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Autore Discussione: ROBERTO SAVIANO  (Letto 92284 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Ottobre 15, 2008, 03:59:31 pm »

La denuncia di Saviano: circondato dall'odio per le mie parole

Vado via perché voglio scrivere ed ho bisogno di stare nella realtà

"Io, prigioniero di Gomorra lascio l'Italia per riavere una vita"

di GIUSEPPE D'AVANZO



ANDRO' via dall'Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà...", dice Roberto Saviano. "Penso di aver diritto a una pausa. Ho pensato, in questo tempo, che cedere alla tentazione di indietreggiare non fosse una gran buona idea, non fosse soprattutto intelligente. Ho creduto che fosse assai stupido - oltre che indecente - rinunciare a se stessi, lasciarsi piegare da uomini di niente, gente che disprezzi per quel che pensa, per come agisce, per come vive, per quel che è nella più intima delle fibre ma, in questo momento, non vedo alcuna ragione per ostinarmi a vivere in questo modo, come prigioniero di me stesso, del mio libro, del mio successo. 'Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l'odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri - oggi qui, domani lontano duecento chilometri - spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita. Me le ripeto una a una, silenziosamente, tra me".

La verità, la sola oscena verità che, in ore come queste, appare con tragica evidenza è che Roberto Saviano è un uomo solo. Non so se sia giusto dirlo già un uomo immaginando o pretendendo di rintracciare nella sua personalità, nella sua fermezza d'animo, nella sua stessa fisicità la potenza sorprendente e matura del suo romanzo, Gomorra. Roberto è ancora un ragazzo, a vederlo. Ha un corpo minuto, occhi sempre in movimento. Sa essere, nello stesso tempo, malizioso e insicuro, timidissimo e scaltro. La sua è ancora una rincorsa verso se stesso e lungo questo sentiero è stato catturato da uno straordinario successo, da un'imprevedibile popolarità, dall'odio assoluto e assassino di una mafia, dal rancore dei quietisti e dei pavidi, dall'invidia di molti. Saranno forse queste le ragioni che spiegano come nel suo volto oggi coabitino, alternandosi fraternamente, le rughe della diffidenza e le ombre della giovanile fiducia di chi sa che la gioia - e non il dolore - accresce la vita di un uomo. "Sai, questa bolla di solitudine inespugnabile che mi stringe fa di me un uomo peggiore. Nessuno ci pensa e nemmeno io fino all'anno scorso ci ho mai pensato. In privato sono diventato una persona non bella: sospettoso, guardingo. Sì, diffidente al di là di ogni ragionevolezza. Mi capita di pensare che ognuno voglia rubarmi qualcosa, in ogni caso raggirarmi, "usarmi". E' come se la mia umanità si fosse impoverita, si stesse immeschinendo. Come se prevalesse con costanza un lato oscuro di me stesso. Non è piacevole accorgersene e soprattutto io non sono così, non voglio essere così. Fino a un anno fa potevo ancora chiudere gli occhi, fingere di non sapere. Avevo la legittima ambizione, credo, di aver scritto qualcosa che mi sembrava stesse cambiando le cose. Quella mutazione lenta, quell'attenzione che mai era stata riservata alle tragedie di quella terra, quell'energia sociale che - come un'esplosione, come un sisma - ha imposto all'agenda dei media di occuparsi della mafia dei Casalesi, mi obbligava ad avere coraggio, a espormi, a stare in prima fila. E' la mia forma di resistenza, pensavo. Ogni cosa passava in secondo piano, diventava di serie B per me. Incontravo i grandi della letteratura e della politica, dicevo quello che dovevo e potevo dire. Non mi guardavo mai indietro. Non mi accorgevo di quel che ogni giorno andavo perdendo di me. Oggi, se mi guardo alle spalle, vedo macerie e un tempo irrimediabilmente perduto che non posso più afferrare ma ricostruire soltanto se non vivrò più, come faccio ora, come un latitante in fuga. In cattività, guardato a vista dai carabinieri, rinchiuso in una cella, deve vivere Sandokan, Francesco Schiavone, il boss dei Casalesi. Se lo è meritato per la violenza, i veleni e la morte con cui ha innaffiato la Campania, ma qual è il mio delitto? Perché io devo vivere come un recluso, un lebbroso, nascosto alla vita, al mondo, agli uomini?
Qual è la mia malattia, la mia infezione? Qual è la mia colpa? Ho voluto soltanto raccontare una storia, la storia della mia gente, della mia terra, le storie della sua umiliazione. Ero soddisfatto per averlo fatto e pensavo di aver meritato quella piccola felicità che ti regala la virtù sociale di essere approvato dai tuoi simili, dalla tua gente. Sono stato un ingenuo. Nemmeno una casa, vogliono affittarmi a Napoli. Appena sanno chi sarà il nuovo inquilino si presentano con la faccia insincera e un sorriso di traverso che assomiglia al disprezzo più che alla paura: sono dispiaciuti assai, ma non possono.... I miei amici, i miei amici veri, quando li ho finalmente rivisti dopo tante fughe e troppe assenze, che non potevo spiegare, mi hanno detto: ora basta, non ne possiamo più di difendere te e il tuo maledetto libro, non possiamo essere in guerra con il mondo per colpa tua? Colpa, quale colpa? E' una colpa aver voluto raccontare la loro vita, la mia vita?".

Piacciono poco, da noi, i martiri. Morti e sepolti, li si può ancora, periodicamente, sopportare. Vivi, diventano antipatici. Molto antipatici. Roberto Saviano è molto antipatico a troppi. Può capitare di essere infastiditi dalla sua faccia in giro sulle prime pagine. Può capitare che ci si sorprenda a pensare a lui non come a una persona inseguita da una concreta minaccia di morte, a un ragazzo precipitato in un destino, ma come a una personalità che sa gestire con sapienza la sua immagine e fortuna. Capita anche in queste ore, qui e lì. E' poca, inutile cosa però chiedersi se la minaccia di oggi contro Roberto Saviano sia attendibile o quanto attendibile, più attendibile della penultima e quanto di più? O chiedersi se davvero quel Giuseppe Setola lo voglia disintegrare, prima di Natale, con il tritolo lungo l'autostrada Napoli-Roma o se gli assassini si siano già procurati, come dice uno di loro, l'esplosivo e i detonatori. O interrogarsi se la confidenza giunta alle orecchie delle polizie sia certa o soltanto probabile.

E' poca e inutile cosa, dico, perché, se i Casalesi ne avranno la possibilità, uccideranno Roberto Saviano. Dovesse essere l'ultimo sangue che versano. Sono ridotti a mal partito, stressati, accerchiati, incalzati, impoveriti e devono dimostrare l'inesorabilità del loro dominio. Devono poter provare alla comunità criminale e, nei loro territori, ai "sudditi" che nessuno li può sfidare impunemente senza mettere nel conto che alla sfida seguirà la morte, come il giorno segue la notte.

Lo sento addosso come un cattivo odore l'odio che mi circonda. Non è necessario che ascolti le loro intercettazioni e confessioni o legga sulle mura di Casale di Principe: "Saviano è un uomo di merda". Nessuno da quelle parti pensa che io abbia fatto soltanto il mio dovere, quello che pensavo fosse il mio dovere. Non mi riconoscono nemmeno l'onore delle armi che solitamente offrono ai poliziotti che li arrestano o ai giudici che li condannano. E questo mi fa incazzare. Il discredito che mi lanciano contro è di altra natura. Non dicono: "Saviano è un ricchione". No, dicono, si è arricchito. Quell'infame ci ha messo sulla bocca degli italiani, nel fuoco del governo e addirittura dell'esercito, ci ha messo davanti a queste fottute telecamere per soldi. Vuole soltanto diventare ricco: ecco perché quell'infame ha scritto il libro. E quest'argomento mette insieme la parte sana e quella malata di Casale. Mi mette contro anche i miei amici che mi dicono: bella vita la tua, hai fatto i soldi e noi invece tiriamo avanti con cinquecento euro al mese e poi dovremmo difenderti da chi ti odia e ti vuole morto? E perché, diccene la ragione? Prima ero ferito da questa follia, ora non più. Non mi sorprende più nulla. Mi sembra di aver capito che scaricando su di me tutti i veleni distruttivi, l'intera comunità può liberarsi della malattia che l'affligge, può continuare a pensare che quel male non ci sia o sia trascurabile; che tutto sommato sia sopportabile a confronto delle disgrazie provocate dal mio lavoro. Diventare il capro espiatorio dell'inciviltà e dell'impotenza dei Casalesi e di molti italiani del Mezzogiorno mi rende più obiettivo, più lucido da qualche tempo. Sono solo uno scrittore, mi dico, e ho usato soltanto le parole. Loro, di questo, hanno paura: delle parole. Non è meraviglioso? Le parole sono sufficienti a disarmarli, a sconfiggerli, a vederli in ginocchio. E allora ben vengano le parole e che siano tante. Sia benedetto il mercato, se chiede altre parole, altri racconti, altre rappresentazioni dei Casalesi e delle mafie. Ogni nuovo libro che si pubblica e si vende sarà per loro una sconfitta. E' il peso delle parole che ha messo in movimento le coscienze, la pubblica opinione, l'informazione. Negli anni novanta, la strage di immigrati a Pescopagano - ne ammazzarono cinque - finì in un titolo a una colonna nelle cronache nazionali dei giornali. Oggi, la strage dei ghanesi di Castelvolturno ha costretto il governo a un impegno paragonabile soltanto alla risposta a Cosa Nostra dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio.

Non pensavo che potessimo giungere a questo. Non pensavo che un libro - soltanto un libro - potesse provocare questo terremoto. Subito dopo però penso che io devo rispettare, come rispetto me stesso, questa magia delle parole. Devo assecondarla, coltivarla, meritarmela questa forza. Perché è la mia vita. Perché credo che, soltanto scrivendo, la mia vita sia degna di essere vissuta. Ho sentito, per molto tempo, come un obbligo morale diventare un simbolo, accettare di essere al proscenio anche al di là della mia voglia. L'ho fatto e non ne sono pentito. Ho rifiutato due anni fa, come pure mi consigliavano, di andarmene a vivere a New York. Avrei potuto scrivere di altro, come ho intenzione di fare. Sono restato, ma per quanto tempo dovrò portare questa croce? Forse se avessi una famiglia, se avessi dei figli - come li hanno i miei "angeli custodi", ognuno di loro non ne ha meno di tre - avrei un altro equilibrio. Avrei un casa dove tornare, un affetto da difendere, una nostalgia. Non è così. Io ho soltanto le parole, oggi, a cui provvedere, di cui occuparmi. E voglio farlo, devo farlo. Come devo - lo so - ricostruire la mia vita lontano dalle ombre. Anche se non ho il coraggio di dirlo, ai carabinieri di Napoli che mi proteggono come un figlio, agli uomini che da anni si occupano della mia sicurezza. Non ho il cuore di dirglielo. Sai, nessuno di loro ha chiesto di andar via dopo quest'ultimo allarme, e questa loro ostinazione mi commuove. Mi hanno solo detto: "Robe', tranquillo, ché non ci faremo fottere da quelli là"".

A chi appartiene la vita di Roberto? Soltanto a lui che può perderla? Il destino di Saviano - quale saranno da oggi i suoi giorni, quale sarà il luogo dove sceglierà, "per il momento", di scrivere per noi le sue parole necessarie - sono sempre di più un affare della democrazia italiana.
 
La sua vita disarmata - o armata soltanto di parole - è caduta in un'area d'indistinzione dove sembra non esserci alcuna tradizionale differenza tra la guerra e la pace, se la mafia può dichiarare guerra allo Stato e lo Stato per troppo tempo non ha saputo né cancellare quella violenza sugli uomini e le cose né ripristinare diritti essenziali. A cominciare dal più originario dei diritti democratici: il diritto alla parola. Se perde Saviano, perderemo irrimediabilmente tutti.

(15 ottobre 2008)


da repubblica.it
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« Risposta #31 inserito:: Ottobre 20, 2008, 12:38:50 pm »

Da Gorbaciov a Tutu le prime firme a favore dello scrittore campano

Un appello allo Stato affinché intervenga per proteggerlo dalle minacce

I premi Nobel al fianco di Saviano "La sua libertà riguarda tutti noi"

di PAOLA COPPOLA


ROMA - I Nobel si mobilitano per Roberto Saviano. Lanciano un appello per chiedere allo Stato di intervenire, di proteggerlo dalle minacce di morte dei Casalesi e sconfiggere la camorra. Chiedono di garantire "la libertà nella sicurezza" all'autore del bestseller "Gomorra", che vive da clandestino, sotto scorta. Il caso Saviano è "un problema di democrazia", scrivono. Ma è, anche, "un problema di tutti noi".

Per questo motivo sono già sei i primi nomi autorevoli - Dario Fo, lo scrittore tedesco Günter Grass e il turco Orhan Pamuk, Nobel per la letteratura; Mikhail Gorbaciov e l'arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, Nobel per la pace; Rita Levi Montalcini, Nobel per la medicina - che sono intervenuti in difesa dello scrittore con un testo che sta già avendo altre adesioni e che, a partire da oggi, è possibile firmare sul sito di Repubblica, che darà voce alla mobilitazione in favore dello scrittore.

