Russa. Il Pd tace. Come si farà a tenere segreta la localizzazione delle aree è un mistero. Cosa penserà la gente sui territori quando vedrà muoversi mezzi pesanti, tecnici, camion che trasportano materiali e movimentano terra? Le indiscrezioni raccolte parlano dell’apertura di una discarica per ognuna delle cinque province della regione, più altre tre per arrivare a contenere almeno 10 milioni di tonnellate di rifiuti. Non è ancora chiaro se la discarica di Chiaiano (area nord di Napoli) aprirà. È destinata ad accogliere 700mila tonnellate e da giorni è presidiata dai cittadini del quartiere. Che non potranno più opporsi e impedire l’inizio dei lavori. Questo dice una norma annunciata nel decreto nella quale si prevede l’arresto e una condanna fino a cinque anni per chi impedisca l’ingresso nelle discariche ritenute aree di interesse strategico. Quanto questa norma sia concretamente applicabile è tutto da vedere, quanto la militarizzazione delle aree attorno ai siti riuscirà ad evitare blocchi e manifestazioni lo si capirà nei prossimi giorni.
Ma sulle discariche c’è un nodo da sciogliere, ed è enorme in un territorio ampiamente devastato dalle ecomafie ed avvelenato dalle politiche di questi anni. Cosa arriverà in quegli enormi buchi? È prevedibile che arrivi di tutto: rifiuti «tal quale», indifferenziati e non trattati, perché l’obiettivo prioritario è uscire dall’emergenza, senza eccessivi riguardi per quello che accadrà sul territorio campano negli anni a venire. E qui si entra nel vivo di un altro annuncio di Berlusconi: la trasformazione dei sette impianti di Cdr (destinati alla produzione di combustibile da rifiuti) in impianti di compostaggio. Non sappiamo quale sia il quadro dello stato attuale dei Cdr che i tecnici hanno fornito al governo, sappiamo che quegli impianti erano obsoleti già prima di entrare in funzione (basta leggere le carte e le perizie tecniche della maxi-inchiesta della procura partenopea). In questi anni sono stati supersfruttati ed hanno prodotto solo rifiuti impacchettati, 6 milioni di ecoballe che sono una emergenza nell’emergenza. Chiuderli e destinarli alla produzione di compost (fertilizzante per l’agricoltura) appare una impresa ardua e pone una domanda: negli inceneritori arriveranno rifiuti non trattati? Infine gli inceneritori: quello di Acerra, sono le stime del Commissariato, è pronto all’85% ed occorreranno almeno altri diciotto mesi perché possa entrare in funzione. Era stato progettato per bruciare ecoballe, verrà riconvertito in corso d’opera, come?, per bruciare cosa? Ma di impianti per trasformare i rifiuti in energia, è la promessa di Berlusconi, ne verranno costruiti altri, uno a Salerno (pronto fra trenta mesi) uno a Santa Maria La Fossa (già presente nel piano Impregilo-Fibe ma i cui lavori non sono mai iniziati) e uno nella città di Napoli, dove però non esiste un’area in grado di ospitare impianti del genere.
Il piano rifiuti del governo è pronto, le ambiguità sono tante, troppi i problemi non risolti, tantissimi i rischi, ma c’è un punto a favore di Berlusconi, ed è il coro di apprezzamenti ricevuti dal Pd e dalle associazioni ambientaliste. Un coro forte e chiaro, che non abbiamo visto all’azione negli anni scorsi. Tempi passati, quando ad ogni accenno di apertura di discarica vedevi all’opera sindaci ed esponenti politici di destra guidare le proteste, e così per gli inceneritori, e così per Pianura, fino a chiedersi perché per affrontare in modo civile e moderno la questione rifiuti a Napoli siano passati 14 anni ed altri ancora ne dovranno passare.
Pubblicato il: 22.05.08 Modificato il: 22.05.08 alle ore 12.02 © l'Unità.
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« Risposta #76 inserito:: Maggio 24, 2008, 01:06:12 am » |
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Minniti: «Ci sarà il collasso del sistema giudiziario»
Massimo Solani
«Una parte significativa del pacchetto sicurezza è la trasposizione testuale di quanto era contenuto nel pacchetto Amato, che avevamo costruito con un lavoro durato mesi in collaborazione con sindaci e presidenti di Regione». Ha un rimpianto Marco Minniti, ministro dell’Interno del governo ombra e vice di Giuliano Amato nei giorni del naufragio del pacchetto sicurezza proposto dal governo Prodi. «Aver bloccato quelle norme che rispondevano ad una esigenza reale del paese - spiega - ha fatto sì che toccasse alla destra affrontare quelle questioni, con l’approccio che tutti possiamo oggi valutare. La nostra incapacità ha pesato inevitabilmente anche sul risultato delle elezioni: era chiaro ed evidente che il tema della sicurezza sarebbe stato centrale in campagna elettorale».
Onorevole Minniti, quali sono le parti del nuovo pacchetto sicurezza “fotocopiate” dal testo Amato? «Tutta la partita sull’impegno contro la criminalità organizzata, ad esempio, nelle prime bozze non c’era. È stata inserita successivamente e su nostro input, sia le norme che riguardano l’abolizione del patteggiamento in appello per i reati di mafia sia quelle per lo snellimento delle pratiche di confisca dei beni mafiosi. E poi la banca dati del Dna, i nuovi poteri ai sindaci, la cooperazione con le polizie municipali, la distruzione delle merci contraffatte e le norme studiate per la tutela dei minori. Segno che avevamo fatto un buon lavoro, ma è un dato di rimpianto ulteriore. E lo dico anche ai colleghi della sinistra radicale che allora non compresero sino in fondo l’importanza di queste norme. Noi non siamo riusciti a produrre un risultato serio, pur avendo capito l’importanza della partita».
Nel testo licenziato mercoledì, però, c’è molto altro. E di differente. Specie in materia di immigrazione. «La cosa che divide in maniera netta le loro scelte dalle nostre è il modo di intendere la lotta all’immigrazione clandestina e alla criminalità. Noi la riteniamo fondata su due binari paralleli: quello della integrazione di coloro che vengono per lavoro e quello dell’allontanamento di quanti invece delinquono. Il governo Berlusconi, seguendo la strada del reato di immigrazione clandestina, ha scelto di cavalcare una bandiera politica più che uno strumento davvero efficace».
Si mette sullo stesso piano tanto gli immigrati irregolari che delinquono quanto quelli che invece lavorano e hanno una casa. Hegel direbbe che è “la notte dove tutte le vacche sono nere”. «Esattamente. Quando mi oppongo all’introduzione del reato di immigrazione clandestina non lo faccio per motivi ideologici, come dice Maroni. Anzi, io vedo molta ideologia nella loro proposta. Il mio è un no che nasce da due elementi fondamentali: quel reato, per come è proposto, è inefficiente e controproducente».
Andiamo per ordine. Perché inefficiente? «Dire che la clandestinità è un reato significa passare dall’allontanamento per via amministrativa a quello per via giudiziaria, trasferendone la competenza al sistema giudiziario italiano con i suoi tempi, e soprattutto le sue regole: che prevedono tre gradi di giudizio. Per cui nessuno potrà più essere espulso prima della sentenza definitiva espressa dalla Cassazione. Pensiamo soltanto a quanto tempo ci vorrà prima che l’allontanamento diventi effettivo, se poi lo sarà mai. Tutto questo senza parlare del rischio collasso di un sistema giudiziario già gravemente in difficoltà. Un pericolo peraltro denunciato anche dall’Associazione Nazionale Magistrati».
E perché controproducente? «Perché è uno strumento cieco, che mette insieme cose che insieme non possono stare. Mette insieme gli immigrati che sono già in Italia, che lavorano ed hanno una casa (come prescrive la Bossi-Fini), con coloro che compiono reati. Le badanti con i clandestini che fanno gli scippi o compiono gli stupri. Questo significa che se ospito a casa mia una badante irregolare posso essere perseguito per il reato di favoreggiamento, come se io fossi trafficante di uomini. Un rischio che riguarda i cittadini comuni, dobbiamo dirlo con chiarezza. Prendiamo la misura della confisca degli appartamenti affittati ai clandestini: per la norma sono sullo stesso piano la vecchietta che affitta una stanza alla colf extracomunitaria e senza permesso di soggiorno agli aguzzini che cedono un materasso a 200 euro al mese in una camera con altre venti persone. Gente che si arricchisce sfruttando la disperazione dei più deboli».
Pubblicato il: 23.05.08 Modificato il: 23.05.08 alle ore 14.57 © l'Unità.
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« Risposta #77 inserito:: Maggio 24, 2008, 10:28:29 pm » |
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24/5/2008 Speriamo che sia tombola CARLO FEDERICO GROSSO Con i provvedimenti approvati tre giorni fa la destra ha centrato la tombola. In campagna elettorale Berlusconi aveva promesso interventi rapidi e rigorosi su sicurezza e immigrazione.
