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Autore Discussione: ROBERTO SAVIANO  (Letto 81226 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Luglio 04, 2007, 07:43:24 pm »

4/7/2007 (13:56) - CITTÀ VIETATA
Torino a rischio per Saviano
 
Lo scrittore dà forfait. Si sarebbe esibito ai Giardini Reali in coppia con Meg

GIOVANNA FAVRO
TORINO


Che cosa c’è di più triste di un intellettuale cui viene tappata la bocca con la forza? Di un paese in cui uno scrittore viene messo in condizione di non parlare, di non incontrare il pubblico, di non far volare il suo pensiero tra la gente a suon di minacce e di violenza?» E’ più o meno questo, il pensiero di Cosimo Ammendolìa, il direttore di «Traffic». Non sta parlando dell’Iran, di qualche paese africano, dell’Arabia Saudita, di Oran Pamuk o di Salman Rushdie. No. Parla di Torino, e di un appuntamento cancellato «per ragioni di sicurezza» con lo scrittore Roberto Saviano. L’autore che ha sfidato la camorra, e che vive scortato da mesi e mesi. Il papà di «Gomorra», che i camorristi minacciano d’uccidere.
Lo scrittore avrebbe dovuto incontrare il pubblico torinese la sera del 14, ai Giardini Reali. Era abbinato alla voce di Meg, l'ex cantante della 99Posse, che è sua amica e che è stata il tramite con Ammendolìa: «Abbiamo pensato di invitarlo mesi fa - spiega lui - perché avevamo deciso di porre Napoli al centro della sessione letteraria di quest’anno». Dal palco lo scrittore avrebbe dovuto parlare della sua Napoli, e forse anche leggere qualche brano del suo libro. Lei avrebbe cantato e suonato il pianoforte. «Avrebbero proposto a Torino un progetto elaborato per le scuole di Napoli. Avevano detto di sì in più occasioni: prima a voce, nei giorni precedenti la Fiera del Libro, e poi per e-mail. Invece, all’ultimo, ora che si trattava di prenotare l’hotel e l’aereo, è sfumato tutto».
L’e-mail che annuncia il forfait parla di «ragioni di sicurezza che impediscono a Saviano di partecipare all’appuntamento torinese».
Ammendolìa è indignato: «E’ una cosa tristissima. Che sia una sua scelta, ovvero che sia talmente stanco e sotto pressione, a forza di minacce, da gettare la spugna, o che sia impossibile garantirgli incolumità in un luogo aperto e grande come i Giardini Reali, resta il fatto che si tratta di una vicenda penosissima, che dovrebbe farci riflettere».
Quale delle due ipotesi è quella vera? Ernesto Ferrero, il direttore della Fiera del Libro, rivela che anche lui aveva invitato Saviano al Lingotto, nei giorni di Librolandia. «Ma anche nel nostro caso aveva rinunciato, declinando l’invito. La sua agenda è molto fitta, ma soprattutto gli consigliano di non muoversi troppo, per prudenza: purtroppo, quelli che lo minacciano non sono persone che parlano a vanvera. So che è stato ad esempio costretto a cancellare a malincuore anche la sua presenza a Latina, dove doveva ritirare un premio».
Dalla Mondadori, la sua editrice, dicono di non sapere nulla della cancellazione dell’appuntamento torinese. Spiegano però che «Saviano è molto legato a Torino, città che ama molto». Ormai, anche chi, dell’editrice, l’accompagna nelle tappe italiane non cancellate dall’agenda, s’è abituato alla prudenza. Viaggiare con Saviano significa avere a che fare con scorte di carabinieri e polizia, spostamenti segreti, tragitti e luoghi da non rivelare a nessuno.
Dalla questura di Torino, spiegano, a livello informale, che naturalmente i poliziotti impegnati in città si sentono in grado di proteggere chiunque. E’ accaduto con il presidente Napolitano, così come con Laura Bush, e accadrà oggi con il segretario generale dell’Onu. Pare che lo staff dello scrittore, comunque, non abbia neppure chiesto di preparare delle misure di protezione, né abbia informato della sua imminente presenza in città.La spugna è stata gettata prima, probabilmente, a sentire Ammendolìa, perché la città è comunque ritenuta a rischio, e per sfinimento, «perché se uno subisce violenza a un certo punto è tentato di mollare. Nelle sue e-mail si leggevano la fatica e la stanchezza per una vita complicata».
Dopo il forfait, il ciclo di scambi letterario musicali resta comunque dedicato a Napoli. Ferma restando la presenza di Meg, «stiamo ragionando sulla possibilità di avere Paolo Sorrentino o Matteo Garrone, che sta girando il film tratto dal best seller di Saviano». Gli altri due incontri sono in calendario il 12, con il regista Mario Martone con Daniele Sepe, e il 13 con l’autrice Valeria Parrella. Incontrerà Raiz, ex voce degli Almamegretta.

da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 06, 2007, 11:47:23 am »

CRONACA

In autunno processo d'appello ad una famiglia della camorra casertana

L'anno scorso 21 ergastoli e novanta condanne contro l'organizzazione

Il clan dei Casalesi conquista il centro di Milano

Gli affari dei boss-manager in tutto il Nord

di ROBERTO SAVIANO

 
Bin Laden è riuscito a mettere le mani su uno dei territori più ambiti, il centro di Milano, nella cerchia dei Navigli. Via Santa Lucia è una di quelle stradine signorili, tranquille, quasi invisibili che però stanno a due passi dai locali più di moda e dagli imponenti palazzi storici dove avvocati e notai hanno i loro studi e dove gli imprenditori cercano appartamenti e showroom per vivere accanto alle vecchie famiglie milanesi. Proprio lì si trova l'ultima preda urbanistica di una città che prevalentemente vede espandere i suoi fianchi, e nelle periferie duplicare e triplicare persino il proprio nome. Invece aveva un cuore intatto, un territorio illibato su cui poter ancora edificare e vendere a 15mila euro al metro quadro. Proprio lì è riuscito ad entrare Bin Laden, nel grande affare immobiliare milanese.

Bin Laden non è il temibile capo di Al Queda, non è saudita, non è neanche islamico e non conosce altra fede che il danaro. Bin Laden è il soprannome di Pasquale Zagaria, imprenditore del clan del cemento, il clan dei Casalesi, è originario di Casapesenna, un paesino del casertano dove ci sono più imprese edili che abitanti. Bin Laden è il soprannome che emerge dalle indagini dell'antimafia di Napoli coordinata dai pm Raffaele Cantone, Raffaello Falcone e Francesco Marinaro: un appellativo dovuto alla sua capacità di sparire e soprattutto alla sua temibilità, alla paura che il suo nome genera soltanto a pronunciarlo. Si racconta però che tale soprannome fosse uscito fuori quasi per gioco: se avessero messo una taglia su Pasquale Zagaria come quella su Osama, alcuni imprenditori del clan e i loro gregari dichiararono ironici che l'avrebbero tradito, poiché se diveniva materia di profitto pure la fedeltà, allora era giusto poter contrattare e vendere anche quella.

Pasquale "Bin Laden" Zagaria, secondo le accuse dall'antimafia di Napoli, è uno degli imprenditori capaci di egemonizzare i subappalti dell'Alta Velocità Napoli-Roma, di determinare i lavori della linea ferroviaria Alifana, di avere ditte pronte ad entrare nell'affare della Tav Napoli-Bari e nel progetto della metropolitana aversana, e infine pronti a gestire la conversione a scalo civile dell'aeroporto di Grazzanise, che dovrebbe divenire il più grande d'Italia. Le imprese di Zagaria hanno vinto sul mercato nazionale grazie ai prezzi concorrenziali, alla capacità di muovere macchinari e uomini e alla velocità di realizzazione. Costruiscono ovunque in Emilia Romagna, Lombardia, Umbria e Toscana. La crescita esponenziale di Pasquale Zagaria, la sua ascesa fino a diventare uno dei più importanti imprenditori edili italiani, è avvenuta soprattutto da quando è stato in grado di collocare il cuore del suo impero e quello dei Casalesi in Emilia Romagna, in particolar modo a Parma, che è oggi una delle città che più hanno a che fare con la camorra, avendo assorbito nel suo tessuto economico i capitali dei clan.

Ma non c'è stata alcuna colonizzazione, piuttosto il contrario. A nord le imprese edili crescono velocemente, lavorano, costruiscono, vendono, acquistano, affittano, soltanto che non raramente entrano in crisi. Così è necessario che arrivino capitali nuovi, uomini e gruppi capaci di rassicurare le banche e di intervenire immediatamente. La camorra Casalese offre condizioni ottimali: i capitali più cospicui, le migliori maestranze e l'assoluta supremazia nel risolvere qualsiasi problema burocratico e organizzativo. E il clan Zagaria, che detiene all'interno del clan la leadership del cemento, può fare meglio di ogni altro competitore nell'acquisto di terreni, nella capacità di scegliere i materiali al miglior prezzo, nel reperire terreni edificabili, nel trasformare pantani inaccessibili in appetibili terreni dove costruire condomini lussuosi.

La figura che unisce Bin Laden Zagaria a Parma è il costruttore Aldo Bazzini. Uomo del cemento con interessi a Milano Parma e Cremona, secondo le accuse diviene testa di legno di Zagaria quando il loro sodalizio si fortifica attraverso il matrimonio. Bin Laden sposa la figliastra di Aldo Bazzini che, in una telefonata fatta con il suo avvocato Conti, commenta così la novità.
Conti: La figlia dove è andata?...
Bazzini: La figlia ha sposato un... un grosso boss! Eh! Giù!
C: Ma che roba! E sta bene?!
B: E sta bene!
C: Quel marito lì gliel'ha trovato lei! eh, BAZZINI?!
B:(ride)... Eh si eh!
C: Bisogna stare attenti a venire con lei!... Se no mi trovi il marito anche...
B: (ride)
C: E' un boss veramente?
B: Eh si, si, si!
C: E lei fa... fa la vita da... da ricca?
B: Da ricchissima guardi!
C: Da ricchissima!
E effettivamente la vita migliora. In un appunto trovato dai carabinieri sono segnate le spese degli Zagaria, e tra basolati, calcestruzzi, cotti e intonaci si trovano elencati 19mila euro per una gita di un giorno a Montecarlo e 20mila per una spesa ad Oro Mare, la città dei gioielli.

Così dopo il matrimonio del boss le imprese di Bazzini, che andavano lentamente verso il tracollo, iniziano a riprendersi grazie ai capitali e alle competenze dei Casalesi. Ed è interessante vedere come i nomi di imprese di Bazzini che secondo la DDA di Napoli di fatto sono gestite dai Casalesi siano completamente slegati dal territorio meridionale. Nuova Italcostruzioni Nord srl, Ducato Immobiliare srl e persino un'impresa dedicata all'autore della Certosa di Parma, la Stendhal costruzioni srl.

L'Emilia Romagna è sempre stata territorio di investimento del clan dei Casalesi. Giuseppe Caterino, arrestato in Calabria due anni fa, era un boss che a Modena aveva il suo feudo. In via Benedetto Marcello da sempre esiste una roccaforte casalese e poi a Reggio Emilia, Bologna, Sassuolo, Castelfranco Emilia, Montechiarugolo, Bastiglia, Carpi. Basta seguire il percorso delle imprese edili e la sofferenza di molti emigranti dell'agro aversano, vessati dai loro compaesani dei clan. Persino le modalità militari furono esportate nei territori di investimento. Si iniziò il 5 maggio del 1991, con un conflitto tra paranze di fuoco dei casalesi a Modena. Il 14 marzo del 2000 vi fu un agguato a Castelfranco Emilia. E poi a Modena qualche mese fa, il 10 maggio 2007, è stato gambizzato Giuseppe Pagano, titolare dell'impresa edile Costruzioni Italia.

Il tessuto connettivo italiano è il cemento. Cemento è il sangue arterioso della sua economia. Col cemento nasci e divieni imprenditore, lontano dal cemento ogni investimento traballa. Il cemento armato è il territorio dei vincenti. In silenzio il clan del cemento ha preso potere in Italia, un silenzio che si è costruito con la certezza che quanto lo riguarda non sarebbe rimbalzato oltre ai confini campani. Un clan sconosciuto in Italia e invece notissimo e temutissimo laddove riesce ad egemonizzare ogni cosa. Il pm Raffaele Cantone, al processo contro il clan Zagaria, ha detto con fermezza: "Ci troviamo di fronte a boss che agiscono, pensano, e si relazionano come imprenditori. E sono imprenditori. Dire che esiste il clan Zagaria e che comandi su tutto il territorio è come dire che si respira aria".

Il clan è riuscito a divenire così potente perché a sud controlla completamente il ciclo del cemento. Impone le forniture, gestisce ogni tipo di appalto, detta le leggi del racket per ogni lavoro. Un sistema che non permette smagliature. L'estorsione diviene uno strumento fondamentale per mettere in relazione tutto e tutti nella stessa rete economica e chi è sotto estorsione ne fa obbligatoriamente parte. Ci sono decine di telefonate in cui imprenditori chiedono agli uomini del clan: "Fatemi faticare", e altre telefonate per non far partecipare alle aste fallimentari: "siamo di Casapesenna, quei terreni sono nostri". Basta pronunciare il paese di provenienza e ogni buon imprenditore comprenderà. Il calcestruzzo è monopolizzato da loro, chiunque voglia lavorare deve interloquire con loro, loro condizionano tutti i produttori di cemento: Cocem, Dmd Beton, Luserta, Cls.
Nessun cantiere può impegnare ditte che non abbiano ricevuto il permesso di lavorare dai Casalesi. Nelle indagini emerge un episodio significativo: una ditta a loro apparentemente sconosciuta stava lavorando senza il "permesso" al cantiere del canile di Caserta. D'immediato l'ordine fu: "Blocca i camion, non far più faticare nessuno". Poi scoprirono che la ditta che lavorava al canile era una delle loro miriadi di emanazioni e tutto tornò in regola.

