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Autore Discussione: ROBERTO SAVIANO  (Letto 92160 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Giugno 23, 2008, 10:34:07 am »

Saviano: «Adesso la smetterò di vivere come un topo»
 
NAPOLI - Mancano venti minuti alla sentenza, e i giurati con la fascia tricolore entrano per salutarlo. Appena usciti dalla camera di Consiglio, si mettono in coda, come davanti a una biglietteria. La saletta appena dietro l'aula bunker è minuscola, ha grate di cemento armato alle pareti, sparsi per terra ci sono una trentina di cartoni per toner da fotocopiatrice.

La toilette è a vista, senza porta. Prima dei giudici popolari si era affacciato Beppe Lumìa, ex presidente della Commissione antimafia. «Ti prometto che farò di tutto per mantenere alta l'attenzione» è il suo congedo. Poi tocca a Federico Cafiero de Raho, uno dei magistrati che hanno lavorato di più a Spartacus. «È tutto merito tuo» gli dice, e Roberto Saviano, assiso su un cartone, ha il pudore di schermirsi. «Ma che dici, è solo lavoro vostro, una vittoria dello Stato, io non c'entro nulla». Una verità e una bugia, nella stessa frase. I settanta giornalisti che affollano l'aula Ticino del carcere di Poggioreale, principali testate nazionali, diretta televisiva, inviati da Francia, Inghilterra e Spagna, sono solo farina del suo sacco. Questo è il «suo» processo, è la versione giudiziaria di Gomorra, almeno così viene vissuta.

No Saviano, no Casalesi, così è se vi pare. Anche per questo, la sua presenza, qui, oggi, può segnare un punto a favore di chi lo accusa di un protagonismo tale da oscurare anche gli orrori dei boss di Casal di Principe. «Non credo che sia così. Ci tengo a fare questa cosa, per la mia vita. Per dimostrare che posso fare il mio lavoro senza avere paura». Il nero della sua maglietta contrasta con la faccia diafana e scavata. Non ci ha dormito sopra e si vede. È arrivato qui dentro con anticipo fantozziano, dalle 8 del mattino è chiuso in questo bugigattolo, mentre nell'aula, piena di giornalisti e avvocati, solo due imputati, nessun boss in video, l'unica domanda riguarda lui. Arriva? Si farà vedere? «Ho pensato che ci sarei andato comunque, anche senza questo clamore. E allora perché non farlo?». Tormenta un brufolo che gli deturpa il tatuaggio Maori sul bicipite destro, fa scrocchiare di continuo le dita, si siede e si alza, sembra un incrocio tra un'anima in pena e un pugile prima del match. «Finora ho vissuto come un topo, adesso basta. Dici che sbaglio? Non lo so, di errori ne faccio continuamente. Ma loro, i Casalesi, sono la mia ossessione solitaria, sento che dovevo esserci».

Quando il magistrato Franco Roberti gli fa un cenno per dire che è ora, la corte sta entrando in aula, si alza di scatto. «Eccolo», flash, taccuini, tutti intorno a lui, Saviano che divora il «suo» processo e poi sparisce. Riappare qualche ora più tardi, sul lungomare di Mergellina, annunciato dalle sirene dei poliziotti in moto che chiedono strada, dagli uomini della scorta che scendono dale due auto blindate e annusano l'aria prima di dargli il permesso di scendere. I tg, intanto, parlano ancora di lui, della sua comparsata, che diventerà ulteriore manna per i teorici del «se l'è andata a cercare», la sua vita blindata. «Io, semplicemente, mi prendo la responsabilità di quel che ho raccontato. Gomorra non è un libro sui Casalesi, ma sul capitalismo visto attraverso la feritoia del loro potere». Sembra di essere seduti al tavolino con la Madonna pellegrina, guardata a vista da una manciata di agenti con la pistola in mano. Una donna gli chiede una foto, come se fosse il centravanti della nazionale.

Un signore in tuta gli presenta figlio, figlia, una infinità di nipoti: «Ce l'abbiamo fatta a condannarli, abbiamo vinto», gli dice. Roberto Saviano sa di essere diventato un simbolo, ma è conscio del fatto che molti pensano sia invece un prodotto, complice e vittima di una operazione commerciale da un milione e mezzo di copie che lo ha trasformato in un Salman Rushdie antimafia. «Lo sento, l'odio nei miei confronti. E a volte non me ne capacito. Io non ho fatto scalate di potere, non ho rubato spazio a nessuno. Mi ferisce quando, per denigrarmi, si usano i sacrifici che Giovanni Falcone sopportò in vita come termine di paragone. Lui faceva il magistrato. Io, che non sono certo un eroe come lui, non ero preparato a tutto questo ». La processione al tavolino non conosce sosta. Quando si alza, non c'è verso di pagare il conto. Le operazioni per uscire dal bar sono complesse, estenuanti. Lui aspetta e intanto rimugina su quel che gli ha detto in aula un vecchio collega che non vedeva da tempo. «Qui dentro - si riferiva alla sentenza appena letta - sei l'unico condannato all'ergastolo ad essere in libertà». Saviano ha tentato di sorridere, ma non ci è riuscito.




di Marco Imarisio
20 giugno 2008

da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Giugno 25, 2008, 11:07:42 am »

CRONACA

Nuova offensiva contro il clan camorrista

In affitto la casa dei parenti del boss Schiavone

Il boss di Gomorra ai suoi figli "Andate via da Casal di Principe"

di ANTONIO CORBO

 
NAPOLI - Quel portone è stato per anni diverso dagli altri a Casal di Principe. Fu murato per evitare una confisca. Via Bologna, una strada come tante. Ma chi passava, sembrava mimare un cenno di saluto. Un inchino. La casa del boss. La parte non ancora sequestrata del villone di Francesco Schiavone, detto "Sankokan", il capo del clan dei Casalesi, potrebbe essere offerta in fitto. La famiglia sta per lasciarla. "E' una scelta di vita, non una resa", spiegano in questo paese di 16mila abitanti, almeno tremila bollati da un contatto con la giustizia, una denuncia o una condanna.
La notizia si era già diffusa a Casal di Principe nei giorni scorsi. Ne hanno discusso ieri pomeriggio al dodicesimo piano della Procura magistrati, funzionari di polizia, ufficiali di carabinieri e finanza. Scatta una nuova offensiva giudiziaria contro il clan più feroce e potente della camorra, con potenza economica pari a quella militare. L'agguato a Michele Orsi, imprenditore nel settore rifiuti, fu portato il primo giugno in corso Dante da un'autocolonna: sicari su sei auto. Orsi sapeva tutto sulle imprese e i politici coinvolti nell'affare rifiuti.

"La nostra offensiva prevede, ora più che mai, la cattura dei latitanti e la confisca dei patrimoni. Sono stati sempre i nostri obiettivi, lo sono oggi ancora di più", spiega Franco Roberti, capo del pool anticamorra, che dal "Processo Spartacus" in avanti ha ottenuto duemila arresti in provincia di Caserta, sequestri per oltre mille milioni di euro, tra contanti, quote societarie, ville, barche, auto, molte Ferrari tra queste.

"Ci dà molta forza la vicinanza del Capo dello Stato che in pochi giorni mi ha telefonato due volte: l'ho trasmessa a tutto il mio ufficio, impegnato oltre ogni limite. Anche il ministero dell'Interno ci sostiene, con dirigenti, personale qualificato, mezzi moderni di indagine". Mai così frenetica la ricerca dei latitanti.
Questo clima allontana la famiglia di "Sandokan". Notti da coprifuoco, certo. Quaranta auto civette, metà della polizia e metà dei carabinieri, che girano nei paesi degli ergastolani e dei latitanti. Ma il boss, che non ha alcuna intenzione di pentirsi, è preoccupato. Deve gestire comunque un clan, far controllare l'economia di un paese con ricchi allevamenti di bufale e imprese edili che trovano appalti e vincono gare pubbliche in tutta Italia, ma soprattutto sa che i suoi quattro figli maschi tutti liberi rischiano di inciampare in qualche grana giudiziaria.

Nicola ha 30 anni, più giovani Carmine, Ivanhoe, Walter, oltre alle gemelline presenti nelle concitate fasi della sua cattura: 1990, dopo 13 ore di assedio Guido Longo capo della Dia fece staccare l'energia elettrica. Da un interrato inaccessibile e bene arredato, piastrelle griffate e marmi, Sandokan si arrese. Passava il tempo dipingendo figure sacre e controllando i monitor, telecamere nascoste all'ingresso della sua villa. La sua detenzione come quella dei Casalesi diventa ora più scomoda: con l'ex suo socio Francesco Bidognetti, Schiavone è all'Aquila. Passeranno in un carcere più duro: Opera, Parma o Tolmezzo.

La famiglia è seccata: pochi giorni fa, durante le nozze di Carmine, in un albergo cinque stelle di Vietri sul Mare, si è infilato il capo della Mobile di Caserta, Rodolfo Ruberti, per identificare i 200 invitati. Lui non lo era affatto. Ma si è presentato con 70 agenti ed ha aggiornato con i nomi raccolti le alleanze tra le famiglie. Un altro segnale: sono saltate tutte le regole non scritte di fair play. Ma da presenze e assenze è stata forse ridisegnata la nuova galassia dei Casalesi.

(25 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #17 inserito:: Luglio 02, 2008, 06:43:38 pm »

L'Espresso


Tra padrini e dittatori

Colloquio tra Roberto Saviano e Luis Moreno-Ocampo


(a cura di Gianluca Di Feo)


Le tirannie e le mafie, la globalità dei traffici e i limiti delle autorità statali. Lo scrittore di 'Gomorra' incontra il procuratore internazionale, l'uomo che processò i generali argentini e ora persegue i genocidi.

In comune hanno il ricordo di una giornata speciale. Era martedì 3 luglio 1990.

Luis Moreno-Ocampo, il primo procuratore internazionale che persegue in tutto il pianeta i crimini contro l'umanità, aveva appena concluso il suo processo più importante. Aveva fatto condannare la giunta militare che si era impadronita del suo Paese dominandolo con l'orrore dei desaparecidos. Ma quel giorno come tutti i suoi connazionali pensava solo a tifare l'Argentina, scesa in campo contro l'Italia per la semifinale mondiale.

Dall'altro lato dell'Oceano, Roberto Saviano era un ragazzino che accanto al padre guardava la stessa partita. E come tutti i napoletani non tifava per gli azzurri, ma per Diego Armando Maradona. L'uomo con la maglia numero dieci è ancora oggi una figura leggendaria per lo scrittore campano. Per Moreno-Ocampo è stato il cliente più speciale dello studio legale che aveva aperto dopo il processo ai dittatori di Buenos Aires e prima delle inchieste sui massacratori africani: "Muoversi con lui era incredibile: c'erano folle che accorrevano per venerarlo. I poliziotti che dovevano arrestarlo, persino i magistrati chiamati a giudicarlo imploravano un autografo. A lui si perdonava tutto: persino il papa lo ha salutato dicendo 'Sono un suo tifoso'". "A Napoli era la stessa cosa", gli fa eco Saviano: "E anche adesso quando torna viene sempre accolto come un idolo". Moreno-Ocampo scuote la testa: "Semplicemente incredibile, pensare che era un bambino affamato. Poi è stato travolto dalla fama: ha perso il senso del limite".

Tutto l'attività del procuratore argentino è segnata da persone che hanno perso il senso del limite. Gli ufficiali argentini che hanno fatto sparire migliaia di oppositori; i tiranni che in Congo e in Uganda usano lo stupro come arma di massa o che in queste ore continuano a rendere il Darfur "una gigantesca scena del crimine".

E lui? Il primo procuratore con competenza planetaria, a cui si rivolgono le vittime più deboli, a cui viene chiesto di punire i governi e persino di valutare la legittimità 'dell'invasione anglo-americana dell'Iraq', non teme mai di perdere il senso del limite? Non ha mai la tentazione di abbandonare i vincoli del codice per assumere un ruolo politico in nome della giustizia? "Bisogna seguire il mandato e non uscirne mai fuori", spiega: "Quando cinque anni fa sono stato eletto in questo incarico, ho subito venduto il mio studio legale e ho rinunciato all'insegnamento ad Harvard: non solo dovevo essere indipendente, ma dovevo anche mostrare di non potere venire influenzato. La mia forza sta nella mia reputazione. Se tu segui la legge, se tu non esci dal mandato, allora sei rispettato, allora hai il consenso. E questo in soli cinque anni ha permesso alla Corte penale internazionale di raggiungere obiettivi che erano impensabili. Ma se ti lasci condizionare dall'agenda politica, allora sei morto".

Saviano porta subito la conversazione su un piano letterario: "Come ci si sente a giudicare i governi? Che sensazione prova un uomo di legge mentre non si misura con una piccola cosa, ma si trova in qualche modo a mettere sotto processo la storia"? "Dos feelings", Moreno-Ocampo abbandona istintivamente l'inglese della burocrazia Onu e passa al castigliano, più vicino a quella "madre patria" che sente di condividere con la Napoli dello scrittore: "Hai il privilegio di potere aiutare milioni di vittime, puoi contribuire a fermare violenze di dimensioni epocali. E sai che non stai lavorando per una singola nazione ma per il mondo intero: stai contribuendo a fondare le istituzioni di una nuova era. È una sensazione meravigliosa: lavorare per costruire il futuro".

"Ma il problema mafioso potrebbe essere affrontato con questi metodi? Non si tratta forse di una minaccia globalizzata che coinvolge l'intero pianeta", lo incalza Saviano.Il tema è quello di 'Gomorra', l'impero economico che unisce traffici globali e sfugge alle giustizie nazionali. "È proprio quello di cui sono venuto a parlare qui a Roma: la Banca mondiale sta discutendo di come le istituzioni finanziarie possano affrontare sfide globali. Il paradosso è proprio questo: noi abbiamo polizie nazionali e magistrati nazionali mentre i criminali sono internazionali. Quando ho cominciato le mie indagini per l'Onu, mi hanno segnalato che le armi per i massacri in Ituri, una regione del Congo, venivano fornite dalla mafia ucraina.

Allora mi sono rivolto all'Europol, chiedendo notizie. Loro mi hanno risposto stupiti: sappiamo tutto dei padrini ucraini, ma ignoravamo che operassero in Africa. Perché Europol è una realtà potente ma concentrata sull'Europa e gli sfugge che invece le cosche si sono radicate altrove. O quando un giudice spagnolo ha ricostruito i voli degli aerei dei narcos: decollavano dalla Colombia portando cocaina in Spagna, poi ripartivano verso Ituri con i kalashnikov per le milizie. È chiaro che questa dimensione richiede istituzioni globali. La Corte è un primo passo, in cui molti stati hanno rinunciato alla sovranità nazionale pur limitando il mandato ai crimini contro l'umanità e ai genocidi. Ma segna la nascita di un nuovo modo di fronteggiare la globalizzazione dei reati".