Interventi legislativi molto rigorosi sono stati approvati, addirittura, nella prima riunione del Consiglio dei ministri.
Non tutte le decisioni sono state assunte con lo strumento del decreto legge come in un primo tempo si ipotizzava di fare, perché il Presidente della Repubblica ha giustamente richiesto il rispetto dei requisiti d’urgenza previsti dalla Costituzione. Il pacchetto delle misure approvate appare peraltro, nel suo complesso, coerente con gli scopi prefissi. Si tratta di un pacchetto di provvedimenti chiaramente di destra, ma da un governo di destra che cos’altro ci si doveva aspettare? Fanno il loro mestiere. Se dal loro punto di vista lo fanno bene, tanto di cappello.
Alcune delle misure approvate potrebbero essere condivise da chiunque. Chi potrebbe contestare, ad esempio, l’opportunità di punire con sanzioni adeguate chi guida ubriaco o, guidando in tale condizione, cagiona la morte di qualcuno?
O discutere la ragionevolezza di colpire chi affitta in nero la casa a clandestini, di frenare i matrimoni di convenienza degli stranieri, di stroncare l’utilizzazione dei minori nell’accattonaggio o nelle attività illegali? Chi potrebbe criticare provvedimenti che riducono le agevolazioni processuali nei confronti dei mafiosi o facilitano la confisca dei loro beni? Alcune novità erano, per altro verso, già state previste dal pacchetto Amato, come il potenziamento dei poteri dei sindaci in materia di ordinanze urgenti per motivi di sicurezza, o erano contenute in altri disegni di legge del centrosinistra, come l’istituzione della banca dati del Dna in funzione anticrimine. Spiace, soltanto, che la passata maggioranza non sia stata in grado di farli approvare dal Parlamento.
Altri provvedimenti sono invece palesemente inaccettabili. Non mi convince, ad esempio, l’introduzione del reato d’immigrazione clandestina, che rischia di trasformare assurdamente in un crimine, e per tutti, l’ingresso in Italia senza documenti regolari, o, ancora di più, la circostanza aggravante prevista per chi, clandestino, commette determinati delitti, discriminando in questo modo gli autori dei reati in ragione di una mera loro condizione personale. Mi preoccupa l’imposizione, sia pure a certe condizioni, ma senza adeguate garanzie, del prelievo del Dna in ipotesi di ricongiungimento familiare. Temo, soprattutto, che l’insieme dei provvedimenti ipotizzati fomenti ulteriormente xenofobia e razzismo, caccia alle streghe ed emarginazione, già pericolosamente esplosi in alcuni drammatici episodi d’inaccettabile violenza contro cittadini europei di etnia diversa dalla nostra.
Al di là della valutazione di ciascuno specifico provvedimento approvato dal governo, l’approccio complessivo ai temi di sicurezza e giustizia suscita, per altro verso, interrogativi e curiosità. Il governo prevede nuovi reati, aumenti di pena, pugno d’acciaio, manganelli. Se il pacchetto delle nuove misure servirà a dare sicurezza ai cittadini, perché, tuttavia, non apprezzarlo per quel che potrà garantire su tale piano? Ma qualcuno ha calcolato l’impatto complessivo delle nuove norme sul sistema di ordinaria giustizia del Paese? Qualcuno ha contato quanti poliziotti e quanti giudici saranno necessari per arrestare, processare e condannare i nuovi criminali, quanti denari e risorse serviranno per espellerli? Quante nuove prigioni dovranno essere costruite per tenere ristretti gli arrestati e i condannati?
Il problema è di fondamentale importanza. Rischia di diventare drammatico se si considera che il pacchetto di misure approvate contempla ulteriori nuovi reati rispetto a quelli già indicati, come l’ostacolo allo smaltimento di rifiuti, e che si prospettano per il futuro ulteriori innovazioni, come un maggior numero di processi per direttissima, meno sospensioni condizionali della pena, aumenti delle pene previste dal codice penale, riduzione dei benefici penitenziari. La palla, a questo punto, dovrebbe passare al ministro della Giustizia, ai dirigenti degli uffici giudiziari, ai vertici di polizia e carabinieri. Essi dovranno stabilire con quali strumenti legislativi, con quale organizzazione, con quali impegno di uomini e risorse saranno in grado di garantire se e quando le nuove norme ed i nuovi istituti troveranno applicazione. Forse, allo scopo, sarà addirittura necessario approntare l’indispensabile riforma generale del sistema giustizia italiano.
Se a causa della ristrettezza dei bilanci, dell’impaccio delle procedure, del sovraccarico del lavoro giudiziario, delle carenze degli uffici, del numero limitato dei magistrati e delle forze dell’ordine impegnate la riforma dovesse fallire, come è accaduto altre volte, ci troveremmo di fronte ad una novella legislativa esclusivamente di facciata. Nella sostanza, un’ennesima truffa per i cittadini. Ecco la ragione per la quale, dopo lo stupore e in certo senso l’ammirazione per l’attivismo governativo della prima ora, c’è grande curiosità per quanto potrà accadere concretamente nei mesi prossimi venturi. da lastampa.it
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« Risposta #78 inserito:: Maggio 24, 2008, 10:31:42 pm » |
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Nucleare revival rischioso
Vittorio Emiliani
Gli industriali hanno fama di gente pragmatica, che guarda al profitto, certo, ma anche alla realtà che sta dietro ai comizi e agli illusionismi. Stupisce pertanto questa entusiastica adesione di massa al revival berlusconiano del nucleare senza fare i conti con almeno cinque dati di fatto: 1) i tempi di realizzazione che non sono certo i cinque anni sbandierati dal ministro Scajola; 2) il reperimento dei siti sicuri - almeno cinque, per ora - in un Paese fortemente sismico. 3) I costi reali delle centrali nucleari e dell’energia che se ne ricava; 4) la disponibilità decrescente, e quindi il costo crescente, dell’uranio; 5) il problema angoscioso della eliminazione delle scorie.
I tempi: non ci vogliono meno di 8-10 anni per realizzare e rendere operativa una centrale nucleare, dopo essersi procurate, a caro prezzo, le tecnologie, e quindi la data del 2013 indicata da Claudio Scajola riguarda forse la posa della prima pietra per «un gruppo di centrali».
I siti: tutta l’Italia è o altamente sismica (Sicilia, Calabria, Umbria, Marche, Abruzzo, Campania, Friuli, l’intera dorsale collinare e montana dell’Appennino, ecc.) o mediamente sismica, cioè soggetta a terremoti, forti o fortissimi. Fanno eccezione la chiostra delle alte vette alpine dove però non mi sembra utile collocare centrali nucleari e la Sardegna che ha una formidabile vocazione turistica. Né credo che il governo Berlusconi voglia «militarizzare» il territorio nazionale anche per le centrali atomiche, imponendole con l’esercito.
I costi: è un altro elemento che molti politici trascurano e che gli industriali non possono sottovalutare. Non è un caso se in Europa soltanto la Finlandia sta costruendo una centrale atomica; se negli Stati Uniti non si realizza più un reattore dal lontano 1979 e se, nel mondo più sviluppato, unicamente Francia e Giappone puntano, per scelte ormai vecchie, sul nucleare. Difatti, secondo i dati dell’International Energy Agency, la quota mondiale di energia primaria così prodotta non arriva al 7%. La stessa Francia, decantata come nuclearista, ricava da questa fonte soltanto una parte del proprio fabbisogno energetico e ha superato i costi altissimi di impianto e di gestione mettendoli a carico, totalmente, del bilancio dello Stato che li ricomprende nei programmi militari della «force de frappe». Quanto ai costi dell’energia così prodotta, negli Usa hanno calcolato che una nuova centrale atomica, operante nel 2010, produrrebbe elettricità che costa oltre 6 cents di dollaro per chilowattora, contro i 5 cents di costo di quella da gas, i 5,34 cents dell’elettricità da carbone e i 5,05 di quella derivata dall’eolico ritenuta una fonte costosa e che però, come il solare, non ha fine.
L’uranio: le riserve planetarie di questo minerale stanno calando e si prevede che fra un quarantennio esso sarà praticamente esaurito, come l’oro, il platino e il rame. Quindi l’uranio residuo è destinato a rincarare sempre più, aggiungendo nel tempo costi a costi. Con quale competitività delle centrali così alimentate? È vero che le centrali di terza e poi quarta generazione (queste ultime prevedibili, peraltro, nel 2030) necessiteranno di meno uranio e tuttavia il problema, per un certo numero di anni ancora, rimarrà cruciale. Come ha ammesso lo stesso «guru» dell’atomo, l’americano Richard Garwin, in una conferenza tenuta l’altro ieri a Roma.