Dopo la pubblicazione di "Gomorra", Saviano è nel mirino della camorra. Ha subito pesanti minacce, le ultime pochi giorni fa, quando informative e dichiarazioni di collaboratori di giustizia hanno rivelato l'esistenza di un piano per ucciderlo da parte del clan dei Casalesi. Dal 13 ottobre del 2006 vive sotto scorta. Sempre a Repubblica alcuni giorni fa lo scrittore ha confessato il desiderio di poter tornare a una vita normale. "Andrò via dall'Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà" ha confessato. "Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale". L'intervista ha suscitato numerose prese di posizione, il presidente della Repubblica Napolitano e il premier Berlusconi hanno scritto a Repubblica per sostenere lo scrittore e assicurare il sostegno dello Stato, in tutta Italia sono scattate manifestazioni di solidarietà.

Saviano sta scontando il successo del suo bestseller che, a gennaio 2008, aveva venduto solo in Italia più di un milione e 200mila copie, è stato tradotto in 43 paesi, ha ottenuto diversi riconoscimenti e ispirato l'omonimo film del regista Matteo Garrone, candidato all'Oscar. Nell'appello dei Nobel si legge: "È minacciata la sua libertà, la sua autonomia di scrittore, la possibilità di incontrare la sua famiglia, di avere una vita sociale, di prendere parte alla vita pubblica, di muoversi nel suo paese". Saviano, dunque, è "un giovane scrittore, colpevole di avere indagato il crimine organizzato svelando le sue tecniche e la sua struttura, è costretto a una vita clandestina, nascosta, mentre i capi della camorra dal carcere continuano a inviare messaggi di morte, intimandogli di non scrivere sul suo giornale, Repubblica, e di tacere", continua il testo.

Così i Nobel spendono la loro autorevolezza per chiedere allo Stato "di fare ogni sforzo per proteggerlo e sconfiggere la camorra". Ricordano che non si può liquidare il "caso Saviano" solamente come un problema di polizia, perché "è un problema di democrazia. La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini", scrivono. "Con questa firma vogliamo farcene carico, impegnando noi stessi mentre chiamiamo lo Stato alla sua responsabilità, perché è intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008".

(20 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #32 inserito:: Ottobre 22, 2008, 12:10:22 pm »

Su Repubblica.it oltre 150mila firme aderiscono altri premi Nobel

"Ringrazio chi in questi giorni ha sentito che il mio dolore era anche il suo dolore"

Saviano: "Ogni voce che resiste mi rende meno solo"

di ROBERTO SAVIANO


GRAZIE per tutto quanto state facendo. È difficile dimostrare quanto sia importante per me quello che è successo in questi giorni. Quanto mi abbia colpito e rincuorato, commosso e sbalordito sino a lasciarmi quasi senza parole. Non avrei mai immaginato che potesse accadere niente di simile, mai mi sarei sognato una tale reazione a catena di affetto e solidarietà.
Grazie al Presidente della Repubblica, che, come già in passato, mi ha espresso una vicinanza in cui non ho sentito solo l'appoggio della più alta carica di questo paese, ma la sincera partecipazione di un uomo che viene dalla mia terra.

Grazie al presidente del Consiglio e a quei ministri che hanno voluto dimostrarmi la loro solidarietà sottolineando che la mia lotta non dev'essere vista disgiunta dall'operato delle forze che rappresentano lo Stato e anche dall'impegno di tutti coloro che hanno il coraggio di non piegarsi al predominio della criminalità organizzata. Grazie allo sforzo intensificato nel territorio del clan dei Casalesi, con la speranza che si vada avanti sino a quando i due latitanti Michele Zagaria e Antonio Iovine - i boss-manager che investono a Roma come a Parma e Milano - possano essere finalmente arrestati.

Grazie all'opposizione e ai ministri ombra che hanno appoggiato il mio impegno e quanto il governo ha fatto per la mia sicurezza. Scorgendo nella mia lotta una lotta al di là di ogni parte.

Le letture delle mie parole che sono state fatte in questi giorni nelle piazze mi hanno fatto un piacere immenso. Come avrei voluto essere lì, in ogni piazza, ad ascoltare. A vedere ogni viso. A ringraziare ogni persona, a dirgli quanto era importante per me il suo gesto.

Perché ora quelle parole non sono più le mie parole. Hanno smesso di avere un autore, sono divenute la voce di tutti. Un grande, infinito coro che risuona da ogni parte d'Italia. Un libro che ha smesso di essere fatto di carta e di simboli stampati nero su bianco ed è divenuto voce e carne. Grazie a chi ha sentito che il mio dolore era il suo dolore e ha provato a immaginare i morsi della solitudine.

Grazie a tutti coloro che hanno ricordato le persone che vivono nella mia stessa condizione rendendole così un po' meno sole, un po' meno invisibili e dimenticate.
Grazie a tutti coloro che mi hanno difeso dalle accuse di aver offeso e diffamato la mia terra e a tutti coloro che mi hanno offerto una casa non facendomi sentire come uno che si è messo nei guai da solo e ora è giusto che si arrangi.

Grazie a chi mi ha difeso dall'accusa di essere un fenomeno mediatico, mostrando che i media possono essere utilizzati come strumento per mutare la consapevolezza delle persone e non solo per intrattenere telespettatori.

Grazie alle trasmissioni televisive che hanno dato spazio alla mia vicenda, che hanno fatto luce su quel che accade, grazie ai telegiornali che hanno seguito momento per momento mutando spesso la scaletta solita dando attenzione a storie prima ignorate.

Grazie alle radio che hanno aperto i loro microfoni a dibattiti e commenti, grazie specialmente a Fahrenheit (Radio 3) che ha organizzato una maratona di letture di Gomorra in cui si sono alternati personaggi della cultura, dell'informazione, dello spettacolo e della società civile. Voci che si suturano ad altre voci.

Grazie a chi, in questi giorni, dai quotidiani, alle agenzie stampa, alle testate online, ai blog, ha diffuso notizie e dato spazio a riflessioni e approfondimenti.
Da questo Sud spesso dimenticato si può vedere meglio che altrove quanto i media possano avere talora un ruolo davvero determinante. Grazie per aver permesso, nonostante il solito cinismo degli scettici, che si formasse una nuova sensibilità verso tematiche per troppo tempo relegate ai margini. Perché raccontare significa resistere e resistere significa preparare le condizioni per un cambiamento.

Grazie ai social network Facebook e Myspace, da cui ho ricevuto migliaia di messaggi e gesti di vicinanza, che hanno creato una comunity dove la virtualità era il preludio più immediato per le iniziative poi organizzate in piazza da persone in carne e ossa.

Grazie ai professori delle scuole che hanno parlato con i ragazzi, grazie a tutti coloro che hanno fatto leggere e commentare brani del mio libro in classe. Grazie alle scuole che hanno sentito queste storie le loro storie.
Grazie a tutte le città che mi hanno offerto la cittadinanza onoraria, a queste chiedo di avere altrettanta attenzione a chi concedono gli appalti e a non considerare estranei i loro imprenditori e i loro affari dagli intrecci della criminalità organizzata.

E grazie al mio quotidiano e ai premi Nobel e ai colleghi scrittori di tante nazionalità che hanno scritto e firmato un appello in mio appoggio, scorgendo nella vicenda che mi ha riguardato qualcosa che travalica le problematiche di questo paese e facendomi sentire a pieno titolo un cittadino del mondo.

Eppure Cesare Pavese scrive che "un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti".

Io spesso in questi anni ho pensato che la cosa più dura era che nessuno fosse lì ad aspettarmi. Ora so, grazie alle firme di migliaia di cittadini, che non è più così, che qualcosa di mio è diventato qualcosa di nostro. E che paese non è più - dopo questa esperienza - un'entità geografica, ma che il mio paese è quell'insieme di donne e uomini che hanno deciso di resistere, di mutare e di partecipare, ciascuno facendo bene le cose che sa fare. Grazie.

(22 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #33 inserito:: Ottobre 29, 2008, 03:46:07 pm »

Siamo tutti Saviano?


di Helena Janeczek, Nazione Indiana
 


Dopo le ultime notizie su un possibile attentato a Roberto Saviano in stile "Strage di Capaci"- far saltare con l'esplosivo le macchine blindate sull'autostrada Napoli -Roma - e dopo l'intervista di "Repubblica" in cui dice di voler lasciare per un po' l'Italia per riprendersi la sua vita, si è scatenata una gara di solidarietà di dimensioni impressionanti. Iniziative sui social network, letture collettive in piazza di Gomorra a Roma e Milano, cittadinanze onorarie, striscioni degli ultrà esposti allo stadio, un appello firmato da sei Premi Nobel che nella prima giornata raccoglie le adesioni di centomila persone. E molto altro, molto di più.
E' qualcosa di imprevisto e di straordinario soprattutto laddove è divampato dal basso, dalle persone che hanno letto il libro o l'hanno comprato o che hanno soltanto visto Saviano in tv e ne hanno fatto quel che è ora: un simbolo di lotta alla mafia, un simbolo di coraggio. E probabilmente di qualcos'altro, perché i simboli veri non sono come i cartelli stradali che stanno per una cosa sola, ma si caricano e irradiano significato. Ed è fin troppo facile obiettare che per aderire a un appello via rete o anche trovarsi in una piazza lontana dalla provincia di Caserta non ci vuole molto coraggio, né si mette in moto un cambiamento, né si fa qualcosa di concreto per togliere una persona dal pericolo in cui si trova. Sono soltanto gesti simbolici che rispondono proprio su quel piano a chi, appunto, è diventato un simbolo.
Esistono alcuni che pensano che Saviano sia diventato quello che è adesso grazie al marketing editoriale o all'influenza dei media o a entrambi. Ma nulla si sarebbe messo in moto senza il libro né tanto meno avrebbe raggiunto queste dimensioni senza pubblico perché è quest'ultimo, in un movimento di feed back circolare, che continua ad alimentare le ristampe e tener aperti gli spazi su televisioni e giornali.
Quindi ha ragione Saviano quando dice che non è stato il suo libro a innescare una reazione da parte della camorra, ma il successo del suo libro, la trasformazione del suo libro e di lui stesso in qualcosa che riveste un valore simbolico per moltissime persone.
Pasolini scriveva che il successo è l'altra faccia della persecuzione e queste parole acquistano nel caso di Saviano una verità sinistra.
Credo che la realtà del pericolo che corre derivi ormai in una misura non meglio quantificabile dal valore che ha assunto, dalla notorietà raggiunta persino oltre ai confini dell'Italia.

E' un fatto inaudito. La visibilità doveva avere un effetto protettivo, fargli - come si dice- da "scorta mediatica", comunicare ai nemici di Saviano che se lo toccano, la reazione scatenata peggiorerà pesantemente le condizioni per condurre i propri affari in segreto e in silenzio. Secondo quella logica tradizionale nell'ambito delle mafie, ammazzare Saviano non conviene: piuttosto si aspetta un tot di anni, quando non avrà più la scorta e l'attenzione pubblica, quando quest'ultima lo avrà almeno in parte dimenticato. Allora lo si distrugge, preferibilmente con diffamazione, querele, mosse trasversali, e se proprio non bastasse, con le armi. Ed è ovviamente uno scenario sempre presente e non escluso dalla situazione attuale. Cosa che fa capire che cercare di destreggiarsi fra la troppa esposizione e il possibile oblio, debba essere per Saviano come navigare fra Scilla e Cariddi.
La logica della visibilità come protezione ormai non vale più senza riserve. I capi Casalesi in carcere si sono visti riconfermare gli ergastoli, le loro mogli- anche quella del latitante Antonio Iovine- sono state arrestate, Casal di Principe è presidiato dalla Folgore come un territorio occupato. Erano, fino al successo di Gomorra, un clan sconosciuto o di cui l'opinione pubblica non si interessava già a partire da Napoli. Ora qualsiasi loro azione, persino quelle non strettamente sanguinarie, rimbalza su giornali e telegiornali. Hanno poco da perdere, e l'idea che una volta tolto di mezzo Saviano, tutto tornerà come prima -magari non subito, ma basta aspettare- sembra possedere, a questo punto, una logica più stringente e una maggiore attrattiva. A questi uomini che si vedono come un potere assoluto, poter mostrare con un solo omicidio che detengono più potere di Stato, Premi Nobel, masse nazionali e internazionali, essere in grado di scatenare un putiferio anche politico, deve fare non poca gola.
Per questo, l'istinto e il buon senso suggeriscono di non scartare lo spauracchio della riedizione della Strage di Capaci soltanto perché il pentito ha poi smentito l'informazione sul presunto attentato raccolta da un poliziotto. Nella migliore delle ipotesi mi pare rappresenti quello che il clan avrebbe voglia di fare.
Chiunque abbia visto le interviste fatte da Repubblica tv o quelle di Matrix o delle Iene, si è reso conto che pure per il territorio dominato dai Casalesi, Saviano è un simbolo. Soltanto che è un simbolo negativo. A Casale- ma molto spesso anche a Napoli - Saviano è colui che è ti fa arrivare una sanzione se giri senza patente o senza casco, colui che è diventato famoso e venerato rovinando l'immagine della propria terra e affibbiando ai suoi abitanti l'immagine di mafiosi o di collusi, colui che si è arricchito senza aver fornito lavoro anche se nero o sporco, e non ha sganciato tangenti o soldi per i terreni trasformati in tombe di rifiuti tossici.
Magari quel che abbiamo visto o letto non è tutta la verità, magari c'è qualcuno che in segreto la pensa diversamente, ma non importa. Importa che quelle dichiarazioni rappresentino la versione a cui da quelle parti occorre o conviene conformarsi. Persino il parroco di Casale ha lanciato un anatema contro Saviano perché infanga il nome dei bravi e onesti paesani.
Basta aggiungere che accanto a un consenso negativo popolare intorno a Saviano, ci sono proprio nei luoghi che per primi dovevano essere scossi dalla sua denuncia, molti che si sentono sempre di più gettati nell'ombra dal fascio di luce che sembra ricadere tutto sul simbolo. Questi si trovano nello spettro di chi conduce la battaglia antimafia: dai magistrati ai testimoni di giustizia, dagli agenti delle forze dell'ordine ai militanti delle associazioni e così via. Giornalisti lamentano che Saviano avrebbe preso dai loro articoli e dalle loro inchieste, cosa che non avrebbe dato alcun fastidio se il libro l'avessero letto in 5.000 (la prima edizione di Gomorra aveva esattamente questa tiratura) e nemmeno in 50.000. Sarebbe infatti stato impossibile e grave se l'autore non avesse fatto tesoro delle informazioni raccolte anche aldilà della propria esperienza personale, ed è perfettamente normale che chi riporta semplicemente una notizia, non abbia bisogno di citare nessuna fonte: questo, a maggior ragione, per un libro che si colloca a cavallo fra saggistica e romanzo, fra esposizione di fatti e dati e narrazione.