"E quindi la Corte dell'Onu potrebbe occuparsi di una figura come Salvatore Mancuso? Un personaggio che in Colombia è sia terrorista che narcotrafficante: con i suoi squadroni della morte ha commesso omicidi su larga scala...". Il procuratore non la scia finire la domanda a Saviano: "Sì, che probabilmente possono essere definiti crimini contro l'umanità. E infatti quello è un dossier preliminare che abbiamo aperto: stiamo esaminando gli elementi per capire se rientra nella nostra competenza. Sono stato in Colombia, ho incontrato le autorità, le vittime, i magistrati. Prima di procedere vogliamo capire se c'era qualcuno più in alto di lui. E quale rete dall'estero ha aiutato sia lui sia la guerriglia delle Farc".

"E Fidel Castro?", insiste Saviano: "Un giorno potrebbe essere chiamato davanti alla vostra Corte?" "No. Niente Cuba, niente Iraq, niente Libano, niente Israele. Noi possiamo intervenire solo nei 106 paesi che hanno ratificato il Trattato di Roma. O nei confronti di organismi di queste nazioni. Ad esempio siamo stati chiamati a valutare la legittimità dell'azione militare britannica in Iraq, ma abbiamo ritenuto che non ci fossero i presupposti per procedere. La nostra sola esistenza però diventa un elemento di dissuasione e di prevenzione anche nei confronti degli eserciti. È una nuova era del diritto", ripete Moreno-Ocampo.

 
Il procuratore sa che più dei tiranni, la Corte ha un nemico giurato: gli Stati Uniti, che in tutti i modi cercano di contrastarla. In passato Barack Obama è stato l'unico politico americano a mostrare un'apertura. Ma appare difficile che la linea di Washington cambi. "Una nuova era richiede pazienza. Penso che nel giro di cinquant'anni tutti i paesi aderiranno. La legge riduce il potere: il nostro lavoro interessa soprattutto i paesi deboli o a chi si è trovato a esserlo nel passato. Africa, Europa, Sud America sono con noi. Il Darfur però sta aprendo una fase nuova e la necessità di fermare la strage sta creando un clima diverso intorno alla Corte: troviamo sostegno anche tra le nazioni non aderenti".

Per i massacri nel sud del Sudan sono stati appena accusati un ministro in carica e il capo dei Janjaweed, i 'diavoli sterminatori'. Ma le potenze continuano a cercare di usare la Corte per i loro disegni. "Sul Darfur un'ambasciata contattò uno dei miei collaboratori: 'Sappiamo che volete incriminare un ministro, non basta: dovete andare più in alto'. Poi dopo poche ore la stessa ambasciata lo ha richiamato: 'Fermatevi! Abbiamo saputo che stanno negoziando, non fate nulla'. Noi invece non ci facciamo condizionare".

L'aspetto che più colpisce Saviano è la capacità di trasformare la voce di chi viene ignorato: rendere i racconti delle vittime prove contro i carnefici. "Ricordo che la testimonianza di una ragazza che era stata stuprata in Uganda proseguì per tre giorni", risponde Moreno-Ocampo: "Alla fine lei scoppiò in lacrime. Noi eravamo preoccupati, temevamo di averla sottoposta a una pressione eccessiva con l'interrogatorio: 'Scusaci, ti abbiamo costretto a ricordare per poterli punire. Non volevamo farti male, non piangere'. 'No', ci rispose, 'piango perché questa è la prima volta che qualcuno mi dà ascolto'".

La parola che mette alle corde i criminali. In fondo, è la metafora di 'Gomorra': romanzo che più di ogni atto giudiziario si è trasformato in arma contro l'ultima delle mafie. "Perché è il numero dei lettori che lo rende tale, li trasforma in protagonisti", spiega lo scrittore. Fuori ci sono i carabinieri che lo circondano. Il procuratore che accusa governi e despoti invece non ha scorta, si muove in taxi e dorme a Roma in un hotel senza lussi. Sa cosa significa vivere nella minaccia: la protezione di Saviano lo riporta agli anni blindati dell'inchiesta sui generali argentini. E concorda con la sua analisi: "Dittatori militari e padrini, signori della guerra e boss sono uniti da due elementi. Pianificano crimini organizzati, seppur di dimensioni diverse.

E vogliono controllare la loro immagine. Amano che si parli di loro, ma non perdonano chi svela i meccanismi del loro potere: rispettano gli inquirenti, odiano i testimoni". Difendere i testimoni è una delle missioni più difficili, ai limiti dell'impossibile in Africa occidentale: "Una volta avevamo portato le persone che accusavano il senatore Bemba in una cittadina sicura. Poi le milizie l'hanno occupata con un blitz e noi abbiamo sudato freddo per portarli in salvo. Il dilemma più grande lo abbiamo avuto in un campo profughi: i testimoni erano gli insegnanti dell'unica scuola, portandoli via avremmo privato tutti i bambini della speranza di alfabetizzazione. Abbiamo dovuto scegliere tra giustizia ed educazione". "Ma lei", conclude Saviano, "non sente mai di stare scrivendo la storia?". "A 32 anni avevo già incriminato la giunta argentina. Pensavo: ok, ho finito il mio lavoro, ora posso fare quello che voglio. Poi a 50 anni c'è stato questo incarico. Mi sono detto: costruire questa corte adesso è responsabilità tua. Eccomi qui".

A Buenos Aires ha portato sul banco degli imputati nove generali e tre ex capi di Stato; a L'Aja ha accusato 11 criminali di massa. Nessuno aveva fatto tanto dai giorni di Norimberga. Lui ci scherza su, ma non troppo: "Ho ancora quattro anni prima di chiudere l'incarico, datemi tempo...".



(a cura di Gianluca Di Feo)
01 luglio 2008


da www.robertosaviano.it
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« Risposta #18 inserito:: Luglio 03, 2008, 07:27:38 pm »

Viaggio nelle terre di Gomorra

Da Napoli a Casal di Principe il finestrino del treno riesce a regalarti un'infinità di costruzioni.

L'edilizia, da queste parti, non ha soluzioni di continuità. C'è sempre.



I binari sono lingue di ferro che tagliano questi posti a metà. Dopo Aversa sul tracciato ferrato che corre di fianco scorgo un giubbotto antiproiettile abbandonato. Segno che le pistole fanno parte del territorio.

A Casale la stazione ferroviaria si chiama Albanova, come il nome che i fascisti affibbiarono all'agglomerato edile che compone Casal di Principe, San Cipriano ed Aversa,

All'arrivo del treno non scende quasi nessuno. La biglietteria è chiusa da anni, il sottopasso è tela per gli artisti dello spray.

Ci accoglie Tina, una giovane cronista del Mattino di Napoli. Occhi scuri e attenti che ti raccontano Casale in pochi attimi.

Ed eccola la terra di Gomorra. Eccole le case di Iovine, Bidognetti, Zagaria, Schiavone. Un'urbanizzazione che regala scenari ondivaghi ad ogni angolo. Se guardi San Cipriano e pensi di essere a Isola Capo Rizzuto non fai fatica. Le case sono uguali. Il caldo pure. Poi, però, a razioni alterne, spuntano ville da un milione di euro. Strutture costruite col cruccio dell'onnipotenza. Statue, portali, facciate da Scarface. Già, Scarface. A Casal di Principe c'è proprio una villa che prende questo nome: Villa Scarface, confiscata a Walter Schiavone, fratello del boss Francesco detto Sandokan. Un gioiellino architettonico nato dalla passione per Tony Montana, il giovane Al Pacino che interpreta la parte del boss cubano nel film di De Palma.

Alloggiamo in un santuario. Ultimo palazzo di un posto dove l'edilizia sembra non finire mai. Dopo c'è un'immensa distesa di campi che non regalano l'orizzonte. Tina ci spiega che un pentito ha parlato di rifiuti tossici seppelliti sotto questa terra. Intanto percorriamo una strada che scopriamo essere di confine. Le case alla nostra destra appartengono a Casal di Principe, quelle a sinistra a San Cipriano. Così i cittadini caricano le auto della loro spazzatura e la scaricano sull'asfalto. Non è terra di nessuno. Chi la raccoglie?

Di fronte a Santuario c'è un bar. Quattro anziani giocano a briscola. Un cartello con su scritto "Cedesi attività" rende tutto più triste.

Dietro al banco c'è un signora vestita a lutto. Occhi e capelli neri. Come Tina. Come un po' tutte le donne di questi posti. In alto ti spiazza la foto di un uomo che non ci sarà più. Probabilmente il marito.

"Che state qua in ritiro?" Non capisco se la barista ci ha confuso per calciatori o per aspiranti preti. Ma i capelli di Emiliano Morrone lasciano poco spazio alle due soluzioni. In realtà sa già chi siamo e perché veniamo. A Casale sono i giorni di "Le Terre di don Peppe Diana", il prete ucciso dalla camorra. "In realtà i giornalisti hanno rovinato Casale." Proviamo a farle qualche domanda. "La Camorra? E dov'è?. Quando ci stava la Camorra di un tempo qua non succedeva niente". Gesticola, mi fissa dritto negli occhi, ha rabbia: "Io me ne vado da qui, perché non si può più campare. Ogni giorno fanno i blitz, pretendono di mangiare gratis nel mio locale esibendo il tesserino delle forze dell'ordine. Intanto nel santuario (unico luogo attiguo al bar ndc) ci stanno le macchinette del caffé e degli snack. E io come campo? Me n'aggi a 'i". Si, ma Saviano... "E' 'nu strunz!".

Il caffè comunque era buono, e Saverio Alessio accende l'ennesima Marlboro di una giornata interminabile.

Il dibattito sulla 'ndrangheta comincia alle 20, con un'ora di ritardo. Siamo ospiti di Mario Caterino, detto "o' botta", boss di Casal di Principe latitante da anni. La sua villa, confiscatagli da un po' di tempo, è un esempio del lusso e dell'inutilità. Ampie stanze, innumerevoli bagni, un muro di cinta che pare proteggere un antico castello. E poi una scala che si intreccia su se stessa.

Nel giardino ci stanno i cronisti locali, il direttore di Libera Informazione Roberto Morrione, un po' di ragazzi. Era difficile aspettarsi di più.

La tensione sale ad ogni vespa che passa lì davanti. Comincio a strofinarmi i palmi delle mani.

Inizio ringraziando Caterino "o botta" per l'ospitalità, dicendo che l'avremmo voluto qui con noi... L'ex sindaco di Casale mi corregge alla fine: "Questa casa adesso è nostra".

La discussione sulla Santa è sulla Calabria che sparisce dura un'ora buona. Emiliano e Saverio presentano il loro libro "La società sparente". Poi tanta musica e mozzarelle di bufala squisite che Saverio definisce bioniche. Sarà pure la diossina, ma nel gusto senti la Campania che non puoi scordare.

Il pernottamento nel santuario passa veloce. La sveglia è all'alba. Abbiamo il treno ad Aversa che ci porterà a Roma. Il bar è ancora chiuso.

Ci accompagna Renato Natale, il metafisico, ex sindaco di Casal di Principe. Unico comunista al governo di questo posto. Lo faceva proprio mentre don Diana è stato ammazzato dalla Camorra. A lui lo Stato aveva deciso di dare la scorta, ma rifiutò. Ora è impegnato in azioni per la legalità. Con la sua Fiat Punto attraversiamo strade sconosciute. San Marcellino, poi Aversa, senza che le case smettano un attimo.

L'intercity pare averci aspettato per grazia. Comincia un altro viaggio. Aldilà del finestrino l'agro aversano di allontana. Le terre di don Peppe Diana si fanno sempre più distanti. Casale non si vede più. E' sparente.

 
Biagio Simonetta
29 giugno 2008
nel blog di Roberto Saviano.
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« Risposta #19 inserito:: Luglio 13, 2008, 12:03:25 pm »

«Cappotto di legno» così i Casalesi uccidono Saviano: rapper canta la morte dello scrittore

Il brano su Mtv con una clip realizzata sotto la direzione di Salvatores


NAPOLI - Roberto Saviano ucciso dalla camorra. Ipotesi di pura finzione, alla base del brano «Cappotto di legno», ispirato alla vicenda dell'autore di «Gomorra» e alla sua «condanna a morte» da parte del clan dei Casalesi, nuovo lavoro del rapper partenopeo Lucariello, voce degli Almamegretta e fortemente voluto dallo stesso Saviano, che ha direttamente supervisionato il testo.

«Cappotto di legno», nel gergo della malavita propriamente la bara, nasce dalla sincera stima reciproca e da una fitta corrispondenza iniziata nell'estate del 2007 tra Lucariello e Roberto. Nel testo, costruito sulla base di indispensabili informazioni e suggestioni fornite dallo stesso Saviano, Lucariello capovolge la classica retorica anticamorra, descrivendo dalla prospettiva di un killer di Casale l'immaginario omicidio del giovane scrittore.

Interamente in dialetto il testo, che inserisce al termine i campionamenti della voce di Nicola Schiavone, padre del boss Francesco detto «Sandokan» che definì il suo accusatore, Roberto Saviano, «un buffone, un pagliaccio». Lucariello, nato e cresciuto e Scampia, si è avvalso per gli arrangiamenti di Ezio Bosso, giovane compositore, curatore peraltro della colonna sonora di «Io non ho paura», pellicola diretta da Gabriele Salvatores. E proprio il regista premio Oscar per «Mediterraneo» ha curato la sceneggiatura del video, interamente prodotto e finanziato da MTV Italia, della canzone, in cui la voce cruda di Lucariello si fonde perfettamente con gli archi di Bosso negli spazi suggestivi del Teatro All'antica di Sabbioneta.

E' la prima volta in assoluto che l'emittente musicale cara ai giovani di tutto il mondo finanzia e produce un videoclip. «Cappotto di legno» ha avuto il privilegio grazie al particolare messaggio sociale che veicola, inserendosi alla perfezione nel progetto ideato da MTV «No mafie», a cui è dedicata l'intera giornata di venerdì 20 giugno, giorno in cui l'emittente ha cominciato a passare il video in anteprima.



Antonella Salese
23 giugno 2008


Links:
Corriere del Mezzogiorno

dal blog di Roberto Saviano
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« Risposta #20 inserito:: Luglio 20, 2008, 09:36:31 am »

Bocciati gli attori di Gomorra


di Roberto Saviano

Dodici ragazzi che hanno recitato nel film hanno perso l'anno a scuola.

E lo scrittore napoletano racconta quanto questi adolescenti fossero invece bravi, saggi e capaci di discernere tra il bene e il male


Hanno bocciato Totò e Simone e altri dieci ragazzini che hanno recitato in 'Arrevuoto'. E hanno recitato nel film 'Gomorra'. Sono stati attori nei teatri più famosi d'Italia. Hanno avuto i complimenti del presidente Napolitano che era andato a vederli alla prima al Teatro Mercadante e poi li aveva salutati uno per uno. Il presidente si era pure lasciato dipingere la faccia di nero da un pulcinella nervoso inserito nello spettacolo. Al Festival di Cannes, il più importante festival del cinema internazionale, hanno ottenuto uno dei tre premi maggiori: il Premio speciale della giuria. Eppure alla scuola media Carlo Levi di Scampia li hanno bocciati.