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« Ultima modifica: Febbraio 08, 2008, 11:08:23 am da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 06, 2007, 11:48:20 am »

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E così le imprese dei clan riescono a risparmiare, vincono gli appalti a sud e migliorano le loro qualità a nord. Crescendo sono riusciti ad arrivare alle grandi opere. Nel 2003 si vara il progetto dei grandi cantieri del governo Berlusconi; secondo le indagini della Dda di Napoli, in un albergo romano ha luogo un summit per tentare di far entrare il clan nel progetto. Roma è territorio noto ai Casalesi, hanno già tentato la scalata alla squadra della Lazio, sono divenuti i partner vincenti di Enrico Nicoletti, boss della Banda della Magliana. Il luogo di incontro è una sala riunioni di un hotel della zona di via Veneto. C'è il costruttore Aldo Bazzini, c'è il boss Pasquale Zagaria, c'è Alfredo Stocchi, politico, ex assessore socialista, e c'è infine il presidente del consiglio comunale Bernini, consulente del ministro Lunardi. Giovanni Bernini, uomo di punta in Emilia Romagna di Forza Italia, nel '94 viene eletto a Palazzo Ducale, nel 2002 è il più votato di tutta la Casa delle libertà. Bernini, che l'Antimafia napoletana interroga come testimone, spiegherà che Zagaria gli era stato presentato come un imprenditore, cosa reale del resto, ma dichiara che ignorava fosse anche un boss. L'inchiesta si ferma qui, quello che è accaduto dopo non si sa. Ma è evidente che non sono i clan ad avere bisogno delle grandi opere, bensì il contrario. Il cemento chiama il cemento più efficiente, i prezzi più convenienti.

Pasquale "Bin laden" Zagaria era latitante, lo cercavano invano mentre le sue ditte satellite continuavano a vincere appalti. Ma in seguito si è consegnato. Si è consegnato ed ha chiesto il rito abbreviato. Al processo, al Tribunale di Napoli, c'è tutto lo stato maggiore del clan. La strategia migliore: la legge diviene qualcosa che deve contenere il business, la prassi economica. É quindi inutile sfidarla quando non la si riesce a slabbrare, quando le maglie sono tirate al massimo. Bisogna incassare il danno, renderlo minimo. Non contrastare lo Stato, ma risolvergli le contraddizioni.
Quando il pm Raffaele Cantone riuscì a comprendere i meccanismi, aprendo indagini importanti sul clan del cemento e riuscendo a sequestrare cantieri per un valore di oltre 50 milioni di euro, il clan pensò di farlo saltare in aria. Le informative parlavano di tritolo ordinato ai fedelissimi alleati calabresi. Informazioni che quasi tutti i media ignorano. Al pm viene raddoppiata la scorta, la tensione sul territorio diviene altissima. 'Ndrangheta e camorra casalese sono da sempre alleate, gemelle nel silenzio che riescono ad ottenere, a differenza di Cosa Nostra. Ma poi i falchi del clan vengono placati dalle colombe. Capiscono che non è il momento della carneficina. E il clan, che pure aveva massacrato un giovane sindacalista, Federico Del Prete; e che pure non aveva esitato a massacrare un proprio affiliato perché in carcere ebbe rapporto omosessuali "infangando" l'onorabilità dell'intero cartello, il clan più feroce del mezzogiorno si ferma. Non vuole telecamere, non vuole attenzione nazionale. Vuole rimanere sconosciuto. E quindi sospende la condanna al magistrato.

Pasquale Zagaria è il fratello di Capastorta. Capastorta è il soprannome di Michele Zagaria. Latitante da oltre undici anni, oggi ha preso il posto di Bernardo Provenzano alla testa dei boss più ricercati d'Italia. Michele è il capo militare del clan dei Casalesi, il leader incontrastato. In realtà formalmente è una sorta di vicerè assieme ad Antonio Iovine, "o'Ninno", del boss in carcere Francesco "Sandokan" Schiavone. Michele Zagaria ha organizzato un clan efficiente, e la sua vita è ovviamente materia di leggenda, ma nelle storie del potere di camorra la leggenda è riferimento mitico piuttosto che invenzione. Le informative parlano della sua villa a Casapesenna che al posto del tetto ha una cupola di vetro per poter far arrivare luce ad un enorme albero piantato nel salone di casa. Ma al di là delle stupefacenti tracotanze edilizie comuni a tutti i capi del clan del cemento, la strategia di vita del boss è quasi calvinista. Michele Zagaria ha rifiutato la famiglia, non ne ha creata una, ufficialmente. Pare abbia avuto una figlia, ma non ha ufficializzato la cosa, non si è sposato, vive in solitudine. Il boss trascorreva gran parte della latitanza in chiesa, e non c'è in paese chi non conosca la storia di Michele Zagaria che incontrava nel confessionale i suoi fedelissimi: nessuna confessione, solo affari. Il clan Zagaria è disciplinato, rifiuta la cocaina al suo interno. Quando i ragazzi del clan hanno iniziato a farne è intervenuto Pasquale Zagaria che li punisce chiudendoli nella gabbia coi porci. Ma anche il boss cede alla coca, in un'intercettazione ambientale un suo sottoposto, O'Sceriffo, timido e riguardoso, osa chiedere al boss se ha mai ceduto al vizio. La risposta del boss è terribilmente epica: "Dissi, Michele ... mi devi togliere uno sfizio ... ma tu lo hai mai fatto? ... dissi ... scusami se mi permetto ... e lui mi guardò in faccia e mi disse "tu non lo sai che io sono come il prete; fa quello che dico ma non fare quello che faccio io" ...".

Michele Zagaria è anche attento alla messa in scena di se stesso. Una volta una imprenditrice molto potente, Immacolata Capone, incontra un uomo del boss, Michele Fontana o'Sceriffo, e lui dice che deve farle una sorpresa. Le fa prendere posto in auto sul sedile davanti e intanto la donna sente rumori nel cofano, e una voce che dice che non ce la fa più. Quando chiede spiegazioni, lo Sceriffo mormora solo "Signora non vi preoccupate". Poi arrivano in una villa faraonica nelle campagna del casertano e lì dal cofano spunta Michele Zagaria che entra in casa. Lei, sconvolta dal boss, non riesce neanche a rivolgergli la parola, nonostante siano partner di affari vincenti da anni. Secondo alcune informative il boss prese posto al centro del salone di una ennesima sua villa, salone lastricato di marmi rari, e carezzando una tigre al guinzaglio iniziò a discorrere di appalti, calcestruzzo, costruzioni e terre. Un immagine cinematografica, capace da sola di creare mito, cibo di cui i clan devono alimentare il loro potere fatto di sparizioni e appalti.

Donna Immacolata era stata capace di edificare un tessuto imprenditoriale e politico di grande spessore. Lei, donna del clan Moccia, era divenuta interlocutrice del clan Zagaria, ambita da molti camorristi che la corteggiavano per poter divenire compagni di una boss-imprenditrice di alto calibro. Secondo le accuse l'uomo politico che aveva aiutato i suoi affari è Vittorio Insigne, consigliere regionale dell'Udeur, per il quale i pm Raffaele Cantone e Francesco Marinaro hanno chiesto la condanna a 3 anni e 8 mesi per concorso esterno in associazione camorristica. Insigne avrebbe, secondo le accuse, interceduto per procurare un certificato antimafia alle imprese della Capone. Nelle intercettazioni emergono continui riferimenti al politico, anche circa la spartizione dei proventi. Secondo le accuse Insigne interveniva per far vincere gli appalti alla Capone, ma la Capone poi una parte dei guadagni li riportava a lui. Vittorio Insigne al momento delle indagini faceva parte della Commissione Trasporti della Regione Campania, quando la Regione era il maggior azionista dell'Alifana, presso cui le imprese di Insigne lavoravano. Il pool dell'antimafia napoletana coordinato da Franco Roberti è riuscito anche a scoprire che la Capone era riuscita ad avvicinare il colonnello dell'aeronautica militare Cesare Giancane, direttore dei lavori al cantiere Nato di Licola. Il clan Zagaria infatti - secondo le accuse - è riuscito persino a lavorare per il Patto Atlantico edificando la centrale radar posta nei pressi del Lago Patria, punto fondamentale per le attività militari NATO nel mediterraneo. Ma forse la bravura le è stata fatale, Immacolata Capone fu uccisa nel novembre 2004 in una macelleria di Sant'Antimo. Pochi mesi prima avevano eliminato suo marito.

Il clan, della politica, fa ciò che vuole. Non c'è, come negli anni '90, una sorta di necessaria sudditanza. Al contrario, è la politica oggi suddita degli affari, e quindi anche degli affari di camorra. In un'intercettazione Michele Fontana, "o'Sceriffo", racconta di come si sia interessato alla campagna elettorale delle ultime elezioni a Casapesenna e dice: "Il mio cavalluccio è salito". Il politico, che secondo le indagini è Salvatore Carmellino, O'Sceriffo lo chiama cavalluccio: una sorta di mezzo con cui stare tranquilli al comune, un contatto nelle sue intenzioni capace di divenire referente degli affari del sodalizio. La politica locale coma aia per i propri affari diretti, quella nazionale come spazio in cui di volta in volta interloquire, usare, ignorare, abusare, gestire. Se secondo von Clausewitz la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi e secondo Michel Foucault la politica è la guerra condotta con altri mezzi, i clan imprenditoriali non sono altro che economie che usano ogni mezzo per vincere la guerra economica.

Oggi i Carabinieri dei Ros romani che avevano
condotto egregiamente la ricerca di Capastorta dovrebbero tornare a inseguire Michele Zagaria. In queste ore si ha la certezza della sua presenza a Casapesenna, un capo militare non può abbandonare il suo territorio. Bisogna permettere alle forze di polizia del posto di essere coadiuvate, fare sì che le ricerche siano intensificate e che le imprese del cemento siano monitorate, seguite in ogni aspetto, impedendo che monopolizzino il mercato, distruggendo così ogni lontana idea di libera concorrenza. Ogni distrazione che viene oggi concessa al potere del clan ha il sapore della connivenza. Il governo di centrosinistra sino ad ora ha fatto troppo poco, sino ad ora si è dimostrato lento, distratto e morbido nella battaglia all'imprenditoria edilizia criminale, alle borghesie imprenditrici direttamente legate ai clan. É necessario che il governo intervenga sul meccanismo d'appalto dei noli: bisognerebbe vietarli, o non imporre la stessa autorizzazione dei subappalti. É necessario che si inizi a regolamentare il meccanismo degli appalti non permettendo che un impresa del nord possa vincere e
poi dare tutto il lavoro in subappalto.

Ma il silenzio è totale e colpevole. Nel processo Spartacus, il più grande processo di mafia degli ultimi 15 anni, che il giorno della sua sentenza non ha ricevuto attenzione sulla stampa nazionale, la camorra tenta in appello di veder decadere i suoi 21 ergastoli. Ma sarebbe gravissimo se si lasciasse al suo destino uno dei pochissimi tentativi fatti in questa terra per ostacolare i ras del cemento criminale. I collegi difensivi dei clan, l'enorme esercito di avvocati che hanno a disposizione le varie famiglie camorristiche - Schiavone, Bidognetti, Zagaria, Iovine, Martinelli - vogliono soprattutto silenzio, minimizzazione, vogliono che lo sguardo vada altrove. Vogliono spingere l'interesse nazionale a vedere queste vicende come scarti di periferia, aiutati spesso dalla nausea di una classe intellettuale distante da questi meccanismi e da una classe politica che quando non ne è invischiata non ne riesce più a comprendere le dinamiche. É interessante ascoltare le intercettazioni dei capizona, degli imprenditori dei clan anche per capire come per loro sia fondamentale che l'interesse nazionale sia attirato dalla guerra in Iraq, dai Dico e più d'ogni altra cosa dal terrorismo di ogni matrice.
Nei prossimi mesi non bisognerà togliere lo sguardo dall'appello del processo Spartacus. I boss non hanno condanne definitive, la Cassazione annulla tanti ergastoli. É fondamentale che non si dissolva l'attenzione nazionale, che si segua l'odore del cemento, perché cemento, rifiuti, trasporti, supermercati smettano di essere i serbatoi del riciclaggio e dell'investimento principe dei clan. Altrimenti sarà troppo tardi. Non ci sarà più confine di differenza, posto che ce ne sia ancora alcuno tra economica legale ed illegale. Temo che possa accadere che ogni parola che racconti queste dinamiche diventi muta, incomprensibile, come proveniente da un mondo che si crede distante; che ogni inchiesta giudiziaria divenga semplicemente un affare tra giudici, avvocati ed incriminati da sbrigare nel tempo più lungo possibile e nello spazio d'attenzione più ristretto e dove persino i morti ammazzati divengono un male fisiologico; qualcosa che non può che andar così. Temo possa accadere che le parole che raccontano tutto ciò diventino incomprensibili. Si rischia, per dirla con Elie Wiesel, di scrivere "non per comunicare ciò che è accaduto ma per mostrarvi ciò di cui non saprete mai".

