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Autore Discussione: ROBERTO SAVIANO  (Letto 92140 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Dicembre 06, 2014, 05:17:21 pm »


Il Paese che vive nella Terra di mezzo

Di ROBERTO SAVIANO
05 dicembre 2014
   
SU "Mafia capitale" sappiamo tutto, abbiamo letto le cronache dell'operazione condotta dai Ros del generale Parente e dalla Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone, abbiamo letto l'ordinanza del gip Flavia Costantini, ma non so se è chiaro a tutti cosa sia accaduto a Roma.

E cosa molto probabilmente sta accadendo altrove in Italia. Succede alla politica italiana ciò che sta accadendo alla società civile che guarda alla politica con schifo, senza riuscire a percepire le proprie responsabilità. Accade che in politica ci si venda, si ipotechi la propria anima per pochi spiccioli (ci sono mazzette da 750 euro prese senza la reale percezione della gravità della situazione come una legittima e piccola regalia). Accade che la politica non abbia autorevolezza e idee proprie, accade che la politica venga percepita come una occasione di guadagno, un mestiere che arriva senza dover studiare, senza curriculum ed esperienza.

La domanda è: ma come fanno personaggi che definiremmo "dalla storia ambigua", come Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, a diventare artefici, attori, protagonisti di vicende che assumono connotazioni grottesche? Un assassino e un ex terrorista, ex Nar, organico alla banda della Magliana. Il primo, Buzzi, aveva scontato la sua pena, il secondo Carminati era stato assolto, ma su di lui esistono pagine e pagine di informative e una stretta osservazione. Ebbene Buzzi e Carminati in qualsiasi altro Paese condurrebbero la loro vita lavorativa sotto una strettissima sorveglianza, dovrebbero avere un comportamento talmente ligio da provare che si può uscire diversi dal carcere, da dimostrare che le assoluzioni sono opportunità di reinserimento e non salvacondotti. E invece a Buzzi e Carminati la politica dà massima fiducia senza chiedere in cambio nessuna trasparenza. Ci si fida di loro, ciecamente. Vi siete chiesti come sia stata possibile una tale idiozia? In questi giorni il mantra è: colpevole è non solo chi è consapevole, ma anche chi non vuole vedere. E allora noi da che parte stiamo? Tra i colpevoli o tra quelli che non vogliono vedere? Dobbiamo scegliere, perché una terza via non esiste.

Come possono personaggi come Carminati e Buzzi apparire "affidabili"? Possono farlo perché siamo in Italia. Possono farlo perché in Italia ciò che si rifiuta e rifugge non è il rapporto con chi tutto sommato è peggio di noi, ma con chi è meglio. Con chi ha una immagine pulita si fa il tiro al bersaglio: il gioco è far cadere il simbolo positivo dal piedistallo. Ed ecco che chi si distingue per professionalità e rettitudine in una giunta comunale viene allontanato, con maggiore o minore clamore mediatico, a seconda delle circostanze, ma se intralci i giochi sei fuori. I politicanti utilizzano e si legano a personaggi che non sono figure da poter demolire e che non vogliono cambiare il sistema e che abitano quel "mondo di mezzo" che Carminati, ha preso in prestito da Tolkien. "Ci stanno i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. E allora vuol dire che ci sta un mondo, un mondo in mezzo, in cui tutti si incontrano. Anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno. Questa è la cosa... e tutto si mischia". Non è da leggere come è stato fatto sino ad ora come una "cerniera" tra teppa criminale e colletti bianchi. Questa è una vera e propria sintesi di filosofica economica.

Si parla chiaramente di un luogo trasversale dove ci si affida a chi "sa fare le cose", chiunque egli sia. E qui arriva Salvatore Buzzi con le sue cooperative di disperati, di marginali, ex detenuti, immigrati che in un'Italia che non produce nulla, in un'Italia in cui le aziende muoiono, in un'Italia strangolata da un sistema fiscale irrazionale che in larga parte deve sopperire ai costi enormi e agli sprechi della politica, diventano una miniera d'oro.