Per Cannes parto insieme a loro e tutta la troupe, tranne Matteo Garrone che è venuto da Roma con un furgone. L'aereo si riempie delle voci e delle grida di Totò e Simone, Marco e Ciro, e tutti gli altri ragazzi del film. Ma c'è un po' di ansia per il volo e di emozione per i giorni che ci attendono. Dopo l'atterraggio le nostre strade si dividono. Mi aspettano all'uscita dell'aereo gli uomini della scorta francese, due auto blindate e tre motociclisti: una cosa mai vista prima. Sono i corpi speciali, ansiosi di rimarcare subito che loro non accompagnano divi del cinema, stelle e stelline. "Questo lo fanno i poliziotti privati, noi no", mi dice il caposcorta tradotto da un altro poliziotto in uno strano napoletano, un napoletano con l'accento francese. "L'ho imparato ascoltando Pino Daniele", spiega e aggiunge che l'ha perfezionato facendo da interprete a Vincenzo Mazzarella, camorrista di San Giovanni a Teduccio, arrestato proprio a Cannes qualche tempo fa. Colgono l'occasione per ricordarmi che la città è amatissima dai mafiosi di mezzo mondo. Infatti non sembrano proprio tranquilli.

Pure Luigi Facchineri, un boss della 'ndrangheta, era stato qui dal 1987 sino al suo arresto nel 2002. Le mafie investono negli hotel, nei lidi, nei ristoranti, e rimpinzano di coca i nasi di villeggianti, turisti e gente del Festival di cui il Lido ora è gremito.


La mattina del nostro arrivo il popolo del Festival - munito di macchine fotografiche digitali, videocamere così piccole che stanno nel palmo di una mano e alla peggio di telefonini - è tutto concentrato su Harrison Ford che, come sanno tutti, è arrivato per presentare fuori concorso l'ultimo episodio della saga di Steven Spielberg. Io che lo vedo da vicino, penso: "Menomale non ci sono pure i ragazzi", anche se probabilmente loro non si esaltano per Indiana Jones come facevo io quando ero bambino. Harrison ha ormai una pancia pronunciata, è invecchiato parecchio anche in volto e a tutti quelli che lo avvicinano, lui si presenta come Indy. Fa quasi tenerezza, come quei Babbo Natale che entrano a pagamento nelle case esclamando: "Buon Natale e auguri, cari bambini!".

Ma anche se non incrociano Indiana Jones e non credono più a Babbo Natale da anni che sembrano una vita, i ragazzi di 'Gomorra' a Cannes sono su di giri forse più di quanto fossero da piccoli il giorno della Vigilia. Alla proiezione per i giornalisti parte il primo grande applauso e la conferenza stampa è affollatissima. Io dedico il successo a Domenico Noviello, l'imprenditore ucciso proprio mentre stavamo per partire, perché sette anni fa si era rifiutato di pagare un'estorsione ai clan dei Casalesi. Per quanto la cosa sia accolta bene, devo scacciare la sensazione che in tutto questo vi sia qualcosa di sbagliato e di assurdo. Fuori le moto della scorta dei corpi speciali francesi, gli agenti sempre in tensione e al contempo sempre pronti a ragguagliarmi su tutti i peggio personaggi delle peggiori organizzazioni criminali al mondo che investono e circolano per la Costa Azzurra. E io qui, di fronte alla crème della critica cinematografica internazionale, accanto a tutti quelli che hanno dato vita a questo film, inclusi i ragazzi di Montesanto e di Scampia. Quello che parla più di tutti è Ciro ribattezzato Pisellino da uno zio perché somiglia al bambino arrivato a Braccio di Ferro e Olivia con un pacco postale. Ha una maschera secolare, il suo viso pallido dal naso lungo riassume magrezze seicentesche, un Pulcinella o un santo dipinto da un pittore spagnolesco. Ciro è fruttivendolo alla Pignasecca, un mercato del centro storico. Un mestiere tosto, ti tocca svegliarti all'alba, ma lui è allegro, guadagna bene rispetto ai suoi coetanei e si tiene lontano da casini.

I giornalisti gli fanno delle domande a trabocchetto. "Se non avessi fatto il fruttivendolo?". E lui secco: "Avrei fatto il barista". "D'accordo, e se non avessi fatto nemmeno il barista?". Allora lui capisce dove vogliono arrivare. "No, no, vi sbagliate: io il camorrista mai! A parte i soldi, fai una vita orrenda. E poi mia madre sta ancora piangendo per avermi visto morto ammazzato nel film, figuratevi se succedeva veramente.".

Applausi
Ciro e Marco - che sono anche più grandi - vengono dai quartieri popolari del centro storico, non da Scampia come Totò e Simone. Per loro la vita è un po' più facile: le vicende di famiglia che hanno alle spalle se non possono dirsi idilliache, sono almeno un po' meno pesanti. Invece per quei ragazzini di Scampia di 12 o 13 anni lo spettacolo tratto da Aristofane e da Alfred Jarry, e poi il film e il Festival di Cannes non dovevano essere soltanto vacanze di Natale da una vita che già alla loro età sembra segnata. No, era l'opportunità di provare a mettere i piedi in una vita fatta diversamente o almeno riuscire a immaginarsela possibile. Diceva Danilo Dolci: "Cresci soltanto se sei sognato". E mi viene in mente proprio la sua più bella poesia: 'Ciascuno cresce solo se sognato':

C'è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c'è chi si sente soddisfatto
così guidato.

C'è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c'è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.

C'è pure chi educa, senza nascondere
l'assurdo ch'è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d'essere franco all'altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.

Non li hanno sognati questi ragazzini. Eppure avevano fatto molto per mostrare, forse fuori dall'aula scolastica, il loro talento, gli elementi per sognarli in maniera diversa da come la vita ti determina in queste zone. Eppure li hanno bocciati. Non stiamo parlando di studenti modello. Non stiamo neanche parlando di scolaretti fermi nelle loro sedie che si impegnano e però non ce la fanno. Stiamo parlando di ragazzini spesso esagitati, che ti rispondono con un ghigno, che appena possono non si presentano in classe, che aizzano i compagni alle peggio cose. Ma questo è solo un aspetto. I professori che hanno bocciato Totò, Simone e gli altri perché non sono stati rispettosi delle regole e non hanno raggiunto gli obiettivi didattici, credono di aver agito per il bene della scuola e si sentono in pace con se stessi. Invece hanno fallito clamorosamente nel confrontarsi con quegli alunni e pure con l'offerta di un'educazione alternativa che hanno incontrato fuori dalla scuola. Forse perché non riescono ad accettare che questa possa essere venuta da qualcun'altro, forse perché ritengono intollerabile che fosse presentata pure sotto forma di qualcosa che è anche divertente e gratificante, di certo più divertente e gratificante che andare a scuola. Non si è mai visto che dei ragazzini difficili di un degradato comune di periferia, possano per due giorni stare accanto alle star, essere autorizzati a sentirsi un tantino come loro. Meglio bocciarli che rischiare che si montino la testa!

Le star a Cannes poi ovviamente non sono i ragazzi di 'Gomorra', ma nemmeno Emir Kusturica e neppure Catherine Deneuve. Qualche piccolo scatto, ancora meno autografi e nulla più. Anzi spesso se dietro a loro arriva qualche famoso attore hollywoodiano, qualcuno nella folla comincia fare gesti con la mano, secchi e inequivocabili, come a dire: su muovetevi, levatevi di torno, fatemi fare una foto soltanto con la vera star. Tony Servillo ci scherza sopra, elegantissimo sfila fuori dell'hotel mentre i fotografi zoomano per capire chi è arrivato. Ma lui stesso risponde: "Nun simme nisciun', che fotografate a fa', mo' mo' vedete che arriva Indiana Jones".


Nonostante la formula vincente del Festival consista nel premiare film d'autore prevalentemente non hollywoodiani e al contempo far arrivare da Los Angeles gli ultimi 'De', i soli per cui la gente si pesta i piedi, quasi tutti gli attori non americani sembrano risentirsi di essere considerati semplici professionisti e comuni mortali come gli altri. Per cui ha ragione Ciro quando a cena sostiene esaltatissimo che ora Monica Bellucci non potrà rifiutarsi di avvicinarsi a lui. È un attore e non un fan qualsiasi. Ora sono colleghi. E poi da Montesanto alla Pignasecca tutti gli hanno sempre detto che somiglia a Vincent Cassel. Il giorno dopo incrocia proprio Monica Bellucci. "Sai", le fa, "mi dicono che sono tale e quale a tuo marito". E Monica gli dà un bacio. Premiando la sua bravura come attore e forse pure la somiglianza col suo uomo.

Mi fa uno strano effetto essere a Cannes con tutti loro, deluso da quella che mi sembra una Riccione solo più cara, marcia e pretenziosa, contento di stare insieme con tanti ragazzi di Napoli, cosa che non mi capitava più da molto. Ma non ci sono più abituato e quando me ne accorgo, faccio fatica a continuare a scherzare, mi irrigidisco.

La mattina mi siedo a fare colazione nella hall dello storico, sontuosissimo Hotel Majestic, ma dietro i poliziotti francesi mi costringono a consumare tutto in fretta. Prendo una spremuta che costa 20 euro, incredibile. Una ragazza mi chiede se si può sedere, gli agenti la perquisiscono e io mi sento in imbarazzo, ma non parlando una parola di francese, non so come dirgli di lasciar perdere. Lei inizia a discutere del mio libro, a farmi varie domande e infine dice: "Se oggi non hai molto da fare passerei del tempo con te, basta che mi paghi il ritorno in taxi a Nizza, 800 euro". Al che capisco. "Hanno spostato Nizza in Corsica", rispondo, "visto che costa tanto?". Più tardi chiedo delucidazioni a un barista che ho scoperto essere mio paesano e la sua risposta è chiarissima: "Quelle che girano qui nella hall sono tutte mignotte". Ce ne sono di arrivate da tutto il mondo e viene malinconia a vederle avvicinarsi ai proprietari degli yacht che galleggiano sui moli. Sembrano figlie con i padri pigri e chiatti, inoltre sistematicamente piuttosto alticci. Questo è solo l'esempio più evidente di come a Cannes non riesca a trovare proprio nulla di elegante e chic, solo la stessa cafonaggine di altrove concentrata e elevata all'ennesima potenza.

E poi è tutto vagamente schizofrenico. Marco comincia a ripetere che gli manca Napoli che non sono passati neanche due giorni, però la nostalgia non conosce limiti né orologi, e per la cena dopo la proiezione ufficiale ci portano in una pizzeria di nome Vesuvio. Matteo Garrone è stanco e riesce solo a dirmi, "abbiamo fatto tanto per evitare il folklore ed eccoci qua, in tutta Cannes, dove dovevamo capitare". Quel che continuamente rimbalza nella mia testa per tutta la serata è "che ci faccio qui ?". I ragazzi del film sono fantastici, ma mi trattano come se fossi il loro datore di lavoro. Io col film c'entro pochissimo, eppure Marco non si convince e taglia corto "chi mi dà il pane mi diventa padre". Brindiamo al successo di 'Gomorra' e mi accorgo che sono forse più di due anni che non mi trovo più con tante persone intorno, risate, brindisi, gioia e allegria di tutti quanti insieme. Non sono nemmeno più abituato a sedermi a tavola e mangiare se non con la mia scorta. Avverto insieme un senso straziante di solitudine e la felicità di assistere a quella che manifestano gli altri, soprattutto i ragazzi cui non gliene frega nulla di essere alla pizzeria Vesuvio. Perché loro dagli applausi della mattina e soprattutto da quelli ricevuti poco prima, hanno ricevuto la conferma di aver fatto una cosa grande e oltre a esserne felici, ne sono giustamente fieri.

Ma tutto il lavoro fatto per anni da questi ragazzi prima col teatro e col film, per i loro professori non conta nulla. Loro non vedono nemmeno che questo significa imparare qualcosa, doversi concentrare, ascoltare, prendersi un impegno. Per loro sono solo dei guappettelli già mezzi criminali che recitano se stessi, sai che ci vuole! Non colgono che questo sia già un'opportunità di vedere se stessi e il loro quotidiano con un occhio esterno, un'occasione per entrare in contatto con le proprie risorse creative, e neppure che stanno dando un contributo alla cultura. Va bene per il mio libro, o che non conoscano o apprezzino la patafisica dell''Ubu Re' di Alfred Jarry, ma nemmeno 'Le nuvole' di Aristofane, una delle prime e più belle commedie della storia dell'uomo? Possibile che di tutta la grande pedagogia italiana da Maria Montessori a don Milani, ai maestri di strada come Marco Rossi Doria non sia rimasto proprio nulla?

Ed è per questo, per averli visti felici e orgogliosi, che la bocciatura di Totò, Simone e degli altri loro compagni mi mette addosso una rabbia che mi brucia. Un professore della Carlo Levi di Scampia mi ha confidato: "Hanno bocciato Totò, e questo in una scuola che non dovrebbe più bocciare né promuovere. Una scuola che si è arresa, là dove invece bisognava custodire la speranza. Hanno bocciato Salvatore e Simone addirittura all'esame di terza media. Questa è una scuola che sistematicamente sacrifica i più vivaci e intelligenti, i più irrequieti e imprevedibili". E mi vengono in mente le parole di don Milani circa la scuola dell'obbligo dove sostiene che "bocciare è come sparare nel mucchio".

 

di Roberto Saviano
18 luglio 2008
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« Risposta #21 inserito:: Agosto 01, 2008, 12:11:28 pm »

Tatanka Skatenato

di Roberto Saviano


La sfida del bisonte Clemente Russo. Dalle palestre di Marcianise che strappano i ragazzi alla camorra fino al ring di Pechino.

Combattendo con i pugni per il riscatto della sua terra


Non c'è impresa migliore che quella realizzata con le proprie mani. E i pugili concordano con questa frase di Omero. La boxe è rabbia disciplinata, forza strutturata, sudore organizzato, sfida di testa e muscoli. Sul ring o fai di tutto per restare in piedi oppure dai fondo alle tue energie e metti in conto di andare giù. In ogni caso combatti, uno contro uno. Non ci sono altre possibilità e nessun'altra mediazione.

Ci saranno due campioni nella nazionale azzurra alle prossime Olimpiadi: Clemente Russo, 91 kg, peso massimo, e Domenico Valentino, 60 kg, peso leggero. Ventisei e ventiquattro anni. Campione del mondo il primo, vicecampione il secondo. Tutti e due poliziotti. Pugili che gli avversari cinesi studiano da anni in previsione degli incontri di Pechino. Russo e Valentino sono entrambi di Marcianise, la tana dove si allevano i cuccioli della boxe. Quando crescono, vanno nella Polizia o nell'Esercito e infine dritto alle Olimpiadi.

Marcianise, paesone di quarantamila abitanti, è una delle capitali mondiali del pugilato, senza dubbio la capitale italiana. Ci sono tre palestre gratuite dove i ragazzi di tutto il Casertano vanno a tirare al sacco. Esiste una ragione perché Marcianise sia il vivaio storico dei pugili in Italia. Proprio qui gli americani stanziati in Campania chiamavano come sparring partner i carpentieri e bufalari della zona che si misuravano con i marines per un paio di dollari. E dopo esser riusciti a batterne parecchi, continuarono a combattere e misero su palestre e cominciarono a insegnare ai ragazzi del posto.