Le scorie: infine, c’è un problema che tutto il mondo, e l’Italia in particolare, non ha ancora risolto efficacemente, ed è quello dello smaltimento delle scorie. Non sappiamo tuttora dove collocare in sicurezza quelle delle centrali atomiche pionieristiche di tanti decenni fa. Berlusconi e Scajola manderanno stavolta l’esercito a Scanzano Jonico nel Materano per imporre il maxi-deposito sotterraneo di scorie nucleari rifiutato a furor di popolo nel 2003? Sempre Richard Garwin, ha ammesso che, al momento, «le scorie sono una grana».
Insomma, questa del nucleare rischia di essere, ad avviso di molti esperti, una scorciatoia comiziesca, illusoria, ma con un business industriale che certamente fa gola. Il guaio maggiore è un altro: è probabile che essa distolga l’Italia dalla ricerca e dall’utilizzo delle fonti rinnovabili per le quali siamo già in gravissimo ritardo rispetto alla Germania (che vende a tutto il mondo, noi inclusi, quelle tecnologie) e alla Spagna dove abbiamo fatto emigrare il Nobel Carlo Rubbia. In una bella intervistata rilasciata il 30 marzo a Giovanni Valentini della “Repubblica”, Rubbia ha detto alcune cose decisamente interessanti. Intanto che il nucleare «sicuro» non esiste (ogni cento anni un incidente è possibile) e che semmai c’è un nucleare «innovativo» costituito da centrali al torio «un elemento largamente disponibile in natura, per alimentare un amplificatore nucleare», si tratta di un «acceleratore, un reattore non critico, che non provoca cioè reazioni a catena». Siamo a tecnologie sperimentali utilizzabili per ora su di una scala limitata. Ma non credo che il ministro Scajola alludesse a questo tipo di centrali al torio, parlando di «nuova generazione». Sarebbe utile saperlo.
Carlo Rubbia, si sa, punta moltissimo sul solare e dà notizia che in soli diciotto mesi, nel deserto americano del Nevada (su progetto spagnolo, si badi bene), si costruirà con 200 milioni di dollari di investimento un impianto da 64 megawatt per l’energia solare. Sono impianti che si vanno diffondendo sempre più e che quindi andranno a costare sempre di meno, all’opposto di quelli nucleari. Ora, per rifornire di elettricità un terzo dell’Italia, in luogo di 15 centrali nucleari da un gigawatt, basterebbe - afferma lo scienziato triestino - un anello solare grande come il raccordo di Roma. Una fonte che il Paese del sole utilizza ancora troppo poco, che è senza fine nei secoli e per la quale non dovremo pagare bollette alla natura. Certo, ci sarà un discreto impatto ambientale e paesaggistico, ma, in cambio di una sicurezza assoluta, di una totale mancanza di inquinamento ambientale e di una disponibilità diffusa di energia, è un prezzo che si può pagare. La «voglia di nucleare» non ci farà perdere altri anni e anni nella giusta direzione del solare e di altre fonti rinnovabili? La Germania, uno dei Paesi più pragmatici e meglio governati del mondo, ci indica questa strada. Lo stesso Richard Garwin, «padre» della bomba all’idrogeno, invita, non per caso, a non trascurare affatto le fonti rinnovabili. Un conto sono i comizi, un altro le concrete fattibilità.
Pubblicato il: 24.05.08 Modificato il: 24.05.08 alle ore 7.58 © l'Unità.
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« Risposta #79 inserito:: Maggio 24, 2008, 10:33:46 pm » |
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L’immigrato come pericolo
Luigi Manconi - Federica Resta
Come ossessivamente preannunciato, il primo Consiglio dei ministri del governo di centrodestra ha affrontato il nodo della sicurezza, che è stato al centro della campagna elettorale di tutte le forze politiche, fino al punto di rendere luogo comune l’affermazione - del tutto opinabile - che «la sicurezza non è di destra né di sinistra»: quasi a sollecitare una convergenza unanime su un tema rispetto al quale nessuno intende lasciare il monopolio all’avversario.
Ed è singolare che tale esigenza di sicurezza sia avvertita come prioritaria proprio in una fase storica in cui, in Italia, si registra una netta flessione del tasso di criminalità, a dimostrazione di come la percezione di sicurezza sia influenzata da una serie complessa di fattori: dalla rappresentazione mediatica alle politiche urbanistiche e del lavoro, dalla fragilità dei legami sociali alle carenze del nostro processo penale. C'entrerà qualcosa, ad esempio, il fatto che - come rilevato dal Centro di ascolto radicale sull'informazione radiotelevisiva - la "copertura", a opera dei principali telegiornali, di fatti di cronaca nera è più che raddoppiata nell'ultimo quinquennio? In ogni caso, si tratta di un tema particolarmente complesso, suscettibile quanto altri mai di strumentalizzazione. Non a caso, i provvedimenti in materia di pubblica sicurezza sono stati, tradizionalmente, l'occasione per introdurre norme derogatorie ai principi dello stato di diritto.
E se già in età illuministica, si qualificava la prevalenza della ragion di Stato come il tratto essenziale del trattamento dei delitti contro l'ordine e la sicurezza pubblici, essa si è confermata tale anche nella storia successiva, sino ai giorni nostri. L'impatto sociale e politico di questi provvedimenti spiega quindi perché, da almeno quattro legislature, ciascun governo di ogni colore, abbia puntualmente presentato il proprio 'pacchetto sicurezza', con norme più o meno condivisibili. Fondamentale criterio di valutazione è la capacità di quelle misure di garantire insieme rigore e integrazione, provvedimenti penali e politiche sociali, prevenzione e inclusione, non riducendo dunque l'esigenza di sicurezza a mera questione criminale. In questa direzione si muoveva ad esempio il pacchetto sicurezza varato dal Governo di centrosinistra nella legislatura appena conclusasi, che affrontava il tema nella molteplicità dei suoi aspetti. Riconoscendo che le fonti di allarme sociale non sono riducibili alle migrazioni o ai c.d. quality-life crimes ma comprendono anche la criminalità dei colletti bianchi, il caporalato e la violenza in famiglia. E che meritevole di tutela non è soltanto un astratto concetto di ordine pubblico o decoro urbano, ma anche la trasparenza del mercato, il risparmio, la dignità della persona e in particolare del migrante, soprattutto se vittima di reati. Quest'idea era sottesa infatti a norme come quella estensiva del permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale ai migranti vittime di violenza in famiglia, alla proposta dell'introduzione di una norma incriminatrice del caporalato, o alla riforma della disciplina del falso in bilancio, così da conferirle il rigore necessario, tanto più in seguito alla sostanziale depenalizzazione attuata dal Governo di centrodestra nel 2002. Quest'impostazione era tanto più apprezzabile in un contesto normativo, quale quello italiano, segnato dalla tendenza alla differenziazione dell'intervento penale a seconda del tipo di autore coinvolto: da un lato norme inflessibili per i reati 'di strada' o comunque più 'visibili', e dall'altro discipline indulgenti fin quasi all'impunità per i colletti bianchi. La linea politica del pacchetto sicurezza del Governo precedente era tanto più condivisibile quanto più contrapposta a un clima sociale, politico, ideologico, caratterizzato dalla semplicistica identificazione delle cause dell'insicurezza nel debole - il migrante, l'outsider sociale, il mendicante - o comunque in chi viene percepito come 'diverso', con esiti inevitabilmente discriminatori. E, dunque, risulta totalmente infondata - e maliziosamente suggerita - la presunta affinità tra le misure previste dal centrosinistra e quelle approvate ieri dal primo Consiglio dei ministri del governo di centrodestra. Le misure sembrano incentrate prevalentemente sul concetto di "comportamento antisociale" e sulla diffidenza verso i migranti, rappresentati come prima fonte di pericolo per la sicurezza collettiva.