(6 luglio 2007) 

DA REPUBBLICA.IT
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 16, 2007, 07:21:54 pm »

CRONACA

Parla lo scrittore, che domani sarà nel suo paese con Bertinotti e Lirio Abbate

Salirà sul palco e si rivolgerà ai giovani: "La politica deve ricominciare da qui"

Saviano: "Torno a Casal di Principe per dire che non c'è da avere paura"

dal nostro inviato CONCHITA SANNINO

 

CASAL DI PRINCIPE - "Torno a Casal di Principe per dire che non c'è da avere paura". Un anno e 800 mila copie dopo, Roberto Saviano, l'autore del caso "Gomorra", il ventottenne scrittore finito sotto scorta della Procura antimafia per aver raccontato segreti e affari dell'impero dei casalesi, è pronto al suo primo bagno di folla. Un rientro che già si annuncia teso, emozionante, gremito.

Alla vigilia della sua prima testimonianza pubblica dopo l'exploit di Gomorra, Saviano si racconta con pudore. "Nessuno si aspetti slogan morali, non mi piace parlare di legalità attingendo alla retorica del male. Torno a Casale perché Campania e Calabria sono i grandi rimossi dell'agenda nazionale. Perché la politica deve ricominciare da qui. La sinistra deve ricominciare. Daccapo. Anzi, in questo senso è ancora tutto da fare. Troppo poco è stato fatto finora".

Domani mattina a Casale, con Saviano, per l'inaugurazione dell'anno scolastico in Campania, ci saranno anche il presidente della Camera Fausto Bertinotti, il presidente della commissione parlamentare antimafia Francesco Forgione, il Movimento giovani di Locri e Lirio Abbate, il giornalista siciliano minacciato dalla mafia, insieme con l'assessore regionale all'Istruzione Corrado Gabriele, autore della lunga agenda di giornata.

Lo scrittore salirà sullo stesso palco dal quale, dodici mesi fa, incitò i ragazzi del paese dominato dall'impero criminale: "Cacciateli! Non sono di questa terra, la stuprano, la usano. Schiavone, Bidognetti, Zagaria: voi non valete niente". Era il 23 settembre, il ventesimo anniversario dell'assassinio di un giornalista coraggioso, Giancarlo Siani, e Gomorra aveva venduto 80mila copie in appena qualche mese. Ma tra la folla, quel giorno, ciondolavano anche i figli di quei padrini: per la prima volta chiamati per nome, esposti al pubblico anatema. Trafitti dalle parole, per una volta.

Ora lo scrittore Saviano, l'aria da universitario fuoricorso, è al centro di un exploit che ha superato in Italia le 800mila copie e si appresta a replicare in Europa (circa 90mila copie vendute in Germania in 10 giorni, mentre è in preparazione un tour negli Usa). Forse a 28 anni si può davvero non provare paura?

Saviano sorride, tenta di dissimulare il privato e di non prendersi sul serio: "Ci sono in Italia grandi cancri rimossi. Posti dove non la mafia e la criminalità organizzata non uccidono, non fanno rumore, non fanno una piega. Dove scorre meno sangue di anni fa, ma si decidono strategie economiche. Posti come Casal di Principe, come Platì. Posti che la politica rimuove. Bisognerebbe ascoltare le parole di Franco Roberti, procuratore aggiunto antimafia a Napoli, che chiede maggiori risorse per le indagini economiche. Mi piacerebbe che la sinistra cominciasse daccapo. Mi piacerebbe che la destra potesse riprendere quella vocazione antimafia che fu del Msi, e che in molta parte del sud riuscì ad essere riferimento e in cui si riconosceva anche Paolo Borsellino, quando provava a individuare e fermare i rapporti tra clan e politica".

Domani, avrà i ragazzi di Casal di Principe ad ascoltarlo, ragazzi come è stato lui a Casale, posto di connivenze e intrecci sì, ma anche radice di una mobilitazione antimafia che portò all'assassinio di don Peppe Diana, sacerdote ucciso il 19 marzo del 1993 dai clan locali perché aveva urlato dal pulpito contro il potere mafioso; memoria di un martire che la Chiesa ufficiale continua a onorare a metà, con malcelato imbarazzo, perché quel sacerdote coraggioso era troppo giovane, magari troppo amico di ragazze e ragazzi, troppo incline alla "politica" d'una spiritualità militante.

E' a quei ragazzi cresciuti con l'ombra dei casalesi e il mito di don Peppe che si rivolge, domani, Saviano: "Mi piacerebbe raccontargli di come ci sia un unico principio per cui vale la pena combattere i clan: il diritto alla felicità. Non mi piace andare a parlare di legalità con slogan morali. Lontani dai clan si vive meglio, pretendere che non abbiano potere significa decidere della propria esistenza. Significa non crepare nei cantieri, non essere costretti ad emigrare. Io stesso riconosco il fascino che i boss hanno, le loro vite costruite come leggende. Ma è importante riconoscere questo fascino e smontarlo. Torno a Casale per dire che non c'è da aver paura. I nomi possono essere fatti e si può raccontare, capire". Già, dopo le minacce e le tensioni, i boss non possono pensare di averlo cacciato.

"Il vaccino è comprendere. Poi ognuno deciderà come agire - spiega il giovane Roberto - Ma bisogna guardare oltre. Casal di Principe, Platì. Oggi sono queste le trincee in cui misurarsi".


(16 settembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Settembre 19, 2007, 12:17:01 am »

Con lui anche il presidente della Camera Bertinotti

Saviano torna a Casal di Principe: contestato

Il ritorno a un anno dall'anatema contro i boss dei Casalesi.

Lo scrittore è sotto scorta. Alcuni in piazza: «La camorra non esiste»

 
CASAL DI PRINCIPE - A un anno dall'anatema «Non valete niente» lanciato contro i boss dei clan dei Casalesi, lo scrittore Roberto Saviano, autore di 'Gomorra', è tornato nel suo paese, Casal di Principe, per una nuova iniziativa anticamorra assieme al Presidente della Camera, Fausto Bertinotti, in occasione dell'inaugurazione dell'anno scolastico in Campania.

A differenza di un anno fa, però, Saviano è arrivato sotto scorta di sicurezza e prima che prendesse la parola l'assessore regionale all'istruzione, Corrado Gabriele, ha voluto far presente ai molti giovani venuti da varie parti della regione che davanti al palco c'erano due sedie lasciate simbolicamente vuote: «Queste sedie sono il banco degli imputati per Antonio Iovine e Michele Zagaria, che vorremmo vedere qui seduti con un bel paio di manette, perchè sono loro i principali responsabili di un Mezzogiorno che non funziona». Saviano ha ricordato che per troppo tempo c'è stata una cappa di silenzio sulla realtà di Casal di Principe: «Chi si crede il vero padrone di queste terre vi dirà che questa è soltanto una parata, che non serve a niente, perchè poi non accade nulla e costoro addirittura non si riconoscono nel termine camorrista, ma si considerano degli imprenditori. Dicono di essere degli imprenditori che usano tutti gli strumenti per poter raggiungere il loro obiettivo».

La malavita organizzata di questa parte della Campania, denuncia Saviano, non ha a che fare tanto con il narcotraffico o altri settori tradizionali della mafia, ma piuttosto con il cemento, come ha dimostrato il processo 'Spartacus', che «per il suo primo grado ha però trovato spazio soltanto tra le brevissime nei giornali nazionali».

Per Saviano, la battaglia a questo tipo di camorra deve partire da uno «sguardo nuovo sul meccanismo economico e imprenditoriale. Il silenzio che troppo spesso ha coperto queste dinamiche in questa terra è un silenzio colpevole, che ha lasciato sole moltissime persone. Occorre che questo silenzio venga riscattato». Per Saviano, insomma, c'è il rischio di non parlare abbastanza di camorra e mafia e di fare antimafia in maniera troppo generica: «Anche i giovani di Casal di Principe hanno diritto alla felicità ed in queste terre ciò significa poter lavorare senza la pressione continua del precariato, che nasce anche per volontà dei clan camorristi».

Agli applausi e al sostengo di molti dei suoi concittadini ha fatto eco negativa l'atteggiamento di alcuni definitisi «giovani imprenditori», che dal fondo della piazza dove si svolgeva la manifestazione hanno contestato lo scrittore anticamorra e anche applaudito ironicamente alcuni passaggi del discorso del Presidente della Camera. Sono quegli stessi che nei giorni che hanno preceduto il ritorno di Saviano hanno ripetuto che non c'era bisogno della sua presenza in paese, perchè Saviano intendeva unicamente fare pubblicità a se stesso e parlare male della sua terra. Ai giornalisti alcuni di questi «imprenditori» hanno ripetuto la solita litania: «La camorra non esiste, Saviano non ha subito minacce, vuole soltanto essere eletto deputato».

18 settembre 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Gennaio 05, 2008, 06:34:01 pm »

CRONACA

J'accuse dell'autore di Gomorra: la tragedia è che Napoli si sta rassegnando all'avvelenamento

Imprese, politici e camorra ecco i colpevoli della peste

Gli ultimi dati dell'Oms parlano di un aumento vertiginoso, oltre la media nazionale, dei casi di tumore a pancreas e polmoni

di ROBERTO SAVIANO

 
Roberto Saviano è l'autore di Gomorra, il best-seller che racconta un viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra
È UN territorio che non esce dalla notte. E che non troverà soluzione. Quello che sta accadendo è grave, perché divengono straordinari i diritti più semplici: avere una strada accessibile, respirare aria non marcia, vivere con speranze di vita nella media di un paese europeo. Vivere senza dovere avere l'ossessione di emigrare o di arruolarsi.

E' una notte cupa quella che cala su queste terre, perché morire divorati dal cancro diviene qualcosa che somiglia ad un destino condiviso e inevitabile come il nascere e il morire, perché chi amministra continua a parlare di cultura e democrazia elettorale, comete più vane delle discussioni bizantine e chi è all'opposizione sembra divorato dal terrore di non partecipare agli affari piuttosto che interessato a modificarne i meccanismi.

Si muore di una peste silenziosa che ti nasce in corpo dove vivi e ti porta a finire nei reparti oncologici di mezza Italia. Gli ultimi dati pubblicati dall'Organizzazione Mondiale della Sanità mostrano che la situazione campana è incredibile, parlano di un aumento vertiginoso delle patologie di cancro. Pancreas, polmoni, dotti biliari più del 12% rispetto alla media nazionale. La rivista medica The Lancet Oncology già nel settembre 2004 parlava di un aumento del 24% dei tumori al fegato nei territori delle discariche e le donne sono le più colpite. Val la pena ricordare che il dato nelle zone più a rischio del nord Italia è un aumento del 14%.

Ma forse queste vicende avvengono in un altro paese. Perché chi governa e chi è all'opposizione, chi racconta e chi discute, vive in un altro paese. Perché se vivessero nello stesso paese sarebbe impensabile accorgersi di tutto questo solo quando le strade sono colme di rifiuti. Forse accadeva in un altro paese che il presidente della Commissione Affari Generali della Regione Campania fosse proprietario di un'impresa - l'Ecocampania - che raccoglieva rifiuti in ogni angolo della regione e oltre, e non avesse il certificato antimafia.

Eppure non avviene in un altro paese che i rifiuti sono un enorme business. Ci guadagnano tutti: è una risorsa per le imprese, per la politica, per i clan, una risorsa pagata maciullando i corpi e avvelenando le terre. Guadagnano le imprese di raccolta: oggi le imprese di raccolta rifiuti campane sono tra le migliori in Italia e addirittura capaci di entrare in relazione con i più importanti gruppi di raccolta rifiuti del mondo. Le imprese di rifiuti napoletane infatti sono le uniche italiane a far parte della EMAS, francese, un Sistema di Gestione Ambientale, con lo scopo di prevenire e ridurre gli impatti ambientali legati alle attività che si esercitano sul territorio.

Se si va in Liguria o in Piemonte numerosissime attività che vengono gestite da società campane operano secondo tutti i criteri normativi e nel miglior modo possibile. A nord si pulisce, si raccoglie, si è in equilibrio con l'ambiente, a sud si sotterra, si lercia, si brucia. Guadagna la politica perché come dimostra l'inchiesta dei Pm Milita e Cantone, dell'antimafia di Napoli sui fratelli Orsi (imprenditori passati dal centrodestra al centrosinistra) in questo momento il meccanismo criminogeno attraverso cui si fondono tre poteri: politico imprenditoriale e camorristico - è il sistema dei consorzi.

Il Consorzio privato-pubblico rappresenta il sistema ideale per aggirare tutti i meccanismi di controllo. Nella pratica è servito a creare situazioni di monopolio sulla scelta di imprenditori spesso erano vicino alla camorra. Gli imprenditori hanno ritenuto che la società pubblica avesse diritto a fare la raccolta rifiuti in tutti i comuni della realtà consorziale, di diritto. Questo ha avuto come effetto pratico di avere situazioni di monopolio e di guadagno enorme che in passato non esistevano. Nel caso dell'inchiesta di Milite e Cantone accadde che il Consorzio acquistò per una cifra enorme e gonfiata (circa nove milioni di euro) attraverso fatturazioni false la società di raccolta ECO4. I privati tennero per se gli utili e scaricarono sul Consorzio le perdite. La politica ha tratto dal sistema dei consorzi 13.000 voti e 9 milioni di euro all'anno, mentre il fatturato dei clan è stato di 6 miliardi di euro in due anni.