Uno dei coach che ha reso gloriosa la palestra Excelsior di Marcianise è Mimmo Brillantino. Una sorta di sacrestano del pugilato, allenatore di campioni europei, olimpici, mondiali. Li individua da bambini, li annusa, li segue, li guarda nell'anima. E poi li cresce, metà domatore di tigri metà fratello maggiore. Ogni mattina, Mimmo Brillantino si presentava all'alba sotto casa di Clemente Russo per svegliarlo. Ore 6.00: corsa. Fino alle 8.30, quando cominciava la scuola. Finita quella, andava a prenderlo: pranzo, compiti e poi di nuovo allenamento. Col sole in maniche corte, sotto la pioggia col cappuccio.  Ci si allena sempre, con costanza.

Poco prima della partenza per le Olimpiadi, incontro Clemente Russo e Domenico Valentino nel centro polisportivo della Polizia di Stato dove si allenano tutti i poliziotti impegnati in ogni disciplina. Dal grande judoca Pino Maddaloni alla campionessa di scherma Valentina Vezzali, sono tutti nelle Fiamme Oro. Clemente Russo qui lo chiamano Tatanka, parola con cui i Lakhota Sioux indicano il bisonte maschio. Il nome glielo mise uno dei suoi maestri dopo aver visto 'Balla coi lupi'. Cercando di comunicare con il suo nuovo amico Uccello Scalciante, il tenente John Dunbar si mette carponi, due dita sulla testa per rappresentare le corna di un bisonte. Il capo tribù capisce e dice 'tatanka', Dunbar annuisce e ripete.

Clemente Russo si è guadagnato quel sopranome perché sul ring a volte si dimentica di essere un pugile. Abbassa la testa, naso all'altezza del petto, occhi tirati su, fronte bassa e giù a picchiare. Bisogna urlarglielo dall'angolo che è uno sportivo, non un picchiatore. Ma come dice Giulio Coletta dello staff azzurro: "Se combatti così e non butti giù subito il tuo avversario, quello ti frega, perché tu perdi tutte le tue energie e poi non hai più fiato per difenderti né concentrazione. E poi crolli. Come un bisonte dopo aver caricato".

Tatanka ha un tatuaggio sul costato. Un bisonte americano in corsa, ma che sulle zampe anteriori calza i guantoni. Clemente mi racconta che entrò in palestra "perché ero chiatto! E non ne potevo più di stare sempre fuori dai bar". Oggi il maggior pregio di Clemente Russo è la visione d'insieme. Sembra avere in testa dal primo all'ultimo minuto cosa deve fare. E poi è potente, ma non lo considera la sua qualità migliore: "La forza è l'ultima cosa. La prima è la mente. È centrale, Robbè". I veri pugili non nascono come attaccabrighe, anzi spesso si va in palestra per sviluppare aggressività e solo poi per dominarla. "Prima cosa: non bisogna prenderle. Poi la seconda è darle". Su questo Clemente e Domenico si esprimono in coro.

La palestra che li ha sfornati, la Excelsior, ha festeggiato vent'anni di attività, di cui dieci in cima alla classifica riservata alle società pugilistiche. Ma a differenza di quanto accade per altri sport, gli allenatori che li seguono con una passione da missionari guadagnano quattro soldi, giusto il necessario per sopravvivere. Eppure passano le giornate in palestra a costruire pugili. A conteggiare le flessioni, a insegnargli a bucare il sacco, a saltare la corda, a correre, a resistere. "E a essere uomini" aggiunge Claudio De Camillis, poliziotto, arbitro internazionale e capo del settore Fiamme Oro, che li ha visti tutti.

"Ci chiamano da Marcianise, ce li segnalano quando sono pischelli. Arriva la telefonata di Brillantino o del coach Angelo Musone, o Clemente de Cesare, Salvatore Bizzarro, e Raffaele Munno, i 'templari' della boxe. Noi li prendiamo perché loro ci segnalano anche la testa di questi ragazzi, la provenienza, la serietà". La Polizia li arruola e ci crede. Senza le Fiamme Oro non esisterebbe il pugilato dilettantistico. Quindi non esisterebbe più la boxe in Italia.

Ormai gli sponsor non ci investono più e l'unica possibilità sarebbe andare in Germania, paese che attira le scuole più temute della boxe contemporanea, i pugili dell'est. Russi, ucraini, kazaki, uzbeki, bielorussi. I nuovi combattenti affamati. I gladiatori che hanno rilanciato l'attenzione mondiale verso il pugilato e rendono oggi la Germania la terra promessa della boxe. A Marcianise anche molti italiani sono diventati campioni, altri sono rimasti bravi atleti e nulla più. Però tutti si sono tenuti lontani dalla camorra. A volte i ragazzi imparentati a una famiglia andavano ad allenarsi la mattina e quelli della famiglia rivale ci andavano nel pomeriggio, ma la boxe li trascinava comunque via da certe logiche.

Le regole del pugilato sono incompatibili con quelle dei clan. Uno contro uno, faccia a faccia. La fatica dell'allenamento, il rispetto della sconfitta. La lenta costruzione della vittoria. Come ricorda Clemente Russo: "È una vita di sacrifici, sono vent'anni che non ho la forza di fare tardi la sera. E non mi ricordo un momento in cui potevo permettermi di cazzeggiare tra i bar, come si fa dalle nostre parti". La camorra non gestisce il pugilato per una semplice ragione, e Clemente Russo la conosce bene: "Non girano più tanti soldi. Con il primo titolo europeo juniores che ho vinto mi sono comprato un motorino.".

È solo in Germania e in Spagna che la mafia russa continuamente si infiltra per cercare di entrare nel business. Ma a quelli che comandano a Marcianise, i Belforte e i Piccolo, i soldi e i modi per procurarseli non mancano. I primi sono persino riusciti a far venire le telecamere della 'Vita in diretta' per riprendere il matrimonio di Franco Froncillo, fratello dell'emergente boss Michele Froncillo. Volevano che quelle nozze con tanto di elicottero che faceva scendere una pioggia di petali sugli sposi e sugli altri invitati non fossero immortalate dalle solite riprese a pagamento, ma dalla Rai. Di modo che non solo i parenti ma le casalinghe di tutt'Italia potessero ammirare e invidiare la sposa.

I Mazzacane e i Quaqquaroni - come vengono chiamate le famiglie rivali - sono due clan capaci di egemonizzare un vasto territorio disseminato di piccole e medie aziende. Un territorio che ospita il più grande centro commerciale d'Italia e il più grande cinema multisala - primati strani per una regione piena di disoccupazione e segnata dall'emigrazione. Significa che ci sono molti subappalti da vincere, molti parcheggi da gestire, molte polizie private da imporre. E soprattuttomolto racket.

Nel marzo 2008 il comune di Marcianise è stato sciolto per infiltrazione camorristica. E nel 1998 Marcianise era stata la prima città italiana dalla fine della Seconda guerra mondiale a vedersi imporre il coprifuoco dal prefetto. Negli anni '90 si contava un morto al giorno. Quando iniziarono a massacrarsi i Mazzacane e i Quaqquaroni, gli allenatori di boxe furono fondamentali per salvare il territorio. Seguendo nient'altro che l'imperativo del pugilato, "tutti in palestra senza distinzione di colore, testa, gusto": perché "dentro si è tutti rossi, come il sangue", come dicono nelle palestre dalle mie parti.

Mimmo Brillantino e gli altri coach andavano a prendersi i ragazzini nei bar, nelle piazze, fuori da scuola. E così li strappavano al deserto in cui i clan riescono a reclutare i giovani di generazione in generazione per metterli sulle loro scacchiere. La boxe rompeva questo meccanismo e lo faceva in modo definitivo. Il ring è più efficace, in questo, di una laurea. Perché quando hai combattuto col sudore della tua fronte e con le tue mani, arruolarsi diviene una sconfitta.

A Chicago, nel 2007, Tatanka ha dimostrato cosa significa venire da una palestra di Marcianise. Si è messo il suo caschetto azzurro e ha battuto il tedesco Povernov, col quale aveva perso nel 2005 ai Mondiali in Cina. Ha schivato i pugni del montenegrino Gajovic, che pur esperto di Europei, Mondiali e Olimpiadi e pur avendo eliminato molti sfidanti promettenti non riusciva a inquadrare Clemente che gli sfuggiva. Poi ha sconfitto il cinese Yushan, ambiziosissimo. Fino al capolavoro conclusivo contro il possente mancino Chakheiv che per tre riprese ha condotto in apparenza il gioco, aiutato dai giudici che ignoravano i colpi di Russo. La tattica aveva consentito a Chakheiv di scattare al suono dell'ultima tornata con un 6-3 che sembrava metterlo al sicuro. L'angolo di Clemente era demoralizzato, cercava di non farglielo capire, ma ormai si preparava alla sconfitta. PeròTatanka ci ha creduto sino alla fine. "Nun c'la fa cchiù, ha finito la miscela. Lo batto, lo batto". In due minuti inizia la rimonta. Un gancio, un jab, schiva un sinistro e va dritto allo zigomo del russo. Mette assieme quattro punti senza incassare neanche un colpo. Chakheiv s'è preso una grandinata di cazzotti. Non riesce nemmeno più a ricordarsi dov'è. L'incontro si conclude sul 7-6 e Clemente ne esce campione del mondo.

L'altro talento mondiale marcianisano è Domenico Valentino. Tutti lo chiamano Mirko. È il nome che la madre aveva scelto, solo che per rispetto verso il suocero gli ha poi messo il nome del nonno. Ma dopo aver pagato il debito all'anagrafe, l'ha subito chiamato Mirko. Il miglior peso leggero che abbia mai visto. Veloce, tecnico, non dà tregua all'avversario. La sua strategia ce la spiega lui: "Tocca e fuggi, tocca e fuggi". "Facevo il parrucchiere per donne" racconta, "poi ho iniziato ad allenarmi. A Marcianise è normale e così mi sono accorto che dentro di me c'era un pugile". Sembra incredibile che uno dei pugili più forti al mondo abbia fatto il parrucchiere, pare quasi il riscatto d'immagine di un'intera categoria.

Mirko da coiffeur è divenuto il più temuto peso leggero europeo. Quando è all'angolo parla spagnolo. "Metto la esse alla fine di tutte le parole, così mi sento un po' Mario Kindelan". Kindelan, peso leggero cubano e mito di Mirko, è stato due volte medaglia d'oro alle Olimpiadi e tre volte campione mondiale. Quando vinceva, sussurrava ai suoi sfidanti al tappeto "non sono miei questi pugni, sono i pugni della rivoluzione".

Domenico Valentino si guarda allo specchio per studiarsi i movimenti, velocissimi, i piedi che roteano assieme al destro. Lo specchio è fondamentale nella boxe. Salti la corda davanti allo specchio, lanci i pugni, metti a punto la guardia. Ti guardi così tanto che riesci a vederti come un altro. Il corpo che incontri riflesso non è più il tuo. Ma un corpo e basta: da modellare, da costruire. Darendere insensibile al dolore e forte alla reazione.
 
Il pugilato rimane uno sport epico perché si fonda su regole della carne che pongono l'uomo di fronte alle sue possibilità. Anche l'ultimo della terra con le sue mani, la sua rabbia, la sua velocità può dimostrare il proprio valore. Il combattimento diviene un confronto con questioni ultime che la vita contemporanea ha reso quasi impossibile. Sul ring comprendi chi sei e quanto vali. Quando combatti non conta il diritto, non conta la morale, non conta nulla se non il tuo perimetro di carne, le tue mani, i tuoi occhi. La velocità nel colpire e schivare, la capacità di sopravvivere o soccombere, di vincere o fuggire. Non puoi mentire, nel contatto fisico. Non puoi chiedere aiuto. Se lo fai, accetti la sconfitta.

Ma non è l'esito di un incontro a stabilire chi veramente è più forte. Più che la vittoria, più che i risultati degli incontri, conta la pratica dell'esperienza di dolore, conta l'assenza di senso che occorre sostenere per potervi salire e starci. Per stare dentro la vita. Agonismo e agonia. Claudio De Camillis prende Mirko per un braccio e dice: "Guarda qua, Robbè, questo non è manco 60 kg. Se lo vedi per strada, dici: questo lo schiaccio. E invece è un carro armato".

Domenico Valentino al mondiale di Chicago ha battuto l'armeno Javakhyan, vice campione europeo, in velocità. Gli ballava davanti e appena quello tentava di colpirlo, lo riempiva di pugni. Poi ha vinto contro Kim Song Guk, nordcoreano, un pugile allenato ai colpi veloci, ma che non riusciva a beccare lui. In finale con l'inglese Frankie Gavin, Valentino si è presentato con la mano destra infortunata: il suo punto debole, le mani piccole e fragili. Un vantaggio che Gavin ha sfruttato alla perfezione. Peccato. "Io non lavo mai niente fino a quando vinco. Mutande, calzettoni, pantaloncini. Poi se perdo butto via tutto. E quando vinco non mi puoi stare vicino, tanto puzzo di sudore".

Anche stavolta ha le mani ferite. Gli chiedo: "Non le avevi coperte bene con le bende?". "No" mi risponde, "questa è un'altra cosa.". E gira la testa. Sotto la nuca appare un nome tatuato: Rosanna, la fidanzata. Dopo un po' ammette: "Ho litigato con lei e siccome sono nervoso ho distrutto un motorino a pugni. Ma se vinco alle Olimpiadi, me la sposo". Domenico Valentino ha un fortissimo senso della sfida e anche del rispetto per lo sfidante. "Dal mio angolo non sentirai mai frasi tipo ammazzalo, uccidilo. Mai. Si batte il nemico. Punto". È rimasto in ottimi rapporti con Frankie Gavin, è amico della nazionale uzbeka, però "non amo i turchi perché quando vincono ti prendono in giro, ti sventolano la bandiera sotto il naso. Per il resto: tutti fratelli combattenti".

Un incontro memorabile è stato quello contro Marcel Schinske ad Helsinki nel 2007. I ragazzi di Marcianise se lo vanno a rivedere su YouTube (guarda). Il pugile tedesco tenta una strategia d'attacco. Si agita, vuole intimorire. Si scopre, errore fatale se combatti con un pugile veloce. E infatti Valentino gli infila subito un diretto al mento, così forte che Schinske non solo va a tappeto immediatamente, ma cade rigido, le braccia bloccate ancora in guardia, gli occhi rivoltati all'insù. Domenico Valentino non dimenticherà mai più quel diretto. "Robbè, ho sentito come una scarica elettrica in tutto il braccio. Mai avevo sentito una cosa così. È come se tutto il suo dolore mi fosse entrato dentro. Mi sono spaventato perché dopo essere andato ko, ha iniziato anche a scalciare come un epilettico".

Ricorda Claudio De Camillis: "L'ho dovuto prendere e abbracciare, lentamente farlo scendere dal ring. Piangeva, ha singhiozzato per quaranta minuti, pensava di averlo ammazzato. Solo quando gli ho assicurato che stava bene s'è calmato". Può sembrare incredibile ma è così: salire sul ring per buttare giù un avversario e una volta buttatolo giùpreoccuparsi che non si sia fatto troppo male, che possa continuare ad essere uomo e pugile. Come Joe Frazier, uno dei miti di Clemente Russo.