In Italia è inevitabile che le emergenze diventino vere e proprie occasioni di profitto. La crisi dei rifiuti a Napoli ha irrorato la politica, la camorra e l'imprenditoria per oltre un decennio. Mare nostrum è stata una tragedia per tutti tranne che per Carminati e Buzzi. Per loro i barconi della speranza piuttosto che emergenza umanitaria, sono diventati un'enorme opportunità. "Ci fanno guadagnare più della droga", dicono. Quindi l'organizzazione mafiosa con a capo Carminati non guadagna con attività che tradizionalmente sono considerate criminali, ma con attività che invece godono di un'aura di nobiltà. Attività intoccabili, insospettabili. Ma di umanitario e ideologico non è rimasto proprio nulla: l'ideologia non c'entra, gli affari sui rom, sull'emergenza case, sugli immigrati, li fanno paradossalmente proprio gli uomini di Alemanno, coloro i quali hanno partecipato alla giunta che meno si è distinta per solidarietà verso gli ultimi, verso i bisognosi e i disperati. Non c'è più colore politico, ecco perché verso gli estremisti della prima e dell'ultima ora non posso fare a meno di provare pena; non c'è colore: basti pensare che Carminati che proviene dalla estrema destra, si sceglie Buzzi come braccio destro, un uomo che proviene dalla estrema sinistra.

E poi ancora: dal momento che a predisporre e coordinare l'emergenza migranti è il tavolo di coordinamento nazionale presieduto dal ministero degli Interni, lì deve sedere un uomo che sia al soldo del duo Carminati-Buzzi. Quest'uomo è Luca Odevaine, che ricorda Mister Wolf di Pulp Fiction, il problem solver. Luca Odevaine è stato vice capo di Gabinetto della giunta Veltroni, poi capo della Polizia provinciale, poi capo della protezione civile con Zingaretti e infine al tavolo di Coordinamento nazionale sull'accoglienza per i richiedenti asilo. È lui, per intenderci, che prende in gestione la capitale quando muore Giovanni Paolo II. La trasversalità del sistema si basa su una macchina oleata fatta di mazzette grandi e piccole. Odevaine, secondo l'accusa, avrebbe percepito una mazzetta da cinquemila euro al mese.

Ma la cosa più interessante è che leggendo le carte dell'inchiesta si ha la sensazione che nessuno abbia reale consapevolezza del proprio status di corrotto. Quello che molti hanno preconizzato, ovvero che Tangentopoli fosse solo il punto di partenza di un'apocalisse politica e sociale definitiva si sta avverando. Ora i corrotti non solo si sentono legittimati a commettere illeciti, ma non hanno neanche più la consapevolezza della gravità dei loro comportamenti.

In tutto questo Matteo Renzi arriva tardi a commissariare il Pd di Roma. Prima della magistratura, la politica dovrebbe avere occhi, orecchie, dovrebbe ascoltare ogni sussulto, ogni sospiro. I segnali c'erano. E invece Renzi, che aveva tutti gli strumenti per sapere e per azzerare il Pd romano prima di questo terremoto giudiziario, lo fa dopo. Dall'altra parte  -  o dalla stessa parte anche se sembra si facciano guerra  -  c'è una destra sempre più disinvolta nell'occupare posizioni per trarne vantaggio, per condizionare la democrazia, anche usando la stampa locale che si presta al gioco, come è successo con Il Tempo diretto da Chiocci, che è arrivato a incontrare Carminati.

Mafia capitale è solo l'inizio. Altre inchieste in altre città dimostreranno che Roma non è un caso isolato. In altri Paesi europei esiste la corruzione, ma la corruzione non arriva a compromettere l'istituzione stessa: il corrotto è espulso dall'istituzione che è percepita come sacra e va salvaguardata. In Italia l'istituzione invece è utilizzata, lordata e non viene difesa.