Ciò che non scorgono queste persone - o che la loro frustrazione fa passare in secondo piano - è che si tratta del più classico meccanismo del divide ut impera, tra l'altro messo in moto senza nessun burattinaio, e che a isolare Saviano ci si crea un danno da soli facendo il gioco dell'avversario. Inoltre non sembrano vedere la cosa più banale e primaria, ossia che, pur nell'ombra di Saviano, l'attenzione a quel che fanno non sia mai stato tanto alta: mai così tante opportunità di pubblicare libri, fare film ecc sulla camorra (e persino sulla 'ndrangheta fino ad allora quasi totalmente ignorata dall'attenzione pubblica), mai così tanto spazio nei mezzi d'informazione su arresti e inchieste, mai tanto impegno da parte dello stato nel territorio Casalese.
Ma già qui si intravede una sorta di equivoco. La Folgore che è a Casal di Principe - uso l'esempio come immagine esemplare, aldilà della valutazione sulla sua efficacia- non gira contemporaneamente a Platì e nemmeno a Secondigliano, e ammesso anche che si riuscisse a dare un colpo durissimo al clan dei Casalesi, non si avrebbe di certo ottenuto una vittoria su tutte le altre mafie che magari anzi godono dello sforzo concentrato da una parte come il proverbiale terzo fra i litiganti.
L'equivoco nasce dai piani di rappresentazione. Su quello basilare sembra trattarsi di una lotta fra Saviano e i Casalesi o, al massimo, fra Saviano e lo Stato e i Casalesi. Sembra che i Casalesi oggi "tirano" esattamente come un tempo facevano notizia solo i Corleonesi. In quest'equivoco che si autoalimenta ci casca pure l'editoria che pubblica libri sui Casalesi a cui sembra interessata solo una nicchia.
Perché, in realtà, al celebre scrittore londinese, alla casalinga di Voghera o allo studente di Treviso che cosa gliene importa alla fine di un dato clan campano? Non moltissimo, se non avesse intenzione di uccidere Saviano e se nella sua vicenda non fosse simboleggiato molto altro.
La libertà di parola, la fiducia nella verità e nella possibilità di dirla, il coraggio delle proprie azioni e convinzioni. E forse anche il meccanismo per cui la denuncia di certi clan reali, con nomi e cognomi, riesce a toccare per esteso le corde di chi in Italia si confronta con dinamiche "mafiose" in generale, cioè praticamente tutti. Credo che in questo paese vecchio, attanagliato da mille paure supposte o reali - dagli stranieri al pedofilo della porta accanto, dal latte contaminato alla recessione -, privo di fiducia nel proprio futuro e nella possibilità di uscire dal marciume, l'esempio di Saviano incontri soprattutto il desiderio di essere diversi da come si è realmente: non impauriti, asserviti, rassegnati. Eppure l'investimento simbolico su di lui sembra giocare un ruolo ambivalente. Ci si appaga nell'identificazione e nella preoccupazione per Saviano e si continua grosso modo a vivere come prima. D'altronde, cosa si potrebbe fare?
Purtroppo dire "siamo tutti Saviano" non basta, anzi l'effetto è in parte anche contrario a quello desiderato. Perché alla fine solo Saviano è Saviano, solo Saviano è quello sotto scorta, minacciato di morte, ricusato dal parroco di un paese che non ha pronunciato nulla di simile nei confronti dei boss. E voglio ribadirlo: Saviano non è ovviamente l'unico potenziale bersaglio delle mafie e non è l'unico a vivere sotto scorta, ma è un bersaglio privilegiato proprio in quanto simbolo. Più ci si schiera dietro al suo nome, più lui diventa simbolo e come simbolo diventa unico, diventa solo. E il fatto che così pochi lo appoggiano proprio laddove dovrebbe invece essere appoggiato primariamente, non fa che accrescere la pericolosità di questo meccanismo.
Chiunque abbia letto l'opera di René Girard centrata sulla funzione del capro espiatorio o conosca il mito e il rito del Re del Bosco analizzati dal Ramo d'oro di Frazer ha dimestichezza con la logica per cui figure investite collettivamente di un valore positivo e persino salvifico, siano per questa stessa ragione, destinate al sacrificio.
Ma come si fa a strappare una persona reale, non un simbolo, dal pericolo che sta con troppa evidenza correndo anche in questo senso?
Noi su questo sito abbiamo da sempre pensato che il modo migliore di stare vicini a Roberto era continuare a dare spazio alle tematiche che ha portato alla ribalta, anche e soprattutto se a scriverne erano altri, e cogliamo l'occasione per ribadire che Nazione Indiana è uno spazio aperto per chiunque voglia proporre un contributo. I Wu Ming con spirito simile hanno lanciato lo slogan di "desavianizzare" Saviano. Carla Benedetti e Giovanni Giovanetti sul sito de "Il primo amore" propongono di "Condividere il rischio" facendo e ospitando inchieste su temi non solo legati alla criminalità organizzata.
Tutto questo è giusto, però non illudiamoci: ormai non basta. Tutta l'attenzione e la maggiore facilità di accesso ai circuiti della comunicazione -dai blog, alle case editrici, ai telegiornali- che la fama di Saviano e del suo libro hanno innescato anche a beneficio di altri scrittori, giornalisti, documentaristi ecc., non hanno cambiato nulla su un certo piano. Si sono moltiplicate le voci di denuncia, ma Saviano è diventato sempre più simbolo.
D'altronde, non si può dire alla gente: tutto questo è certamente anche bellissimo, ma per favore state attenti. Da un lato perché nessuno si sveglia la mattina dicendosi "adesso di sto ragazzo che ho visto ieri sera a Matrix faccio il mio simbolo di un Italia migliore o di chi "ha le palle". Del resto, le stesse persone - che siano scrittori famosi o gente comune non importa - hanno reagito con affettuoso buon senso alla sua dichiarazione di volersene andare, dando la priorità al suo desiderio di riavere una vita decente. Non è che perché uno è simbolo che non ci si rende conto che è prima di tutto una persona in carne ed ossa.
Ma soprattutto, pur con tutta la necessità di vederne gli aspetti rischiosi e ambivalenti, è giusto riconoscere che i bisogni simbolici sono bisogni profondi e reali, e il fatto che emergano con la loro portata utopica primaria, contiene in sé qualcosa di positivo: aldilà di ogni ricaduta concreta, di ogni possibilità che il semplice sentirli ed esprimerli possa bastare come appagamento e quindi diventi funzionale al mantenimento delle cose come stanno, e ovviamente aldilà di ogni manipolazione e strumentalizzazione della quale possono essere oggetto.
Eppure, pur con tutta la consapevolezza dei limiti e dei rischi, non basta fermarsi a questo. Bisogna cercare di capire quel che hanno fatto Gomorra e il "fenomeno Saviano" un po' più concretamente.
Gomorra non è soltanto in assoluto il primo libro sulle mafie - inclusi quelli dedicati a Cosa Nostra, inclusa il volume intervista a Giovanni Falcone- ad aver ottenuto una simile diffusione in Italia e nel mondo. Gomorra ha soprattutto cambiato il modo di rappresentare e di vedere le mafie. Non più fenomeno locale, ma presenza ubiqua e interconnessa del mondo globalizzato. Non più intreccio fra potere criminale e potere politico, ma supremazia del potere economico al quale tutto il resto è subordinato. Quel che talvolta viene mosso come critica a Saviano, ossia aver riservato un ruolo marginale all'aspetto della collusione politica, è in realtà la condizione di partenza perché si fosse potuto verificare questo mutamento collettivo di consapevolezza.
Gomorra ha fatto questo:spostare lo sguardo dal sangue e persino dalla politica al business che è ovunque e rappresenta il cuore del potere criminale. Ed è, aldilà delle mafie, un grande e necessario aggiornamento ai tempi nostri, dove recentemente gli stati e la politica non hanno potuto fare altro che cercare di tamponare i disastri creati dall'economia, stavolta finanziaria.
Lo sguardo di Gomorra è la sua più grande novità. Ogni polemica su quel che Saviano possa aver preso da altri o su quel che "si sapeva già", manca il bersaglio perché non si rende conto che è stato Saviano, solo Saviano, a scorgere in quella materia una portata universale e trovare lo strumento per fare breccia con la sua visione delle cose e con la forza di coinvolgimento del suo racconto. Nessuno prima d'allora era arrivato a mostrare soprattutto questo, a far pervenire soprattutto questo come messaggio, a dirti:"non chiederti principalmente se Totò Riina si è baciato o meno con Andreotti", ma domandati piuttosto chi costruisce casa tua, come vengono raccolti i pomodori con cui fai la salsa, dove e come vengono smaltiti i rifiuti che butti nel bidone dell'immondizia".
Non erano cose di cui si interessava il lettore comune o il pubblico dei media, non erano nemmeno cose che sembravano riguardare da vicino i cosiddetti intellettuali, inclusi quelli impegnati. Pasolini probabilmente ha pagato con la vita il suo lavoro su Petrolio e il suo "Io so" che riguardavano comunque grandi intrecci fra politica e interessi multinazionali, non il subappalto del piccolo cantiere, non la proprietà di una pizzeria, non il racket subito dal negoziante. In breve: non il nostro quotidiano.
Su tutto questo c'è stata una sensibilizzazione che forse è l'inizio di qualcosa che cambia. I giornali non danno solo quell'attenzione a camorra e Casalesi di cui prima godevano solo i mafiosi siciliani (e comunque, per qualsiasi motivo, è preferibile essere informati su due organizzazioni criminali piuttosto che su una sola), ma concedono uno spazio prima impensabile a questioni come le mani dell'ndrangheta sui lavori per l'Expo di Milano (vedi gli articoli su "Corriere" e "Stampa").
Noi non siamo Saviano e possiamo fare ben poco per tutelarlo. Ma, senza nessun eroismo, possiamo continuare ad allargare il solco che ha tracciato, continuare a ritenere che ogni indagine sul reale ci riguardi, possiamo trasformare tutto questo in una duratura e normale consapevolezza capace di non essere soltanto qualcosa di effimero: leggere - o scrivere- poesie e inchieste, articoli di cronaca e romanzi. Cambiare definitivamente postura rispetto a questo. Capire che le nostre democrazie sono congegni imperfetti e fragili, i cui valori e il cui funzionamento possono essere messe in scacco non solo dall'ascesa al potere di un dittatore; che non bisogna arrivare al regime totalitario, per finire per perderne di fatto dei grossi pezzi. Questo paese ne è un esempio particolarmente mal messo, ma la questione di fondo non riguarda solo l'Italia e il suo meridione. E al tempo stesso non dobbiamo nasconderci lo sgomento e il senso di impotenza che ci coglie quando scopriamo che Caserta sembra più lontana da Roma, più altrove, che Parigi o Milano.
Sapere che si possa fare poco. Ma farlo. Di modo che se Saviano se ne va per un po' da un'altra parte, qualcosa di quel che ha aiutato a seminare continui a crescere e a radicarsi anche laddove non c'è mai stato uno specifico interesse per le mafie.
E infine, anche se il coraggio è quella cosa che non ci si può dare da soli, sarebbe bello se fossimo capaci a tirarne fuori un po' di più: ovunque, in qualsiasi campo. Non per Roberto Saviano, soprattutto per noi stessi.

 
28 ottobre 2008


dal blog di Roberto Saviano
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« Risposta #34 inserito:: Novembre 01, 2008, 04:36:44 pm »

Camorra, Roberto Saviano al Guardian: «Voglio andare via dall'Italia prima possibile»

 
ROMA (1 novembre) - Lascerò l'Italia «il più presto possibile». Lo ha detto lo scrittore Roberto Saviano, autore del libro “Gomorra”, in un'intervista al quotidiano britannico Guardian. Saviano, divenuto un'icona della lotta alla camorra, vive da tempo - da troppo tempo dice lui - perennemente sotto scorta: «Un enorme, gigantesco peso che non posso più sopportare facilmente e che mi sta distruggendo come scrittore». Il Guardian, dopo aver ricordato la sua vicenda: come da due anni e mezzo viva in «isolamento e persecuzione», e di come, a parte i viaggi all'estero per pubblicizzare i suoi libri, la sua vita - come lui stesso dice - trascorra tra gli alloggi dei carabinieri e gli uffici dei magistrati, ha chiesto allo scrittore quando intenda andare via. La risposta di Saviano è stata: «Al più presto possibile».