Ma guadagnano cifre immense anche i proprietari delle discariche come dimostra il caso di Cipriano Chianese, un avvocato imprenditore di un paesino, Parete, il suo feudo. Aveva gestito per anni la Setri, società specializzata nel trasporto di rifiuti speciali dall'estero: da ogni parte d'Europa trasferiva rifiuti a Giugliano-Villaricca, trasporti irregolari senza aver mai avuto l'autorizzazione dalla Regione. Aveva però l'unica autorizzazione necessaria, quella della camorra.

Accusato dai pm antimafia Raffaele Marino, Alessandro Milita e Giuseppe Narducci di concorso esterno in associazione camorristica ed estorsione aggravata e continuata, è l'unico destinatario della misura cautelare firmata dal gip di Napoli. Al centro dell'inchiesta la gestione delle cave X e Z, discariche abusive di località Scafarea, a Giugliano, di proprietà della Resit ed acquisite dal Commissariato di governo durante l'emergenza rifiuti del 2003. Chianese - secondo le accuse - è uno di quegli imprenditori in grado di sfruttare l'emergenza e quindi riuscì con l'attività di smaltimento della sua Resit a fatturare al Commissariato straordinario un importo di oltre 35 milioni di euro, per il solo periodo compreso tra il 2001 e il 2003.

Gli impianti utilizzati da Chianese avrebbero dovuto essere chiusi e bonificati. Invece sono divenute miniere in tempo di emergenza. Grazie all'amicizia con alcuni esponenti del clan dei Casalesi, hanno raccontato i collaboratori di giustizia, Chianese aveva acquistato a prezzi stracciati terreni e fabbricati di valore, aveva ottenuto l'appoggio elettorale nelle politiche del 1994 (candidato nelle liste di Forza Italia, non fu eletto) e il nulla osta allo smaltimento dei rifiuti sul territorio del clan.

La Procura ha posto sotto sequestro preventivo i beni riconducibili all'avvocato-imprenditore di Parete: complessi turistici e discoteche a Formia e Gaeta oltre che di numerosi appartamenti tra Napoli e Caserta. L'emergenza di allora, la città colma di rifiuti, i cassonetti traboccanti, le proteste, i politici sotto elezione hanno trovato nella Resit con sede in località Tre Ponti, al confine tra Parete e Giugliano, la loro soluzione.

Sullo smaltimento dei rifiuti in Campania ci guadagnano le imprese del nord-est. Come ha dimostrato l'operazione Houdini del 2004, il costo di mercato per smaltire correttamente i rifiuti tossici imponeva prezzi che andavano dai 21 centesimi a 62 centesimi al chilo. I clan fornivano lo stesso servizio a 9 o 10 centesimi al chilo. I clan di camorra sono riusciti a garantire che 800 tonnellate di terre contaminate da idrocarburi, proprietà di un'azienda chimica, fossero trattate al prezzo di 25 centesimi al chilo, trasporto compreso. Un risparmio dell'80% sui prezzi ordinari.

Se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero accorpati diverrebbero una montagna di 14.600 metri con una base di tre ettari, sarebbe la più grande montagna esistente ma sulla terra. Persino alla Moby Prince, il traghetto che prese fuoco e che nessuno voleva smaltire, i clan non hanno detto di no.

Secondo Legambiente è stata smaltita nelle discariche del casertano, sezionata e lasciata marcire in campagne e discariche. In questo paese bisognerebbe far conoscere Biùtiful cauntri (scritto alla napoletana) un documentario di Esmeralda Calabria, Andrea D'Ambrosio e Peppe Ruggiero: vedere il veleno che da ogni angolo d'Italia è stato intombati a sud massacrando pecore e bufale e facendo uscire puzza di acido dal cuore delle pesche e delle mele annurche. Ma forse è in un altro paese che si conoscono i volti di chi ha avvelenato questa terra.

E' in un altro paese che i nomi dei responsabili si conoscono eppure ciò non basta a renderli colpevoli. E' in un altro paese che la maggiore forza economica è il crimine organizzato eppure l'ossessione dell'informazione resta la politica che riempie il dibattito quotidiano di intenzioni polemiche, mentre i clan che distruggono e costruiscono il paese lo fanno senza che ci sia un reale contrasto da parte dell'informazione, troppo episodica, troppo distratta sui meccanismi.

Non è affatto la camorra ad aver innescato quest'emergenza. La camorra non ha piacere in creare emergenze, la camorra non ne ha bisogno, i suoi interessi e guadagni sui rifiuti come su tutto il resto li fa sempre, li fa comunque, col sole e con la pioggia, con l'emergenza e con l'apparente normalità, quando segue meglio i propri interessi e nessuno si interessa del suo territorio, quando il resto del paese gli affida i propri veleni per un costo imbattibile e crede di potersene lavare le mani e dormire sonni tranquilli.

Quando si getta qualcosa nell'immondizia, lì nel secchio sotto il lavandino in cucina, o si chiude il sacchetto nero bisogna pensare che non si trasformerà in concime, in compost, in materia fetosa che ingozzerà topi e gabbiani ma si trasformerà direttamente in azioni societarie, capitali, squadre di calcio, palazzi, flussi finanziari, imprese, voti. E dall'emergenza non si vuole e non si po' uscire perché è uno dei momenti in cui si guadagna di più.

L'emergenza non è mai creata direttamente dai clan, ma il problema è che la politica degli ultimi anni non è riuscita a chiudere il ciclo dei rifiuti. Le discariche si esauriscono. Si è finto di non capire che fino a quando sarebbe finito tutto in discarica non si poteva non arrivare ad una situazione di saturazione. In discarica dovrebbe andare pochissimo, invece quando tutto viene smaltito lì, la discarica si intasa.

Ciò che rende tragico tutto questo è che non sono questi i giorni ad essere compromessi, non sono le strade che oggi solo colpite delle "sacchette" di spazzatura a subire danno. Sono le nuove generazioni ad essere danneggiate. Il futuro stesso è compromesso. Chi nasce neanche potrà più tentare di cambiare quello che chi li ha preceduti non è riuscito a fermare e a mutare. L'80 per cento delle malformazioni fetali in più rispetto alla media nazionale avvengono in queste terre martoriate.

Varrebbe la pena ricordare la lezione di Beowulf, l'eroe epico che strappa le braccia all'Orco che appestava la Danimarca: "il nemico più scaltro non è colui che ti porta via tutto, ma colui che lentamente ti abitua a non avere più nulla". Proprio così, abituarsi a non avere il diritto di vivere nella propria terra, di capire quello che sta accadendo, di decidere di se stessi. Abituarsi a non avere più nulla.


(5 gennaio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 06, 2008, 04:26:25 pm »

CRONACA

L'intervista.

Franco Roberti, capo del pool anticamorra della procura di Napoli: 15 anni fa tutto già chiaro

"Quando quel boss mi disse: per noi la monnezza è oro"

"Dice bene Saviano: indagare sul sistema dei consorzi tra pubblico e privato"

di GIOVANNI MARINO


NAPOLI - Fu il primo a capirlo. Il primo a riceverne diretta conferma. "Dotto', non faccio più droga. No, adesso ho un altro affare. Rende di più e soprattutto si rischia molto meno. Si chiama monnezza, dotto'. Perché per noi la monnezza è oro". Il procuratore Franco Roberti ascoltò quelle parole nel carcere di Vicenza, dicembre 1992. Lì il boss del Rione Traiano, Nunzio Perrella, aveva deciso di pentirsi.

"L'inchiesta che ne derivò - ricorda il capo del pool anticamorra della Procura di Napoli - svelò come le cosche lucravano sui rifiuti. C'era tutto già allora: imprese mafiose mascherate, amministratori corrotti dalle tangenti, controlli inesistenti, territori avvelenati. Un segnale d'allarme che non fu colto dalla politica".

Squilla il telefono al dodicesimo piano del grattacielo dei pm. È un sabato di lavoro, perché la camorra non si ferma per i week-end. Ventiquattr'ore prima c'è stato un delitto: 10 colpi contro un pregiudicato. Roberti risponde, dà direttive. Quindi riprende: "Assisto a uno scaricabarile vergognoso, se Napoli nel 2008 rappresenta questo scenario apocalittico nessuno può dirsi immune da colpe".

Procuratore Roberti, perché per la camorra è meno rischioso e più redditizio infiltrarsi nel settore dei rifiuti?
"Perché i rifiuti sono una emergenza infinita. E dove c'è una emergenza c'è il crimine organizzato. Perché emergenza è, giocoforza, sinonimo di attenuazione o evanescenza dei controlli di legalità: si rischia meno e si guadagna di più. Lo scrittore Saviano, ieri su Repubblica, ha illustrato come agiscono i camorristi".

Saviano parla del sistema dei consorzi, vero cavallo di Troia per entrare nel business dell'immondizia.
"I consorzi pubblico-privato, già. È stato da noi accertato che nella provincia di Caserta un consorzio, un esponente del Commissariato ai rifiuti e le cosche facevano affari. Lo scrittore ha pertinentemente citato, poi, il fatto che questo intreccio di illegalità ha scaricato sulla gestione commissariale un costo di nove milioni di euro. Una bella cifra, ma poco rispetto al business illegale reale".

Ha una stima del guadagno illecito?
"Cifre enormi. Solo per avvicinarci basti pensare a quanto c'è in ballo: scrive la commissione bicamerale d'inchiesta guidata dal senatore Barbieri che a oggi il costo totale della prima fase del ciclo dei rifiuti si aggira tra i 500 e i 600 milioni di euro l'anno. Ragionando solo su questo dato si ha una idea del profitto che i clan traggono".

Ma dove più s'infiltrano?
"Le cosche sono dappertutto nell'emergenza rifiuti: nella prima fase, in quella intermedia, nella finale".

Chi è il padrino dei rifiuti?
"La cosca dei Casalesi su tutti. In città, i clan di Rione Traiano e di Pianura".

Pianura, dove molti dicono che c'è la camorra a spingere perché prevalga la violenza.
"La camorra ha interesse ad agitare la protesta e a mantenere la situazione emergenziale che le porta guadagni".

Cosa fare per uscire dai giorni più bui di Napoli?
"Primo: investire il governo della questione con totale assunzione di responsabilità. Sinora con il Commissariato si è verificata una delega piena a livello locale ma il Commissariato si è rivelato un carrozzone capace di inghiottire cifre spaventose senza risolvere il problema, anzi, aggravandolo. Secondo: bisogna realizzare subito il termovalorizzatore. Possibile che manchi ancora il 15 per cento della sua costruzione? E la raccolta differenziata: 150 Comuni campani sono in linea con la media nazionale, perché gli altri non lo sono?".

Perché sinora tutto ciò non si è fatto?
"Perché per fare certe scelte in politica bisogna assumersi sino in fondo le proprie responsabilità, anche a costo di rischiare la poltrona e il consenso elettorale".

E la magistratura poteva fare di più?
"Non su questo. Siamo stati i primi, nessuno ha voluto trarne insegnamento. Al punto che ora stiamo pensando di attivare un circuito informativo più forte. Noi siamo legati al segreto ma l'articolo 118 del codice di procedura penale ci consente di informare in via riservata il ministro dell'Interno di fatti indispensabili per la prevenzione dei delitti più gravi".

L'opposizione chiede le dimissioni di Bassolino e Iervolino.
"Dico solo che se un politico ammette le proprie responsabilità dovrebbe poi trarne le conseguenze. Ma basta polemiche. Cito Machiavelli: scrivendo di Napoli disse che ci sarebbe voluta la "mano regia": un potere irresistibile per ripristinare ordine e legalità. Roma si muova, non c'è più tempo".

(6 gennaio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Febbraio 04, 2008, 11:24:37 am »

CRONACA IL COMMENTO

L'anima perduta nella monnezza di Napoli

di ROBERTO SAVIANO


NIENTE è cambiato. Si è tentato - tardi, tardissimo - ma non si è risolto nulla. L'esercito, i volontari, la pazienza e le proteste. Ma tutto versa nello stesso stato di prima. O quasi. Il centro e le piazze vengono salvati, si cerca di non farli soffocare dai sacchetti. E nella scelta dei luoghi in cui raccoglierli emerge la differenza fra le zone e le città. Zone dove conviene pulire per evitare che turisti e telecamere arrivino facilmente, strade dove vivono professionisti e assessori. E invece altre dove la spazzatura può continuare ad accumularsi. Tanto lì la monnezza non va in prima pagina. I paesi divengono discariche di fatto. Tutta la provincia è un'ininterrotta distesa di sacchetti. E la rabbia aumenta. Spazzatura ai lati delle strade, o che si gonfia in collinette multicolori fuori dai portoni, dove sono apparse scritte come "non depositare qui sennò non si riesce più a bussare". Niente è cambiato se non l'attenzione. Dalla prima pagina alle cronache locali.