Ma perché questo accade? Perché ormai si è impadronita di chiunque una consapevolezza: senza brigare non si va da nessuna parte. Senza forzature non succede niente, non cambia niente. Quindi in fondo la posizione bipartisan sembra essere questa: è inutile fingere di essere al di fuori o al di sopra. Tutti dobbiamo compromettere una parte del nostro lavoro, della nostra integrità, per ottenere qualcosa. Questa è la logica che emerge da "Mafia capitale". Questa è la teoria del "Mondo di mezzo" di Carminati non portata alle estreme conseguenze, ma applicata a tutti noi.
Da questo meccanismo nessuno si senta escluso, le mazzette trovate nelle buste con il logo di Roma Capitale ci riguardano, perché Roma Capitale siamo noi.

In questo Paese che non è capace di difendere il talento e l'impegno, dove tutti odiano tutti, dove tutti detestano chi ce la fa, in questo Paese tra il mondo dei vivi che sta sopra e il mondo dei morti che sta sotto, in mezzo ci siamo noi.

In mezzo c'è l'intero Paese che non riesce a reagire.

© Riproduzione riservata 05 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/05/news/il_paese_che_vive_nella_terra_di_mezzo-102158368/?ref=HRER3-1
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« Risposta #121 inserito:: Maggio 11, 2015, 10:27:42 am »

Nessuna carica contro il corteo no-Expo: la scelta vincente che ha evitato il caos
Le forze dell'ordine hanno isolato i violenti. Così Milano non è stata un'altra Genova.
Ma l'intelligence non ha saputo prevedere e fermare l'arrivo dei black bloc


Di ROBERTO SAVIANO
03 maggio 2015
   
CHE cosa è successo davvero venerdì pomeriggio a Milano? Quale lezione dobbiamo trarre all'indomani della violenta devastazione che avrebbe voluto farci ripiombare nell'incubo da guerriglia urbana? Diciamo subito che a Milano in quell'incubo non siamo ripiombati. E proviamo a dare anche un nome a quella lezione: chiamiamola dunque la lezione della Diaz.

Sì, a 14 anni da Genova, il primo maggio di Milano ha segnato davvero un cambiamento radicale nella gestione dell'ordine pubblico. Chiariamo. Anche l'azione di questi violenti andrebbe definita col nome che merita: squadrista. Perché di squadrismo s'è trattato: il modo paramilitare in cui s'è sviluppata l'azione, l'utilizzo delle tute. Azione squadrista: perché i violenti si muovevano come squadre con obiettivi solo a loro noti -  e non al resto del corteo. Sembrava un'operazione vista molte volte e invece non lo era. Chi immaginava continuità con il movimento antagonista ispirato alla strategia da guerriglia urbana anni 70 è rimasto sorpreso. Il blocco nero è storia vecchia: ma a Milano ha agito con una capacità tutta militare (togliersi le tute per mimetizzarsi disperdendosi poi nei tronconi pacifici della manifestazione) rinunciando completamente a ogni simbologia politica. Cercare "l'affinità informale " ossia persone che non si conoscono tra loro ma che si ritrovano nello spazio del corteo unite nella volontà di attaccare obiettivi per poi tornare ad ignorarsi. Nessuna rivendicazione: in azione c'era solo la teppa.

Eppure non è stata questa l'unica vera mutazione a cui abbiamo assistito. La tattica dei violenti sembrava semplicissima: aggredire i poliziotti dopo aver costruito barricate e sfasciato tutto ciò che può esser sfasciato, per poi far caricare l'intero corteo, soprattutto la parte pacifica. La sequenza agghiacciante dell'assalto a bastonate del poliziotto dice tutto. Come avrebbero potuto reagire le forze dell'ordine? Con una carica generalizzata: che trascina inevitabilmente tutti negli scontri. È la vecchia strategia per stanare e "arruolare" i manifestanti -  anche i più prudenti: far partire le cariche costringendo perfino i pacifici a difendersi con la guerriglia. Questa volta, però, sia le forze di polizia che i manifestanti non ci sono cascati. E la scelta di non intervenire, di isolare i violenti e di non cadere nel trucco che gli squadristi-antagonisti avevano preparato si è rivelata vincente.