Ci sono solo alcune difficoltà logistiche - aggiunge il Guardian - sulla sua strada verso l'esilio, e lui spera che possano essere risolte con l'anno nuovo.
Sogna una casa «dove vivere per un anno, sei mesi -spiega lo scrittore- invece di quelle dove vengo spostato. All'inizio potevo farcela, accettare che quello era il mio destino. Ma adesso sto diventando pazzo», si sfoga. «Vivere come un animale in gabbia ti trasforma in una bestia. Diventi diffidente, pensi che tutti ti vogliono ingannare. Invidi gli altri che vivono liberi. Tu hai avuto la forza, o la stupidità, di denunciare, gli altri sono rimasti zitti. Mi piacerebbe che la mia storia non fosse considerata solo come quella di un meridionale italiano, di un uomo che vive in un paese di sottosviluppo con uomini violenti. Io, ed altri che scriviamo di queste vicende, parliamo di una delle più potenti forze economiche dell'Unione europea. Ciò che riguarda me, riguarda anche chi vive a Londra, Berlino e Madrid. Tutte le organizzazioni criminali investono a Londra e non è un caso che Londra sia tra le cinque città dove il consumo di cocaina è più alto». Nonostante la camorra abbia ramificazioni ovunque, lo scrittore sembra fiducioso di poter riuscire a vivere sicuro all'estero, senza una protezione di 24 ore al giorno: «Non ne sono assolutamente sicuro ma credo di sì».


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« Risposta #35 inserito:: Novembre 10, 2008, 10:18:15 am »

2008-11-10 08:18

MIRIAM MAKEBA MUORE DOPO IL CONCERTO PER SAVIANO


CASTEL VOLTURNO (NAPOLI) - Mama Africa, Miriam Makeba, se n'e' andata uscendo di scena con un finale ad effetto. Aveva speso tutta la sua vita per l'impegno civile ed e' morta 'sul campo', a Castel Volturno, un luogo-simbolo della lotta alla criminalita' ed alla sopraffazione, dove aveva voluto partecipare a tutti i costi, nonostante le non brillanti condizioni di salute, al concerto anticamorra a sostegno dello scrittore Roberto Saviano.

L'artista di colore, 76 anni, era divenuta famosa in tutto il mondo per essersi battuta vigorosamente contro il regime dell'apartheid che aveva dilaniato il suo Paese, il Sudafrica. Non a caso era diventata delegato delle Nazioni Unite. E non a caso il suo impegno contro la segregazione razziale, ingigantito dalla fama di cantante nota in tutto il mondo, aveva causato la reazione del governo sudafricano che, nel 1963 - in pieno regime di apartheid - l'aveva costretta all'esilio ed aveva messo al bando tutti i suoi dischi. Da alcuni anni, per motivi professionali, la Makeba si era gia' trasferita in Europa, anche se continuava a frequentare di tanto in tanto il suo Paese d'origine. Dopo che le fu imposto l'esilio, per tornare in Sudafrica, Miriam Makeba dovette attendere quasi 30 anni: soltanto nel 1990, infatti, Nelson Mandela riusci' a convincerla a tornare nella terra dove era nata - sua madre era di etnia swazi e suo padre, morto quando lei aveva sei anni, era uno Xhosa - e che era stata costretta ad abbandonare.

Trasferitasi prima in Europa e poi negli Stati Uniti, proprio in quella lunga fase della sua vita, espresse il meglio di se' nel campo artistico. In America Miriam Makeba incise le sue canzoni piu' conosciute: Pata Pata, The Click Song e Malaika. Nel 1968 si sposo' con Stokely Carmichael, un attivista per i diritti civili. Il matrimonio scateno' grandi polemiche negli Stati Uniti e la sua carriera ne subi' un notevole rallentamento. Si separo' dal marito - con il quale si era trasferita in Guinea - nel 1973. Nel 1985, dopo la morte della sua unica figlia, Bongi, torno' a vivere in Europa. Nel 2005 decise di dare il suo addio alle scene e lo fece con un memorabile tour, che tocco' tutti i Paesi del mondo nei quali si era esibita. Ma il destino, per l'addio definitivo, le aveva riservato un altro appuntamento. Quello che ieri sera l'ha condotta sul palco di Baia Verde, a Castel Volturno, dove un pubblico accorso per una grande testimonianza di impegno civile, le ha riservato l'ultimo, indimenticabile applauso.

CAMORRA: CHIESTO IL PIZZO AGLI OPERAI CHE MONTAVANO IL PALCO PER IL CONCERTO
NAPOLI - "Alcuni sconosciuti hanno chiesto il pizzo agli operai che stavano montando il palco per il concerto dedicato a Saviano". Lo ha reso noto l'assessore alla Formazione della Regione Campania, Corrado Gabriele promotore degli Stati generali per la scuola nel Mezzogiorno, che si chiudono questa sera a Castel Volturno (Caserta) proprio con il concerto di Miriam Keba e Maria Nazionale dedicato a Saviano. Il fatto, secondo quanto riferisce Gabriele, è avvenuto nella serata di ieri. L'assessore ha informato dell'accaduto i carabinieri.

"Appena mi hanno riferito l'accaduto - ha detto ancora l'assessore - ho chiamato il comandante provinciale dei carabinieri di Napoli ed è stato informato anche il coordinatore della direzione distrettuale antimafia di Napoli, Franco Roberti". "Gli operai hanno detto agli sconosciuti di non essere in grado di dare loro risposte e di tornare di oggi", ha raccontato ancora Gabriele. "Domani formalizzeremo una denuncia contro ignoti - ha concluso Gabriele - ma quanto è avvenuto è di una gravità inaudita. Posso dire però che il concerto si svolgerà regolarmente, grazie alla presenza delle forze dell'ordine, nel posto che avevamo previsto: il luogo dove fu ammazzato l'imprenditore coraggioso Domenico Noviello". 


da ansa.it
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« Risposta #36 inserito:: Novembre 13, 2008, 03:02:27 pm »

Un messaggio in occasione del debutto del film tratto da Gomorra

"Troppi rischi", Saviano salta Los Angeles

Lo scrittore-simbolo della lotta alla camorra bloccato da un mancato cordinamento tra polizia italiana e Usa

Se i meccanismi criminali vengono allo scoperto allora io potrò rimanere nella mia terra



MILANO — «Mi dispiace non poter essere con voi, ma oramai i miei spostamenti pare siano diventati qualcosa di estremamente complicato». Il film tratto da «Gomorra» debutta a Los Angeles, ma Roberto Saviano non c’è. Per scusarsi ha inviato un messaggio, senza per questo lenire la delusione dei moltissimi fan che il suo libro (2 milioni di copie vendute in tutto il mondo) conta anche oltreoceano. «Sono orgoglioso e commosso che Gomorra, e mi riferisco sia al film che al libro, stia raggiungendo un così vasto pubblico — ha aggiunto il giovane scrittore —. Se tutto è noto, se i meccanismi criminali vengono allo scoperto allora io potrò rimanere nella mia terra, raccontarla e continuare a resistere».

Dopo la première ufficiale a New York, il film di Matteo Garrone, candidato italiano alla nomination come miglior pellicola straniera, è stato presentato nella notte di ieri all’Egyptian Theatre, uno dei teatri storici dell’Hollywood Boulevard. In prima fila c’erano personaggi del calibro di Oliver Stone e Paul Mazursky, e molti altri membri dell’Academy. Che a quanto hanno raccontato Garrone e il produttore Domenico Procacci, «sono rimasti colpiti dallo scoprire, leggendo una frase che scorre alla fine del film, che la camorra ha investito nella ricostruzione del World Trade Center».

Dall’uscita del suo libro-denuncia, Saviano vive sotto scorta, in un regime di tutela tra i più severi. Cinque carabinieri lo seguono ovunque e quando gli inquirenti registrano segnali di allarme, è costretto a dormire in caserma. Per sfuggire alle minacce di morte del clan dei Casalesi, lo scrittore appena ventinovenne ha dovuto sacrificare la propria libertà. E per partecipare a qualsiasi evento pubblico all’estero è costretto a preannunciare i propri spostamenti con almeno un mese di anticipo. Qualche giorno fa ha rinunciato a un’altra trasferta letteraria in Israele.

«A causa di una mancata coordinazione fra la polizia italiana e americana Saviano non è potuto essere qui fra noi», ha spiegato Garrone a una platea di giornalisti e personaggi dello show business che innanzitutto volevano incontrare l’uomo simbolo della lotta al crimine organizzato italiano. Ma se non oggi, già nei prossimi giorni l’autore di Gomorra raggiungerà gli States per accompagnare il film nella cavalcata di presentazioni ed eventi verso la nomination all’Oscar. Da qui a un mese, sarà selezionato il primo gruppo di nove titoli che concorreranno nella categoria del miglior film straniero, poi la selezione si ridurrà a cinque pellicole con l’annuncio ufficiale delle candidature.

Dopo il soggiorno americano, lo scrittore è atteso a Stoccolma, dove il 25 novembre parteciperà a un convegno con Salman Rushdie, altro scrittore costretto a vivere blindato. I due si incontreranno nel salone «B-rssal» dell’Accademia svedese, lo stesso dove ogni anno viene annunciato il Nobel per la Letteratura. E insieme discuteranno di «La parola libera e la violenza senza legge». Un tema che entrambi hanno dovuto sperimentare sulla propria pelle.

Antonio Castaldo
13 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #37 inserito:: Dicembre 14, 2008, 10:36:46 pm »

Da Gomorra a Stoccolma io e i fantasmi dei Nobel

di Roberto Saviano

Essere invitati alla Svenska Akademien, l'Accademia di Stoccolma che dal 1901 assegna ogni anno il premio Nobel, mette addosso uno stato d'ansia sottile: impossibile scacciare il pensiero di essere ricevuti nell'ultimo luogo sacro della letteratura. Ma quando arrivo a Stoccolma, trovo una sorpresa. Tutto è coperto di neve. La neve, l'avrò toccata al massimo tre volte in vita mia.

All'aeroporto sono tutti nervosi per la tempesta, invece a me uscire in quel bianco dà un senso di gioia infantile, anche se la temperatura è artica e il mio cappotto, buono per gli inverni mediterranei, in Svezia si rivela quasi inutile. La prima cosa che mi spiegano, non appena arrivo all'Accademia, sono le regole: severe, inderogabili. Bisogna indossare un abito elegante e ogni gesto dev'essere concordato. Gli accademici sono nominati a vita, diciotto membri che io mi figuro come ultimi aruspici che vaticinano il futuro delle lettere: venerati, odiati, mitizzati, sminuiti, presi in giro per il loro potere, corteggiati da tutto il mondo. Non riesco a immaginarmeli. Nella sala riservata incontro i primi due: un anziano signore che si era tolto le scarpe e una signora che cerca di dargli una mano a infilarsele di nuovo. Con un'eleganza naturale, mi stringe la mano e poi mi dice: "Il suo libro mi è entrato nel cuore". Capisco presto che la Svezia è attentissima a ciò che accade altrove, il paese che forse più di tutti al mondo sente le contraddizioni di altri paesi come proprie. Alcuni accademici mi rivolgono domande sull'Italia, in un modo, però, che non mi sarei aspettato. Tutti, ma proprio tutti, mi chiedono di Dario Fo, di come sta e cosa sta facendo, e infine mi raccomandano di portargli i loro saluti, come dando per scontato che ci frequentiamo abitualmente.

E poi mi chiedono come sono considerati da noi Giorgio La Pira, il mitico sindaco di Firenze degli anni Cinquanta, e anche Danilo Dolci, Lelio Basso, Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi. Un'Italia dimenticata dagli italiani che lì non solo ricordano ma considerano l'unica degna di memoria. Un signore si avvicina per mettermi il microfono, mi parla in italiano e io reagisco con stupore: "Perché si stupisce? Lei qui è al Nobel dove parliamo tutte le lingue del mondo".

Diari di una "vita sotto scorta"”Salman Rushdie aspetta già nella stanzetta riservata. Ci abbracciamo. La generosità che mi dimostra sin da quando ci siamo incontrati la prima volta nasce da chi non dimentica quel che ha passato. Vuole trasmettermi qualcosa di quel che ha imparato sulla sua pelle, vuole forse che io possa fare meno fatica a reimpadronirmi di qualche brandello della mia libertà, ma già comprendere di non essere solo con la mia esperienza per me è prezioso. Sembra incredibile. Quando ricevette la sua condanna, ero un bambino, andavo appena alle elementari. La sua fatwa khomeinista e le mie minacce camorriste nascono da contesti diversissimi, ma le conseguenze sulle nostre vite, le ripercussioni sulle nostre storie di scrittori finiscono per essere pressoché identiche. Lo stesso peso della prigionia che nessuno riesce a cogliere fino in fondo, la stessa ansia continua, la solitudine, lo stesso scontrarsi con una diffidenza che può divenire diffamazione e che è la cosa che più ti ferisce con la sua ingiustizia, che meno tolleri. Tutto quel che Rushdie dirà nel suo discorso sulle difficoltà di attraversare una strada, prendere un aereo, trovare una casa, e tutto quel che rende impossibile una vita blindata, mi farà pensare: "È vero, è proprio così".