Joe Frazier combatteva compatto, un mattone nerissimo di muscoli, ma agile, e vinse il titolo mondiale. Ma in quel periodo il campione dei campioni, Mohamed Alì, era fuori, aveva deciso di mollare la boxe. E nel 1971, quando Frazier incontra Alì capisce che solo dopo averlo affrontato potrà definirsi davvero un campione. Dopo quindici riprese, trova la strada per un gancio. Alì cade. Battuto. Quattro anni dopo, Frazier rinnova la sfida. Un match considerato tra i migliori mai combattuti. Nessuno riesce a sopraffare l'altro. Frazier e Alì sanguinano entrambi, gli occhi perdono visuale gonfiandosi, il fiato manca. Gli arbitri non trovano il coraggio di fermare un match seguito da tutto il mondo, gli allenatori non se la sentono ad esser loro a gettar la spugna. Allora è Frazier che decide. Sono entrambi stanchi e pesti e Frazier teme di ammazzare o di essere ammazzato. Cuore a mille, respiro corto, mascella lussata, sangue dalle sopracciglia, giudici imbarazzati. Joe Frazier riconosce che tocca a lui. E si ritira lasciando la vittoria ad Alì. Le leggi che emergono quando le altre non funzionano sono scritte col corpo. Lealtà, rabbia, stima dell'avversario nascono dopo che hai tentato di massacrarlo e dopo che lui ha tentato di massacrare te e si è pari. "In fondo" disse allora Frazier "non c'è bisogno di trovare troppe motivazioni. Dentro di te lo sai sempre cosa è giusto e cosa è sbagliato". Joe Frazier aveva citato Immanuel Kant senza saperlo.

Domenico ha una faccia inconfondibile. Ha la maschera del pugile anche se "il naso non me l'hanno mai rotto, ce l'ho così naturalmente". Uno di quei visi che i pugni e gli esercizi levigano lentamente come vento e acqua fanno con le rocce. Piero Pompili lo inquadra poi mi dice di guardare nell'obiettivo emi appare un viso quasi azteco. Piero Pompili fotografa pugili da sempre. Quasi tutti i pugili del mondo sono stati ritratti da lui in palestra quando erano solo un agglomerato di ambizioni e speranze davanti al sacco. Pompili riconosce in loro le opere dei grandi maestri "Guido Reni, ecco Guido Reni", oppure "Caravaggio, sei un Caravaggio". I pugili lo guardano, gli vogliono bene, ma non capiscono quel che lo esalta. E lui li incalza come fanno i fotografi di modelle, ma con parole assai diverse: "Vai, Tatanka, gancio, gancio. Vai Mirko, veloce, colpisci, colpisci". Pompili vede oltre, l'insieme delle pulsioni che dilaniano un uomo è tracciato nel bianco e nero delle sue foto.

Guardando Tatanka sul ring mentre Pompili scatta, ho sensazioni diverse. Non ho mai provato invidia verso un uomo in vita mia, Clemente Russo invece lo invidio. Il suo corpo in movimento trasmette un senso arcaico di familiarità. Perché è così che ti immagini Ettore, Alessandro, Achille, Enea, i soldati di Senofonte, i soldati a Salamina o alle Termopili. Più tardi vieni a sapere che non erano muscolosi, che Achille non superava il metro e cinquanta, Leonida era tondeggiante e spelacchiato, ma nessuno ti toglie più dalla mente l'immagine della bellezza epica del combattimento e Clemente Russo ora la incarna.

"Prima di un match" dice Tatanka "non riesco a pensare a niente. Prima di un match non faccio l'amore per una settimana. Niente. Sto concentrato e vedo solo in testa i miei colpi, quelli che dovrebbero risolvere l'incontro". "Io invece penso a chi non c'è più", ribatte Mirko, "gli amici andati via. I parenti scomparsi". Si combatte sempre per qualcuno, per qualcosa che deve arrivare, si combatte sempre in nome di qualcosa, ma istintivamente. "Noi siamo come i cavalli alle gabbie prima della corsa. Questo siamo, prima dell'incontro".

A Clemente, i pugili che piacciono di più sono Roy Jones jr e Oscar De La Hoya. E Mohamed Alì? Risponde Mirko: "Alì era grande di testa, ma forse ce n'erano migliori di lui. Ma nessuno come lui è stato insieme testa, corpo, immagine, lotta politica. Alì era un campione della comunicazione. Non solo un pugile".

Roy Jones jr è un pugile che ha importato la break dance nella boxe. I suoi incontri erano un vero e proprio spettacolo di danza. A volte prima di colpire faceva dei passi ritmati indietro, simili alle mosse a scatti di un rapper. Roy Jones combatteva a guardia bassa, apriva completamente le braccia, sporgeva la testa in avanti e faceva partire una grandinata di jab, da destra o da sinistra. Spesso si allenava in acqua. "Tirare cazzotti sott'acqua rende l'aria più leggera" gli diceva il suo allenatore.

Oscar De La Hoya, amato pure da Valentino, è un pugile americano di origine messicana che cambia continuamente di categoria perché per anni nessuno è riuscito a batterlo. Ha dovuto trovarsi gli sfidanti in giro per il mondo. Oscar De La Hoya sale sul ring e il suo staff gli porta dietro una bandiera bifronte, da un lato stelle e strisce, dall'altro il tricolore con l'aquila del Messico. Ogni incontro vinto Oscar lo dedica a sua madre, morta di cancro quando lui aveva diciotto anni. Lavora ai fianchi, poi parte coi colpi agli zigomi, acceca gli occhi e, quando lo sfidante si stringe alle corde e cade, Oscar De la Hoya si allontana lasciando la conta all'arbitro finché non lo sente arrivare a dieci. Allora guarda in cielo ed esclama: "Per te, mamma". De La Hoya è un pugile completo, veloce, non un grande incassatore, ma dinamico, arrabbiato. "Per me l'incontro più bello" dice Mirko "è De La Hoya contro Floyd Mayweather jr, due condottieri. Il meglio del pugilato in assoluto". De La Hoya, faccia da indio; Mayweather, viso da bravo ragazzo, lineamenti dolci. Il primo a rappresentare i messicani, i portoricani, i latinos, in genere tutta l'emigrazione senza green card. Il secondo, la borghesia afroamericana, gli uomini d'ebano eleganti, i neri che ce l'hanno fatta. Malcolm X è lontano. È ancora di più lo sono OJ Simpson, Puff Daddy, i neri cafoni che esibiscono danaro, successo, donne.

Nella presentazione del match, Mayweather gioca a fare il verso ad Alì insultando De La Hoya, ma il messicano commenta: "Sembrava più un chihuahua che un duro". Per uno sport divenuto povero come la boxe, questo incontro aveva una borsa di tutto rispetto: quarantacinque milioni di dollari. De La Hoya era allenato dal padre di Mayweather, che prima dell'incontro però rompe ogni rapporto. Non può allenare il suo pugile in un match contro suo figlio. E così De La Hoya cambia coach. Il combattimento è uno spettacolo. De La Hoya aggredisce, colpisce, ma Mayweather si difende e contrattacca. Ha la rabbia dell'ambizione, vuole dimostrare di essere il numero uno. De La Hoya sa già di essere il più grande, sembra non voler dimostrare più nulla. Combatte, ma ormai non pare più interessato alla vittoria. È come se tutto fosse già accaduto. E alla fine il chico de oro del pugilato mondiale è sconfitto da un pugile imbattuto. "Gli incontri li vince sempre chi deve dimostrà qualcosa a qualcuno, ma soprattutto a se stesso", mi dice De Camillis.

Clemente e Mirko andranno a Pechino colmi di carica. Porteranno stretti nei loro pugni tutta la rabbia di questa terra. Quando li fermano per strada a Marcianise, tutti domandano: "Quando partiamo per Pechino?". Non dicono "partite", ma "partiamo". Perché in queste imprese non si è più soli, ma si diviene la somma di tanti. Una somma che rafforza l'anima. E così a questi due pugili verrebbe da chiedere una cosa: ridate a queste terre quel che ci hanno tolto, dimostrate cosa significa nascere qui - la rabbia, la solitudine, il nulla ogni sera. Perché tutto questo è la materia di cui sono fatti Clemente e Mirko, materia che altrove non esiste uguale. La fame vera di diventare qualcuno, raggiungere un obiettivo, distinguerti dalla codardia e dalla piaggeria di coloro che ti sono intorno. Perché la vita la misuri in ogni caduta, perché combattere significa non fidarti di nessuno, sapere che qui tutto è sempre in salita, pararti sempre le spalle e ricordare sempre chi non ce l'ha fatta.

Però nella tua ambizione può raccogliersi l'aspirazione di un intero territorio, e porti nella tua sfida le speranze di molti, e i pugni che dai e ricevi sul ring smettono di essere gesti sportivi e divengono simboli. Divengono i cazzotti di un'intera generazione, i ganci e gli uppercut di chi non ne può più di stare sempre in salita e giorno dopo giorno mette da parte un nuovo strato di rabbia. E allora smetti di combattere solo per te stesso, per il tuo titolo, per i tuoi allenatori, per i soldi da portare a casa, per la fidanzata che vuoi sposarti. E combatti per tutti. Come De La Hoya ha sempre combattuto con tutti i latinos dentro i suoi pugni, come ha lottato Mohamed Alì con nel sangue il riscatto di tutti gli afro del mondo, o Jake La Motta con la furia che girava nel corpo degli italoamericani.

E allora a voi, Clemente e Mirko, carichi di questo significato iscritto nei vostri muscoli, col vostro sguardo, con la velocità dei vostri pugni e delle vostre gambe, col vostro coraggio che non vi ha fatto camminare rasente i muri, non resta che inchiodare all'angolo chi vi sfida e cercare di fare un'unica cosa: vincere.




31 luglio 2008


da www.robertosaviano.it
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« Risposta #22 inserito:: Settembre 08, 2008, 09:48:49 am »

CRONACA

Lo scrittore chiude il Festival di Mantova con una denuncia su crimine e informazione

La camorra a mezzo stampa e Saviano sfida i legali dei boss

di FRANCESCO ERBANI

 
MANTOVA - "Ognuno di voi lettori fa paura". Fa paura ai poteri camorristi che lui racconta. La voce di Roberto Saviano scende sul silenzio della platea del Teatro Sociale di Mantova, pieno fino all'ultimo posto. "Oggi sono 695 giorni che vivo sotto scorta. 11.120 ore. Non prendo treni, non salgo in macchina. Ho il sogno di una casa. Ma a Napoli l'ho cercata in via Luca Giordano, via Solimena, via Cimarosa. Niente. A Posillipo hanno chiesto un appartamento per me i carabinieri. Avevano risposto sì. Quando hanno visto che ero io, hanno detto: l'abbiamo affittata un'ora fa".

Gli accessi del teatro sono controllati, agenti in borghese camminano fra le poltrone, quattro di loro stazionano sul palco. In platea - dice Saviano - anche gli avvocati dei boss che in aula lessero una lettera di minacce allo scrittore, al giudice Raffaele Cantone e a Rosaria Capacchione, giornalista del Mattino.

Le parole di Saviano raccontano la camorra a mezzo stampa, disegnano lo spazio stretto di una narrazione alla quale è impedito il movimento libero e che è costretta a esprimersi in uno stato di limitazione che è l'antitesi del narrare e in fin dei conti della letteratura. Ed è a questo valore simbolico che si sono richiamati gli organizzatori del Festival mantovano chiedendo allo scrittore campano di chiudere la dodicesima edizione. Saviano è arrivato a Mantova con la sua scorta, "la mia falange", lasciando fino all'ultimo in sospeso gli organizzatori che hanno potuto comunicare la sua presenza solo venerdì mattina. Ottocento i biglietti venduti, svaniti nel giro di un'ora. Fuori al teatro si assiepa una folla silenziosa e ordinata.

Saviano, camicia bianca e jeans, racconta come certa stampa locale si sia fatta megafono della camorra, con i suoi titoli e le allusioni, Pochi giorni dopo l'omicidio di don Peppe Diana, Il Corriere di Caserta titola "Don Peppe Diana era un camorrista": sono le parole di un boss, compaiono fra virgolette, ma per il giornale hanno un crisma di verità. Quando viene arrestato, l'assassino del sacerdote, De Falco, viene definito "boss playboy" e segue un pezzo sulle doti amatorie di altri camorristi. Quando è sequestrato il piccolo Tommaso Onofri, il giornale Cronache di Napoli titola: "Tommaso, il dolore dei boss". Qualche giorno dopo viene trovato il corpo di Tommaso. Titolo su Cronache di Napoli: "Tommaso è morto: l'ira dei padrini".

Quando viene catturato un cugino di Francesco Schiavone, il titolo suona: "Cicciariello arrestato con l'amante". Il boss Prestieri viene dipinto come appassionato d'arte. Si racconta la passione di capoclan per la poesia e la narrativa. Un killer vince un premio letterario.

Un altro titolo: "Sandokan a Berlusconi: i pentiti sono contro di noi". "Ma noi chi?", si chiede Saviano. E prova a rispondere. "Io sono un imprenditore, dice di sé Sandokan, e mi rivolgo al numero uno degli imprenditori, perché i pentiti non sono altro che concorrenti sleali".

Le parole dette e scritte, rilanciate dai titoli. I ragazzi di Casal di Principe che recitano, come una cantilena: "Gomorra è pieno di favole, sono solo favole". Dalla carta stampata alla tv. Sullo schermo parte un video. La sorella di uno Schiavone, in un programma Mediaset, senza apparire fa sentire la sua voce a proposito di Saviano: "Ma cosa gli abbiamo fatto noi di Casale, gli abbiamo violentato la fidanzata?". Lo scrittore alza il viso dallo schermo: "Chi di voi dopo queste parole può dire che non è successo niente? Questa notte pensate se qualcuno viene da voi e dice queste parole, domandatevi se la vostra vita d'improvviso non diventa un pericolo per chi vi sta vicino".

Gli avvocati dei boss che in aula hanno letto la lettera dei boss "sono qui in platea", dice Saviano. "Sono contento che vengano tutte le volte che parlo in pubblico. I vostri assistiti fateli venire direttamente, o pensate che io abbia paura? Ce lo diciamo sempre io e i miei ragazzi: noi non facciamo paura perché non abbiamo paura. È la letteratura che li terrorizza. Sono i lettori che fanno paura". La gente applaude in piedi, a lungo. Saviano si siede, le mani sul viso.

Il festival si chiude con un bilancio a tinte rosee. Cinquantasettemila biglietti staccati. Ventitremila presenze agli appuntamenti gratuiti. Totale: ottantamila sono le persone che hanno frequentato da mercoledì pomeriggio a ieri i 225 incontri della dodicesima edizione del Festivaletteratura, un dieci per cento in più rispetto alla precedente. Eppure non sono le quantità gli elementi che più soddisfano gli organizzatori.