A riassumerla nel facile gioco delle pagelle, dalla battaglia di venerdì escono vincenti Tullio Del Sette, comandante generale dei Carabinieri, e Alessandro Pansa, il capo Polizia -  mentre certamente è sconfitta l'Intelligence, che non ha saputo prevedere i flussi e fermarli. Ed è proprio quando fallisce l'Intelligence, quando la politica non riesce a far fronte all'emergenza, che tutto viene riposto nell'ultimo anello di gestione: i celerini. Certo i reparti speciali come i GIS avrebbero potuti fermarli, ammanettarli e neutralizzarli in una manciata di minuti, questi militanti -  o presunti tali -  che imbrattavano muri con le bombolette e sfondavano negozi. Ma si sarebbe dovuto fare ricorso a un'azione militare seria con il rischio di avere costi tragici. Per questo la decisione di circoscrivere i violenti e dare libero sfogo è stata strategica. Ha fatto emergere la loro reale identità che - se la polizia avesse caricato -  pochi avrebbero riconosciuto. Un cambio di gestione della piazza che lascia ben sperare. La lezione della Diaz.

E adesso? Chi pagherà le auto bruciate? Chi le vetrine sfondate? Lo Stato dovrebbe rispondere subito a tutto questo e non in tempi infiniti riuscendo soprattutto ad ottenere risarcimenti arrestando i responsabili. Bisognerebbe aggiungere che l'unica vittoria dei nuovi squadristi è stata quella di oscurare le legittime critiche della manifestazione contro l'Expo: il regalo più grande che potevano fare agli organizzatori. In un attimo hanno messo sotto silenzio tutti i temi che con difficoltà nei giorni scorsi erano stati posti al centro dell'attenzione pubblica. Hanno ridotto tutto a uno scontro di vetrine rotte e immondizia. Sento già partire il coro dei cospirazionisti: le violenze l'hanno organizzate gli stessi poliziotti -  per questo i manifestanti non sono stati caricati! L'ingenuità di queste interpretazioni è smontata dalle dinamiche che raccontano purtroppo ben altro: la totale incapacità di infiltrazione delle forze di polizia e anzi l'inadeguatezza dei servizi segreti italiani in questa vicenda. La rabbia, il dolore, il disagio sono ben altro. E a rappresentarle non saranno certo questi gruppetti all'assalto di vetrine incustodite.

© Riproduzione riservata
03 maggio 2015

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2015/05/03/news/nessuna_carica_contro_il_corteo_la_scelta_vincente_che_ha_evitato_il_caos-113407304/?ref=HREA-1
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« Risposta #122 inserito:: Giugno 17, 2015, 05:06:00 pm »

Droga e machete, quel codice rosso sangue delle gang latine
Violente e organizzate militarmente, puntano al monopolio dello spaccio. Sono le Maras salvadoregne, di cui fanno parte gli aggressori del ferroviere a Milano

Di ROBERTO SAVIANO
14 giugno 2015
   
IL machete è una sorta di ibrido tra un coltello e una spada, usato per tagliare la canna da zucchero, le noci di cocco e, nelle guerre in Sierra Leone o Ruanda, la spietata arma adoperata per tagliare mani, braccia, piedi.

Vedere usare con disinvoltura il machete in un treno di Villapizzone a Milano, tagliare il braccio a un giovane capotreno per la sola ragione di aver chiesto il biglietto fa credere a nuove invasioni di barbari, terrore che si insinua nella vita quotidiana dei pendolari. In realtà questo episodio c'entra poco con l'ordine pubblico ed è sbagliato paragonarlo alla follia omicida di Kabobo che uccise tre persone in zona Niguarda.

Questa vicenda riguarda il crimine organizzato. I tre ragazzi arrestati secondo le accuse fanno parte delle Maras, precisamente la Mara Salvatrucha: ricordatevi questo nome perché si tratta di una delle organizzazioni criminali più potentidel narcotraffico internazionale. L'FBI descrive Mara Salvatrucha la "gang più pericolosa al mondo" e per contrastarla ha costituito nel 2005 una task force dedicata.