Discutiamo di come organizzare l'incontro. Anche qui le regole sono precise. Dopo esser stato invitato a parlare, devo fare la mia prolusione, non restare troppo tempo ad accogliere gli eventuali applausi ma tornare presto a sedermi. Poi sarà il turno di Rushdie, e seguirà un dialogo. Finito quello, non dobbiamo stringere la mano a nessuno né firmare libri, dobbiamo attraversare la sala e andare via. Quando tutto è chiarito, entriamo nella sala dell'Accademia. Me l'ero immaginata completamente diversa: un teatro enorme, sontuoso, un tripudio di palco e platea. Come ogni mito si rivela invece esattamente il contrario. Una sala in legno, deliziosa ed elegante, ma raccolta, intima. C'è una specie di recinto al centro, dove sono seduti gli ospiti, gli editori, i familiari, il segretario permanente dell'Accademia Horace Engdahl, più qualche selezionato giornalista.

Mentre Engdahl fa il suo discorso introduttivo, io mi sento pressappoco come quando aspettavo di discutere la mia tesi di laurea. Tutto ciò che hai preparato svanisce. Senti solo la testa vuota, il cuore in petto come un grumo ingombrante, la gola secca. Mi aggrappo ai nomi degli scrittori che hanno ricevuto il Nobel su quello stesso podio dove presto dovrò salire a parlare anch'io. Sento che in quella stanza si sono depositate le loro parole, che sono rimasti impressi nel legno i discorsi di Saramago, Kertesz, Pamuk, Szymborska, Heaney, Marquez, Hemingway, Faulkner, Eliot, Montale, Quasimodo, Solgenitsyn, Singer, Hamsun, Camus. Elenco nella mente quelli che ricordo, quelli che conosco meglio o ho più amato, quasi mi gira la testa, è una vertigine. Come avrà appoggiate le mani su quel palchetto Pablo Neruda? Pirandello avrà chinato il viso sugli appunti o avrà fissato in volto gli accademici? Samuel Beckett avrà sorriso o sarà rimasto imperturbabile? Elias Canetti a chi avrà avuto la sensazione di parlare, al mondo o solo a una platea? Thomas Mann, mentre era lì, avrà presentito la tragedia che dopo pochi anni avrebbe vissuto la sua Germania?

Cerco di respirare forte, un po' per calmarmi, un po' per fare come quando ti portano al mare da bambino e ti dicono che le scorpacciate di iodio inalate sulla spiaggia avranno il potere di proteggerti contro le influenze e i catarri dell'inverno. Così cerco di inalare le sedimentazioni di tutti quelli che sono stati in questa sala, sperando che anche loro mi aiutino a resistere all'inverno. Tocca a me. Salgo sul palco tanto temuto. Vorrei dire molte cose, portare più esempi di chi oggi stenta ad avere libertà di parola e di chi vive sotto minacce per aver dato fastidio al potere criminale: scrittori e giornalisti, dal Messico dove i narcos hanno ucciso Candelario Pérez Pérez, alla Bulgaria dove è stato ammazzato lo scrittore Georgi Stoev.

Ma mi hanno detto che non devo mettere troppa carne al fuoco, parlare troppo a lungo, e così mi concentro su quel che per me rimane l'esperienza più importante. La letteratura e il potere, la scrittura che diviene pericolo solo grazie a ciò che di più pericoloso esiste: il lettore. Spiego come nelle democrazie non è la parola in sé che fa paura ai poteri, ma quella che riesce a sfondare il muro del silenzio. Esprimo la mia fiducia in una letteratura in grado di trasportare chiunque nei luoghi degli orrori più inimmaginabili, ad Auschwitz con Primo Levi, nei gulag con Varlam Salamov, e ricordo Anna Politovskaja che ha pagato con la vita la sua capacità di rendere alla Cecenia cittadinanza nel cuore e nella mente dei lettori di tutto il mondo. La differenza fra me e Rushdie è questa: lui condannato da un regime che non tollera alcuna espressione contraria alla sua ideologia; mentre laddove la censura non esiste ciò che ne prende le veci è la disattenzione, l'indifferenza, il rumore di fondo del fiume di informazioni che scorrono senza avere capacità di incidere.

A volte mi sembra di essere considerato uno che viene da un paese troppo spesso e a torto valutato come un'anomalia. Ma quel che dico non ha a che fare solo col Sud Italia oppresso dalle mafie, e nemmeno con l'Italia in quanto tale. Per quanto a me questo sembri evidente, temo che per molti, tolti i riferimenti alla mia condizione, il quadro non sia altrettanto chiaro. Molti intellettuali, mentre rimpiangono la loro perdita di ruolo nelle società occidentali, continuano a considerare il successo con diffidenza o con disprezzo, come se invalidasse automaticamente il valore di un'opera, come se non potesse essere altro che il risultato dei meccanismi manipolativi del mercato e dei media, come se il pubblico a cui è dovuto fosse impossibile pensarlo diversamente da una massa acritica. È soprattutto nei confronti di quest'ultimo che commettono un torto enorme, perché se è vero che i libri non sono tutti uguali tantomeno lo sono i lettori. I lettori possono cercare di divertirsi o di capire, possono appassionarsi alla fantasia più illimitata o al racconto della realtà più dolorosa e difficile, possono persino essere la stessa persona in momenti differenti: ma sono capaci di scegliere e di distinguere. E se uno scrittore questo non lo vede, se non confida più che la bottiglia da gettare in mare approdi nelle mani di qualcuno disposto ad ascoltarlo, e ci rinuncia, rinuncia non a scrivere e pubblicare, ma a credere nella capacità delle sue parole di comunicare e di incidere. Allora fa un torto pure a se stesso e a tutti quelli che lo hanno preceduto.

Quando Salman prende la parola, ricorda che la letteratura nasce da qualcosa che è consustanziale alla natura umana: dal suo bisogno di narrare storie, perché è grazie alla narrazione che gli uomini si rappresentano a se stessi e quindi solo un'umanità libera di raccontarsi come vuole è un'umanità libera. Rushdie non ha mai voluto essere altro che questo, un tessitore di storie, un romanziere senza vincoli, e quel che più lo ferisce non è il verdetto di un'ideologia che non poteva tollerarlo, ma la diffamazione di chi, proprio nel mondo libero, voleva far credere che non potesse essere soltanto questa la sua aspirazione, che dovesse essere guidato da secondi fini: i soldi, la carriera, la celebrità.

Mi sale una sorta di magone in gola. Penso ai dieci anni blindatissimi di Rushdie e a come abbia fatto a non impazzire, penso che soltanto chi ha una vita molto riparata e tranquilla possa immaginarsi possibile un baratto fra l'ombra della morte e la libertà. Ma Salman continua senza scomporsi, termina il suo discorso e passiamo all'ultima parte di dialogo. Alla fine, quando ci alziamo, ricevendo gli applausi del pubblico e degli accademici, ci consegnano dei fiori e io penso che i ragazzi della scorta mi sfotteranno per questa cosa considerata da signore giù da noi. Ceniamo in una stanza dove sono passati tutti i premiati. Ci dicono che il cuoco è quello della regina, ma io quel cibo non riesco ugualmente quasi a mandarlo giù fino a quando non arriva un trionfo di gelato alla cannella e mele caramellate.

Finisce la cena. L'etichetta prevede che nessuno possa alzarsi sino a quando non lo fa il presidente. Ripassiamo per la stanza della premiazione. La sala di legno è vuota. Le luci sono bassissime. Rushdie mi dice senza più l'ironia del suo discorso pubblico: "Continua ad avere fiducia nella parola, oltre ogni condanna, oltre ogni accusa. Ti daranno la colpa di essere sopravvissuto e non morto come dovevi. Fregatene. Vivi e scrivi. Le parole vincono". Saliamo sui legni del podio e ci facciamo fotografare con i nostri cellulari. Ridendo, abbracciandoci come se fossimo ragazzini in gita che hanno scavalcato le recinzioni e giocano a fare Pericle nel Partenone. Ci chiamano, dobbiamo uscire, prendere il caffè, salutare tutti e andare via. Le luci si spengono completamente e resto lì fermo, al buio. E lì al buio cerco ancora di raccogliere a pieni polmoni quell'odore di umido e di legno che sembra aver conservato tutte le presenze di chi è stato premiato in quella sala.

"Personalmente, non posso vivere senza la mia arte. Ma non l'ho mai posta al di sopra di ogni cosa. Mi è necessaria, al contrario, perché non si distacca da nessuno dei miei simili e mi permette di vivere, come quello che sono, a livello di tutti. Ai miei occhi l'arte non è qualcosa da celebrare in solitudine. Essa è un mezzo per scuotere il numero più grande di uomini offrendo loro un'immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie comuni. Essa obbliga dunque l'artista a non separarsi. Lo sottomette alla verità più umile e a quella più universale. E spesso colui che ha scelto il suo destino d'artista perché si sentiva diverso apprenderà presto che non nutrirà né la sua arte né la sua differenza, se non ammettendo la sua somiglianza con tutti [?] Nessuno di noi è grande abbastanza per una simile vocazione. Ma in tutte le circostanze della propria vita, che sia oscuro o provvisoriamente celebre, legato dai ferri della tirannia o temporaneamente libero di esprimersi, lo scrittore può ritrovare il sentimento di una comunità vivente che lo giustificherà, alla sola condizione che accetti, come può, i due incarichi che fanno la grandezza del suo mestiere: il servizio della verità e quello della libertà".

Mi sembra quasi di poterlo toccare, Albert Camus, che ha pronunciato queste parole nel 1957, tre anni prima di morire in un incidente stradale. E vorrei ringraziarlo, vorrei potergli dire che quel che aveva detto allora, è ancora vero. Che le parole scuotono e uniscono. Che vincono su tutto. Che restano vive.

(Roberto Saviano 2008. Published by Arrangement
with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria)

 
14 dicembre 2008
dal blog di Roberto Saviano
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« Risposta #38 inserito:: Dicembre 17, 2008, 06:48:25 pm »

L'autore di "Gomorra" intervistato da Massimo Giannini su Radio3 parla anche dell'inchiesta napoletana: "La mafia non riguarda solo il centrodestra"

Saviano: "La camorra tocca tutti il governo può fare molto di più"

 

ROMA - Contro la camorra "il governo potrebbe fare di più: è stato importante mandare i parà, perché bisognava rispondere con un piano militare ma questo non basta assolutamente: c'è ancora tanto da fare e le risorse ci sono". Roberto Saviano torna a ribadire le sue idee sulla criminalità organizzata intervistato questa mattina su Radio3 da Massimo Giannini, spaziando dall'inchiesta sugli appalti a Napoli alla riforma della giustizia.

La battaglia sulla criminalità. Gli scontri tra studenti di destra e di sinistra sono "vecchi" e fanno solo il gioco di chi vuole deviare l'attenzione dalle questioni vere, in primo luogo da quella della criminalità ha spiegato Saviano che nel pomeriggio incontrerà gli studenti dell'università Roma Tre dopo la proiezione la proiezione del film di Matteo Garrone tratto dal suo libro. "Forse tra le nuove generazioni si sta parlando alla questione criminale in maniera diversa - ha sottolineato Saviano parlando a Radio3 - Sento tantissimo la deideologizzazione. Io parlo ai giovani. Ai giovani di destra come ai ragazzi di sinistra o a ragazzi semplicemente che non hanno alcun tipo di posizione. E l'idea di andare a parlare all'università, anche se sono stato invitato dall'Onda, era quella: poter parlare a tutti e non solo a una parte, perché la battaglia sulla criminalità è una questione che viene prima di tutto".

La mafia non riguarda solo centrodestra. Parlando della bufera scoppiata al Comune di Napoli, Saviano non è sorpreso. "E' da tempo che, soprattutto nel Sud Italia, queste connivenze sono state denunciate: io stesso e molti altri, sull'Espresso e su Repubblica, abbiamo scritto di questa sorta di connivenze, di questa assoluta percezione sbagliata di credere che il male stia solo dall'altra parte, che la mafia sia una cosa che riguarda solo il centrodestra".

"Detto questo - ha aggiunto l'autore di Gomorra, - mi sento di dire che non può essere utilizzata inchiesta per criminalizzare un'intera parte politica, dell'una o dell'altra parte. Ma credo che una cosa da fare, finalmente, sia prendere le distanze da certi meccanismi imprenditoriali", che "sono di periferia, sembrano lontani da Roma, ma in realtà incidono tantissimo".

Il rapporto tra politica e crimine. Più in generale, rispondendo a una domanda sugli sviluppi dell'inchiesta Global service, Saviano ha spiegato che, a suo giudizio, "oggi il rapporto tra politica e crimine è diverso rispetto a Tangentopoli e alla Cosa Nostra del maxiprocesso. Oggi le organizzazioni criminali determinano gli equilibri politici come potrebbero determinarli la Microsoft, la Bmw o la General Motors. Al di là di quella che può essere la mazzetta al singolo politico o consigliere comunale, indipendentemente dalle scelte individuali di corruzione, le organizzazioni criminali riescono a condizionare il clima politico attraverso il loro potere economico".

Riforma della giustizia. Roberto Saviano segnala il rischio che l'annunciata riforma della giustizia "venga utilizzata per rendere più complicate non tanto le inchieste antimafia, quanto la possibilità di arrivare ai livelli economico-finanziari della criminalità organizzata". "Tutti i boss che usano lo strumento militare, che uccidono - ha spiegato Saviano parlando con Massimo Giannini - prima o poi vengono eliminati o finiscono in galera, ma sanno benissimo che la morte è una parte necessaria del loro mestiere. Il vero problema è arrivare al livello economico, a quei personaggi che entrano in relazione con le organizzazioni criminali, ma senza farne parte o partecipare alle operazioni di sangue".