Lentamente tutto questo rischia di divenire abituale, ordinario: la solita monnezza, parte del folklore napoletano, quotidiana come lo scippo, il lungomare e la nostalgia per Maradona. E invece qui è tragedia. Spazzatura ovunque, discariche satolle, gonfie, marce. Camion stracolmi, in fila. Proteste. E poi dibattiti, indagini, dimissioni, e colpevoli, ecologisti, camorristi, politici, esperti. Maggioranze e opposizioni e cadute di governo. Ma la monnezza resiste a tutto. E continua ad aumentare. La spostano dal centro alla periferia, la spediscono fuori città, qualcosa fuori regione. Però non basta mai, perché quella si riforma, si accumula di nuovo. Tutti pronti a parlare, in un'orchestra che emette suoni talmente confusi da divenire indecifrabili come il silenzio.

Certo risulta difficile credere che se Roma, Firenze, Milano o Venezia si fossero trovate in una situazione simile avrebbero continuato a far marcire i sacchetti nelle loro piazze, a tenersi strade bordate di pannolini e bucce di banana, a lasciar invadere l'aria dall'odore putrescente degli scarti di pesce. Difficile immaginare che in una di queste città la notte girino camion che gettano calce sopra ai cumuli per evitare che le infezioni dilaghino e soprattutto che vengano incendiati.

Il rinascimento napoletano finisce così, coperto di calce. Si sbandierava la rivincita della cultura, ma sotto il tappeto delle mostre, dei convegni e delle parole illuminate le contraddizioni erano pronte a esplodere. Non c'erano solo stuoli di progetti culturali e promozionali per il turismo. Negli ultimi cinque anni sono spuntati in un'area di meno di 15 km enormi centri commerciali. Prima il più grande del Sud Italia nel casertano, poi il più grande di tutt'Italia, poi il più grande d'Europa e da poco uno tra i più grandi al mondo: un'area complessiva di 200.000 mq, con 80 negozi di brand nazionali e internazionali, un ipermercato, 25 ristoranti e bar, una multisala cinematografica con 11 schermi e 2500 posti a sedere.

Ultimo arrivato, a Nola, il Vulcano Buono progettato da Renzo Piano che ha tratto spunto dall'icona napoletana per antonomasia: il Vesuvio. Una collina artificiale, un'escrescenza del suolo che segue le uniche e sinuose forme del vulcano. Alta 40 metri e con un diametro di oltre 170, un complesso di 150 mila metri quadri coperti e 450 mila in tutto. Si costruiscono centri commerciali come unico modo di far girare soldi. Quali soldi? Le stime dell'Istat segnalano che la Campania cresce meno del resto d'Italia. La regione è mortificata nei settori dell'agricoltura e dell'industria e incapace di compiere il salto di qualità nel comparto dei servizi.

E per quanto riguarda il valore aggiunto pro capite, se la media nazionale s'attesta a 21.806 euro per abitante, al Sud non supera quota 14.528. Keynes diceva che quando l'accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose non vadano bene. Riguardo il nostro paese bisognerebbe sostituire al termine casinò la parola centro commerciale. Così rimangono, tra queste cattedrali di luci e cemento, gli interrogativi di sempre. Perché a Napoli c'è tutta questa spazzatura? Come è possibile quando cose del genere non accadono a Città del Messico e nemmeno a Calcutta o a Giakarta? È incomprensibile. Bisogna quindi essere didascalici. Perché le discariche napoletane sono piene? Semplice. Sono state usate male, malissimo. Sversandoci dentro di tutto, senza controllo.

Chi gestiva le discariche non rispettava i limiti, né le regole riguardo alle tipologie. Somiglianti più a buche fatte male che a strutture per lo sversamento, le discariche si riempivano di percolato divenendo laghi ricolmi di un frullato di schifezze, fogne a cielo a aperto. E così si sono riempite presto, e non solo di rifiuti urbani. Scavare crateri enormi, portare giù il camion e poi, uscito il conducente, saldare le porte del tir e sotterrare: era un classico. Un modo per non toccare i rifiuti nemmeno con un dito. Il tutto dava un guadagno talmente alto da poter sacrificare, intombandoli, interi tir. A Pianura, racconta la gente, c'è persino una carcassa di balena, e a Parete pacchi e pacchi di vecchie lire.

Ma perché i cittadini si ribellano alla riapertura delle discariche? Perché sembrano così folli da preferire i sacchetti che da circa due mesi hanno davanti a casa? Perché temono che insieme a quelli che dovrebbero essere solo rifiuti solidi urbani invece arrivino anche i veleni. Eppure ricevono le massime garanzie che la loro situazione non peggiorerà. Ma da chi le ricevono? Da coloro di cui non si fidano più. Da coloro che hanno sempre appaltato lo smaltimento a ditte colluse, a uomini imposti dai clan di camorra. E chi deciderà quindi davvero la sorte dei rifiuti? Come sempre i clan.

A loro non ci si può ribellare. Ma siccome allo Stato invece sì, spesso contando su una buona dose di pazienza dei reparti antisommossa, si fa ostruzione alle sue decisioni perché non accada poi che si inneschino i consueti accordi. Si preferisce rinunciare persino agli aiuti economici destinati a chi vive nei pressi della discarica, piuttosto che correre il rischio di finire marci di cancro per qualche sostanza intombata di nascosto. Certo, tra i manifestanti ci sono anche i ragazzotti dei clan pagati 100 euro al giorno per far chiasso, bloccare strade, saper lanciare porfido e caricare. Ma loro rendono soltanto esasperate paure che invece sobbollono in tutti. E le rendono isteriche perché più spazzatura ci sarà, meno controlli ci saranno per le ditte pagate per raccoglierla e più l'uso dei macchinari in mano ai clan sarà abbondante.

E più le discariche saranno bloccate, meglio si potranno infiltrare camion colmi di rifiuti speciali da nascondere mentre quelli bloccati fuori fanno da copertura. E i consorzi e la politica? I consorzi che gestivano i rifiuti lo facevano per conto di imprenditori e boss, mentre la responsabilità della politica locale e nazionale stava nella solita logica di non affidare posti a chi aveva competenze tecniche, bensì ai soliti personaggi con il solo requisito di essere in quota ai partiti. Quanti posti di lavoro distribuiti in periodi preelettorali, in strutture dove la raccolta dei rifiuti o la differenziata rappresentavano puramente un alibi. Perché non si è fatto nulla? Perché l'emergenza fa arrivare soldi a tutti. E quindi di emergenza si vive.

Finita l'emergenza, finiti i soldi. Bisognava forse ribellarsi anche nei giorni in cui i clan prendevano terre. E il termovalorizzatore di Acerra su cui tanto si discute, che per anni non è stato costruito e ora lentamente sta per realizzarsi? Quel genere di impianto non è dannoso, dichiarano gli oncologi, al centro di Vienna uno simile è persino divenuto un palazzo prestigioso. Certo. Ma in un territorio dove l'indice di mortalità per cancro svetta al 38.4%, chi rassicura la gente che negli impianti verrà bruciato solo quel che si deve? Quale politica saprà mantenere la promessa di massimo controllo in una terra che è stata definita la Cernobyl d'Italia? Il centrosinistra ha creduto di essere immune dalle infiltrazioni camorristiche perché la questione camorra riguardava l'altra parte. Ma non era così. Le porte dei circoli della sinistra si sono aperte ai clan mai come in questi ultimi anni.

E il crimine è stato percepito come un male naturale, fisiologico. La politica ha continuato a presentarsi sempre più come qualcosa di indistinto con l'affare e il crimine. Destra e sinistra uguali, basta mangiare. Il qualunquismo italiano forse non è mai stato così sostenuto dall'esperienza. E oggi occupano, bloccano, non collaborano perché non si fidano più di nessuno.
Non c'è altro da dire e da fare. Togliere, togliere la monnezza subito. Non si può più aspettare. Togliere e poi capire chi ha ridotto così questa terra e accorgersi che i meccanismi che qui hanno portato allo scempio totale sono gli stessi che governano in modo meno mostruosamente suicida l'intero paese. In questi giorni mi è venuta in mente una scena di un racconto di Salamov, forse il più grande narratore dell'aberrazione del potere totalitario. Quando i soldati sovietici misero in isolamento alcuni prigionieri del gulag, tutti invalidi tranne Salamov, pretesero che consegnassero le loro protesi: busti, dentiere, occhi di vetro, gambe di legno.

A Salamov che non ne aveva, il soldato, scherzando, chiese: "E tu che ci consegni? L'anima?". "No, l'anima non ve la do" rispose. Prese una punizione durissima per aver difeso qualcosa che fino ad allora credeva inesistente. Questo è il momento di capire se ancora abbiamo un'anima, e non farcela togliere come una gamba di legno. Non consegnarla. Prima che non ci restino che protesi.
© 2008 by Roberto Saviano. Published by arrangement
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(4 febbraio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Marzo 13, 2008, 10:04:51 am »

Lo scrittore «Sulla criminalità una rimozione bipartisan»

Saviano: dico no alla politica che non parla più di mafia

«Mi volevano dal Pd ad An. Ma non posso essere di parte»

 
ROMA — Roberto Saviano è ancora un ragazzo. E ogni tanto riesce anche a sorridere, con le labbra che si tendono su una faccia sempre più tesa, sempre più pallida. Quando racconta della presentazione di Gomorra ad Helsinki, con lo speaker che lo introduce come «Roberto Soprano», e i finlandesi che sono lì soltanto per via della serie televisiva americana, riesce pure a ridere di «loro». Li chiama così, «loro». I suoi nemici. Come se fosse una questione personale, tra lui e i mafiosi di Casal di Principe che lo hanno costretto ad una vita infame, da animale braccato.

Quella di Saviano è una storia di paradossi. Con il suo libro ha avuto fama, celebrità, il traguardo del milione di copie vendute tagliato in questi giorni. Con il suo libro ha perso il resto, la libertà personale, la possibilità di vedere il mondo con i propri occhi. «È come se mi sentissi sempre in colpa» sintetizza così il suo stato d'animo, come se qualcuno andasse da sua madre a chiedere «cosa ha fatto tuo figlio?» Ad un certo punto, Saviano si era anche convinto che in Italia ci fosse qualcuno disposto a condividere la sua ossessione.

Da Walter Veltroni alla Sinistra Arcobaleno, passando per il Popolo della Libertà, sponda An, tutti hanno cercato l'autore di Gomorra, blandendolo con la lotta al potere mafioso. «Ma non è il mio mestiere. Non si può parlare di mafia ad una sola parte politica. È un argomento sul quale non ci si può permettere di essere partigiani. La mia responsabilità è la parola ». Chi è stato il più insistente? «Quando Veltroni mi ha chiamato nel suo ufficio al Campidoglio, abbiamo parlato a lungo di mafia e appalti. Mi disse che quello sarebbe stato uno dei primi punti della sua agenda». Promessa mantenuta? «Non mi sembra. Ma il Pd è in buona compagnia. Purtroppo, la lotta alla mafia è la grande assente di questa campagna elettorale, a sinistra come a destra». Altri pretendenti? «Fausto Bertinotti mi ha fatto arrivare una proposta tramite l'assessore regionale campano Corrado Gabriele. Io ho molto apprezzato il lavoro di Forgione alla commissione antimafia, ma credo che anche la sinistra debba fare outing, e ammettere di non essere stata così rigorosa nell'allontanare gli affaristi collusi con la mafia». Avanti con l'elenco delle avances. «Alleanza nazionale mi ha mandato messaggi di apprezzamento. Persino l'Udeur prima che si dissolvesse». Destra, sinistra, centro. «Io sono cresciuto in una terra dove Pci e Msi stavano dalla stessa parte, contro la camorra. E vorrei tanto che il centrodestra riprendesse i valori dell'antimafia, quelli che aveva Giorgio Almirante e che avevano ispirato Paolo Borsellino. Li vedo trascurati, nonostante una base che al Sud ha voglia di sentirli affermare».

A sentirla, non sembra che il Pd sia molto più attivo. «Affatto. Anzi, a Veltroni ho detto che a mio parere anche il centrosinistra ha commesso molti errori in questi anni». Il più grande? «L'intellighenzia di sinistra dà sempre per scontato che la mafia stia dal-l'altra parte. Il complesso di superiorità applicato alla criminalità organizzata. Credersi immune dalle infiltrazioni, pensare che questo sia sempre e solo un problema degli altri. Le dico di più: spero che il Pd riesca a non aver paura di perdere le elezioni pur di cambiare. Solo così potrà davvero vincere». Dove vuole arrivare? «Spero che non abbia paura di parlare del voto di scambio, di denunciarlo. Fino ad ora non lo ha fatto nessuno. Ed è il voto di scambio che determinerà l'esito delle prossime elezioni. Si vince o si perde nei piccoli paesi, dove il clientelismo è l'unica moneta corrente. Si vincono le elezioni per bollette pagate, cellulari regalati, di questo bisogna parlare. La vera sfida sarebbe quella di non svendere il voto. E alzare la voce, denunciare». E invece? «Il grande silenzio. La mafia è la più grande azienda italiana, il suo giro d'affari è il triplo di quello della Fiat. È innaturale che non se ne parli in campagna elettorale. Ma è così. Al massimo qualche cosa simbolica, una celebrazione, qualche commemorazione. Una rimozione bipartisan».