Maroni invita a presidiare i treni con i poliziotti e se serve a sparare. Commento tipico di chi  -  come spesso accade nel suo caso  -  non conoscendo davvero le dinamiche, arriva a dare una valutazione superficiale. La crisi economica sta portando anche le catene dello spaccio dei grandi gruppi criminali italiani a rimodellarsi e queste gang diventano sempre più forti perché sono cinghie di trasmissione tra i piani mafiosi del narcotraffico e quelli dello spaccio porta a porta. In più, la qualità militare che i gruppi mafiosi italiani apprezzano delle Maras è la capacità di controllare i territori, cosa che i piccoli gruppi italiani non sanno più fare se non a stipendi alti.

Può sembrare difficile, vedendo le facce da ragazzini con l'espressione malriuscita da duri dei tre assalitori di Milano  -  Alexis Ernesto Garcia Rojas, 20 ann come Jackson Jahir Lopez Trivino e Josè Emilio Rosa Martinez, 19  -  pensarli parte di una così complessa organizzazione. Per capirlo bisogna approfondire la storia del gruppo di cui fanno parte e contro cui le procure italiane devono iniziare a fare i conti come se affrontassero gruppi mafiosi.


Dal Salvador, durante la guerra (1980 - 1992), sono scappati negli Stati Uniti migliaia di ragazzini senza famiglia, con genitori ammazzati o madri che li preferivano lontani dalla macelleria centroamericana. Tra loro ex guerriglieri del Fronte Farabundo Martì e giovanissimi disertori dell'esercito regolare: sono proprio questi che addestrano gruppi di ragazzini sbandati in bande. Cosi nascono le Maras, gang salvadoregne che prendono a modello quelle di Los Angeles (afroamericane, asiatiche e messicane). In origine, come bande di autodifesa dalle altre gang. Ma con il tempo questa organizzazione sconfigge le altre e inizia a egemonizzare le strade: hanno disciplina militare, violenza estrema, preghiere, patti. Il crimine con regole batte sempre il crimine senza regole.?

Le Maras arrivano a scindersi in due grandi famiglie rivali che si differenziano per il numero di " street " che occupano: Mara 13, meglio conosciuta come Mara Salvatrucha, e Mara 18, nata da una branca dissidente. Il numero delle strade si riferisce non al Salvador terra d'origine ma a Los Angeles. Accade però che arrivano gli accordi di pace di Chapultepec: guerriglia ed esercito fermano le armi. Il Salvador non è più un Paese attraversato dalla guerra civile ma è in miseria totale e gli affiliati alle Maras negli Usa non hanno molta voglia di ritornare in patria. A costringerli però interviene il governo americano che vuole liberarsi di queste organizzazioni come ci si libera delle zecche, strappandole dalla propria carne: tutti quelli che la polizia riesce a scovare vengono deportati in massa da Los Angeles al Salvador dove molti di loro erano solo nati. Ma come la leggenda narra che le zecche se le si strappa lasciando la testa ancorata sotto pelle il corpo ricresce, anche con le Maras questa operazione non fa altro che strappare solo il corpo che ben presto ricresce generando una diaspora che non rimuove il problema. Anzi lo diffonde.

Oggi le Maras hanno cellule presenti negli Stati Uniti, in Messico, in tutta l'America Centrale, Europa e Filippine. La Mara 18 è molto più grande perché ha deciso di federare nel proprio interno altre etnie di latinos .

In Italia anche la Mara Salvatrucha ha preso altri non salvadoregni come per esempio Trivino, uno degli assalitori del capotreno, ecuadoregno.

All'interno delle Maras tutto è codificato. I segni con le mani (che indicano il numero 18, il 13 o le corna del diavolo), i tatuaggi sul volto, la gerarchia, la musica hip hop. Tutto passa attraverso regole che strutturano e creano identità. Il risultato è un'organizzazione compatta in grado di muoversi velocemente. Elemento più interessante è che sono vere e proprie accademie del crimine, spesso composte da ragazzi tra i 13 e i 17 anni. Per entrare nella gang bisogna superare delle prove: 13 secondi di pugni, calci, schiaffi, sputi. Le ragazze entrano solo dopo aver subito uno stupro da parte dei vertici dell'organizzazione. E la prima regola delle Maras è che una volta dentro non se ne esce più. L'unico modo è la morte. Chi ha provato ad allontanarsi dalle organizzazioni è stato condannato alla pena capitale. Così, la frase che ripetono spesso è: "Vivi per Dio, per tua madre, muori per la gang".