Si introduce così non solo un'aggravante relativa allo status di migrante irregolare, ma si prospetta anche - sia pur attraverso un disegno di legge - un autonomo delitto di immigrazione clandestina, sul modello di quanto previsto (addirittura!) in materia di terrorismo e di criminalità organizzata. Ciò viola non solo il diritto fondamentale all'emigrazione - se inteso non come diritto alla fuga ma come possibilità di raggiungere una terra dove vivere con dignità - ma anche il monito della Consulta, che proprio nel 2007 ha sollecitato il legislatore a rispettare criteri di proporzionalità e ragionevolezza nella disciplina dell'immigrazione (da considerare dunque non solo dal lato 'interno', come questione di ordine pubblico, ma anche come libertà). E se il rispetto dei principi non bastasse, si consideri la dubbia efficacia delle norme proposte: il nodo dell'immigrazione irregolare non si risolve certo con l'incarcerazione di massa ma con l'incentivazione del rimpatrio volontario e con gli accordi di riammissione. Inoltre, si estende da 2 a 18 mesi la durata della detenzione (amministrativa!) dei migranti nei CPT, anche nei casi di meri ostacoli tecnici (e non di resistenza, come prevede la bozza di direttiva europea) all'identificazione. Come si può giustificare la detenzione per un anno e mezzo di chi non abbia commesso alcun reato, motivata solo da circostanze estranee al comportamento individuale, quale l'impossibilità di identificare il migrante? Ancora, non viola forse il diritto alla difesa, la preclusione della possibilità di partecipare al ricorso per coloro ai quali sia stato negato l'asilo? Ed è compatibile con il diritto comunitario, la previsione dell'allontanamento coattivo 'per motivi imperativi di pubblica sicurezza' dei cittadini UE, solo perché carenti dei mezzi di sussistenza o pericolosi per "la moralità pubblica e il buon costume"? Al di là della loro dubbia legittimità, queste norme esprimono una concezione del rapporto tra libertà e sicurezza come un gioco a somma zero, in cui la garanzia della seconda comporta inevitabilmente la violazione delle libertà e dei diritti sanciti come inviolabili dalla Costituzione, dal diritto internazionale e dal diritto comunitario. Basti pensare che, proprio in tema di libera circolazione dei cittadini comunitari, i Trattati definiscono l'area europea come "spazio comune di 'libertà, sicurezza e giustizia', coniugando dunque istanze che devono necessariamente contemperarsi e mai porsi in conflitto. Neppure quando a prevalere è la domanda di sicurezza, dotata di una forza, anche simbolica, davvero 'dominante'. Insomma il nodo da sciogliere è il seguente: fino a che punto sia possibile garantire ai cittadini la sicurezza, senza per questo limitare le libertà di tutti e i principi di giustizia su cui si basa il nostro Stato sociale di diritto.
Che è 'di diritto' perché non riconosce altra fonte del potere se non la legge, ed è sociale fintantoché afferma i bisogni reali di tutti, come diritti universali. Spetta all'opposizione, allora, farsi carico di queste istanze, non senza ripensare a fondo il contenuto e il significato della categoria di sicurezza. Siamo infatti certi che quanto invocano i cittadini sia un astratto diritto alla sicurezza, e non, invece, una più concreta sicurezza dei diritti? E, primi fra tutti, i diritti all'eguaglianza, alla dignità, e alla libertà. Ovvero i fondamenti più solidi della sicurezza individuale e collettiva.
Pubblicato il: 24.05.08 Modificato il: 24.05.08 alle ore 7.59 © l'Unità.
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« Risposta #80 inserito:: Maggio 25, 2008, 05:42:47 pm » |
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E sul dialogo con il Pd: sì, ma va evitato il cortocircuito tra due livelli che sono distinti
«I parlamentari dovranno lavorare di più»
Il presidente di Montecitorio, Fini: le Camere siano operative dal lunedì al venerdì, non tre giorni alla settimana
ROMA — «L'Italia è stata per decenni avvolta nella melassa del compromesso a tutti i costi, della non decisione. Oggi non è più così. Berlusconi ha capito benissimo che si governa assumendosi la responsabilità delle decisioni. Anche dolorose. Il Pd di Veltroni ha capito a sua volta perfettamente che è stata ormai superata la soglia oltre la quale la non decisione delegittima tutti, chi governa e chi sta all'opposizione, il Parlamento come il resto delle istituzioni. E da questo nuovo clima ritengo, anche per l'esistenza di almeno due condizioni concrete, che possa scaturire veramente una legislatura costituente, capace di dare un nuovo volto all'assetto del nostro Stato».
Detto questo, per il presidente della Camera, esiste almeno un rischio da evitare: il dialogo fra maggioranza e opposizione «non deve diventare consociativismo, scadere nell'inciucio, evitare il corto circuito fra due livelli che devono restare distinti, l'azione di governo e il dialogo istituzionale». Perché viceversa «dovremmo fronteggiare due errori speculari: la tentazione di ritenersi autosufficienti, anche sulle riforme, da parte del centrodestra; quello di confondere la battaglia sui singoli provvedimenti del governo con il piano delle riforme da parte del Pd».
Nella sua prima intervista da presidente di Montecitorio, Gianfranco Fini, parla anche del ruolo del Parlamento, della Camera che dirige, per sollecitare una maggiore produttività («i parlamentari devono essere presenti e lavorare dal lunedì al venerdì, non tre giorni alla settimana»), ma anche per chiarire che «la politica deve avere dei costi, se vuole essere veramente efficace: il problema, il vero costo, che poi produce la "casta", è quello della improduttività. Il primo dei buoni esempi che devono dare i parlamentari è il dovere della presenza, ma essere in grado di adempiere bene al lavoro legislativo ha indubbiamente dei costi. Oggi gli italiani avvertono un gap di decisioni, di atti forti da parte dello Stato, ma il diritto- dovere di governare è speculare al diritto-dovere di controllo che il Parlamento deve esercitare sull'azione dell'esecutivo».
Presidente, lei dice di essere fiducioso sul dialogo istituzionale fra Veltroni e Berlusconi. Ci dica perché. «Innanzitutto perché si asseconda una scelta degli italiani. Il voto ha dimostrato che c'è voglia di semplificazione e un grande bisogno di colmare un deficit, un gap, di cultura di governo. È stato maggiormente premiato chi si proponeva realmente come forza di governo, è rimasto senza rappresentanza chi lo era solo a parole».
Lei ha parlato di due condizioni che la fanno essere ottimista. «La prima è il testo Violante, sul quale nella scorsa legislatura si è realizzata una convergenza bipartisan e che può essere una buona base di partenza. La seconda è che i programmi del Pdl e del Pd, sulle riforme, sono largamente convergenti. Sono due fatti che autorizzano fiducia».
Il dialogo è partito dai regolamenti parlamentari. Forse è un po' poco. «Siamo all'inizio e l'argomento è comunque importantissimo. Migliorare in senso razionale l'attività delle Camere significa migliorare l'immagine delle nostre istituzioni, renderle più produttive, celeri. Mi auguro che il confronto possa estendersi al ruolo delle commissioni, che devono riacquistare una centralità, nel processo legislativo, che si è appannata con il tempo».
Lei è stato fra i promotori del referendum sulla legge elettorale. Lo considera ancora valido? «È indubbio che si svolgerà nel 2009, a meno di cambiamenti della legge elettorale vigente. Ma è altrettanto indubbio che è cambiato lo scenario, l'ho detto anche al professor Guzzetta. Oggi la priorità sono le riforme del sistema e io considero le regole sul voto un problema successivo, spero che gli amici del referendum se ne rendano conto».
Lei parlava di un gap di decisioni forti: sono state prese e a Napoli siamo alla guerriglia urbana. «Pensare che una democrazia non sia più tale quando fa ricorso all'uso legittimo della forza, per impedire manifestazioni non autorizzate, significa predicare al vento la cultura della legalità, del diritto e della convivenza civile. Su rifiuti e sicurezza si è superata la soglia: o si governano queste emergenze o viene meno il ruolo dello Stato. Stato non può essere solo il participio passato del verbo essere. Su tanti altri settori e argomenti la soglia non è ancora stata superata, ma siamo all'allarme rosso».
Nel giorno del suo insediamento lei ha promesso di essere il garante di tutti. È difficile spogliarsi dell'abito dell'uomo di parte? «Difficile, ma doveroso. Del resto posso dire in coscienza di averlo già fatto come ministro degli Esteri: rappresentavo, o cercavo di farlo, l'intero Paese. Ma deve essere chiaro che il ruolo di garanzia non può essere meramente notarile: il presidente della Camera, come del resto hanno fatto i miei predecessori, ha il dovere di contribuire al dibattito politico e culturale del Paese. E questo è un ruolo cui non intendo rinunciare. Faccio solo un esempio immediato: la proposta di Raffaele Bonanni sulla partecipazione agli utili societari da parte dei lavoratori ritengo valga più di una riflessione passeggera».
Dal voto sono state tagliate fuori, senza acquisire rappresentanza parlamentare, molte forze della sinistra. Le dispiace, c'è una riflessione da fare? «Le leggi elettorali non sono buone o cattive in sé, sono solo il termometro del livello di consenso del Paese. In Francia il Fronte nazionale è stato escluso dalla rappresentanza anche avendo consensi elettorali molto alti. Credo che il deficit di rappresentanza di una parte della società possa essere colmato proprio dal ruolo del Parlamento, che è il luogo principe per capire, ascoltare e farsi interprete delle proposte che arrivano dal tessuto sociale. E qui si ritorna al ruolo centrale delle commissioni, all'importanza delle audizioni, a un procedimento legislativo che non può essere solo calato dall'alto».
Lei è presidente della Camera, il suo amico Gianni Alemanno è sindaco di Roma. L'accreditamento culturale della destra italiana è completato? «Ritengo sia un percorso esaurito, ormai siamo davvero in una fase post-ideologica».