Si è chiesto il perché? «È un tema pericoloso sul piano della comunicazione. Se qualcuno parla di mafia, molta gente pensa che si stia occupando soltanto di una parte ben circoscritta del Paese, che si interessi di cose ai margini, lontane. Nessuno è riuscito a far passare l'idea che la mafia sia qualcosa che riguarda anche Milano, Parma, Roma, Torino. È tornata ad essere un fatto esotico, lontano, noioso». «Non valete niente». Era il 23 settembre 2006 quando sfidò i boss di Casal di Principe a casa loro. Lo rifarebbe? «A vedermi da fuori, come se non fossi stato io, lo rifarei. Ma sarei falso se non dicessi che con quel gesto ho distrutto la mia vita. Mi è diventato impossibile vedere il mondo, confrontarmi con altre persone, poter sbagliare. Sono diventato un simbolo, ma in cambio ho perso tutto». Quando ha scritto Gomorra, cosa si aspettava? «Confesso l'ambizione. Volevo fare un libro che davvero cambiasse le cose. All'inizio, la camorra lo ignorò. I miei problemi cominciarono verso le centomila copie. La gente pensa che io sono come Salman Rushdie, colpito da una fatwa della camorra. Ma non è così. Lui rischia per quel che scrive, io perché mi leggono. Non è Saviano ad essere pericoloso, ma Gomorra e i suoi lettori».

Il disinteresse della politica rende più difficile la sua situazione? «Acuisce la solitudine, questo sì. Gomorra ha fatto sì che la letteratura diventasse un problema per la mafia. Parlarne è un modo per fermarli. Perché la politica non fa lo stesso? È come se questo paese non accettasse di essere raccontato così. Ma è il silenzio che ci distrugge». Se pensa al suo futuro, cosa immagina? «Spero di riavere la mia libertà, un giorno. Come un ragazzino, immagino di aprire la porta e poter camminare in strada, da solo. Ma è solo un sogno». E la realtà? «Me la faranno pagare. Troveranno un modo per colpirmi. Prima con la diffamazione, diranno che è tutto falso, l'operazione di un ragazzotto assetato di visibilità. Poi chissà. È l'unica certezza che ho».

Marco Imarisio
13 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Marzo 16, 2008, 12:37:15 am »

CRONACA

L'autore di "Gomorra" e le elezioni: nessuno vincerà se si ignora la criminalità organizzata

"Le mafie dominano un terzo del Paese e condizionano interi settori dell'economia legale"

Se un voto si compra con cinquanta euro

di ROBERTO SAVIANO

 

NESSUNO vincerà le elezioni in Italia. Nessuno. Perché finora tutti sembrano ignorare una questione fondamentale che si chiama "organizzazioni criminali" e ancor più "economia criminale". Non molto tempo fa il rapporto di Confesercenti valutò il fatturato delle mafie intorno a 90 miliardi di euro, pari al 7 per cento del Pil, l'equivalente di cinque manovre finanziarie. Il titolo "La mafia s. p. a. è la più grande impresa italiana" fece il giro di tutti i giornali del mondo, eppure in campagna elettorale nessuno ne ha parlato ancora.

E nessuna parte politica sino a oggi è riuscita a prescindere dalla relazione con il potere economico dei clan. Mettersi contro di loro significa non solo perdere consenso e voti, ma anche avere difficoltà a realizzare opere pubbliche.

Non le vincerà nessuno, queste elezioni. Perché se non si affronta subito la questione delle mafie le vinceranno sempre loro. Indipendentemente da quale schieramento governerà il paese. Sono già pronte, hanno già individuato con quali politici accordarsi, in entrambi i schieramenti. Non c'è elezione in Italia che non si vinca attraverso il voto di scambio, un'arma formidabile al sud dove la disoccupazione è alta e dopo decenni ricompare persino l'emigrazione verso l'estero. E' cosa risaputa ma che nessuno osa affrontare.

Quando ero ragazzino il voto di scambio era più redditizio. Un voto: un posto di lavoro. Alle poste, ai ministeri, ma anche a scuola, negli ospedali, negli uffici comunali. Mentre crescevo il voto è stato venduto per molto meno. Bollette del telefono e della luce pagate per i due mesi precedenti alle elezioni e per il mese successivo. Nelle penultime la novità era il cellulare. Ti regalavano un telefonino modificato per fotografare la scheda in cabina senza far sentire il click. Solo i più fortunati ottenevano un lavoro a tempo determinato.

Alle ultime elezioni il valore del voto era sceso a 50 euro. Quasi come al tempo di Achille Lauro, l'imprenditore sindaco di Napoli che negli anni cinquanta regalava pacchi di pasta e la scarpa sinistra di un paio nuovo di zecca, mentre la destra veniva recapitata dopo la vittoria. Oggi si ottengono voti per poco, per pochissimo. La disperazione del meridione che arriva a svendere il proprio voto per 50 euro sembra inversamente proporzionale alla potenza della più grande impresa italiana che lo domina.

Mai come in questi anni la politica in Italia viene unanimemente disprezzata. Dagli italiani è percepita come prosecuzione di affari privati nella sfera pubblica. Ha perso la sua vocazione primaria: creare progetti, stabilire obiettivi, mettere mano con determinazione alla risoluzione dei problemi. Nessuno pretende che possa rigenerarsi nell'arco di una campagna elettorale.

Ma nel vuoto di potere in cui si è fatta serva di maneggi e interessate miopie prevalgono poteri incompatibili con una democrazia avanzata. E' una democrazia avanzata quella in cui 172 amministrazioni comunali negli ultimi anni sono stati sciolti per infiltrazione mafiosa? O dove dal '92 a oggi, le organizzazioni hanno ucciso più di 3.100 persone? Più che a Beirut? Se vuole essere davvero nuovo, il Partito Democratico di Walter Veltroni non abbia paura di cambiare. Non scenda a compromessi per paura di perdere.

Il governo Prodi è caduto in terra di camorra. Ha forse sottovalutato non tanto Clemente Mastella, il leader del piccolo partito Udeur, ma i rischi che comportava l'inserimento nelle liste di una parte dei suoi uomini. Personaggi sconosciuti all'opinione pubblica, ma che negli atti di alcuni magistrati vengono descritti come cerniera tra pubblica amministrazione e criminalità organizzata. Nel frattempo il governo ha permesso al governatore della Campania Bassolino di galleggiare nonostante il suo fallimento nella gestione dell'emergenza rifiuti. E non ha capito che quella situazione rappresenta solo l'esempio più clamoroso di quel che può accadere quando il cedimento anche solo passivo della politica ad interessi criminali porta allo scacco.

Tutto questo mentre il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi assisteva muto o giustificatorio ai festeggiamenti del governatore della Sicilia Cuffaro per una condanna che confermava i suoi favori a vantaggio di un boss, limitandosi a scagionarlo dall'accusa di essere lui stesso un mafioso vero e proprio.

La questione della trasparenza tocca tutti i partiti e il paese intero. Inoltre molta militanza antimafiosa si forma nei gruppi di giovani cattolici i cui voti non sempre vanno al centrosinistra. Anche questi elettori dovrebbero pretendere che non siano candidate soubrette o personaggi capaci solo di difendere il proprio interesse. Pretendano gli elettori di centrodestra che non ci siano solo soubrette e a sud esponenti di consorterie imprenditoriali. E mi vengono in mente le parole che Giovanni Paolo II il 9 maggio del 1993 rivolse dalla collina di Agrigento alla Sicilia e all'Italia ferita dalle stragi di mafia: "Questo popolo... talmente attaccato alla vita, che ama la vita, che dà la vita, non può vivere sempre sotto la pressione di una civiltà contraria, civiltà della morte... Mi rivolgo ai responsabili... Un giorno verrà il giudizio di Dio". Parole che avrebbero dovuto crescere nelle coscienze.

È tempo di rendersi conto che la richiesta di candidati non compromessi va ben oltre la questione morale. Strappare la politica al suo connubio con la criminalità organizzata non è una scelta etica, ma una necessità di vitale autodifesa.

Io non entrerò in politica. Il mio mestiere è quello di scrittore. E fin quando riuscirò a scrivere, continuerò a considerare questo lo strumento di impegno più forte che possiedo. Racconto il potere, ma non riuscirei a gestirlo. Non si tratta di rinunciare ad assumersi la propria responsabilità, ma considerarla parte del proprio lavoro. Tentare di impedire che il chiasso delle polemiche distolga l'attenzione verso problemi che meno fanno rumore, più fanno danno. O che le disquisizioni morali coprano le scelte concrete a cui sono chiamati tutti i partiti. È questo il compito che a mio avviso resta nelle mani di un intellettuale. Credo sia giunto il momento di non permettere più che un voto sia comprabile con pochi spiccioli. Che futuri ministri, assessori, sindaci, consiglieri comunali possano ottenere consenso promettendo qualche misero favore. Forse è arrivato il momento di non accontentarci.

Nel 1793 la Costituzione francese aveva previsto il diritto all'insurrezione: forse è il momento di far valere in Italia il diritto alla non sopportazione. A non svendere il proprio voto. A dare ancora un senso alla scelta democratica, scegliendo di non barattare il proprio destino con un cellulare o la luce pagata per qualche mese.

© 2008 by Roberto Saviano
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(15 marzo 2008)

da www.repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Maggio 17, 2008, 11:17:00 am »

SPETTACOLI & CULTURA

Parla Roberto Saviano, in partenza per Cannes dove verrà presentato il film Gomorra

La cronaca di delitti e vendette continua. "Segnali di morte in risposta alla mobilitazione"

"Cresce la pressione antimafia così esplode la rabbia camorrista"

di CONCHITA SANNINO

 
Roberto Saviano, a Gomorra si prepara una guerra? I casalesi non avevano mai firmato tante azioni di sfida in due settimane.
"L'attenzione mediatica li sta provocando. Li sta facendo impazzire. Reagiscono come se avessero deciso di dimostrare con tutti i loro mezzi che non arretrano di fronte alla mobilitazione dello Stato. Io uccido, dunque esisto. Questo succede, mi sembra".

Roberto Saviano è in partenza per la Croisette, dove il 61esimo Festival di Cannes ospita domani in concorso l'atteso Gomorra, il film di Matteo Garrone tratto dal suo bestseller ("Le scale della passerella? No, grazie: mi piace quando a farle sono gli altri, i divi"). Un clima da corto circuito. Lo spietato racconto su grande schermo viene superato, nelle stesse ore, dalla cronaca di vendette e regolamenti di conti, firmate dalla stessa mafia che va in scena al cinema.

Saviano, l'escalation crea allarme. Prima l'omicidio del padre del collaboratore Bidognetti, poi i timori per l'autobomba al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, poi le scritte sui muri del paese che ribadiscono le ingiurie contro di lei e la cronista Capacchione. E ancora: l'incendio che devasta la fabbrica di materassi il cui titolare ha denunciato i casalesi e fondato l'associazione antiracket. Infine - ieri - gli atti di vandalismo in una residenza confiscata al clan e l'omicidio di Noviello, un altro imprenditore che si era ribellato al pizzo.
"È l'innalzamento dello scontro. In risposta alla mobilitazione antimafia, i casalesi - meglio: le loro frange oltranziste e kamikaze - mandano segnali di morte. Tolleranza zero. Come se fosse passato il messaggio che l'attenzione è troppa, basta. Basta riflettori accesi da mesi, quelli dell'Italia e dell'estero. Ciò è dovuto anche all'impegno costante e ai continui blitz della Procura antimafia guidata da Franco Roberti, all'attenzione puntata sul processo Spartacus che ormai attende la sua sentenza d'appello, e ai recenti pentimenti. Altro segnale importante è che domani ci sia la Festa della polizia a Casal di Principe, con il prefetto Manganelli".

Lei ha raccontato la micidiale capacità dei casalesi di rendersi invisibili. Prima evitavano stragi e riflettori. Ora affidano agli avvocati lettere di ingiurie da leggere in aula contro i "nemici". E c'è chi dice che nessuno avrebbe potuto scrivere quelle frasi sui muri se non ci fosse stato il placet dei boss latitanti Michele Zagaria e Antonio Iovine. Con l'appoggio dell'ala feroce e cocainomane.
"Su quelle frasi, ho solo una risposta, secca. Continuerò a scrivere, a pensare, e a parlare di Casale. Soprattutto per un motivo: io so che Casal di Principe è anche paese di gente sana, che lavora, che non è collusa, che magari ha solo paura. Io lo so, anche se gli altri, i casalesi di mafia, vogliono e sono convinti di rappresentare il tutto".

Saviano, rifarebbe tutto?
"Temo di sì".

Anche accettare che un rap la sovraesponga e rischi di accendere la tensione?
"Me ne rendo conto. È la contraddizione implicita nell'impegno. Si attiva un circuito mediatico complesso. Da un lato i riflettori si accendono per spingere anche altri a una scelta netta; dall'altro, la mobilitazione innesca nervosismo e reattività dei clan. E la mafia all'improvviso ha urgenza di rispondere. A suo modo".