Non bisogna quindi confondere un'organizzazione così potente con i semplici flussi di immigrazione, si cadrebbe altrimenti nel solito errore, per il quale tanti italiani hanno pagato il prezzo di venire considerati mafiosi negli Stati Uniti solo perché la mafia itolamericana lì è stata potentissima. L'esercito di bambini delle gang (gli affiliati più giovani possono avere anche solo dieci anni) commercia soprattutto in cocaina e marijuana sulla strada. Non gestiscono grandi forniture, non sono ricchi, non corrompono le istituzioni. In strada però sono forti e spietati come killer professionisti. Non sono ascrivibili a un'organizzazione mafiosa classica perché questa è per definizione segreta mentre le Maras sono visibilissime: vogliono esserlo. Si marchiano in volto, si ghettizzano, sono truppe sul campo pronte agli arresti.

Genova e Milano sono le città italiane dove si trova il numero più alto di affiliati alle Maras e alle altre gang di latinos . Dai Latin Kings (veterani in Italia) ai Netas (portoricani e dominicani), dai Trinitarios ai Vatos Locos. Fino, appunto a MS-13 e Mara 18. Sempre di più queste organizzazioni accolgono tra vle loro fila filippini, nordafricani e italiani. Sono realtà complesse di cui ci si accorge solo quando usano le lama, anzi la più inquietante delle lame: il machete. Ma prima di quello usato contro il capotreno a Milano ce ne sono stati altri. Il 13 luglio del 2008 nel centro sportivo Forza e Coraggio di via Gallura, durante uno scontro tra Maras, a Ricardo (20 anni) cavano un occhio e gli sfigurano il viso, con il machete. Il 21 novembre 2011 un membro della Mara Salvatrucha viene aggredito con una mannaia dai Netas vicino al Duomo.

Il mio suggerimento per comprendere il fenomeno è dedicare attenzione all'opera di Christian Poveda. Regista francese di origine spagnola, riuscito a entrare come nessun altro nella vita quotidiana delle Maras, con un bellissimo documentario ( La vida loca ) il cui successo negli Usa spinse i media a chiedere conto al governo salvadoregno. Dal docufilm emerge una storia di miseria e disperazione. Perché le Maras capitalizzano la disperazione e vengono utilizzate dai grandi gruppi di narcotrafficanti come se i loro associati fossero degli schiavi.

Poveda venne ucciso nel 2009 dagli stessi che lo avevano fatto entrare nel mondo "chiuso" delle Maras.

© Riproduzione riservata
14 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2015/06/14/news/droga_e_machete_quel_codice_rosso_sangue_delle_gang_latine-116812131/?ref=HRER2-2
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« Risposta #123 inserito:: Dicembre 30, 2015, 05:55:00 pm »

Saviano al Guardian: "Capitalismo ha bisogno del narcotraffico"
Il giornale inglese esalta "Zero zero zero", pubblicato anche in Gran Bretagna: "Il libro più importante dell'anno"

27 dicembre 2015
 
"Il libro più importante dell'anno e il più convincente mai scritto sul narcotraffico". Così il Guardian ha definito Zero Zero Zero di Roberto Saviano, pubblicato ora anche in Gran Bretagna, sottolineando come solo attraverso la lettura del libro si possa davvero comprendere fino in fondo l'universo del traffico di droga.

"Pablo Escobar (il 'Copernico' delle organizzazioni criminali) è stato il primo a capire che non è il mondo della cocaina che deve ruotare intorno al mercato, ma è il mercato che deve ruotare intorno alla cocaina", racconta Saviano nel corso dell'intervista con il celebre quotidiano britannico, "nessun business è così dinamico, così innovativo, così fedele allo spirito del libero mercato come quello della cocaina".