Mantova consolida la sua formula, in qualche modo la intensifica. Ieri mattina Gillo Dorfles, presentando il suo Horror pleni e parlando del conformismo, ha detto che esiste un conformismo positivo, molto minoritario, e un conformismo negativo, di gran lunga maggioritario. "Il Festivaletteratura è una forma di conformismo positivo", ha detto l'anziano studioso di estetica, architettura e design. È molto simile a sé stesso ogni anno che passa, sempre più orientato a raccogliere pubblici diversi, ad allargare i confini dell'idea di letteratura e correttamente inserito in un contesto urbano che attribuisce molto senso ai racconti, alle riflessioni e ai dibattiti. La sua formula, autori che raccontano e si raccontano, viene ripetuta.

Jonathan Safran Foer, una delle poche star di questa edizione (insieme a Daniel Pennac, Hans Magnus Enzensberger, Carlos Fuentes e Scott Turow), ha animato un incontro molto frizzante con Gad Lerner, che si è chiuso con la lettura, commossa, dell'ultima pagina di Molto forte, incredibilmente vicino da parte di Lella Costa.

Il giovanissimo scrittore americano si è messo all'estremità di una tastiera che poi ha fatto suonare le note di Ezio Raimondi, il quale ha raccontato come la lettura sia il modo migliore per incontrare l'altro; o di Boris Pahor, che ha narrato la storia di un sopravvissuto dalla Necropoli (questo il titolo del suo libro) dei campi di sterminio; passando per Paolo Giordano, Diego De Silva e Valeria Parrella, che ieri hanno messo a confronto le loro idee di Napoli, emerse anche nell'incontro che Marco Rossi-Doria, il maestro di strada, ha avuto con Eraldo Affinati. Letteratura e narrazioni sono state il perno dell'incontro di Alberto Arbasino, autore di L'ingegnere in blu, un ritratto di Carlo Emilio Gadda. Poi la letteratura ha lasciato il posto alla matematica, alla filosofia, all'architettura e alle performances - i comizi, ad esempio, lettura di testi del passato per la voce di scrittori contemporanei.

Il Festival si è radicato nella città e lascia un sedimento che dura tutto l'anno: il libro scelto per una serie di letture di qui alla prossima edizione è Amore e ginnastica di Edmondo De Amicis. Il testimone passa alla tredicesima edizione.


(8 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #23 inserito:: Settembre 10, 2008, 10:28:14 pm »

La polemica nel corso del telegiornale

Emilio Fede vs Saviano: «Vita da scortato? Potrei darti delle lezioni» -

Il direttore di Rete 4 ha attaccato in maniera sferzante l'autore di «Gomorra», protagonista di una polemica con alcuni giornali 
 


NAPOLI - Durante l’edizione del Tg 4 di ieri 9 settembre Emilio Fede ha duramente commentato le ultime dichiarazioni del giornalista Roberto Saviano nel corso del Festival della letteratura di Mantova. Sferzanti i giudizi del direttore del telegiornale Mediaset a proposito della notorietà e dei guadagni ottenuti dall’autore di «Gomorra»: secondo Fede, Saviano avrebbe ben cavalcato l’onda della notorietà ottenuta per i suoi scoop giornalistici riguardanti il clan camorristico casertano dei Casalesi. E poi contenuti nel best seller divenuto poi anche un film di successo internazionale.

L’attacco andato in onda su Rete 4 si fa ancor più pesante quando Fede, dopo aver sarcasticamente dichiarato la sua solidarietà all'autore napoletano, ha poi parlato della vita da scortato che Saviano sta conducendo e di cui spesso si lamenta (lo ha fatto anche in occasione del meeting di Mantova). Fede valuta questa condizione da «prigioniero» come positiva per le tasche del giornalista-scrittore.

L’Emilio nazionale, continuando, dichiara di poter dare lezioni al giovane scrittore su come sia la vita da scortati, un atteggiamento che va controcorrente rispetto alle manifestazioni solidali espresse dalla categoria dei giornalisti nei confronti di Saviano. Il commento più lampante alle dichiarazioni del direttore della terza rete Mediaset è la presenza del suo intervento nella trasmissione di Rai 3 «Blob», da sempre contenitore dei peggiori exploit che la tv italiana ed i suoi protagonisti riescono a partorire.

A. D. P.
10 settembre 2008

da corrieredelmezzogiorno.corriere.it
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« Risposta #24 inserito:: Settembre 11, 2008, 09:13:01 am »

La stampa di rispetto e il rispetto della stampa

Ogni cronista con un poco di pratica, riesce ad intuire quegli avvenimenti che nei giorni successivi faranno notizia.

Immodestamente, ho capito subito che la presenza di Roberto Saviano al Festival della Letteratura di Modena, avrebbe generato titoli "pesanti" sui giornali.

Lui è un poco come il concerto di Madonna.


E dire che la questione della "stampa di rispetto" Saviano l'aveva scritta anni prima (almeno tre anni prima) su un periodico locale, la "Voce della Campania", citando più o meno gli stessi episodi e gli stessi quotidiani. Che non sono stati chiusi. Orrore: la magistratura non si è accorta di questi bollettini della camorra? E l'Ordine dei Giornalisti, la Federazione della Stampa hanno fatto finta di non vedere? O Saviano si sbaglia?
Se avete la pazienza di leggere, vi spiego il punto di vista di uno che conosce abbastanza bene questa realtà.

Abito nel rione Sanità: quando ci sono faide, omicidi, blitz, arresti eccellenti, vanno a ruba i giornali di cronaca nera cittadina. La gente non li compra certo per leggere i titoli sulle strategie criminali da Napoli al Montenegro o le dichiarazioni dell'associazione magistrati sulla riforma della giustizia. Ma per leggere che Giovanni alias ‘o stuort si è fatto beccare con due grammi di cocaina di fronte alla chiesa della madonna al rione Sanità. Con tanto di capuzzella, la mitica foto dell'arrestato (in alcuni casi della vittima) che arriva dritta dalla questura. Dunque, il linguaggio: giornali del genere utilizzano il linguaggio della loro platea di riferimento. Non significa sposarne le idee, ma che Giovanni Esposito in quel contesto è Giovanni ‘o stuort e nessuno lo riconoscerebbe mai come Esposito. Del resto Saviano a nomignoli e alias deve parte della fortuna di Gomorra.

Seconda questione: parlare dei fattarielli dei boss (quello che si fa arrestare con l'amante) o dei "padrini" che si incazzano e si indignano dell'omicidio del piccolo Tommy Onofri. I giornali che si occupano esclusivamente di nera cittadina devono sempre fare i conti con una parte consistente del loro bacino: detenuti e parenti dei detenuti. Restituire "gli umori" delle carceri rafforza in quel target specifico l'idea che il giornale "la sa lunga". Si può fare parlando con la moglie di un detenuto (e un buon nerista ne conosce di parenti...avete voglia...) oppure con una guardia carceraria amica. E anche nella camorra esiste il gossip. Se vuoi vendere in quella fetta di mercato ti adegui. Pagandone le conseguenze: gli avvocati dei boss o presunti tali sono mooolto attenti e inclini alla querelona.

Terza questione: quella che più mi fa incazzare. Il fatto di don Peppino Diana. Un titolo del Corriere di Caserta nel mirino di Saviano recitava «Don Peppe Diana era un camorrista»; virgolettato pareattribuito a un non meglio specificato avvocato. Posso provocare senza che v'incazzate? Un giornale ha la libertà (badate bene, libertà, non diritto) di pubblicare qualsiasi dichiarazione. Salvo poi pagarne le conseguenze in sede civile e penale. Ovviamente non condivido ogni affermazione calunniosa su don Diana, ma la superficialità di Roberto Saviano mi fa incazzare. Perché Saviano non ci dice chi ha dichiarato quella cosa? E chi l'ha dichiarata è stato portato in tribunale? E la causa è andata a buon fine? Dài una notizia, cazzo, dalla fino in fondo. Ancora mi resta la curiosità di sapere se c'è stata querela per diffamazione. Badate bene: se non c'è stata non significa certo che don Peppino era camorrista.

La quarta e ultima questione è personale, la racconto così.
Un giorno di qualche anno fa vennero al giornale dove lavoravo io, due ragazzi, a "presentarsi" al direttore che voleva parlarci per capire se erano intenzionati a passare con noi. Il primo faceva il nerista a tempo pieno, cioè tutto il giorno nella sala stampa della questura attaccato alla radiolina e agli ispettori. Il secondo proveniva da Caserta (anzi, da Maddaloni) e curava le pagine dell'area Nord di Napoli. Dicevano, sbagliando, che aveva un bruttissimo carattere. Entrambi venivano da Cronache di Napoli e Corriere di Caserta, conoscevano benissimo le dinamiche della nera 24h su 24 e ne erano più o meno stufi.
Una cosa è certa: i "giornali di rispetto" o la "camorra a mezzo stampa", come la chiama Roberto Saviano, su di loro evidentemente non avevano attecchito: ho imparato da Alberto Marzaioli e da Peppino Porzio tante buone cose su come fare onestamente e con lealtà questo mestiere. E anche per questo mi arrabbio, e molto: Alberto non c'è più, sentir buttare fango su tutto e tutti, senza fare distinguo, mischiando editori e redattori, sentir bollare la storia professionale di decine di giornalisti come contigua alla camorra, senza salvare nessuno, fa male. Così come fa male leggere la Federazione nazionale della Stampa che, a proposito della questione Saviano e dei cronisti campani parla dei «...tanti colleghi perbene che in condizioni difficili fanno con grande dignità il loro lavoro in quei territori».
Ma cari Roberto Natale e Roberto Saviano (ma è giornalista Saviano?) noi "colleghi perbene" non facciamo il nostro lavoro con "grande dignità" come si direbbe di un poveraccio. Noi lo facciamo come il padreterno comanda. E siamo pure bravi, cari. E c'è di più: i cronisti minacciati non stanno soltanto su un palco del Festival di Mantova, o in tivvù ma tra le strade di Napoli, Palermo, Locri, Caserta, Bari. Probabilmente qualcuno anche a Cronache di Napoli e al Corriere di Caserta. E stanno zitti, senza mettersi in mostra. Ed è bene che anche Roberto Saviano e il sindacato dei giornalisti italiani se ne rendano conto.


Ciro Pellegrino
09 settembre 2008
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« Risposta #25 inserito:: Settembre 11, 2008, 09:14:34 am »

La polemica nel corso del telegiornale

Emilio Fede vs Saviano: «Vita da scortato? Potrei darti delle lezioni» -

Il direttore di Rete 4 ha attaccato in maniera sferzante l'autore di «Gomorra», protagonista di una polemica con alcuni giornali 
 


NAPOLI - Durante l’edizione del Tg 4 di ieri 9 settembre Emilio Fede ha duramente commentato le ultime dichiarazioni del giornalista Roberto Saviano nel corso del Festival della letteratura di Mantova. Sferzanti i giudizi del direttore del telegiornale Mediaset a proposito della notorietà e dei guadagni ottenuti dall’autore di «Gomorra»: secondo Fede, Saviano avrebbe ben cavalcato l’onda della notorietà ottenuta per i suoi scoop giornalistici riguardanti il clan camorristico casertano dei Casalesi. E poi contenuti nel best seller divenuto poi anche un film di successo internazionale.

L’attacco andato in onda su Rete 4 si fa ancor più pesante quando Fede, dopo aver sarcasticamente dichiarato la sua solidarietà all'autore napoletano, ha poi parlato della vita da scortato che Saviano sta conducendo e di cui spesso si lamenta (lo ha fatto anche in occasione del meeting di Mantova). Fede valuta questa condizione da «prigioniero» come positiva per le tasche del giornalista-scrittore.

L’Emilio nazionale, continuando, dichiara di poter dare lezioni al giovane scrittore su come sia la vita da scortati, un atteggiamento che va controcorrente rispetto alle manifestazioni solidali espresse dalla categoria dei giornalisti nei confronti di Saviano. Il commento più lampante alle dichiarazioni del direttore della terza rete Mediaset è la presenza del suo intervento nella trasmissione di Rai 3 «Blob», da sempre contenitore dei peggiori exploit che la tv italiana ed i suoi protagonisti riescono a partorire.

A. D. P.
10 settembre 2008

da corrieredelmezzogiorno.corriere.it
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« Risposta #26 inserito:: Settembre 22, 2008, 10:31:51 am »

"Lettera alla mia terra"

di Roberto Saviano

Il grido d'accusa dello scrittore dopo la strage di Castel Volturno "Davvero pensate che nulla di ciò che accade dipenda dal vostro impegno?"


I responsabili hanno dei nomi. Hanno dei volti. Hanno persino un'anima. O forse no. Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino, Pietro Vargas stanno portando avanti una strategia militare violentissima. Sono autorizzati dal boss latitante Michele Zagaria e si nascondono intorno a Lago Patria. Tra di loro si sentiranno combattenti solitari, guerrieri che cercano di farla pagare a tutti, ultimi vendicatori di una delle più sventurate e feroci terre d'Europa. Se la racconteranno così. Ma Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino e Pasquale Vargas sono vigliacchi, in realtà: assassini senza alcun tipo di abilità militare. Per ammazzare svuotano caricatori all'impazzata, per caricarsi si strafanno di cocaina e si gonfiano di Fernet Branca e vodka. Sparano a persone disarmate, colte all'improvviso o prese alle spalle. Non si sono mai confrontati con altri uomini armati. Dinnanzi a questi tremerebbero, e invece si sentono forti e sicuri uccidendo inermi, spesso anziani o ragazzi giovani. Ingannandoli e prendendoli alle spalle

E io mi chiedo: nella vostra terra, nella nostra terra sono ormai mesi e mesi che un manipolo di killer si aggira indisturbato massacrando soprattutto persone innocenti. Cinque, sei persone, sempre le stesse. Com'è possibile? Mi chiedo: ma questa terra come si vede, come si rappresenta a se stessa, come si immagina? Come ve la immaginate voi la vostra terra, il vostro paese? Come vi sentite quando andate al lavoro, passeggiate, fate l'amore? Vi ponete il problema, o vi basta dire, "così è sempre stato e sempre sarà così? Davvero vi basta credere che nulla di ciò che accade dipende dal vostro impegno o dalla vostra indignazione? Che in fondo tutti hanno di che campare e quindi tanto vale vivere la propria vita quotidiana e nient'altro. Vi bastano queste risposte per farvi andare avanti? Vi basta dire "non faccio niente di male, sono una persona onesta" per farvi sentire innocenti? Lasciarvi passare le notizie sulla pelle e sull'anima. Tanto è sempre stato così, o no? O delegare ad associazioni, chiesa, militanti, giornalisti e altri il compito di denunciare vi rende tranquilli? Di una tranquillità che vi fa andare a letto magari non felici ma in pace? Vi basta veramente?