(17 maggio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Maggio 22, 2008, 11:10:32 pm »

Roberto Saviano: «La Camorra? Un problema europeo»

Condannato a morte”, titolava l'Espresso. Sì perché i clan denunciati – facendo nomi e cognomi, nel libro-inchiesta Gomorra – Roberto Saviano nun s''o scordano. Ma il 28enne originario di Casal di Principe, roccaforte della Camorra – pardon di “'O sistema”, come si autodefinisce la criminalità organizzata napoletana – è per il momento reso intoccabile dalla spessissima coltre di interesse mediatico. In Italia, dove la Mondadori si frega le mani con 700mila copie vendute. E in quella Germania sconvolta dal regolamento di conti della 'ndrangheta del ferragosto 2007 proprio nel cortile di casa (sei i morti). E che lo ha eletto a fenomeno letterario della rentrée con centomila copie vendute in tre settimane.
Ora Saviano – minuto, affabile, dallo sguardo reso ancor più acuto dal leggero strabismo – ce l'ho di fronte, nell'attico parigino messogli a disposizione dalla casa editrice Gallimard, che prepara l'uscita in Francia per il 18 ottobre. A breve il ritorno in Italia dove sta lavorando alla sceneggiatura del film che sarà tratto da Gomorra. E poi via negli Stati Uniti per continuare la promozione del libro, i cui diritti sono già stati venduti in 29 paesi. Sempre sotto scorta, sempre oggetto delle minacce di morte dei clan.
Cosa rispondere a chi, in Europa, vede la Camorra come un fenomeno distante, a tratti folkloristico, comunque prettamente italiano?
In realtà non esiste nulla di più internazionale delle organizzazioni criminali. Calabresi e napoletane soprattutto. Per una semplice ragione: loro sono all'avanguardia economico-finanziaria. Mi dispiace soltanto che l'Europa se ne accorga soltanto quando ci sono stragi. Duisburg ha aperto la mente alla Germania e gli sguardi all'Europa. Questo cosa ha comportato? Che la criminalità organizzata forse dopo Duisburg può essere definito un problema europeo e non più soltanto italiano.
I dettagli della rete criminale delle mafie italiane in Europa sarebbero infiniti. Ad Aberdeen in Scozia investe (nel turismo, ndr) il clan La Torre. A Dortmund, Lipsia, e nella Germania dell'Est investono tutti i grandi clan napoletani. Francesco Schiavone “Cicciariello” è stato arrestato in Polonia e investiva anche in Romania. Vincenzo Mazzarella è stato arrestato a Parigi mentre trattava diamanti con i cartelli africani. A Nizza ci sono investimenti nell'edilizia...

Edilizia, diamanti, droga: quali sono i settori più internazionalizzati nella Camorra?
L'investimento nel settore turistico è fondamentale. Le catene di ristoranti restano lo zoccolo duro per l'entrata nel territorio. La 'ndrangheta ha acquistato acciaierie in Russia. La Camorra in Francia insiste molto sui negozi di abbigliamento, investono nei trasporti, nella distribuzione di carburanti. Ci sono le famose “pompe di benzina bianche” che lavorano non con le grandi case come Agip o Kuwait ma che hanno dei marchi di Camorra. Ci sono indagini in corso in questo momento da parte dell'Antimafia di Napoli sul caso italiano ma personalmente credo che vi siano pompe bianche in Francia, Germania e Spagna. La Camorra o la 'ndrangheta non possono investire in settori con elevati rischi di perdita.
Poi, sai, raccontare tutto questo è difficilissimo. E lo strano miracolo di quello che ho fatto – non so neanche se con la volontà di arrivare dove sono arrivato – è stato di portare queste notizie al cuore del lettore attraverso lo strumento letterario. Può sembrare assurdo ma la pericolosità delle parole, oggi, non risiede nella scoperta di un dato o di un'informazione, ma nel fatto che quel racconto, quell'informazione possa da una cittadinanza particolare assurgere a cittadinanza universale. Per intenderci Anna Politkovskaia ha iniziato ad essere davvero pericolosa nella misura in cui ha reso la Cecenia un problema internazionale ed ha reso quelle storie, storie di tutti gli esseri umani. Philip Roth quando gli chiesero chi era il più grande scrittore italiano in assoluto, da Dante alla letteratura contemporanea, rispose: «Primo Levi perché dopo Se questo è un uomo nessuno può più dire di non essere stato ad Auschwitz».
Ma riguardo alla mia vicenda la criminalità credo si sia infastidita non per le informazioni raccolte, ma perchè quelle informazioni siano arrivate, il che è ben diverso. Se fossero rimaste al mio paese o al Sud Italia non ci sarebbe stato nessun problema. Ma che queste parole inizino a rimbalzare sulle lingue di molti, a divenire pensiero di altri, è la cosa più pericolosa in assoluto che possa avvenire a un potere, qualunque esso sia.
In questo caso il potere criminale si basa sempre su un'informazione diffusa – tutti sanno – ma sull'impossibilità di dimostrazione o comunque di racconto. Quando rompi questo strano equilibrio lì hai generato il vero pericolo. E che questo possa avvenire in Europa è esattamente la nuova possibilità di fronteggiare questi poteri. Perché le mafie italiane ormai sono un tutt'uno con le mafie albanesi o nigeriane. Addirittura si sposano tra di loro...
Per esempio?
Il camorrista Augusto La Torre ha sposato un'albanese. C'è una vicenda interessantissima che vede il primo pentito straniero in Italia, un tunisino, essere un affiliato del clan camorristico dei Casalesi. La prima città che la mafia italiana ha dato in completa gestione a un clan straniero è stata Castelvolturno, che è stata concessa ai Rapaci, i clan di Lagos e Benin City in Nigeria. Per il traffico di coca, per il passaggio di prostitute poi inviate in tutta Europa.
Un nuovo feudalesimo?
In qualche modo sì. C'è un incredibile sviluppo economico a fronte di una struttura territoriale lenta, macchinosa. Investono in ogni parte del mondo e alle loro mogli è proibito tingersi i capelli perché considerato erotico... Considerano il Web una nuova piattaforma di investimenti e poi vietano di consumare droga ai loro affiliati. È vietatissimo perché non dev'esserci vizio. «Né drogati né ricchioni», dicono... Frasi che sembrano riportarti in un'epoca buia. Ma quello stesso potere ha capito dieci anni prima della Confindustria che bisogna investire in Cina. È questo bicefalo che li rende imbattibili, però con un tipo di forza che è distruttiva anche per loro. Non c'è boss che riesca a sopravvivere o a sfuggire al carcere...
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« Risposta #12 inserito:: Giugno 02, 2008, 11:51:45 am »

CRONACA

IL COLLOQUIO/Lo scrittore: alzano il tiro in vista del processo Spartacus

Adesso la camorra dimostra di avere paura della giustizia

Saviano: "Era il Salvo Lima nei rapporti tra clan e politica"

di ANTONIO TRICOMI

 

NAPOLI - "Michele Orsi era il Salvo Lima della Camorra". Roberto Saviano non ha dubbi. L'omicidio dell'imprenditore trucidato in pieno giorno nel centro di Casal di Principe è un segno: "I casalesi alzano il tiro". Ma anche un messaggio: chi parla muore. "I clan - dice lo scrittore - hanno voluto lanciare un avvertimento ai politici, in vista della chiusura del processo Spartacus, che avverrà nei prossimi giorni". Un evento che per i boss equivale "al maxi-processo di Falcone e Borsellino a Cosa Nostra".

L'imprenditore convinto dai killer a scendere di casa per farsi raggiungere al bar, come fosse una domenica qualsiasi. E ucciso in maniera plateale, due colpi al torace e uno alla testa. La dura, fredda ritualità di Gomorra. Legami tra politica e clan, l'imprenditore in affari con la camorra decide di parlare. E paga con la vita. Visione di sangue perfettamente in linea con lo scenario tracciato dallo scrittore napoletano nel suo best-seller, nello spettacolo teatrale che ne è stato tratto e la cui ideazione è precedente la stesura del libro, nel film di Matteo Garrone accolto con favore dalla Casal di Principe pulita e onesta, dai giovani, dalle famiglie. Ma ieri è stata l'altra Casal di Principe, è stata Gomorra a segnare un punto. Saviano non ha dubbi. "Orsi è stato ucciso perché stava parlando dei rapporti tra il clan dei casalesi e la politica".

Tra pochi giorni, la chiusura del processo Spartacus. Importante e decisivo, sostiene da tempo lo scrittore, come il maxi-processo di Palermo, anche se "inspiegabilmente trascurato dai media nazionali". Il processo Spartacus è il risultato di un'inchiesta sui casalesi condotta, negli anni Novanta, dalla Procura antimafia di Napoli. Indagini alimentate da alcuni pentiti e nel corso delle quali, marzo '94, venne assassinato a Casal di Principe Don Peppino Diana, il sacerdote che dal pulpito evocava l'immagine biblica di Gomorra, emblema della sua terra straziata dalla malavita. Spartacus: diversi filoni processuali, tutti portati al giudizio del Tribunale o della Corte d'Assise di Santa Maria Capua Vetere. Più di mille imputati per appartenenza ad associazione camorristica, omicidi, estorsioni.

Michele Orsi si sarebbe presto aggiunto alla lista dei pentiti. Era, spiega Saviano, "un imprenditore leader nel settore dei rifiuti e faceva affari milionari con i clan, vincendo appalti e coinvolgendo anche la politica nazionale". Un tipico personaggio da Gomorra. Un uomo da bruciare. La sua uccisione, sostiene lo scrittore, riveste particolare gravità. Il segnale di un salto di qualità. "Perché con questo delitto la camorra dimostra di avere paura non solo delle eventuali condanne, ma anche della tensione, dell'attenzione che un processo così importante può attirare, dell'indignazione che può suscitare. La strategia che i clan stanno portando avanti da settimane è quella di colpire chiunque abbia deciso di parlare. Un modo per colpire il futuro attraverso operazioni nel presente".

Niente sconti: chi parla paga. Per Saviano è necessario "fermare le paranze militari che stanno girando nel casertano". "Paranze", termine gergale mutuato dalla tradizione dei pescatori che significa gruppi chiusi di pochi, fidatissimi uomini. Stretti tra loro da un legame che ha la forza di un giuramento di sangue. "Paranze" nelle quali, afferma lo scrittore, "molti elementi fanno pensare che ci siano Giuseppe Setola e Alessandro Cirillo, braccio armato di questa nuova stagione militare dei clan".

(2 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #13 inserito:: Giugno 23, 2008, 10:31:01 am »

Baricco, chi rosica per Saviano

di Luca Mastrantonio


Possiamo capire i giornalisti meridionali che fanno un lavoro più oscuro e più rischioso, spesso, di Roberto Saviano. Raccontano la cronaca nera, in zone difficili, senza scorta e senza gloria. Ma che Alessandro Baricco, assiso nel suo piccolo regno sabaudo della Scuola Holden, ostenti di preferire il film di Garrone al romanzo Gomorra, continuando a dare un giudizio grottescamente negativo, è sintomo di disonestà intellettuale, Culturale, Letteraria. Disonesto, d'altronte è nel lamentarsi - nell'intervista al Corriere della sera - di un eccesso di capacità di narrazione in ogni settore della vita sociale italiana.

E' grazie a grandi affabulatori come lui - Baricco affabula - che in Italia tutto, anche il cibo, è diventato oggetto narrativo. E quando parla di un esordiente di talento puro come Paolo Giordano, molto bello, dice, il libro, ne ha letto metà perché l'ha dimenticato sull'aereo, tralascia i problemi che ha avuto alla scuola Holden. Dove vanno i macellai e i professionisti con l'hobby della narrazione.

Ma torniamo a Saviano. Per Baricco, il romanzo ha un eccesso di narrazione e un difetto di informazione. Scusi? Il modello di Baricco, dunque, più di Junter Thompson o William Lagewienshe - che con Saviano ha duettato al Festival Internazionale di Ferrara e che è una guest star della Holden - evidentemente, è il Cis Viaggare Informati. Il romanzo come guida turistica, il romanzo non di formazione ma di informazione. E dai romanzi di Baricco, che informazioni si traggono? Non sappiamo, li abbiamo dimenticati sull'aereo e abbiamo solo brutti ricordi. Ma dalle sue interviste si capisce che ha una sconsiderata considerazione di sé e merita di diventare il presidente onorario del club di quelli che, come si dice a Roma, "rosicano", per il successo di Saviano.


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Baricco. Gomorra, che storia: il film meglio del libro

di Cristina Taglietti
 
Sono passati vent'anni da quando, leggendo Sandro Veronesi, Alessandro Baricco ha pensato: «Finalmente c'è aria nuova nella letteratura italiana».
Oggi quell'aria è diventata un vento e raccontare delle storie, pratica una volta demonizzata, è tornato ad essere centrale, in letteratura, ma non solo. Baricco a gennaio ha compiuto cinquant'anni. Dal '91, quando esordì con Castelli di rabbia, ha fatto molte cose. L'ultima è un film: Lezione 21.

«È finito, montato, doppiato. A settembre-ottobre sarà nella sale» racconta alla scrivania nel suo ufficio romano alla Fandango. «È stata un'esperienza molto bella, anche se faticosa. Ho dovuto imparare il mestiere facendolo». Il nucleo del film è la serata in cui Beethoven suonò per la prima volta la Nona Sinfonia. «Quella sera successe una cosa molto curiosa, bella, ma anche istruttiva sulle dinamiche della storia della cultura. Poi da lì nasce tutto un altro mondo: Beethoven nel film si vede solo per sei secondi. C'è una parte contemporanea, chi racconta la storia è il professor Mondrian Kilroy, un personaggio preso dal mio romanzo City, interpretato da John Hurt. Nel film c'è tutto un universo fantastico, molte scene in montagna, nella neve. Lo schema narrativo è strano, costruito con una libertà più vicina alla scrittura che alla grammatica del cinema».