Eppure è bastato ad Alemanno dire che Mussolini ha modernizzato il Paese per suscitare polemiche. «In tutte queste polemiche c'è come sempre un mix di disinformazione e di malafede. Valutare la storia è compito degli storici. Il paradosso è che se si parla di Giolitti o di Garibaldi ci si appella agli storici, se si parla del Ventennio c'è subito chi attribuisce valenza politica a un giudizio storico. Il che non significa auspicare rimozione, oblio, ma semplicemente dire che la storia è dietro di noi».
Quando nascerà veramente il nuovo partito del centrodestra? «È già nato nelle urne, ora si tratta solo di battezzarlo, stabilirne le regole di funzionamento. Ci sono delle resistenze delle nomenklature interne, sia in An che in Forza Italia. Ma sono ottimista perché c'è una doppia spinta: dall'alto, mia e di Berlusconi, e dal basso, quella dei nostri elettori».
Si è scritto che il «Secolo d'Italia» sta per chiudere. Vero? «Certamente il Secolo non sarà chiuso, soprattutto per il contributo culturale che ha dato e continuerà a dare, ma non più come quotidiano d'area».
Marco Galluzzo 25 maggio 2008
da corriere.it
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« Risposta #81 inserito:: Maggio 25, 2008, 05:48:29 pm » |
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Genova
Il presidente dell'ospedale Bambin Gesù di Roma porta «Il processo» di Kafka all'interrogatorio con il gip
Tangenti, le scuse della Vincenzi alla città
Il sindaco resiste e punta al rimpasto. Francesca: mai preso soldi. Profiti: Bertone non c'entra
Il cambio di assessori potrebbe non riguardare solo i due che sono stati indagati per l'inchiesta sugli appalti delle mense
DAL NOSTRO INVIATO
GENOVA — I politici del centrosinistra l'hanno messo in conto: martedì prossimo sarà un giorno difficile. La giunta di Marta Vincenzi riunirà il consiglio comunale per chiedere scusa alla città proprio poche ore dopo che il giudice delle indagini preliminari Roberto Fucigna avrà deciso se rimettere o no in libertà i cinque arrestati (quattro in carcere, uno ai domiciliari) per lo scandalo sugli appalti pilotati delle mense scolastiche. Dall'una cosa dipende il futuro politico di Genova, dall'altra la sorte di un'inchiesta che sembra dilagare ogni giorno di più. Ieri gli ultimi due interrogatori di garanzia: per Stefano Francesca (pd, ex ds in cella), portavoce del sindaco Vincenzi, accusato di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, e per Giuseppe Profiti (ai domiciliari per turbativa d'asta), l'uomo voluto dal segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone alla guida dell'ospedale Bambin Gesù.
«Ho sbagliato a partecipare a certi incontri. Ma quello che ci dicevamo erano solo parole, cose dette in prospettiva. Mi hanno offerto soldi per la campagna elettorale ma ho capito che non era opportuno prenderli. Non ho mai intascato un euro». Un dettaglio che in realtà nemmeno l'accusa gli contesta. Perché secondo il pm Francesco Pinto il braccio destro del sindaco avrebbe accettato la promessa (e non intascato) di 20 mila euro l'anno dall'imprenditore della ristorazione Roberto Alessio. Contropartita: fargli ottenere l'appalto da 29 milioni di euro delle mense scolastiche a Genova quando sarebbe diventato capo di Gabinetto dell'amministrazione, progetto poi andato in fumo a favore della carica di portavoce. ù
Davanti alle contestazioni più dure, ieri, Francesca avrebbe scaricato le responsabilità sull'amico ds Massimo Casagrande, ex consigliere comunale ds, arrestato con le stesse accuse di Francesca. Avrebbe fatto parte del gioco, secondo la procura, anche un altro ex consigliere comunale ds e tutto il gruppo sarebbe stato in contatto con Profiti, «uomo di garanzia», stando alla definizione dello stesso imprenditore Alessio, per un altro appalto (che Alessio ha vinto e che poi è stato annullato dal Tar): quello delle mense della Asl 2 di Savona, diretta dall'amico di Profiti Alfonso Di Donato, a sua volta indagato per turbativa d'asta. Il presidente del Bambin Gesù, sostiene il pm Pinto, avrebbe commesso il reato di turbativa d'asta quando era dirigente regionale. Ma lui ieri ha negato ogni coinvolgimento. Si è presentato all'interrogatorio con «Il processo» di Kafka fra le mani, ha scherzato con i giornalisti e al gip ha spiegato di aver «sempre fatto tutto nella trasparenza e nella legalità. Mai — ha fatto mettere a verbale — il cardinale Bertone mi ha detto una parola né sulla gara né sui partecipanti ».
Alessio lo indica come garante di un'operazione illecita? «Alessio è convinto di aver subito un torto dal Tar», dice. «Non si è mai rassegnato a perdere la gara». Anche Marta Vincenzi non si rassegna. Ieri, in un vertice di giunta allargato a tutta la maggioranza e ai segretari di partito ha prima annunciato di voler gettare la spugna («mi presento martedì in consiglio dimissionaria») e poi si è lasciata convincere a non mollare («chiederò scusa alla città per il danno alla sua immagine e alla credibilità, ma me la sento, vado avanti»). Un rimpasto, a questo punto, è per tutti «inevitabile». E lo stesso centro sinistra annuncia: «Probabilmente non riguarderà solo i due assessori indagati».
Giusi Fasano 25 maggio 2008
da corriere.it
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« Risposta #82 inserito:: Maggio 25, 2008, 05:56:09 pm » |
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25/5/2008 - PANE AL PANE Naufraghi tra rifiuti e ideologie
LORENZO MONDO
L’Italia sta naufragando e quelli spaccano in quattro i capelli dell’ideologia; anziché dare una mano, intralciano le operazioni di salvataggio con le loro oziose e noiose cantilene. Come aprono bocca, accreditano fuor di misura agli occhi degli italiani le iniziative di Berlusconi. All’indomani del Consiglio dei ministri tenuto a Napoli, fioccano dalla sinistra radicale le accuse di autoritarismo e addirittura di latente fascismo. Rigettano l’annunciata politica sull’immigrazione, un fenomeno che, proprio perché finora mal governato, mette a repentaglio la sicurezza dei cittadini e la coesione sociale. Plaudono al governo Zapatero quando accusa pregiudizialmente di xenofobia quello italiano e fingono di ignorare che la Spagna ha adottato il pugno di ferro contro i clandestini, espellendone un numero spropositato, a decine di migliaia.
Non sono meno affetti da faziosità e livore per quanto riguarda Napoli, avvolta da sterminate distese di rifiuti che fanno sbiadire i raccapriccianti resoconti d’antan sul suo degrado. Li indigna, in particolare, il ricorso all’esercito per presidiare le nuove discariche che diano fiato alla città. Per contrastare le sommosse aizzate dalla camorra che, altra pervasiva forma di immondezza, sta muovendo una vera e propria guerra contro lo Stato. Fino a compromettere l’immagine internazionale del Paese con il vergognoso incendio di un campo rom. Basta evidentemente a questi sedicenti cultori del diritto, fautori di un paradossale dialogo a voce sola, che i rifiuti continuino a prendere la via della Germania o vengano smaltiti nelle discariche gestite dalla criminalità, contro le quali nessuno ha la faccia di protestare. Sfugge, malafede o insipienza, che la situazione, incancrenita per una paralisi decisionale durata troppo a lungo, esige interventi severi e risolutivi. Una sola cosa deve temere la gente dabbene, in primo luogo quella sacrificata di Napoli, che i propositi del governo restino lettera morta o siano attenuati per un’insorgente timidezza, per il timore di una malintesa impopolarità. Che può riferirsi soltanto alla camorra, a chi preferisce cedere a una fatalistica indolenza o, senza convincersi di dover pagare pegno, delega allo Stato astrattamente inteso la soluzione dei suoi problemi. da lastampa.it
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« Risposta #83 inserito:: Maggio 25, 2008, 11:02:58 pm » |
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Massimo D'Alema: la politica torni a suscitare passioni
Il riformismo deve suscitare passione, avere idee forti e una visione del futuro «oppure si ridurrà solo ad ingegneria sociale». Massimo D'Alema, concludendo i lavori del seminario della Fondazione ItalianiEuropei su "Religione e democrazia", parla anche del Partito democratico e su cosa si dovrà lavorare per definirne il profilo. «Alle radici della crisi c'è la debolezza della politica - spiega - sia dei suoi strumenti d'azione, sia della sua incapacità di suscitare passione e partecipazione. Per molti anni ci siamo adoperati a decostruire, era giusto mettere degli argini a quegli elementi ideologici, ma il fiume si è essiccato e ora ha bisogno di essere ricostruito». Secondo il presidente della Fondazione, infatti, «è difficile pensare a un riformismo che non sia mosso da idee forti, da una visione del futuro, senza la quale non reggerà alle sfide del fondamentalismo, anche se ha un discorso razionale e convincente non prevarrà se non susciterà passioni e speranze». D'Alema spiega anche che si tratta « di un programma di lungo periodo» per il quale «non basterà riaffermare la forza dei nostri principi, noi dobbiamo nutrire questo progetto di respiro, di potenza ideale e politica».