Per l'autore di Gomorra, dunque, il "rischio è che con un determinato tipo di riforma della giustizia e con gli attacchi alla magistratura si tenda a voler chiudere la partita con l'imprenditoria criminale, impegnandosi soltanto nella cattura dei criminali. Ma preso uno ne spuntano altri dieci, anche perché le organizzazioni mafiose non hanno il monopolio, i capi non durano 40-50 anni come i politici, le nuove generazioni prendono continuamente il posto delle vecchie".

(17 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #39 inserito:: Dicembre 19, 2008, 09:21:40 am »

Roberto Saviano sul delitto di Gelsomina Verde


Tratto da "Gomorra
Uccidere tutti. Tutti quanti. Anche col dubbio. Anche se non sai da che parte stanno, anche se non sai se hanno una parte. Spara! È melma. Melma, solo melma. Dinanzi alla guerra, al pericolo della sconfitta, alleati e nemici sono ruoli interscambiabili. Piuttosto che individui divengono elementi su cui testare la propria forza e oggettivarla. Solo dopo si creeranno d'intorno le parti, gli alleati, i nemici. Ma prima di allora, bisogna iniziare a sparare.

Il 30 ottobre 2004 si presentano a casa di Salvatore de Magistris: un signore sessantenne che ha sposato la madre di Biagio Esposito, uno scissionista, uno Spagnolo. Vogliono sapere dove si è nascosto. I Di Lauro devono prenderli tutti: prima che si organizzino, prima che possano rendersi conto di essere in maggioranza. Gli spezzano braccia e gambe con un bastone, gli maciullano il naso. Per ogni colpo gli chiedono informazioni sul figlio di sua moglie. Lui non risponde, e a ogni silenzio fanno cadere un altro colpo. Lo riempiono di calci, deve confessare. Ma non lo fa. O forse non sa davvero il luogo del nascondiglio. Morirà dopo un mese di agonia.
Il 2 novembre viene ucciso Massimo Galdiero in un parcheggio. Dovevano colpire il fratello Gennaro, presunto amico di Raffaele Amato. Il 6 novembre viene ammazzato in via Labriola Antonio Landieri, per beccarlo sparano su tutto il gruppo che gli era vicino. Rimarranno ferite in modo grave altre cinque persone. Tutte gestivano una piazza di coca e pare fossero dipendenti di Gennaro McKay. Gli Spagnoli però rispondono e il 9 novembre fanno trovare una Fiat Punto bianca in mezzo a una strada. Dribblano posti di blocco e lasciano l'auto in via Cupa Perrillo. È pieno pomeriggio quando la polizia trova tre cadaveri. Stefano Maisto, Mario Maisto e Stefano Mauriello. I poliziotti, qualsiasi portiera aprano, trovano un corpo. Davanti, dietro, nel portabagagli. A Mugnano, il 20 novembre, ammazzano Biagio Migliaccio. Lo vanno a uccidere nella concessionaria dove lavorava. Gli dicono: «Questa è una rapina» e poi sparano al petto. L'obiettivo era suo zio Giacomo. Lo stesso giorno rispondono gli Spagnoli ammazzando Gennaro Emolo, padre di un fedelissimo dei Di Lauro accusato di far parte del braccio militare. Il 21 novembre i Di Lauro fanno fuori, mentre si trovano in una tabaccheria Domenico Riccio e Salvatore Gagliardi, persone vicine a Raffaele Abbinante. Un'ora dopo, viene ammazzato Francesco Tortora. I killer non vanno in moto ma in auto. Si avvicinano, gli sparano, poi lo raccolgono come un sacco. Lo caricano e lo portano alla periferia di Casavatore dove danno fuoco all'auto e al corpo. A mezzanotte del 22 i carabinieri trovano un'auto bruciata. Un'altra.
Per seguire la faida ero riuscito a procurarmi una radio capace di sintonizzarsi sulle frequenze della polizia. Arrivavo così con la mia Vespa più o meno in sincrono con le volanti. Ma quella sera mi ero addormentato. Il vociare gracchiante e cadenzato delle centrali per me era divenuto una sorta di melodia cullante. Così quella volta fu una telefonata in piena notte che mi avvertì dell'accaduto. Arrivato sul luogo, trovai una macchina completamente bruciata. L'avevano cosparsa di benzina. Litri di benzina. Ovunque. Benzina sui sedili anteriori, benzina su quelli posteriori, benzina sulle gomme, sul volante. Le fiamme erano già consumate, i vetri esplosi, quando sono arrivati i pompieri. Non so bene perché mi sono precipitato davanti a quella carcassa d'auto. C'era un puzzo terribile, di plastica bruciata. Poche persone d'intorno, un vigile urbano con una torcia guarda dentro le lamiere. C'è un corpo, o qualcosa che gli somiglia. I pompieri aprono le portiere prendendo il cadavere, hanno una smorfia di disgusto. Un carabiniere si sente male, appoggiandosi al muro vomita la pasta e patate mangiata poche ore prima. Il corpo era solo un tronco irrigidito, tutto nero, il volto solo un teschio annerito, le gambe scuciate dalle fiamme. Presero il corpo per le braccia e lo posarono a terra aspettando la macchina mortuaria.
Il furgoncino acchiappamorti gira continuamente, lo si vede da Scampia a Torre Annunziata. Raccoglie, accumula, preleva cadaveri di gente morta sparata. La Campania è il territorio con più morti ammazzati d'Italia, tra i primi posti al mondo. Le gomme della macchina mortuaria sono liscissime, basterebbe fotografare i cerchioni mangiucchiati e il grigiore dell'interno dei pneumatici per avere l'immagine simbolo di questa terra. I tizi uscirono dal furgoncino con i guanti in lattice, sporchissimi, usati e riusati mille volte, e si misero all'opera. Infilarono il cadavere in una busta, quella nera, i body bag in cui solitamente si chiudono i corpi dei soldati morti. Il cadavere sembrava uno di quelli trovati sotto la cenere del Vesuvio dopo che gli archeologi avevano versato il gesso nel vuoto lasciato dal corpo. Le persone intorno all'auto erano diventate decine e decine, ma tutte in silenzio. Sembrava non ci fosse nessuno. Neanche le narici azzardavano a respirare troppo forte. Da quando è scoppiata la guerra di camorra molti hanno smesso di porre limite alla propria sopportazione. E sono lì a vedere cos'altro accadrà. Ogni giorno apprendono cos'altro è possibile, cos'altro dovranno subire. Apprendono, portano a casa, e continuano a campare. I carabinieri iniziano a fare le foto, parte il furgoncino col cadavere. Vado in Questura. Qualcosa diranno su questa morte. In sala stampa ci sono i soliti giornalisti e qualche poliziotto. Dopo un po' si alzano i commenti: «Si ammazzano tra loro, meglio così!». «Se fai il camorrista ecco cosa ti accade.» «Ti è piaciuto guadagnare e ora goditi la morte, munnezza.» I soliti commenti, ma sempre più schifati, esasperati. Come se il cadavere fosse stato lì e tutti avessero qualcosa da rinfacciargli, questa notte rovinata, questa guerra che non finisce più, questi presidi militari che gonfiano ogni spigolo di Napoli. I medici abbisognano di lunghe ore per identificare il cadavere. Qualcuno gli trova il nome di un capozona scomparso qualche giorno prima. Uno dei tanti, uno dei corpi accatastati in attesa del peggior nome possibile nelle celle frigo all'ospedale Cardarelli. Poi giunge la smentita.
  Qualcuno si mette le mani sulle labbra, i giornalisti deglutiscono tutta la saliva al punto da seccare la bocca. I poliziotti scuotono la testa guardandosi le punte delle scarpe. I commenti s'interrompono colpevoli. Quel corpo era di Gelsomina Verde, una ragazza di ventidue anni. Sequestrata, torturata, ammazzata con un colpo alla nuca sparato da vicino che le era uscito dalla fronte. Poi l'avevano gettata in una macchina, la sua macchina, e l'avevano bruciata. Aveva frequentato un ragazzo, Gennaro Notturno, che aveva scelto di stare con i clan e poi si era avvicinato agli Spagnoli. Era stata con lui qualche mese, tempo prima. Ma qualcuno li aveva visti abbracciati, magari sulla stessa Vespa. In auto assieme. Gennaro era stato condannato a morte, ma era riuscito a imboscarsi, chissà dove, magari in qualche garage vicino alla strada dove hanno ammazzato Gelsomina. Non ha sentito la necessità di proteggerla perché non aveva più rapporti con lei. Ma i clan devono colpire e gli individui, attraverso le loro conoscenze, parentele, persino gli affetti, divengono mappe. Mappe su cui iscrivere un messaggio. Il peggiore dei messaggi. Bisogna punire. Se qualcuno rimane impunito è un rischio troppo grande che legittima la possibilità di tradimento, nuove ipotesi di scissioni. Colpire e nel modo più duro. Questo è l'ordine. Il resto vale zero. Allora i fedelissimi di Di Lauro vanno da Gelsomina, la incontrano con una scusa. La sequestrano, la picchiano a sangue, la torturano, le chiedono dov'è Gennaro. Lei non risponde. Forse non sa dove si trova, o preferisce subire lei quello che avrebbero fatto a lui. E così la massacrano. I camorristi mandati a fare il "servizio" forse erano carichi di coca o forse dovevano essere sobri per cercare di intuire il più microscopico dettaglio. Ma è risaputo quali metodi usano per eliminare ogni sorta di resistenza, per annullare il più minuscolo afflato di umanità. Il fatto che il corpo fosse bruciato mi è sembrato un modo per cancellare le torture. Il corpo di una ragazza seviziata avrebbe generato una rabbia cupa in tutti, e dal quartiere non si pretende consenso, ma certamente non ostilità. E allora bruciare, bruciare tutto. Le prove della morte non sono gravi. Non più gravi di qualsiasi altra morte in guerra. Ma non è sostenibile immaginare come è avvenuta quella morte, come è stata compiuta quella tortura. Così tirando con il naso il muco dal petto e sputando riuscii a bloccare le immagini nella mia mente.
Gelsomina Verde, Mina: il diminutivo con cui veniva chiamata nel quartiere. La chiamano così anche i giornali quando cominciano a vezzeggiarla col senso di colpa del giorno dopo. Sarebbe stato facile non distinguerla dalla carne di quelli che si ammazzano fra di loro. O, se fosse stata viva, continuare a considerarla la ragazza di un camorrista, una delle tante che accettano per i soldi o per il senso di importanza che ti da. Nulla più che l'ennesima "signora" che gode della ricchezza del marito camorrista. Ma il "Saracino", come chiamano Gennaro Notturno, è agli inizi. Poi se diventa capozona e controlla gli spacciatori, arriva a mille-duemila euro. Ma è una carriera lunga. Duemilacinquecento euro pare sia il prezzo per l'indennizzo di un omicidio. E poi se hai bisogno di togliere le tende perché i carabinieri ti stanno beccando, il clan ti paga un mese al nord Italia o all'estero. Anche lui forse sognava di diventare boss, di dominare su mezza Napoli e di investire in tutt'Europa.
Se mi fermo e prendo fiato riesco facilmente a immaginare il loro incontro, anche se non conosco neanche il tratto dei visi. Si saranno conosciuti nel solito bar, i maledetti bar meridionali di periferia intorno a cui circola come un vortice l'esistenza di tutti, ragazzina e vecchi novantenni catarrosi. O forse si saranno incontrati in qualche discoteca. Un giro a piazza Plebiscito, un bacio prima di tornare a casa. Poi i sabati trascorsi assieme, qualche pizza in compagnia, la porta della stanza chiusa a chiave la domenica dopo pranzo quando gli altri si addormentano sfiniti dalla mangiata. E così via. Come si fa sempre, come accade per tutti e per fortuna. Poi Gennaro entra nel Sistema. Sarà andato da qualche amico camorrista, si sarà fatto presentare e poi avrà iniziato a faticare per Di Lauro. Immagino che forse la ragazza avrà saputo, avrà tentato di cercargli qualcos'altro da fare, come spesso accade a molte ragazze di queste parti, di sbattersi per i propri fidanzati. Ma forse alla fine si sarà dimenticata del mestiere di Gennaro. In-somma, è un lavoro come un altro. Guidare un'auto, trasportare qualche pacco, si inizia con piccole cose. Da niente. Ma che ti fanno vivere, ti fanno lavorare e a volte provare anche la sensazione di essere realizzato, stimato, gratificato. Poi la storia tra loro è finita.
Quei pochi mesi però sono bastati. Sono bastati per associare Gelsomina alla persona di Gennaro. Renderla "tracciata" dalla sua persona, appartenente ai suoi affetti. Anche se la loro relazione era terminata, forse mai realmente nata. Non importa. Sono solo congetture e immaginazioni. Ciò che resta è che una ragazza è stata torturata e uccisa perché l'hanno vista mentre dava una carezza e un bacio a qualcuno, qualche mese prima, in qualche parte di Napoli. Mi sembra impossibile crederci. Gelsomina sgobbava molto, come tutti da queste partì. Spesso le ragazze, le mogli devono da sole mantenere le famiglie perché moltissimi uomini cadono in depressione per anni. Anche chi vive a Secondigliano, anche chi vive nel "Terzo Mondo", riesce a avere una psiche. Non lavorare per anni ti trasforma, essere trattati come mezze merde dai propri superiori, niente contratto, niente rispetto, niente danaro, ti uccide. O divieni un animale o sei sull'orlo della fine. Gelsomina quindi faticava come tutti quelli che devono fare almeno tre lavori per riuscire ad accaparrarsi uno stipendio che passava per metà alla famiglia. Faceva anche del volontariato con gli anziani di queste parti, cosa su cui si sono sprecate le lodi dei giornali che parevano fare a gara nel riabilitarla. A fianco ai servizi su Mina Verde capitò anche un'intervista alla moglie di Raffaele Cutolo. Donna Immacolata vi sostiene che la camorra, quella vera, quella di suo marito, non uccideva mai le donne. Aveva una forte etica, fatta da uomini d'onore. Bisognava forse ricordarle che negli anni '80 Cutolo fece sparare in faccia a una bambina di pochi anni, figlia del magistrato Lamberti, davanti al padre. Ma i quotidiani l'ascoltano, le concedono fiducia, le danno credito e autorevolezza sperando che il potere della camorra possa ritornare come un tempo. La camorra del passato è sempre migliore rispetto a quella che è o che sarà.