“In qualsiasi altro paese la libertà d'azione di un simile branco di assassini avrebbe generato dibattiti, scontri politici, riflessioni. Invece qui si tratta solo di crimini connaturati a un territorio considerato una delle province del buco del culo d'Italia.”
Questo gruppo di fuoco ha ucciso soprattutto innocenti. In qualsiasi altro paese la libertà d'azione di un simile branco di assassini avrebbe generato dibattiti, scontri politici, riflessioni. Invece qui si tratta solo di crimini connaturati a un territorio considerato una delle province del buco del culo d'Italia. E quindi gli inquirenti, i carabinieri e poliziotti, i quattro cronisti che seguono le vicende, restano soli. Neanche chi nel resto del paese legge un giornale, sa che questi killer usano sempre la stessa strategia: si fingono poliziotti. Hanno lampeggiante e paletta, dicono di essere della DIA o di dover fare un controllo di documenti. Ricorrono a un trucco da due soldi per ammazzare con più facilità. E vivono come bestie: tra masserie di bufale, case di periferia, garage.


Hanno ucciso sedici persone. La mattanza comincia il 2 maggio verso le sei del mattino in una masseria di bufale a Cancello Arnone. Ammazzano il padre del pentito Domenico Bidognetti, cugino ed ex fedelissimo di Cicciotto e' mezzanotte. Umberto Bidognetti aveva 69 anni e in genere era accompagnato pure dal figlio di Mimì che giusto quella mattina non era riuscito a tirarsi su dal letto per aiutare il nonno. Il 15 maggio uccidono a Baia Verde, frazione di Castelvolturno, il sessantacinquenne Domenico Noviello, titolare di una scuola guida. Domenico Noviello era un uomo che si era opposto al racket otto anni prima. Era stato sotto scorta, ma poi il ciclo di protezione era finito. Noviello non sapeva di essere nel mirino, non se l'aspettava. Gli scaricano addosso 20 colpi mentre con la sua Panda stava andando a fare una sosta al bar prima di aprire l'autoscuola. La sua esecuzione era anche un messaggio alla Polizia che stava per celebrare la sua festa proprio a Casal di Principe tre giorni dopo e ancor più una chiara dichiarazione: può passare quasi un decennio ma i Casalesi non dimeticano. Prima ancora, il 13 maggio, distruggono con un incendio la fabbrica di materassi di Pietro Russo a Santa Maria Capua Vetere. E' l'unico dei loro bersagli ad avere una scorta. Perché è stato l'unico che, con Tano Grasso, tentò di organizzare un fronte contro il racket in terra casalese. Poi, il 30 maggio, a Villaricca colpiscono alla pancia Francesca Carrino, una ragazza, venticinque anni, nipote di Anna Carrino, la ex compagna di Francesco Bidognetti, pentita. Era in casa con la madre e con la nonna, ma era stata lei ad aprire la porta ai killer che si spacciavano per agenti della DIA. Non passa nemmeno un giorno che a Casal di Principe, mentre dopo pranzo sta per andare al "Roxy bar" uccidono Michele Orsi, imprenditore dei rifiuti vicino al clan che, arrestato l'anno prima, aveva cominciato a collaborare con la magistratura svelando gli intrighi rifiuti-politica-camorra. E' un omicidio eccellente che fa clamore, solleva polemiche, fa alzare la voce ai rappresentanti dello Stato. Ma non fa fermare i killer. L'11 luglio uccidono al Lido "La Fiorente" di Varcaturo Raffaele Granata, 70 anni, gestore dello stabilimento balneare e padre del sindaco di Calvizzano. Anche lui paga per non aver anni prima ceduto alle volontà del clan. Il 4 agosto massacrano a Castelvolturno Ziber Dani e Arthur Kazani che stavano seduti ai tavoli all'aperto del "Bar Kubana" e, probabilmente, il 21 agosto Ramis Doda, venticinque anni, davanti al "Bar Freedom" di San Marcellino. Le vittime sono albanesi che arrotondavano con lo spaccio, ma avevano il permesso di soggiorno e lavoravano nei cantieri come muratori e imbianchini. Poi il 18 agosto aprono un fuoco indiscriminato contro la villetta di Teddy Egonwman, presidente dei nigeriani in Campania che si batte da anni contro la prostituzione delle sue connazionali, ferendo gravemente lui, sua moglie Alice e altri tre amici. Tornano a San Marcellino il 12 settembre per uccidere Antonio Ciardullo ed Ernesto Fabozzi, massacrati mentre stavano facendo manutenzione ai camion della ditta di trasporti di cui il primo era titolare. Anche lui non aveva obbedito, e chi gli era accanto è stato ucciso perché testimone. E infine, il 18 settembre, trivellano prima Antonio Celiento, titolare di una sala giochi a Baia Verde e un quarto d'ora dopo, aprono un fuoco di 130 proiettili di pistole e kalashnikov contro gli africani riuniti dentro e davanti la sartoria "Ob Ob Exotic Fashion" di Castelvolturno. Muoiono Samuel Kwaku, 26 anni e Alaj Ababa, del Togo; Cristopher Adams e Alex Geemes, 28 anni, liberiani; Kwame Yulius Francis, 31 anni e Eric Yeboah, 25, ghanesi, mentre viene ricoverato con ferite gravi Joseph Ayimbora, 34 anni, anche lui del Ghana. Solo uno o due di loro avevano forse a che fare con la droga, gli altri ragazzi erano lì per caso, lavoravano duro nei cantieri o dove capitava, e pure nella sartoria.

“Sedici vittime in meno di sei mesi. Qualsiasi paese democratico con una situazione del genere avrebbe vacillato. Qui da noi, nonostante tutto, neanche se n'è parlato.”
Sedici vittime in meno di sei mesi. Qualsiasi paese democratico con una situazione del genere avrebbe vacillato. Qui da noi, nonostante tutto, neanche se n'è parlato. Neanche si era a conoscenza da Roma in su di questa scia di sangue e questo terrorismo, che non parla arabo, che non ha stelle a cinque punte, ma comanda e domina senza contrasto. Ammazzano chiunque si oppone. Ammazzano chiunque capiti sotto tiro, senza riguardi per nessuno. La lista dei morti potrebbe essere più lunga, molto più lunga. E per tutti questi mesi nessuno ha informato l'opinione pubblica che girava questa "paranza di fuoco". Paranza, come le barche che escono a pescare insieme in alto mare. Nessuno ne ha rivelato i nomi sino a quando non hanno fatto strage a Castelvolturno. Ma sono sempre gli stessi, usano sempre le stesse armi, anche se cercano di modificarle per trarre in inganno la scientifica, segno che ne dispongono di poche. Non entrano in contatto con le famiglie, stanno rigorosamente fra di loro. Ogni tanto qualcuno li intravede nei bar di qualche paesone, dove si fermano per riempirsi d'alcol. E da sei mesi nessuno riesce ad acciuffarli.
Castelvolturno, territorio dove sono avvenuti la maggior parte dei delitti, non è un luogo qualsiasi. Non è un quartiere degradato, un ghetto per reietti e sfruttati come se ne possono trovare anche altrove, anche se ormai certe sue zone somigliano più alle home town dell'africa che al luogo di turismo balneare per il quale erano state costruite le sue villette. Castelvolturno è il luogo dove i Coppola edificarono la più grande cittadella abusiva del mondo, il celebre Villaggio Coppola.

“Castelvolturno è il luogo dove i Coppola edificarono la più grande cittadella abusiva del mondo, il celebre Villaggio Coppola. Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento. Che abusivamente presero il posto di una delle più grandi pinete marittime del mediterraneo.”Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento. Che abusivamente presero il posto di una delle più grandi pinete marittime del mediterraneo. Abusivo l'ospedale, abusiva la caserma dei carabinieri, abusive le poste. Tutto abusivo. Ci andarono ad abitare le famiglie dei soldati della NATO. Quando se ne andarono, il territorio cadde nell'abbandono più totale e divenne tutto feudo di Francesco Bidognetti e al tempo stesso territorio della mafia nigeriana. I nigeriani hanno una mafia potente con la quale ai Casalesi conveniva allearsi, il loro paese è diventato uno snodo nel traffico internazionale di cocaina e le organizzazioni nigeriane sono potentissime capace di investire soprattutto nei Money Transfer, i punti attraverso i quali tutti gli immigrati del mondo inviano i soldi a casa. Attraverso questi i nigeriani controllano soldi e persone.

Da Castelvolturno transita la coca africana diretta soprattutto in Inghilterra. Le tasse sul traffico che quindi il clan impone non sono soltanto il pizzo sullo spaccio al minuto, ma accordi di una sorta di joint venture. Ora però i nigeriani sono potenti, potentissimi. Così come lo è la mafia albanese, con la quale i Casalesi sono in affari. E il clan si sta slabbrando, teme di non essere più riconosciuto come chi comanda per primo e per ultimo sul territorio. Ed ecco che nei vuoti si insinuano gli uomini della paranza. Uccidono dei pesci piccoli albanesi come azione dimostrativa, fanno strage di africani di cui nessuno viene dalla Nigeria, colpiscono gli ultimi anelli della catena di gerarchie etniche e criminali. Muoiono ragazzi onesti, ma come sempre in questa terra, per morire non dev'esserci una ragione. E basta poco per essere diffamati. I ragazzi africani uccisi erano immediatamente tutti "trafficanti" come furono "camorristi" Giuseppe Rovescio e Vincenzo Natale, ammazzati a Villa Literno il 23 settembre 2003 perché erano fermi a prendere una birra vicinio a Francesco Galoppo, affiliato del clan Bidognetti. Anche loro furono subito battezzati come criminali.
Non è la prima volta che si compie da quelle parti una mattanza di immigrati. Nel 1990 Augusto La Torre, boss di Mondragone, partì con i suoi fedelissimi alla volta di un bar che pur gestito da italiani, era diventato un punto di incontro per lo spaccio degli africani. Tutto avveniva sempre lungo la statale Domitiana, a Pescopagano, pochi chilometri a nord di Castelvolturno, però già in territorio mondragonese. Uccisero sei persone, fra cui il gestore, e ne ferirono molte altre. Anche quello era stato il culmine di una serie di azioni contro gli stranieri, ma i Casalesi che pure approvavano le intimidazioni non gradirono la strage. La Torre dovette incassare critiche pesanti da parte di Francesco "Sandokan" Schiavone. Ma ora i tempi sono cambiati e permettono di lasciar esercitare una violenza indiscriminata a un gruppo di cocainomani armati.


Chiedo di nuovo alla mia terra come si immagina. Lo chiedo anche a tutte quelle associazioni di donne e uomini che in grande silenzio qui lavorano e si impegnano. A quei pochi politici che riescono a rimanere credibili, che resistono alle tentazioni della collusione o della rinuncia a combattere il potere dei clan. A tutti coloro che fanno bene il loro lavoro, a tutti coloro che cercano di vivere onestamente, come in qualsiasi altra parte del mondo. A tutte queste persone. Che sono sempre di più, ma sono sempre più sole. Come vi immaginate questa terra. Se è vero, come disse Danilo Dolci, che ciascuno cresce solo se è sognato, voi come ve li sognati questi luoghi? Non c'è stata mai così tanta attenzione rivolta alle vostre terre e quel che vi è avvenuto e vi avviene. Eppure non sembra cambiato molto.

“Antonio Iovine e Michele Zagaria. Dodici anni di latitanza. Anche di loro si sa dove sono. Il primo è a San Cipriano d'Aversa, il secondo a Casapesenna. In un territorio grande come un fazzoletto di terra, possibile che non si riesca a scovarli?”I due boss che comandano continuano a comandare e ad essere liberi. Antonio Iovine e Michele Zagaria. Dodici anni di latitanza. Anche di loro si sa dove sono. Il primo è a San Cipriano d'Aversa, il secondo a Casapesenna. In un territorio grande come un fazzoletto di terra, possibile che non si riesca a scovarli? E' storia antica quella dei latitanti ricercati in tutto il mondo e poi trovati proprio a casa loro. Ma è storia nuova che ormai ne hanno parlato più e più volte giornali e tv, politici di ogni colore hanno promesso che li faranno arrestare, ma intanto il tempo passa e nulla accade. E sono lì. Passeggiano, parlano, incontrano persone.


Ho visto che nella mia terra sono comparse scritte contro di me. Saviano merda. Saviano verme. E un'enorme bara con il mio nome. E poi insulti, continue denigrazioni a partire dalla più ricorrente e banale: "Quello: s'è fatto i soldi". Col mio lavoro di scrittore adesso riesco a vivere e, per fortuna, pagarmi gli avvocati. E loro? Loro che comandano imperi economici e si fanno costruire ville faraoniche in paesi dove non ci sono nemmeno le strade asfaltate? Loro che per lo smaltimento di rifiuti tossici sono riusciti in una sola operazione a incassare sino a 500milioni di euro e hanno imbottito la nostra terra di veleni al punto tale di far lievitare fino al 24% certi tumori, e le malformazioni congenite fino all'84% percento? Soldi veri che generano secondo l'Osservatorio epidemiologico campano una media di 7.172,5 morti per tumore all'anno in Campania. E ad arricchirsi sulle disgrazie di questa terra sarei io con le mie parole o i carabinieri e i magistrati, i cronisti e tutti gli altri che con libri o film o in ogni altro modo continuano a denunciare? Com'è possibile che si crei un tale capovolgimento di prospettive? Com'è possibile che anche persone oneste si uniscano a questo coro? Pur conoscendo la mia terra, di fronte a tutto questo, io rimangono incredulo e sgomento e anche ferito al punto che fatico a trovare la mia voce. Perché il dolore porta ad ammutolire, perché l'ostilità porta a non sapere a chi parlare. E allora a chi devo rivolgermi, che cosa dico?

“Come faccio a dire alla mia terra di smettere di essere schiacciata tra l'arroganza dei forti e la codardia dei deboli?”Come faccio a dire alla mia terra di smettere di essere schiacciata tra l'arroganza dei forti e la codardia dei deboli? Oggi qui in questa stanza dove sono, ospite di chi mi protegge, è il mio compleanno. Penso a tutti i compleanni passati così, da quando ho la scorta, un po' nervoso, un po' triste, e soprattutto solo. Penso che non potrò mai più passarne uno normale nella mia terra, che non potrò mai più metterci piede. Rimpiango come un malato senza speranze tutti i compleanni trascurati, snobbati perché è solo una data qualsiasi e un altro anno ce ne sarà uno uguale. Ormai si è aperta una voragine nel tempo e nello spazio, una ferita che non potrà mai rimarginarsi. E penso pure e soprattutto a chi vive la mia stessa condizione e non ha come me il privilegio di scriverne e parlare a molti. Penso ad altri amici sotto scorta, Raffaele, Rosaria, Lirio, Tano, penso a Carmelina, la maestra di Mondragone che aveva denunciato il killer di un camorrista e che da allora vive sotto protezione, lontana, sola. Lasciata dal fidanzato che doveva sposare, giudicata dagli amici che si sentono schiacciati dal suo coraggio e dalla loro mediocrità. Perché non c'era stata solidarietà per il suo gesto, anzi, ci sono state critiche e abbandono. Lei ha solo seguito un richiamo della sua coscienza e ha dovuto barcamenarsi con il magro stipendio che le da lo stato. Cos'ha fatto Carmelina, cos'hanno fatto altri come lei per avere la vita distrutta e sradicata, mentre i boss latitanti continuano a poter vivere protetti e rispettati nelle loro terre? E chiedo alla mia terra, che cosa ci rimane. Ditemelo. Galleggiare? Far finta di niente? Calpestare scale di ospedali lavate da cooperative di pulizie loro, ricevere nei serbatoi la benzina spillata da pompe di benzina loro? Vivere in case costruite da loro, bere il caffè della marca imposta da loro (ogni marca di caffè per essere venduta nei bar deve avere l'autorizzazione dei clan), cucinare nelle loro pentole (il clan Tavoletta gestiva produzione e vendita delle marche più prestigiose di pentole)? Mangiare il loro pane, la loro mozzarella, i loro ortaggi? Votare i loro politici che riescono, come dichiarano i pentiti, ad arrivare alle più alte cariche nazionali? Lavorare nei loro centri commerciali, costruiti per creare posti di lavoro e sudditanza dovuta al posto di lavoro, ma intanto non c'è perdita perché gran parte dei negozi sono loro? Siete fieri di vivere nel territorio con i più grandi centri commerciali del mondo e insieme uno dei più alti tassi di povertà? Passare il tempo nei locali gestiti o autorizzati da loro? Sedersi al bar vicino ai loro figli, i figli dei loro avvocati, dei loro colletti bianchi? E trovarli simpatici e innocenti, tutto sommato persone gradevoli, perché loro in fondo sono solo ragazzi, che colpa hanno dei loro padri.