D'Alema si riallaccia al discorso svolto poco prima da uno dei relatori della tavola rotonda, il filosofo Tzvetan Todorov, che ha parlato di come la destra francese di Sarkozy abbia manifestato un nuovo interesse per la religione come strumento di potere e ha ammesso che la sinistra italiana ha «visto con ritardo la nuova alleanza tra religione e potere» perché ha utilizzato «vecchie categorie interpretative» per leggere la società. Quindi ha citato la recente analisi svolta dal professor Mauro Calise sul voto del 13 e 14 aprile, durante un seminario della Fondazione. «Ci siamo rivolti all'opinione pubblica credendo che fosse finito il voto di appartenenza, ideologico e che ora ci fosse solo il voto di opinione, il voto verso l'offerta più vantaggiosa e ragionevole. Non era vero - sostiene D'Alema - oppure era vero solo in parte, perché tornava prepotentemente il voto identitario, cioè mosso da passioni e paure, non da valutazioni razionali. La destra ha intercettato tutto questo, non solo in alcuni blocchi sociali, ma in interi pezzi della comunità. La destra è stata la migliore interprete e ha intercettato queste paure rispondendo con una alleanza tra religiosità e potere»
Pubblicato il: 25.05.08 Modificato il: 25.05.08 alle ore 19.31 © l'Unità.
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« Risposta #84 inserito:: Maggio 27, 2008, 09:54:47 am » |
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Damiano: «Marcegaglia, sui contratti sbagli»
Angelo Faccinetto
Dietro il no di Marcegaglia alla contrattazione territoriale vedo la pretesa, inaccettabile, di ridurre il ruolo del contratto nazionale senza sostituirlo con un corrispondente potenziamento della contrattazione decentrata». È molto critico l’ex ministro ed attuale capogruppo del Pd in commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano, con la presa di posizione del nuovo numero uno di viale dell’Astronomia. «È un errore - dice - la strada non è questa».
Damiano, la presidente di Confindustria, sabato a Treviso, è stata chiara: no all’indicizzazione dei salari, che peraltro nessuno sul fronte sindacale ha mai ufficilamente evocato, e soprattutto no ai contratti territoriali. Come valuta questa presa di posizione?
«Penso sia una posizione sbagliata, un errore. Non solo perché il protocollo del luglio ‘93, ancora vigente, prevede espressamente la contrattazione di secondo livello - aziendale o, alternativamente, territoriale - ma soprattutto perché l’esperienza dimostra che al di sotto di una determinata soglia di dipendenti (i famosi 50 addetti) la contrattazione aziendale praticamente non esiste. Scegliere di non percorrere questa strada rappresenterebbe una modifica di sistema profonda e significherebbe negare a milioni di lavoratori la possibilità di legare il salario alla produttività».
Confindustria insiste molto sulla necessità di ancorare il salario alla produttività: non le sembra una scelta contraddittoria questa?
«Si può comprendere l’interesse di Confindustria a spostare la contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale. Anch’io condivido l’idea che la produttività debba essere retribuita a livello decentrato, fatte salve quelle risorse necessarie per pagare le normative dei contratti nazionali, ma se questa è la strada bisogna porsi il problema di come estendere il secondo livello. In caso contrario si darebbe ragione a coloro che ritengono necessario mantenere inalterato l’assetto attuale».
Quindi qual è la strada?
«Semplice: primo, estendere la contrattazione decentrata; secondo, estendere la contrattazione territoriale alle aziende più piccole. Aggiungo che escludere la contrattazione territoriale significherebbe non concedere i benefici fiscali alle imprese e ai lavoratori di interi comparti. Penso al commercio, all’artigianato, all’agricoltura, all’edilizia, settori nei quali questo tipo di contrattazione è presente».
Non è un problema nuovo, però...
«Questo problema si era posto anche nel corso della discussione sul protocollo sul welfare del 23 luglio 2007. In quell’occasione, da ministro, ho difeso la richiesta proviente dalle piccole imprese del lavoro autonomo di contemplare una quota degli sgravi previsti per il salario di produttività proprio a favore della contrattazione territoriale. Su questo tema, tra Confindustria e associazioni del lavoro autonomo ci fu uno scontro. Io sono convinto che la competitività vada difesa anche in questi settori».
Ma perché, secondo lei, gli industriali perseguono questo obiettivo?
«Perché Confindustria ha una pretesa inaccettabile: ridurre il ruolo del contratto nazionale senza sostituirlo con un corrispondente potenziamento della contrattazione decentrata».
Il suo successore, Maurizio Sacconi, ha formulato l’ipotesi che i lavoratori possano diventare azionisti delle società in cui lavorano, in modo da attuare forme di partecipazione alla gestione dell’impresa. Un’ipotesi diversa da quella attuata in Germania. È d’accordo?
«Sono sempre stato favorevole a una partecipazione dei sindacati nei consigli di sorveglianza, non nei consigli di amministrazione. Questo modello è presente in Europa e funziona. Altra questione è l’azionariato diffuso, che in alcuni casi è stato adottato in sostituzione di quote di salario. Ma gli effetti non stati sempre positivi».
Come giudica i primi provvedimenti adottati dal governo in tema di redditi? Avevano detto che sarebbe intervenuti su salari e pensioni, per ora si sono limitati a detassare, in via sperimentale ed entro certi limiti, gli straordinari dei lavoratori del settore privato.
«Sono molto scettico. In questi provvedimenti vedo una chiara inversione di priorità. Le risorse a disposizione dovrebbero venire utilizzate per migliorare il potere d’acquisto di retribuzioni e pensioni, come avremmo fatto noi proprio in questi mesi se fossimo restati il governo. La scelta di detassare gli straordinari produce invece situazioni di diseguaglianza. Tra lavoratori e lavoratori, tra lavoratori privati e lavoratori pubblici, tra lavoratrici e lavoratori. L’inclusione dell’orario supplementare riguardante i rapporti part-time potrebbe poi indurre in molte situazioni l’utilizzo di forme di part-time fittizio, prolungato col ricorso a uno straordinario a basso costo, producendo problemi di carattere normativo e pensionistico. Va inoltre chiarito se la detassazione sul salario di produttività si sommi o meno all’analoga misura introdotta quest’anno dal governo Prodi. Ma le priorità, ripeto, erano e sono altre».
Pubblicato il: 26.05.08 Modificato il: 26.05.08 alle ore 8.36 © l'Unità.
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« Risposta #85 inserito:: Maggio 27, 2008, 06:50:07 pm » |
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Roberta Pinotti: «Il governo confusionario sull’impegno militare»
Gabriel Bertinetto
Roberta Pinotti, ministra-ombra della Difesa giudica confusionario l’approccio del governo all’impegno militare italiano in Afghanistan, «quasi fossimo ancora in campagna elettorale».
Ministra-ombra Pinotti, come commenta la ridda di dichiarazioni contraddittorie in cui si sono esibiti sullo stesso tema due rappresentanti di primo piano del governo, come Frattini e La Russa? «Sono rimasta molto sorpresa dalle dichiarazioni che a inizio giornata ha rilasciato il ministro degli Esteri Frattini, che lasciavano pensare ad un uso delle nostre truppe anche nel sud Afghanistan, cioè in zone che non sono sotto il comando italiano. Nessuno ce l’ha chiesto. Che senso ha fare un’offerta poco chiara rispetto ad una richiesta inesistente? Nel corso della giornata poi Frattini si è un po’ corretto. Ha affermato che bisognerà comunque discuterne in Parlamento, e questo in sé è positivo. Ma restava l’impressione di confusione, di un esecutivo che agisce senza una linea direttrice. Anche perché il suo collega della Difesa, La Russa, diceva cose diverse. Negava l’intenzione di cambiare i cosiddetti caveat territoriali, cioè i vincoli che impediscono di agire al di fuori della propria zona di competenza (nel caso italiano la regione Ovest e la regione della capitale). Ed enunciava unicamente l’ipotesi di ridurre da 72 a 6 ore i tempi massimi entro cui il governo può approvare un’eventuale richiesta di intervento fuori area in casi particolari di urgente necessità».
E questa non è una novità notevole? Non esiste già del resto la facoltà dei comandanti sul campo, in situazioni di pericolo imminente, di superare i limiti territoriali anche senza aspettare l’autorizzazione da Roma? «Certo. La riduzione a 6 ore riguarda situazioni in cui evidentemente non è necessaria una scelta immediata. Se si mette in piedi una struttura di comunicazione che consente di accorciare i tempi, la cosa può avere senso. Bisogna vedere in concreto come si intenderebbe realizzare l’idea. Quello che sarebbe grave, e fortunatamente alla fine Frattini è sembrato fare marcia indietro, sarebbe abolire i caveat territoriali, cioè consentire l’utilizzo delle nostre truppe fuori dalle loro zone di competenza anche senza autorizzazione del governo italiano. Se il nostro contingente ha lavorato sinora bene è proprio perché agiva secondo modalità operative note e collaudate. Questo verrebbe meno con la cancellazione dei caveat territoriali».