Roberto Saviano, Gomorra

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« Risposta #40 inserito:: Dicembre 20, 2008, 12:11:00 pm »

La corruzione inconsapevole che affonda il Paese

di Roberto Saviano

 
La cosa enormemente tragica che emerge in questi giorni è che nessuno dei coinvolti delle inchieste napoletane aveva la percezione dell'errore, tantomeno del crimine. Come dire ognuno degli imputati andava a dormire sereno. Perché, come si vede dalle carte processuali, gli accordi non si reggevano su mazzette, ma sul semplice scambio di favori: far assumere cognati, dare una mano con la carriera, trovare una casa più bella a un costo ragionevole. Gli imprenditori e i politici sanno benissimo che nulla si ottiene in cambio di nulla, che per creare consenso bisogna concedere favori, e questo lo sanno anche gli elettori che votano spesso per averli, quei favori. Il problema è che purtroppo non è più solo la responsabilità del singolo imprenditore o politico quando è un intero sistema a funzionare in questo modo.

Oggi l'imprenditore si chiama Romeo, domani avrà un altro nome, ma il meccanismo non cambierà, e per agire non si farà altro che scambiare, proteggere, promettere di nuovo. Perché cosa potrà mai cambiare in una prassi, quando nessuno ci scorge più nulla di sbagliato o di anomalo. Che un simile do ut des sia di fatto corruzione è un concetto che moltissimi accoglierebbero con autentico stupore e indignazione. Ma come, protesterebbero, noi non abbiamo fatto niente di male!

E che tale corruzione non vada perseguitata soltanto dalla giustizia e condannata dall'etica civile, ma sia fonte di un male oggettivo, del funzionamento bloccato di un paese che dovrebbe essere fondato sui meccanismi di accesso e di concorrenza liberi, questo risulta ancora più difficile da cogliere e capire. La corruzione più grave che questa inchiesta svela sta nel mostrarci che persone di ogni livello, con talento o senza, con molta o scarsa professionalità, dovevano sottostare al gioco della protezione, della segnalazione, della spinta.

Non basta il merito, non basta l'impegno, e neanche la fortuna, per trovare un lavoro. La condizione necessaria è rientrare in uno scambio di favori. In passato l'incapace trovava lavoro se raccomandato. Oggi anche la persona di talento non può farne a meno, della protezione. E ogni appalto comporta automaticamente un'apertura di assunzioni con cui sistemare i raccomandati nuovi.

Non credo sia il tempo di convincere qualcuno a cambiare idea politica, o a pensare di mutare voto. Non credo sia il tempo di cercare affannosamente il nuovo o il meno peggio sino a quando si andrà incontro a una nuova delusione. Ma sono convinto che la cosa peggiore sia attaccarsi al triste cinismo italiano per il quale tutto è comunque marcio e non esistono innocenti perché in un modo o nell'altro tutti sono colpevoli. Bisogna aspettare come andranno i processi, stabilire le responsabilità dei singoli. Però esiste un piano su cui è possibile pronunciarsi subito. Come si legge nei titoli di coda del film di Francesco Rosi "Le mani sulla città": "I nomi sono di fantasia ma la realtà che li ha prodotti è fedele".

Indipendentemente dalle future condanne o assoluzioni, queste inchieste della magistratura napoletana, abruzzese e toscana dimostrano una prassi che difficilmente un politico - di qualsiasi colore - oggi potrà eludere. Non importa se un cittadino voti a destra o a sinistra, quel che bisogna chiedergli oggi è esclusivamente di pretendere che non sia più così. Non credo siano soltanto gli elettori di centrosinistra a non poterne più di essere rappresentati da persone disposte sempre e soltanto al compromesso. La percezione che il paese stia affondando la hanno tutti, da destra a sinistra, da nord a sud. E come in ogni momento di crisi, dovrebbero scaturirne delle risorse capaci di risollevarlo. Il tepore del "tutto è perduto" lentamente dovrebbe trasformarsi nella rovente forza reattiva che domanda, esige, cambia le cose. Oggi, fra queste, la questione della legalità viene prima di ogni altra.

L'imprenditoria criminale in questi anni si è alleata con il centrosinistra e con il centrodestra. Le mafie si sono unite nel nome degli affari, mentre tutto il resto è risultato sempre più spaccato. Loro hanno rinnovato i loro vertici, mentre ogni altra sfera di potere è rimasta in mano ai vecchi. Loro sono l'immagine vigorosa, espansiva, dinamica dell'Italia e per non soccombere alla loro proliferazione bisogna essere capaci di mobilitare altrettante energie, ma sane, forti, mirate al bene comune. Idee che uniscano la morale al business, le idee nuove ai talenti.

Ho ricevuto l'invito a parlare con i futuri amministratori del Pd, così come l'invito dell'on del Pdl Granata ad andare a parlare a Palermo con i giovani del suo partito. Credo sia necessario il confronto con tutti e non permettere strumentalizzazioni. Le organizzazioni criminali amano la politica quando questa è tutta identica e pronta a farsi comprare. Quando la politica si accontenta di razzolare nell'esistente e rinuncia a farsi progetto e guida. Vogliono che si consideri l'ambito politico uno spazio vuoto e insignificante, buono solo per ricavarne qualche vantaggio. E a loro come a tutti quelli che usano la politica per fini personali, fa comodo che questa visione venga condivisa dai cittadini, sia pure con tristezza e rassegnazione.

La politica non è il mio mestiere, non mi saprei immaginare come politico, ma è come narratore che osserva le dinamiche della realtà che ho creduto giusto non sottrarmi a una richiesta di dialogo su come affrontare il problema dell'illegalità e della criminalità organizzata. Il centrosinistra si è creduto per troppo tempo immune dalla collusione quando spesso è stato utilizzato e cooptato in modo massiccio dal sistema criminale o di malaffare puro e semplice, specie in Campania e in Calabria. Ma nemmeno gli elettori del centrodestra sono felici di sapere i loro rappresentanti collusi con le imprese criminali o impegnati in altri modi a ricavare vantaggi personali. Non penso nemmeno che la parte maggiore creda davvero che sia in atto un complotto della magistratura. Si può essere elettori di centrodestra e avere lo stesso desiderio di fare piazza pulita delle collusioni, dei compromessi, di un paese che si regge su conoscenze e raccomandazioni.

Credo che sia giunto il tempo di svegliarsi dai sonni di comodo, dalle pie menzogne raccontate per conforto, così come è tempo massimo di non volersela cavare con qualche pezza, quale piccola epurazione e qualche nome nuovo che corrisponda a un rinnovamento di facciata. Non ne rimane molto, se ce n'è ancora. Per nessuno. Chi si crede salvo, perché oggi la sua parte non è stata toccata dalla bufera, non fa che illudersi. Per quel che bisogna fare, forse non bastano nemmeno i politici, neppure (laddove esistessero) i migliori. In una fase di crisi come quella in cui ci troviamo, diviene compito di tutti esigere e promuovere un cambiamento.

Svegliarsi. Assumersi le proprie responsabilità. Fare pressione. È compito dei cittadini, degli elettori. Ognuno secondo la sua idea politica, ma secondo una richiesta sola: che si cominci a fare sul serio, già da domani.

20 dicembre 2008
dal blog di Roberto Saviano
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« Risposta #41 inserito:: Gennaio 18, 2009, 07:39:22 pm »

Saviano commenta le agghiaccianti frasi di Setola e del suo complice

Dopo aver letto certi dialoghi uno scrittore non può più fidarsi della sua fantasia

Nella testa dei killer di Gomorra così l'orrore diventa routine


di ROBERTO SAVIANO


Se un narratore avesse raccontato di un boss latitante che riceve nella sua villa imprenditori edili dell'alta velocità mentre carezza una tigre al guinzaglio; o se avesse scritto che i killer della faida di Scampia dopo le esecuzioni correvano a vedere come le televisioni trasmettevano la notizia e poi continuavano la partita alla Playstation, qualsiasi giornale o editore avrebbe respinto il suo articolo o il suo romanzo. Considerando inverosimile o esagerato lo scritto. E mitomane e infantilmente provocatore l'autore. E invece è la verità. Il primo episodio si riferisce al latitante Michele Zagaria, il secondo riguarda il gruppo di Ugo De Lucia killer di Scampia.

Ascoltare i dialoghi tra assassini - come quelli pubblicati ieri da Repubblica - è un modo per comprendere come la normalità sia intessuta con la guerra. Sparare in faccia, girare con Ak47 e calibro 38, è parte naturale della vita d'ogni giorno. Uno scrittore dopo aver letto quei dialoghi non può più fidarsi della sua fantasia. Le parole usate dai killer hanno un sapore irriproducibile e superano ogni immaginazione. Sono colme di un'aberrazione che spaventa perché inserita nei tempi e nei gesti quotidiani. Si uccide tra un caffè e una guantiera di dolci, si parla di sparare in faccia come si commenta una partita. E si almanacca su come fregare un nemico attraverso i più strani stratagemmi.

Giuseppe Setola che propone di prendere un caffè subito dopo un omicidio è parso scandaloso. Ma è una delle classiche situazioni da guerra di camorra. Dopo un'esecuzione si fa festa. Vincenzo Gallo, dopo aver ucciso Modestino Bosco nel settembre 2006 a Secondigliano, pur non riuscendo a trovare compagni con cui festeggiare, si compra una guantiera di profiteroles. "Spesi una cifra. Mi feci tre bicchieri di vino rosso". Non riesce a prendere sonno e non capisce il motivo. In fondo non ha fatto qualcosa di inusuale. Racconta che la moglie gli disse: "Non so come ti vedo". Compra dello champagne e lo beve vedendosi "Miseria e nobiltà" e al telefono aggiunge: "Mi schiattai dalle risate". Ma il sonno non gli arriva, così mette un dvd con degli incontri di wrestling. Giunta l'alba capisce finalmente qual era la sua preoccupazione: la mattina legge il nome dell'uomo che ha ucciso sul giornale e pensa di aver sbagliato persona. Infatti conosceva la vittima solo col soprannome di Celeste. "Quando ho letto Modestino ho detto: mamma mia, vuoi vedere che ho sparato uno per un altro? Non sia mai Gesù Cristo".

Questa è la quotidianità in un territorio di guerra che si finge invece essere un luogo di pace. Gallo dopo l'esecuzione racconta "Mi lavai la faccia con la pisciazza, presi l'acqua fredda, mi sciacquai, mi passai la leocrema nelle mani e mi lavai un'altra volta con la varechina". L'urina è l'unico modo per togliersi dalla faccia tracce di sangue e polvere da sparo. Se ti fermano e ti fanno la prova stub (per identificare la polvere da sparo), ti salvi se ti lavi in questo modo. Gallo, pur lavandosi la faccia, non riuscì a salvare le scarpe appena comprate, ma troppo lerce di sangue: dovette buttarle.

Due sono i topoi classici del linguaggio gestuale dei killer. Mangiare dopo un'esecuzione e cambiarsi le scarpe. Lo stesso Setola e il suo gruppo usano la messa in scena della festa per fregare Granata, loro ex amico. Vanno sotto casa sua, citofonano e gli mostrano di essere arrivati con torta e champagne. Oggetti che rassicurerebbero persino un sospettoso camorrista. Quello si sporge dal balcone, e loro iniziano a sparare con i mitra.

Oggi la parte maggiore dei killer spara alla testa. Negli anni '80 si sparava al petto e al basso ventre. Molte sono le ragioni tecniche per questo cambiamento: moto più agili, pistole più potenti e quindi meno precise da lontano, la coca di cui si riempiono che non gli permette di vedere bene l'obiettivo. Ma è anche soprattutto una questione di moda. Nei film si spara con la pistola messa di piatto, e tenuta con le due mani. E i killer sparano come gli attori di Tarantino. Giovanni Letizia - secondo il pentito Oreste Spagnuolo - quando uccise l'imprenditore Michele Orsi indossava una parrucca e ai piedi aveva un paio di Hogan di tela, scarpe indossate anche da Paolo Di Lauro. Uccisero in un tempo di azione ed esecuzione di sette minuti. Nella fuga dopo si fermarono perché "avevano forato".