“Non si tratta di stabilire colpe, ma smettere di accettare e di subire sempre, smettere di pensare che almeno c'è ordine, che almeno c'è lavoro, e che basta non grattare, non alzare il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada.”E infatti non si tratta di stabilire colpe, ma smettere di accettare e di subire sempre, smettere di pensare che almeno c'è ordine, che almeno c'è lavoro, e che basta non grattare, non alzare il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada. Che basta fare questo e nella nostra terra si è già nel migliore dei mondi possibili, o magari no, ma nell'unico mondo possibile sicuramente. Quanto ancora dobbiamo aspettare? Quanto ancora dobbiamo vedere i migliori emigrare e i rassegnati rimanere? Siete davvero sicuri che vada bene così? Che le serate che passate a corteggiarvi, a ridere, a litigare, a maledire il puzzo dei rifiuti bruciati, a scambiarvi quattro chiacchiere, possano bastare? Voi volete una vita semplice, normale, fatta di piccole cose, mentre intorno a voi c'è una guerra vera, mentre chi non subisce e denuncia e parla, perde ogni cosa. Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati?

Come è possibile che solo gli ultimi degli ultimi, gli africani che subiscono lo sfruttamento e la violenza dei clan italiani e di altri africani, abbiano saputo una volta tirare fuori più rabbia che paura e rassegnazione? Non posso credere che un sud così ricco di talenti e forze possa davvero accontentarsi solo di questo. La Calabria ha il PIL più basso d'Italia ma "Cosa Nuova", ossia la ndrangheta fattura quanto e più di una intera manovra finanziaria italiana. Alitalia sarà in crisi, ma a Grazzanise, in un territorio marcio di camorra, si sta per costruire il più grande aeroporto italiano, il più vasto del mediterraneo. Una terra condannata a far circolare enormi capitali senza avere uno straccio di sviluppo vero, e invece ha danaro, profitto, cemento che ha il sapore del saccheggio, non della crescita.
Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali. Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile. E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura? La paura. L'alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla. Ma non avere più paura, non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli. La paura va a braccetto con l'isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro, crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina.

“"Si può edificare la felicità del mondo sulle spalle di un unico bambino maltrattato?"”"Si può edificare la felicità del mondo sulle spalle di un unico bambino maltrattato?" domanda Ivan Karamazov a suo fratello Aljoša. Ma voi non volete un mondo perfetto, volete solo una vita tranquilla e semplice, una quotidianità accettabile, il calore di una famiglia. Accontentarvi di questo pensate che vi metta al riparo di ansie e dolori. E forse ci riuscite, riuscite a trovare una dimensione in cui trovate serenità. Ma a che prezzo? Se dovessero nascere malati o ammalarsi i vostri figli, se un' altra volta dovreste rivolgervi a un politico che in cambio di un voto vi darà un lavoro senza il quale anche i vostri piccoli sogni e progetti finiscono nel vuoto, quando faticherete ad ottenere un mutuo per la vostra casa mentre i direttori delle stesse banche saranno sempre disponibili con chi comanda, quando vedrete tutto questo, forse, vi renderete conto che non c'è riparo, che non esiste nessun ambito protetto, e che l'atteggiamento che pensavate realistico e saggiamente disincantato, vi ha appestato l'anima di un risentimento e rancore che toglie ogni gusto alla vostra vita. Perché se tutto ciò è triste la cosa ancora più triste è l'abitudine. Abituarsi che non ci sia null'altro da fare che rassegnarsi, arrangiarsi o andare via. Chiedo alla mia terra se riesce ancora ad immaginare di poter scegliere. Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, di pensarsi libera. Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini.
Quegli uomini possono strapparti alla tua terra e al tuo passato, portarti via la serenità, impedirti di trovare una casa, scriverti insulti sulle pareti del tuo paese, possono fare il deserto intorno a te. Ma non possono estirpare quel che resta una certezza e, per questo, rimane pure una speranza. Che non è giusto, non è per niente naturale, far sottostare un territorio al dominio della violenza e dello sfruttamento senza limiti. E che non deve andare avanti così, perché così è sempre stato. Anche perché non è vero che tutto è sempre uguale, ma è sempre peggio. Perché la devastazione cresce proporzionalmente con i loro affari, perché è irreversibile come la terra una volta per tutte appestata, perché non conosce limiti. Perché là fuori si aggirano sei killer abbruttiti e strafatti, con licenza di uccidere e non mandato, che non si fermano di fronte a nessuno. Perché sono loro l'immagine e somiglianza di ciò che regna oggi su queste terre e di quel che le attende domani, dopodomani, nel futuro. Bisogna trovare la forza di cambiare. Ora, o mai più.

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« Risposta #27 inserito:: Settembre 30, 2008, 12:07:30 am »

Caro Roberto Saviano, grazie dell’urlo

PierPaolo Pasolini quarant'anni fa urlava al Paese la corruzione del sistema e l'omologazione culturale, lo faceva in tutti i modi che conosceva: letteratura , cinema, giornali, tv.

Aveva un'anima Pasolini e non ci rinunciò con il silenzio, come fece invece tutta la classe dirigente di allora, lui parlò e per questo fu ammazzato.

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Quarant'anni dopo un altro uomo lancia un urlo al Paese con tutti i mezzi che conosce: letteratura, cinema, tv, giornali . Molti la chiamano Gomorra, ma è molto di più, è la parte sbagliata della storia.

Ha un'anima quest'uomo, e denuncia il sistema mafioso e camorrista di tutta Italia, dalle alpi allo stretto. Si perché anche il beato e ricco nord è colluso, per esempio sull'Expo che si terrà a Milano e per l'interesse di Ndrangheta e Camorra per quegli appalti.

Parla quest'uomo, e scrive dell'ignavia in cui ci siamo rinchiusi, della corruzione interiore del male, della paura che ci ha colpiti e resi piccoli senza più valori. Urla che il sistema è corrotto che la borghesia come la conoscevamo noi: avvocati, medici, ingegneri, giornalisti, commercianti, artigiani , imprenditori, non esiste più; e non c'è più divisone tra nord e sud del paese, ma solo un solco tra collusi e non.

Grazie Roberto Saviano per averci urlato, non ti lasceremo morire come Pasolini, anche tu per averci svegliato. Noi siamo al tuo fianco, sappiamo tutto, sappiamo che pure l'informazione è collusa, e invece di informare anestetizza la coscienza civile dei cittadini con il delitto di turno e il gossip.

Nascondere la verità questo fanno tanti giornalisti italiani, cioè nascondere il fatto che mafie e potere decidono per la nostra storia a tutti i livelli.

Non c'è più tempo per restare a guardare da lontano e farsi i fatti propri, quel metodo non salverà più nessuno tanto meno chi lo esercita, ora si può solo scegliere.

Grazie Roberto per aver portato il racconto dell'Italia a cercare di prendere un oscar, molti hanno contestato che l'Italia sia rappresentata dalla Camorra, ma lo fecero anche con il Neorealismo, non li ascoltare e vai avanti. L'Italia è mafia camorra e ndrangheta, e raccontarle serve ad eliminarle, il silenzio non serve a nulla.

Il silenzio sceso su Cosentino dopo lo speciale su L'Espresso è il livello più basso mai raggiunto dall'informazione, è la dimostrazione del vassallaggio più assoluto di quasi tutta la comunicazione italiana.

Questo è il nostro Paese, chi sta con i mafiosi e chi li combatte, chi ci rimette la vita, e chi ne spreca una intera appresso alle cose inutili del mondo. Grazie ai disvalori creati a tavolino nei palinsesti tv e innestati nella popolazione con: veline, reality e canzonette.

Si può reagire , si possono aprire gli occhi e comprendere che facciamo tutti parte di un disegno più grande, che rende la vita più degna d'essere vissuta. Possiamo ascoltare Roberto Saviano, alzarci e dire basta alle mafie e ai poteri forti, che da secoli frenano la storia di questo Paese.

Oppure possiamo stare zitti e lasciare uccidere altra gente e altra economia: perché abbiamo paura, perché da soli non si può cambiare il mondo, insomma per le solite scuse di sempre.

Si rileva però che non reagire quantomeno ci ha reso infelici e distrutto il futuro dei nostri figli. Tu italiano, che stai per iniziare il resto della tua vita, da che parte stai?

Tania Passa
28 settembre 2008


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« Risposta #28 inserito:: Ottobre 02, 2008, 01:53:27 pm »

Comitato don Giuseppe Diana

Testimoniare e non dimenticare

 
L'associazione di promozione sociale "Comitato don Peppe Diana" è nata ufficialmente il 25 aprile 2006, come frutto di un percorso di diversi anni, che ha coinvolto persone e organizzazioni unite dal desiderio di non dimenticare il martirio di un sacerdote morto per amore del suo popolo.

Il comitato don Peppe Diana fu costituito nel 2003 da sette organizzazioni attive nel sociale, le quali decisero che il messaggio, l'impegno e il sacrificio di don Giuseppe Diana non dovessero essere dimenticati. L'Agesci Regione Campania, le associazioni Scuola di Pace don Peppe Diana, Jerry Essan Masslo, Progetto Continenti, Omnia onlus, Legambiente circolo Ager e la cooperativa sociale Solesud Onlus sottoscrissero un protocollo d'intesa nel quale decisero di perseguire diversi obiettivi comuni: - la costruzione della memoria di don Giuseppe Diana, contestualizzando la sua vita di persona comune in una realtö problematica; - la realizzazione di azioni educative e didattiche sui temi dell'impegno civile e sociale per una cittadinanza attiva; - la promozione nelle nuove generazioni della speranza, dell'impegno e dell'assunzione di responsabilità.

Il confronto avviato in quel nucleo iniziale di organizzazioni, arricchito dal contributo degli amici, dei conoscenti e dei simpatizzanti di don Peppe - i quali autonomamente e parallelamente hanno, in questi anni, tenuto viva la memoria del sacerdote-, ha fatto maturare la necessità di costituire un'associazione di promozione sociale, che si metta al servizio e dia forza a quanti, in nome di don Giuseppe Diana, vogliono fare memoria del suo sacrificio e come Lui continuare a costruire comunità alternative alla camorra.

 


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« Risposta #29 inserito:: Ottobre 07, 2008, 12:50:48 pm »

Una finestra sull'utopia


«Lei è all'orizzonte» dice Fernando Birri. «Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l'orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini non la raggiungerò mai.
A cosa serve l'utopia? Serve proprio a questo: a camminare.»
Da "Las palabras andantes", di Eduardo Galeano, Finestra sull'Utopia


Questo sito racconta le "utopie" di Felice Pignataro e del GRIDAS, associazione che ha fondato nel 1981, utopie concretizzatesi nella realizzazione di murales, mosaici alla maniera di Antoni Gaudì, maschere di cartapesta e di poliuretano espanso per il carnevale di quartiere, quadri e sculture con materiale di riciclo, autoadesivi e manifesti lineografati e stampati in proprio, televisori di legno con rulli dipinti per dare voce ai senza voce, striscioni colorati, e ancora fumetti, favole, illustrazioni, laboratori con le scuole e alla sede del GRIDAS.

Tanti diversi aspetti di una sola visione dell'arte e della creatività, semplice, ma difficile a farsi - direbbe Felice - in funzione di critica sociale, sostegno per gli ultimi e stimolo a lottare per cambiare le cose.
E in tante occasioni queste utopie realizzate hanno potuto abbattere muri grigi di indifferenza e pregiudizio e mostrare, oltre di essi, tra fiori giganti, soli e lune sorridenti, e girotondi di uomini e donne in pace, l'orizzonte di un mondo migliore.





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Gridas - Gruppo di risveglio dal sonno

Il GRIDAS (gruppo risveglio dal sonno, con riferimento alla frase di una delle incisioni della "quinta del sordo" di Francisco Goya: "el sueño de la razon produce monstros") è un'associazione culturale senza scopo di lucro fondata nel 1981 da Felice Pignataro, Mirella La Magna, Franco Vicario, e altre persone riunite dall'intento comune di mettere le proprie capacità artistiche, culturali, al servizio della gente comune per stimolare un risveglio delle coscienze e una partecipazione attiva alla crescita della società.

Il GRIDAS ha da subito stabilito la propria sede nei locali abbandonati del Centro Sociale dell'Ina Casa di Secondigliano, poi Scampìa (periferia nord di Napoli), in via Monterosa 90/b. Locali più volte e in più riprese ristrutturati e mantenuti funzionanti.

L'opera del GRIDAS si è caratterizzata, negli anni, soprattutto con i murales realizzati da Felice Pignataro con gli altri membri del gruppo e con le scuole o i soggetti attivi che si sono rivolti all'associazione per avere un supporto "visibile" alle proprie battaglie sul territorio del napoletano e non solo. Visibilità data dai variopinti e espressivi striscioni, dall' "animazione" con i tamburi, dalle dimostrazioni con il "Televisore a mano" con rulli dipinti appositamente per le differenti lotte, dai murales che perduravano anche dopo la giornata di mobilitazione, dagli autoadesivi linoleografati autoprodotti su carta fluorescente. Interventi spesso richiesti all'ultimo momento tanto che Felice creò la definizione del "Pronto soccorso culturale".

Inoltre, il GRIDAS promuove dal 1983 il carnevale di quartiere a Scampìa su temi di attualità e laboratori per il recupero della manualità, cineforum gratuiti alternativi presso la propria sede proponendo film normalmente "evitati" o relegati in tarda notte dalla TV o dalle sale cinematografiche.
Con la scomparsa di Felice il GRIDAS ha perso, tra l'altro, la grande potenzialità della capacità che aveva lui di rappresentare in immagini iconografiche, chiare e facilmente comprensibili da tutti, le voci della protesta, le battaglie e le ingiustizie del mondo; ma prosegue, comunque, il cammino intrapreso con Felice per un risveglio delle coscienze e della creatività.


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