Frattini voleva forse fare un favore a quei Paesi Nato impegnati al Sud, che a volte lamentano di correre più pericoli degli altri? «Se così fosse, la questione dovrebbe essere affrontata globalmente in sede Nato, e non attraverso un’offerta unilaterale, che sembra uscire dai giorni della campagna elettorale, quando la destra ostentava la sua presunta maggiore sensibilità ai problemi della sicurezza e della difesa. Del resto tutti in Afghanistan e fuori riconoscono l’ottimo lavoro fatto dai nostri soldati, che hanno svolto nel modo migliore i compiti loro assegnati. Le parole di Frattini, mosse forse dal desiderio di mettere alla berlina il governo precedente, finiscono con l’apparire invece come una critica all’azione delle forze armate italiane, di cui viene sminuito il valore».
Su un tema così delicato, non pensa che l’esordio del nuovo esecutivo sia piuttosto dilettantesco? «Effettivamente in una sede come quella di Bruxelles ci si sarebbe atteso che il governo arrivasse perlomeno con una posizione condivisa».
Pubblicato il: 27.05.08 Modificato il: 27.05.08 alle ore 13.38 © l'Unità.
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« Risposta #86 inserito:: Maggio 28, 2008, 08:50:07 am » |
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Famiglia Cristiana: sicurezza, bugie per compiacere la Lega
«Il megafono della Lega sulle paure degli italiani» è il titolo dell'editoriale di apertura di Famiglia Cristiana in edicola questa settimana. Sull'immigrazione si va avanti, scrive il settimanale, con bugie («non c'è nessun motivo per punire i criminali stranieri con più forza di quelli italiani») e mezze verità («l'integrazione si fa, ma non si dice; soprattutto non la si codifica in leggi»). «Il ragionamento sulla sicurezza si sgretola alla prova dei fatti», scrive Famiglia Cristiana, e aggiunge: «È più sicura una città senza immigrati o Roma, dove si rischia di morire, ogni sera, travolti da pazzi italiani ubriachi o drogati al volante? È più sicuro un territorio senza extracomunitari o intere regioni in mano a mafia e camorra? Se - si legge ancora - la sicurezza è un problema così assillante, perché in questi anni nessun volonteroso cittadino, gruppo o associazione hanno programmato ronde contro i camion della camorra e le discariche abusive?».
La realtà, scrive il settimanale cattolico, è che «un vero dibattito sul pacchetto sicurezza non c'è stato. forse, per soggezione verso la Lega? Solo i cattolici hanno parlato chiaro, contro chi indica i mostri da eliminare. Diamo atto al sottosegretario alla famiglia, Carlo Giovanardi, d'essere stato l'unico nel governo a dire che il reato di immigrazione clandestina è una follia (vedremo se voterà con coerenza), ma gli altri cattolici, Rotondi, Scajola e Gianni Letta, non hanno nulla da dire?» secondo Famiglia Cristiana, inoltre, «la minaccia di reato per l'immigrazione clandestina non ha scoraggiato gli sbarchi. sono troppi nel mondo a partire perché non sono più sicuri nel loro paese. le nazioni ricche si preoccupano della propria sicurezza, ma il nostro sistema economico globale, rende incerta e impossibile la vita di molte popolazioni. che, per necessità- si chiude l'editoriale- vengono a mangiare almeno le briciole che cadono dalla nostra tavola».
Pubblicato il: 27.05.08 Modificato il: 27.05.08 alle ore 11.54 © l'Unità.
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« Risposta #87 inserito:: Maggio 29, 2008, 05:08:38 pm » |
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29/5/2008 La politica fuori bilancio FRANCO BRUNI L’obiettivo di Tremonti è ridurre il disavanzo di bilancio e la spesa pubblica. Il che rassicura noi e l’Europa, perché lo Stato italiano ha un debito enorme e una spesa eccessiva e inefficiente. Ma come si concilia con i programmi ambiziosi, costosi e interventisti del governo? La contraddizione è insidiosa, anche perché potrebbe risolversi ricorrendo in misura inopportuna a politiche extra bilancio, con le quali il governo dirige l’allocazione delle risorse in modo non trasparente, senza assumersi le corrispondenti responsabilità contabili. Il che non è estraneo alla mentalità «anti mercatista», come la chiama lui, del ministro dell’Economia. Fin dal precedente centrodestra, Tremonti ha mostrato sollecitudine nel tentare di contenere il disavanzo pubblico. Allora la spesa crebbe, ma aumentarono anche le imposte. Col governo attuale Tremonti ha già annunciato, anche in sede europea, l’intenzione di raggiungere il pareggio strutturale richiesto dal Patto di Stabilità. Ha anche anticipato le cifre della sua prima finanziaria. Questa volta, inoltre, si è impegnato più chiaramente a ridurre la spesa. Ciò permetterebbe di contrarre le imposte e la quota di reddito nazionale intermediata dalla finanza pubblica. Benissimo. Ma allora come si fa a salvare Alitalia e Malpensa, a non privatizzare, per esempio, la Rai, a costruire il ponte di Messina, tante altre infrastrutture, numerosi impianti per i rifiuti del Napoletano, ad avviare il nucleare, a favorire la proprietà della prima casa e aiutare chi ha un mutuo troppo caro? Dove si trovano i fondi, dovendo anche finanziare le politiche per la famiglia, la redistribuzione a favore dei redditi più bassi, il federalismo fiscale solidale, le politiche per la sicurezza che, se vanno oltre alla cacciata dei clandestini, richiedono, fra l’altro, nuove carceri e la ristrutturazione delle periferie? Tremonti promette di essere il Quintino Sella di un centrodestra con un programma pesante. Rischia di entrare presto in difficoltà. La tentazione può allora essere di ricorrere alla finanza pubblica extra bilancio. Pubblica perché diretta politicamente, fuori bilancio perché usa conti diversi da quelli dello Stato. L’esempio emblematico, anche se un po’ caricaturale, è quello di Berlusconi che, in campagna elettorale, promette di salvare l’italianità di Alitalia «facendo qualche telefonata, da imprenditore capo del governo, per chiedere gettoni agli amici imprenditori». E il ponte di Messina? Con una limitata spesa pubblica di base, l’obiettivo è di mobilitare capitali privati per finanziare un monumento alle finalità extraeconomiche della politica, che contrasta con le priorità di un Paese dove non funzionano i treni dei pendolari. Qualcuno sta ricominciando a parlare di banche «amiche» e relativi scambi di favori. E speriamo che la finanza fuori bilancio del Ponte non finisca a irrorare e coinvolgere soprattutto quella della mafia. Sorelle delle politiche extra bilancio sono quelle che toccano il bilancio pubblico in modo illeggibile. L’abolizione dell’Ici porta un beneficio politico al governo centrale facendo finta di diminuire le imposte e mettendo in difficoltà e soggezione i bilanci degli enti locali mentre proclama il federalismo. La fantasia dirigista e la distribuzione opaca degli oneri della politica economica possono debordare nelle più varie direzioni. A suo tempo Tremonti, che oggi si scaglia contro la tecno-finanza, cercò di far miracoli con le cartolarizzazioni, volle l’artificio della Banca del Sud, cercò di imputare spese per lavori pubblici ai patrimoni delle fondazioni bancarie, sostenne l’idea, che ancor oggi gli è cara, di fare emettere titoli di debito pubblico persino all’Unione Europea. Con leggi, regolamenti, modulazioni fiscali, lo Stato può creare incentivi perché le risorse private vadano in direzioni che ritiene politicamente opportune. Devono però essere incentivi non occasionali, non troppo distorsivi, validi per tutti, a favore dell'interesse generale e non di quelli corporativi. Ma lo strumento principe deve rimanere un bilancio pubblico trasparente. Con una tassazione semplice, nella quale tutti possano leggere bene chi è chiamato a pagare di più, e una spesa pubblica dove spicchino le priorità. Il bilancio deve portare, di fronte al Parlamento e al Paese, la chiara responsabilità della quantità e della qualità delle scelte politiche fatte per correggere e integrare quelle che farebbero spontaneamente i mercati. Il dirigismo extra bilancio e la finanza pubblica opaca non devono diventare il modo per conciliare uno Stato interventista col bilancio magro e pareggiato di uno Stato liberale centrato sull’economia di mercato. franco.bruni@unibocconi.it da lastampa.it
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« Risposta #88 inserito:: Maggio 30, 2008, 11:30:44 pm » |
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Taglio dell’Ici: come ti paralizzo i Comuni
Marco Causi
Le modalità con cui il Governo Berlusconi ha proposto di operare l’abolizione dell’Ici sulla prima casa metteranno certamente in difficoltà i Comuni italiani, e con essi l’offerta di welfare locale, dagli asili nido all’assistenza agli anziani, dai servizi pubblici locali alla sicurezza urbana, dalla manutenzione agli investimenti. Non solo, infatti, l’ammontare della compensazione prevista è inferiore al necessario. E non si capisce perché il Governo, per quantificare il dovuto, non abbia fatto riferimento alle certificazioni che i Comuni hanno depositato al Ministero dell’Interno, come richiesto dalla Finanziaria Prodi che aveva già abbattuto l’Ici per un importo di circa 300 euro per unità abitativa adibita a prima casa.