Gli venne fame e quindi andarono a mangiare con "Letizia che aveva ancora le scarpe sporche di sangue", ma "preferiva pulirle con la spugnetta invece di buttarle". Quando il suo capo, chiese perché invece di perdere tempo a lavarle rischiando di essere beccato per quel paio di scarpe, Giovanni Letizia gli rispose che "Orsi non valeva le sue scarpe".

Giuseppe Setola che viene descritto come un criminale di grosso calibro è invece un killer disperato che i capi casalesi, ancora latitanti, o ancora al comando dal 41 bis hanno usato e tollerato. Un capozona incline ad agguati fatti con l'inganno. Un uomo senza molto coraggio, che preferisce uccidere solo se è sicuro che le vittime sono disarmate e preferibilmente di spalle.
Setola è già stato condannato all'ergastolo per l'omicidio di Genovese Pagliuca, ucciso a Teverola nel 1995. Il ragazzo si era ribellato alle violenze subite dalla fidanzata per aver rifiutato una relazione lesbica con Angela Barra, amante di Francesco Bidognetti. Fu sequestrata e violentata per 13 giorni. Pagliuca, che stava cercando di trovare il nascondiglio dove veniva tenuta prigioniera, venne poi ammazzato per ordine del clan. Ci pensò proprio Setola. Ma le uccisioni e le violenze equivalgono a messaggi che si vuole dare, a un linguaggio mediatico chiaro. Uccido quindi sono. L'immaginario collettivo si figura che un killer vada a compiere un omicidio con aria tragica, pieno di angoscia. In realtà ascolta canzoni neomelodiche, magari le canta pure. Ferocia e sentimentalismo vanno assieme perché fanno entrambi parte della vita quotidiana. Per Ugo de Lucia, altro killer, ammazzare si dice "fare un pezzo". Il linguaggio è già di per se tecnico. Come assemblare un'auto, essere metalmeccanici, artigiani. "Io l'ammazzavo, mica gli sparavo in una gamba se ero io gli spappolavo le membrane lo sai!" Così commenta in una telefonata il lavoro fatto da un altro e eseguito male perché aveva solo ferito la vittima.

Il dialogo della società contemporanea ormai è scritto nelle intercettazioni. E il mondo criminale non è un mondo a parte, anzi è parte integrante, se non l'avanguardia del nostro tempo. Non esiste più confine tra fiction, immaginazione, rappresentazione scenica, leggenda metropolitana. Nelle parole raccolte dalle intercettazioni c'è una sedimentazione di tutto. A seconda degli obiettivi. Emulare battute da film, prendere l'accento e la ferocia del proprio paese per incutere spavento, cantare una canzone, fermarsi a bere un caffè. Non ci resta da capire che, tragicamente, la quotidianità del male non avviene affatto in un mondo diverso da quello di ognuno di noi.

© Roberto Saviano 2008. Published by arrangement with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria

(18 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #42 inserito:: Gennaio 23, 2009, 12:52:51 pm »

IL COMMENTO

La rivoluzione di un padre

di ROBERTO SAVIANO



BEPPINO Englaro, il papà di Eluana, sta dando forza e senso alle istituzioni italiane e alla possibilità che un cittadino del nostro Paese, nonostante tutto, possa ancora sperare nelle leggi e nella giustizia. Ciò credo debba essere evidente anche per chi non accetta di voler sospendere uno stato vegetativo permanente e ritiene che ogni forma di vita, anche la più inerte, debba essere tutelata.

Mi sono chiesto perché Beppino Englaro, come qualcuno del resto gli aveva suggerito, non avesse ritenuto opportuno risolvere tutto "all'italiana". Molti negli ospedali sussurrano: "Perché farne una battaglia simbolica? La portava in Olanda e tutto si risolveva". Altri ancora consigliavano il solito metodo silenzioso, due carte da cento euro a un'infermiera esperta e tutto si risolveva subito e in silenzio.

Come nel film "Le invasioni barbariche", dove un professore canadese ormai malato terminale e in preda a feroci dolori si raccoglie con amici e familiari in una casa su un lago e grazie al sostegno economico del figlio e a una brava infermiera pratica clandestinamente l'eutanasia.

Mi chiedo perché e con quale spirito accetta tutto questo clamore. Perché non prende esempio da chi silenziosamente emigra alla ricerca della felicità, sempre che le proprie finanze glielo permettano. Alla ricerca di tecniche di fecondazione in Italia proibite o alla ricerca di una fine dignitosa. Con l'amara consapevolezza che oramai non si emigra dall'Italia solo per trovare lavoro, ma anche per nascere e per morire. Nella vicenda Englaro ritornano sotto veste nuova quelle formule lontane e polverose che ci ripetevano all'università durante le lezioni di filosofia.

Il principio kantiano: "Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga universale" si fa carne e sudore. E forse solo in questa circostanza riesci a spiegarti la storia di Socrate e capisci solo ora dopo averla ascoltata migliaia di volte perché ha bevuto la cicuta e non è scappato. Tutto questo ritorna attuale e risulta evidente che quel voler restare, quella via di fuga ignorata, anzi aborrita è molto più di una campagna a favore di una singola morte dignitosa, è una battaglia in difesa della vita di tutti. E per questo Beppino, nonostante il suo dramma privato, ha dovuto subire l'accusa di essere un padre che vuole togliere acqua e cibo alla propria figlia, contro coloro che dileggiano la Suprema Corte e contro chi minaccia sanzioni e ritorsioni per le Regioni che accettino di accogliere la sua causa, nel pieno rispetto di una sentenza della Corte di cassazione.

L'unica risposta che ho trovato a questa domanda, la più plausibile, è che la lotta quotidiana di Beppino Englaro non sia solo per Eluana, sua figlia, ma anche e soprattutto in difesa del Diritto, perché è chiaro che la vita del Diritto è diritto alla vita. Beppino Englaro con la sua battaglia sta aprendo una nuova strada, sta dimostrando che in Italia si può e si deve restare utilizzando gli strumenti che la democrazia mette a disposizione. In Italia non esiste nulla di più rivoluzionario della certezza del Diritto. E mi viene in mente che tutelare la certezza dei diritti, la certezza dei crediti, costituirebbe la stangata definitiva all'economia criminale. Se fosse possibile, nella mia terra, rivolgersi a un tribunale per veder riconosciuto, in un tempo congruo, la fondatezza del proprio diritto, non si avvertirebbe certo il bisogno di ricorrere a soluzioni altre. Beppino questo sta dimostrando al Paese. Non sarebbe necessario ricorrere al potere di dissuasione delle organizzazioni criminali, che al Sud hanno il monopolio, illegale, nel fruttuoso business del recupero crediti.

E a lui il merito di aver insegnato a questo Paese che è ancora possibile rivolgersi alle istituzioni e alla magistratura per vedere affermati i propri diritti in un momento di profonda e tangibile sfiducia. E nonostante tutte le traversie burocratiche, è lì a dimostrare che nel diritto deve esistere la possibilità di trovare una soluzione.

Per una volta in Italia la coscienza e il diritto non emigrano. Per una volta non si va via per ottenere qualcosa, o soltanto per chiederla. Per una volta non si cerca altrove di essere ascoltati, qualsiasi cittadino italiano, comunque la pensi non può non considerare Beppino Englaro un uomo che sta restituendo al nostro Paese quella dignità che spesso noi stessi gli togliamo.

Immagino che Beppino Englaro, guardando la sua Eluana, sappia che il dolore di sua figlia è il dolore di ogni singolo individuo che lotta per l'affermazione dei propri diritti. Se avesse agito in silenzio, trovando scorciatoie a lui sarebbe rimasto forse solo il suo dolore. Rivolgendosi al diritto, combattendo all'interno delle istituzioni e con le istituzioni, chiedendo che la sentenza della Suprema Corte sia rispettata, ha fatto sì, invece, che il dolore per una figlia in coma da 17 anni, smettesse di essere un dolore privato e diventasse anche il mio, il nostro, dolore. Ha fatto riscoprire una delle meraviglie dimenticate del principio democratico, l'empatia. Quando il dolore di uno è il dolore di tutti. E così il diritto di uno diviene il diritto di tutti.

(23 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #43 inserito:: Gennaio 28, 2009, 12:05:27 pm »

Una poesia per Roberto Saviano


di Franco Arminio
 

oggi a napoli mi hanno rubato il portafogli.
era successo molti anni fa, quasi allo stesso posto.
mentre il carabiniere scriveva svogliatamente la denuncia
ho pensato al tuo libro
e alle cose che nella pancia dell'animale
restano sempre uguali.
ieri pioveva e girava per la città
un'umanità annerita.
do solo non puoi fare di più, ma in tanti
bisogna spalancare
la bocca all'animale e farlo vomitare,
deve vomitare tutto quello che ha mangiato
tutti i morti ammazzati, tutti i derubati,
i minacciati,
tutti gli imbroglioni incravattati,
i politicanti prezzolati,
deve vomitare pure
i professoroni e gli impiegatucci, la terra
rubata alle colline, la libertà concessa
ai farabutti.è come fare un raschiamento uterino.
bisogna raschiare bene, bisogna raschiare tutto.


dal blog di Roberto Saviano
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« Risposta #44 inserito:: Febbraio 11, 2009, 03:27:17 pm »

Eluana, Saviano su El Pais: «L'Italia chieda perdono al padre»



«Come Italiano sento la necessità di sperare che il mio paese chieda perdono a Beppino Englaro».

Inizia così l'articolo che lo scrittore e giornalista Roberto Saviano ha affidato al quotidiano spagnolo El Pais dal titolo «Chiedano perdono a Beppino Englaro».

«Perdono – spiega – perché agli occhi del mondo ha dimostrato di essere un paese crudele, incapace di comprendere la sofferenza di un uomo e di una donna malata. E che si è messo a gridare, e ad accusare, animato da una e dall'altra bandiera». Per lo scrittore però nel caso di Eluana «non si tratta di bandiere», né di «stare per la vita o per la morte».

E invece è andata proprio così e in nome di tutto questo si è voluto vedere anche Beppino Englaro per quello che non era. Il padre di Eluana «non era un fautore della morte di sua figlia, e fino in fondo al suo sguardo mostra i segni del dolore di un apdre che ha perso tutta la speranza e la felicità, e la bellezza, attraverso la sofferenza di sua figlia» dice Saviano.
«Beppino deve essere rispettato come uomo e cittadino indipendentemente da quanto pensa ciascuno. Anche , e soprattutto, se uno non pensa come Beppino. Perché è un cittadino che si è rivolto alle istituzioni», sottolinea lo scrittore. «Beppino si è rivolto alla legge e la legge ha confermato il suo diritto. Basta questo per scatenare contro di lui la rabbia e l'odio? È carità cristiana chiamarlo assassino?» si chiede ancora lo scrittore.

Per Saviano, infatti, chi non «condivide la decisione di Beppino (e che Eluana aveva confidato a suo padre) aveva il diritto e il dovere, seguendo la propria coscienza, di manifestare la propria opposizione a che si interrompesse l'alimentazione tramite il sondino e l'idratazione. La battaglia – accusa – si sarebbe dovuta fare in seguendo la coscienza di ognuno e e non provando ad intervenire mettendosi al di sopra alla Corte di Cassazione».

Saviano si scaglia contro quel gruppo di persone «che non conosce nulla del dolore di una figlia immobile in un letto» che descrive il padre di Eluana come una sorta di conte Ugolino che divora i suoi figli. «E dicono queste idiote in nome di un credo religioso», commenta Saviano, che dice di conoscere invece una Chiesa diversa, che si batte per la dignità degli immigrati e contro la mafia. La Chiesa «dei padri comboniani, così come della Comunità di Sant'Egidio, del cardinale Sepe e del cardinale Martini, ordini, associazioni e personalità cristiane fondamentali per la sopravvivenza della dignità del mio Paese».

Lo scrittore a questo punto della lettera si rivolge «a chi pensa di ottenere merito dalla Chiesa con il caso Elauna» per chiedere loro «dov'era la Chiesa durante la guerra in Iraq? dove stavano i politici quando la Chiesa chiedeva rispetto per gli immigrati e un intervento decisivo contro la mafia? Sarebbe bene chiedere ai cristiani del mio paese di non credere a chi nell'animo si sente solo di speculare sui dibattiti nei quali non si può dimostrare niente con i fatti, ma solo prendere una posizione».

Dopo aver ripetuto che il vero punto era capire il dolore di una famiglia, e di percepire il dolore, da Saviano arriva poi l'affondo alla politica. Molti politici hanno voluto «utilizzare il caso Englaro per creare consenso e distrarre l'opinione pubblica», nota lo scrittore. Che poi sottolinea come il padre di Eluana, invece, abbia «dimostrato che in Italia non esiste nulla di più rivoluzionario delle certezza del diritto». E ricorda che Beppino, per rispetto della figlia, ha voluto mostrare solo le foto di Eluana «sorridente e bellissima». Non ha mostrato le foto dell'ospedale «perché non voleva vincere con il ricatto delle immagini, ma solo con la forza del diritto» a<prendo così «un nuovo cammnino delle istituzioni».

Ma forse è stata proprio questo l'errore di Beppino Englaro: l'ingeniutà e la correttezza di credere nella possibilità di una giustizia in Italia», unico caso in cui «la coscienza e il diritto non emigrano» ed è «così che il diritto di uno diventa il diritto di tutti».

Il padre di Eluana, conclude Saviano dopo tante accuse, rappresenta «l'Italia del diritto e dell'empatia, quella in cui sarebbe bello riconoscersi».


11 febbraio 2009
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