Anche per questo nuovo lavoro la parola chiave è racconto. Le tecniche della narrazione per Baricco si possono anche insegnare, tanto che nel '94 ha fondato la scuola Holden al cui centro c'è proprio lo storytelling. «Negli anni '70-80 raccontare storie era considerato svilente. Il primo De Carlo, il primo Veronesi avevano un tratto narrativo che li rendeva inconsueti per quei tempi. Fino a Del Giudice c'è un equilibrio, poi la narrazione accelera». Anche perché compare Baricco. «Il mio istinto per la narrazione debordava in tutto ciò che facevo, la televisione, il teatro, il giornalismo, la critica musicale. Oggi questa tecnica è molto diffusa, forse troppo. In quindici anni ha invaso il campo con una tale forza che gli usi negativi sono moltissimi. Adesso tutto è narrativo: vai in una macelleria e il modo di esporre le carni è narrativo. Ormai è impossibile sentir parlare uno scienziato normalmente: anche lui narra. Lo stesso vale per i giornali, che hanno sostituito al 70 per cento l'informazione con la narrazione».

E poi c'è la contaminazione con il marketing. «Lì comincia il pericolo, così come quando lo storytelling entra nella comunicazione politica. Adesso sono diventati così bravi da riuscire a vendere quello che vogliono se riescono ad azzeccare la storia giusta: questo a me non piace. Ci vuole consapevolezza e spirito critico perché, altrimenti, l'autenticità finisce per perdersi». In tv il pericolo è ancora più grande, per questo Baricco ha smesso di farla: «La ripetizione è la morte. Continuare a fare Pickwick o Totem significava ridursi a una macchietta, diventare un personaggio da fiction. Quelle cose funzionavano perché allora erano originali e perché sono durate poco. Ho smesso quando mi sono accorto che qualunque cosa avessi fatto il pubblico sarebbe rimasto ad ascoltare. Quando tu sai come fare a strappare un applauso o una risata, che cosa mai ti potrebbe indurre a dire la cosa giusta invece di quella che funziona?».

Oggi la migliore interpretazione dello storytelling è, secondo Baricco, Gomorra: «Il film, non il libro. Il romanzo di Saviano, aldilà del suo valore civile altissimo, mi sembra un tipico frutto del trionfo di questa categoria di narrazione che prevale sull'informazione, la metamorfosi ultima del giornalismo. È un genere che ho visto crescere e di cui conosco i limiti e i pericoli, per cui mi sembra interessante fino a un certo punto. Invece se dovessi dire che cosa dovrebbe essere la narrazione oggi, mi viene in mente il modo di lavorare di Matteo Garrone. Difficilmente credo si possa fare meglio. In lui è molto chiara l'intuizione del raccontare in modo critico, c'è un controllo che evita ogni equivoco. Non ho ancora visto Il Divo di Sorrentino, spero che sia di quel genere».

Nel romanzo, invece, la narrazione non ha ancora trovato il suo Garrone. «È quello che sta per accadere, ma mi pare che non ci siamo ancora. Accadrà nei prossimi anni, quando ci saranno libri molto narrativi, ma con un controllo alto sull'aspetto ideologico della narrazione. La generazione che va dai 35 ai 50 anni ha prodotto soprattutto libri imprecisi. La forma è già definitiva, ma sono libri di passaggio, di ricerca. Penso ad Ammaniti, Lucarelli, Scurati, scrittori tra i più bravi. Li leggo e ho l'impressione che siamo vicini ma non siamo ancora arrivati al punto». Sul fatto che la capacità di vedere una storia e quindi di raccontarla abbia a che fare con la creatività e quindi sia difficilmente insegnabile, Baricco è d'accordo, tuttavia non crede, come ha sostenuto Hanif Kureishi, che le scuole di scrittura siano fabbriche di illusioni. «Il mondo è pieno di aspiranti medici, di bancari che non sono riusciti a diventare bancari, di aspiranti padri che non sono padri. Ovunque ci sono persone che non riescono a realizzare i loro sogni e che li inseguono comunque. Non è che le scuole di scrittura promettono più delle altre. Molti talenti sono innati come l'abilità del diagnosta, del matematico, o anche la capacità di fare soldi. Eppure si insegnano.


“In Garrone c'è intuito, Saviano è meno interessante

”L'unica contestazione vera potrebbe essere che ci sono molti scrittori che non hanno frequentato scuole di scrittura, mentre in altri campi una formazione è necessaria. Anche questo però è vero solo in Italia. Nel mondo anglosassone sono pochissimi gli scrittori che non abbiano fatto scuole di creative writing, e sono i più vecchi». Come preside della Holden, la soddisfazione maggiore di Baricco è «vedere persone di talento non eccelso che vivono del mestiere che hanno imparato, o che fanno lavori che nemmeno conosco, come l'headliner di serie tv. Come insegnante il momento più bello è quando gli studenti pubblicano i loro libri. Sono ormai una trentina quelli che hanno esordito. Cavina, Longo, Varvello, Bonatti, Grossi: avrei potuto leggere con soddisfazione i loro libri, anche se non avessero fatto la scuola, però mi piace pensare che un po' sia merito dell'insegnamento ». Paolo Giordano non ha fatto il biennio ma alla Holden ha frequentato alcuni corsi. «Giordano è un bell'esempio perché viene dal mondo scientifico: lì non c'è tanta poesia, sono pragmatici, non hanno paura della tecnica.

Nella scrittura c'è un tratto costruttivo che è pura tecnica. Certo, è una parte piccola, ma se hai voglia di affrontarla puoi imparare moltissimo. Mi sembra che sia quello che lui ha fatto. Ho letto La solitudine dei numeri primi solo per metà, perché l'ho dimenticato in aereo e non sono ancora riuscito a ricomprarlo. È un libro scritto bene, c'è consapevolezza, maturità. E c'è questa cosa che a me piace: la serietà dello stile. Anche perché questo, a differenza di quanto si pensa, non è un lavoro per creativi un po' fuori di testa. Conosco pochi mestieri più rigorosi di quello dello scrittore. A volte chi fa i bilanci delle aziende è più elastico: tira di qui, tira di là, aggiusta». Archiviato il film, il prossimo progetto di Baricco è un ritorno al romanzo. «Ci sono libri che io aspetto e corteggio, magari ci vorrà qualche anno, ma ci arriverò ». E pazienza se non piaceranno ai critici. Baricco archivia anche le polemiche: «Non credo che mi stronchino perché ho successo. Semplicemente il loro mondo, la loro visione della letteratura è diversa dalla mia. Ma in fondo non mi dispiace. Mi piace fare qualcosa che va contro. Lo sdegno è alla base della scrittura, fa bene a tutti».


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Rea e De Silva «alleati» contro Baricco: sbagliate le critiche a Roberto Saviano
 
NAPOLI - Ermanno Rea e Diego De Silva riscattano Roberto Saviano dopo le critiche di Alessandro Baricco a «Gomorra» pubblicate dal «Corriere della Sera». «Il romanzo di Saviano - ha dichiarato ieri Baricco sul Corsera - aldilà del suo valore civile altissimo, mi sembra il tipico frutto del trionfo di questa categoria di narrazione che prevale sull'informazione, la metamorfosi ultima del giornalismo». «La sua è una cultura di trincea - replica Rea - Ricordo che quando Saviano, ancora ragazzino, lavorava alla Fondazione del Premio Napoli, di cui sono stato presidente per 5 anni, lo rimproveravo perchè si esponeva troppo. Spesso gli tagliavano gli articoli oppure non glieli firmavano». «Napoli - continua lo scrittore - è una città difficile, che ti costringe a una condizione di prigionia, dalla quale ci si congeda di continuo, ma nella quale poi si ritorna sempre. Anch'io, nonostante nel mio ultimo libro parli di un addio a Napoli, penso di tornarvì.

“L'autore di «Seta» aveva etichettato il best seller come «la metamorfosi ultima del giornalismo». I due scrittori dissentono

”Gli fa eco Diego De Silva: «Dietro il successo di Gomorra e del filone letterario da inchiesta c'è la spia di una mancanza più forte: la Campania è una terra che dovrebbe essere raccontata molto di più. Se Napoli ultimamente è al centro della produzione letteraria, è perchè è la città che racconta, molto meglio di altre, le trasformazioni sociali. Le anticipa fungendo da campanello d'allarme, trovandosi spesso nel suo destino di capro espiatoriò. I due scrittori napoletani, concorrenti al Premio Strega 2008, hanno parlato stamani alla cerimonia di votazione degli studenti romani che hanno scelto il loro vincitore ideale tra i 12 concorrenti di quest'anno. Il risultato ha visto, come libro preferito 'La solitudine dei numeri primì di Paolo Giordano. Diego De Silva e Ermanno Rea concorrono con due romanzi che hanno al centro Napoli e le sue contraddizioni: rispettivamente 'Non avevo capito nientè, storia di un avvocato napoletano che difende un becchino di camorra, e 'Napoli ferrovià, l'amicizia tra un ex-naziskin e un vecchio comunista nata nella stazione ferroviaria del capoluogo campano.

 
01 giugno 2008


da www.robertosaviano.it

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« Risposta #14 inserito:: Giugno 23, 2008, 10:32:09 am »

"Ho incontrato Roberto Saviano"

di Enzo Biagi

Penso spesso all’incontro con Roberto Saviano.

Confesso che non sapevo niente di lui e non avevo letto il suo libro, ‘Gomorra’.


Mi incuriosiva però quanto mi diceva Loris Mazzetti che lo aveva conosciuto a Roma: “C’è in circolazione un libro scritto da un ragazzo di 28 anni che ha venduto più di 700 mila copie, soprattutto tra i giovani, che sta facendo più danni alla camorra che anni di guerra dello Stato. Per questo, oggi l’autore vive sotto scorta”.

Mi è parsa una storia da raccontare, anzi ho pensato che doveva essere la prima intervista del mio ritorno dopo cinque anni in televisione. Così ho letto ‘Gomorra’.

Dovevo pur documentarmi.
La prima impressione è stata che mi trovavo di fronte a uno scrittore, vero, e, per quel che conta il mio giudizio, con un grande avvenire davanti. Qualcuno ha detto che è facile raggiungere il successo, difficile mantenerlo. In questo caso, non credo. Piuttosto, il problema di Roberto sarà che in questo Paese il successo non te lo perdonano ed esistono sempre i critici paludati i cui libri, magari, non raggiungono le cinquemila copie di tiratura. La mia età mi ha permesso di trasmettere a Saviano questa modesta opinione e la raccomandazione, a un ragazzo di cui potrei essere nonno, di aspettarsi l’invidia e di non prendersela troppo. Al di là delle sue indubbie capacità di scrittura, colpisce il carattere di un ventenne che comincia ad interessarsi alle vicende di camorra, a seguire i processi, a studiare le carte, a frequentare gli ambienti malavitosi della sua terra con lo scopo di capire e poi raccontare. Ed è stato proprio questo a creargli dei problemi. Roberto Saviano non solo ha ‘denudato il mostro’, ma l’ha saputo spiegare come finora nessuno. Mi è venuto subito in mente uno scrittore che ho molto amato, di cui sono stato amico, Leonardo Sciascia: quanto lui ha saputo narrare la sua Sicilia e le storie di mafia così Saviano è lo scrittore per eccellenza di Napoli e della camorra.

Ho voluto, prima di entrare in studio, passare qualche ora con Roberto, non solo per dargli un po’ dell’esperienza di un vecchio signore, ma per conoscerlo e cercare di capire che cosa spinge un giovane a rinunciare alla propria libertà, a vivere come tutti i coetanei, incontrare la sua ragazza, andare al cinema, prendere un aereo, cenare con gli amici. La prima risposta l’ho avuta dai suoi occhi, intelligenti e curiosi che mi hanno frugato forse per spiegarsi il perché di quell’invito. Chi mi conosce sa che sono abituato a trascorrere con i miei ospiti il tempo necessario per la trasmissione, ma stavolta avrei voluto che la colazione con Roberto, poi il caffè, durassero di più. Anzi, spero che mantenga la promessa di tornare a trovarmi, magari quest’estate in campagna, così avremmo la possibilità di continuare quel discorso cominciato a casa di mia figlia Bice. Dai giovani, anche alla mia età, c’è sempre da imparare. Da Roberto Saviano un po’ di più.

E’ arrivato poi il momento dell’intervista e dalla sua prima risposta ho capito che avevo ragione ad aver voluto inaugurare ‘RT’ con lui. Poco prima ci eravamo messi d’accordo sul finale: gli avrei chiesto se voleva aggiungere qualcosa e lui, che aveva il suo libro infilato tra il bracciolo e lo schienale della poltrona, ne avrebbe letto qualche riga. Invece, a quella mia domanda Saviano ha risposto: “Sono felice di aver potuto dialogare con lei. Se questo è possibile, forse in questo Paese qualcosa è ancora possibile fare.”

E’ stato il più bel ‘bentornato’ che ho ricevuto. Grazie, Roberto.

Scritto da Enzo Biagi
per il festival della letteratura di Massenzio
in occasione della partecipazione di
Roberto Saviano il 21 Giugno 2007




25 febbraio 2008
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