Soprattutto, non si sa quando queste risorse arriveranno ai Comuni, che sono abituati a riscuoterle direttamente e autonomamente nei mesi di giugno e di dicembre per provvedere alle necessità dei loro bilanci. Adesso i Comuni sanno soltanto che occorrerà aspettare un decreto del ministero degli Interni entro i prossimi sessanta giorni. Sembra chiaro che i soldi non arriveranno prima dell’autunno, se tutto andrà bene, e ancora non si sa come verranno ripartiti. La riduzione dell’autonomia di cassa metterà a dura prova tanti Comuni, soprattutto quelli che già soffrono difficoltà di cassa perché le Regioni in cui risiedono ritardano (spesso per tantissimo tempo) la corresponsione dei trasferimenti di loro competenza. Uno di questi Comuni lo conosco molto bene, ed è il più grande d’Italia.
Proprio il contrario del federalismo, insomma, come in tanti hanno sottolineato durante la campagna elettorale e nelle ultime settimane. Ma c’è di più.
Il provvedimento fissa la compensazione al livello del gettito stimato (al ribasso) nel 2007. Non si tiene conto dell’espansione naturale del gettito Ici che si sarebbe verificata nel 2008 e nelle annualità successive. Espansione legata alle nuove edificazioni, ma soprattutto ai risultati di due lavori in corso: l’adeguamento delle classificazioni catastali e il contrasto dell’elusione e dell’evasione. Se un’unità abitativa di un centro storico italiano, ristrutturata magari da anni ma ancora accatastata come «alloggio senza bagno» e che ha sempre pagato un’Ici, poniamo, di 200 euro è stata recentemente regolarizzata al suo vero valore e dovrebbe pagare un’Ici, poniamo, di 600 euro, quanto riconoscerà lo Stato al Comune? Il vecchio o il nuovo importo? Si tenga conto, peraltro, che tanti Comuni italiani hanno investito ingenti risorse umane, finanziarie e regolamentari in queste operazioni, e tante migliaia di contribuenti e di condomini hanno regolarizzato spontaneamente le posizioni catastali delle loro unità abitative.
A questo punto i Comuni italiani sono enti congelati. Non potranno contare neppure sull’incremento naturale del gettito Ici, per quanto insufficiente a soddisfare fabbisogni di spesa che, tendenzialmente, aumentano almeno con il tasso d’inflazione. Non potranno contare sulle addizionali. Sembra proprio che l’unica alternativa proposta dal Governo sia quella di tagliare i costi e la quantità dei servizi di prossimità. Stupisce che uno schieramento politico così marcatamente «federalista» (a parole) possa trattare con leggerezza così grande la base fondamentale su cui poggia la Repubblica, quella che è in grado di rispondere ai problemi quotidiani delle famiglie, delle imprese, della vita delle città. In fin dei conti l’unica istituzione che ha mantenuto in tutti i lunghi anni di crisi del nostro assetto-paese un rapporto positivo con le comunità e le opinioni pubbliche locali. Un caso davvero patologico di eterogenesi dei fini. Che speriamo ancora correggibile durante l’iter parlamentare. L’impegno del Partito Democratico e delle altre opposizioni sarà di provare a far capire al Governo, come abbiamo fatto ieri sulla questione televisiva, che è meglio correggere gli errori più rilevanti di questo decreto.
Pubblicato il: 30.05.08 Modificato il: 30.05.08 alle ore 8.17 © l'Unità.
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« Risposta #89 inserito:: Maggio 30, 2008, 11:32:09 pm » |
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Un altro schiaffo al Mezzogiorno
Agazio Loiero
L’olezzo che negli ultimi tempi esala dal Mezzogiorno, il discredito generalizzato che sembra avvolgere un pezzo della sua classe dirigente (alcune vicende gravi che hanno toccato negli ultimi tempi in particolare Campania, Calabria e Sicilia sono sotto gli occhi di tutti) diventano il pretesto ideale per travolgere in un giudizio negativo sommamente ingiusto una parte, per storia e demografia, non irrilevante del Paese. Lo strumento per realizzare il misfatto sarà il federalismo fiscale nella versione lombarda imposta dalla Lega e da Formigoni, che postula una secessione né amara né dolce. Una secessione appunto senza aggettivi. Non faccio alcuna fatica ad ammettere che il colpevole maggiore di tale situazione è il Mezzogiorno stesso, la classe dirigente che lo ha governato in questi decenni dissipando risorse pubbliche, alimentando sprechi e di fatto contribuendo a ridurlo nelle condizioni disperate in cui oggi versa. Ma tutto questo è sufficiente perché un territorio di circa 20 milioni di individui, facenti parte di un tessuto unitario, con un cumulo di problemi irrisolti ed ereditati nel tempo sia abbandonato al suo destino?
Oggi quel territorio è segnato da una disoccupazione tra le più alte dell’Europa, è circondato da una criminalità organizzata imponente e vessato dalle banche, che sotto l’usbergo del rischio territoriale, applica interessi insopportabili stritolando quel poco di imprenditoria che resiste. Le infrastrutture sono quello che sono. Non ci fosse l’Europa a tentare di garantire alcuni diritti presenti nella prima parte della nostra Costituzione - penso all’articolo due e «ai doveri inderogabili della solidarietà» e all’articolo tre, «all’uguaglianza dei cittadini», richiamata da circa il 50 per cento delle sentenze della Consulta - per alcune regioni del Sud il destino sarebbe già segnato. Su questo Mezzogiorno, già di per sé stremato, si abbatte oggi il testo di legge di federalismo fiscale approvato dal Consiglio regionale lombardo che la Lega ed il centrodestra intenderebbe fare proprio. Esso prevede, lo ricordo velocemente, che rimangano sul territorio il 15 per cento dell’Irpef, l’80 per cento dell’Iva, le accise su benzine, tabacchi e giochi. Per il Mezzogiorno e per la Calabria in particolare se il il disegno di legge venisse approvato dal Parlamento, sarebbe la fine. Già quello del centrosinistra presentato alla Camera nella passata legislatura e non approvato dal Parlamento probabilmente per una forte resipiscenza di Prodi, penalizzava tutte le regioni del Sud, in particolare la mia. La Calabria sarebbe risultata, come afferma un gruppo di economisti a cui ho commissionato un lavoro sul tema in questione, il territorio più penalizzato per la riduzione della composizione percentuale dei trasferimenti. Sarebbe passata da un valore del 10,5 per cento di tutti i trasferimenti vigenti a un valore del 3,9 per cento. Il testo di legge lombardo, analizzato dagli stessi studiosi, moltiplicherebbe a dismisura quegli effetti nefasti. Si può fare una cosa del genere? Io credo di no.
Due ultime considerazioni. La prima. Il fatto che, sul testo di legge, a fare da apripista in Parlamento sia, forte del suo recente successo elettorale, la Lega, permette ad una grande parte del centrosinistra del Nord di, come dire, «subire» la volontà della maggioranza dei cittadini. In verità è da anni che una parte non minoritaria del centrosinistra ha fatto proprie certe posizioni del partito di Bossi. La questione viene presentata all’opinione pubblica, in questa stagione di crescenti egoismi, come una difesa strenua del territorio svincolata da ogni interesse unitario del paese. La seconda. Il fatto che il disegno di legge in questione sia stato partorito dal Consiglio regionale lombardo, che ha sede a Milano, rappresenta una ferita in più per molti meridionali di ordinaria cultura. Milano è sempre stata considerata da Sciascia, da tanti intellettuali, ma anche dal popolo minuto degli emigranti, che è quello più sensibile al tema dell’accoglienza, la città «più unitaria d’Italia». Merito di due culture, la laica e la cattolica, che in quella città hanno lasciato, lungo l’arco dei secoli, sedimenti profondi e nei fatti anticipatori di quel nucleo di diritti presenti nella prima parte della nostra Costituzione, di cui, per involontaria ironia, quest’anno si festeggiano i 60 anni.
Pubblicato il: 30.05.08 Modificato il: 30.05.08 alle ore 8.17 © l'Unità.
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