Il Guardian sottolinea la geniale eresia di Saviano nel raccontare il mondo del traffico della droga: "Il capitalismo ha bisogno delle organizzazioni criminali e del loro mercato...Questo è il concetto più difficile da comunicare. La gente - anche quelle persone che hanno il compito di osservare il mondo criminale - tende a trascurare questo aspetto, insistendo su una separazione tra il mercato nero e il mercato legale. E' la mentalità, molto europea e americana, che spinge a pensare che un mafioso finisce in galera in quanto gangster. Ma in realtà è un uomo d'affari e il suo business, il mercato nero, è diventato il più grande mercato del mondo".

Il Guardian sottolinea come il libro di Saviano dimostri che nessuno tra tutti coloro che hanno scritto finora di mafia sia riuscito ad essere efficace come lui, abbattendo sostanzialmente la divisione tra legale e illegale: la cocaina intesa come puro capitalismo.

"La cocaina è diventata un prodotto simile all'oro e al petrolio", dice Saviano, "ma economicamente è molto più potente. Se non possiedi miniere o pozzi, è dura entrare nel mercato. Con la cocaina, no. I terreni sono coltivati da contadini disperati e si possono accumulare enormi somme di denaro in pochissimo tempo senza certificazioni o licenze".

"La storia del narcotraffico", aggiunge Saviano, "non è qualcosa che accade lontano da noi. Alla gente piace pensare che questa disgustosa violenza sia qualcosa di distante, ma non è così. Tutta la nostra economia è impregnata di questi resoconti".
© Riproduzione riservata
27 dicembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2015/12/27/news/saviano_sul_guardian-130218904/?ref=HRER2-2
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« Risposta #124 inserito:: Gennaio 10, 2016, 04:18:49 pm »

Saviano: quella sesta stella nera che rischia di diventare una macchia indelebile
La vicenda di Quarto e i 5 Stelle.
La delusione per l'incapacità di reggere una sfida come questa può condizionare il giudizio sul Movimento alle amministrative

Di ROBERTO SAVIANO
10 gennaio 2016

Il Consiglio comunale di Quarto va sciolto per infiltrazione camorristica. Non importa quanti siano i voti portati dal consigliere espulso Giovanni De Robbio: quanto accaduto rischia di diventare un punto di non ritorno per il Movimento 5 Stelle. Il balletto sulle dimissioni del sindaco Rosa Capuozzo rischia di diventare una macchia indelebile, la sesta stella, la blackstar che offusca tutte le altre. Quarto è la storia di un cortocircuito. La prassi di raccogliere dossier per poter screditare l'avversario politico (che abbiamo chiamato macchina del fango), ha finito per trovare una sinistra corrispondenza, anche se sottile e camuffata, nei processi sui blog o in televisione.

Quello che pare essere accaduto a Quarto è un caso di scuola. Da una parte la conferma della terribile regola che vede la camorra schierarsi sempre al fianco di chi vince o quanto meno attiva nello strumentalizzare quelle vittorie; dall'altro un sindaco che ora dopo ora si è mostrato sempre più inadeguato al ruolo, soprattutto in quella realtà così complessa, dove niente è come sembra. Ma la storia di Rosa Capuozzo ha una ricaduta ancora più drammatica poiché conferma che la politica in Italia è solo arte del ricatto; non si esce da questa logica, chiunque sia al governo. Del resto la purezza è un concetto non applicabile alla vita reale: tutti gli esseri umani commettono errori e hanno contraddizioni, che stranamente non vengono valutati se non quando si ha un ruolo istituzionale. E come un serpente che si morde la coda, quanto più in alto abbiamo posto l'asticella della "purezza&onestà", più grande sarà lo scandalo a prescindere dall'entità e dalla natura dell'errore, commesso o meno. Ma il nodo per comprendere questa situazione è la analisi della prassi delle espulsioni, che nei propri opachi contorni è sempre più vissuta dall'opinione pubblica come una pratica di epurazione. Del resto, cosa sono le espulsioni se non il mettere alla gogna chi non ha rispettato il programma, l'additare alla folla il reo? Rosa Capuozzo è colpevole, non eventualmente di abusivismo edilizio (di cui non conosciamo la portata e la natura), ma di essersi presentata come parte lesa invece che come amministratrice inadeguata; d'altro canto, lo scioglimento per infiltrazioni camorristiche del Consiglio comunale non farebbe giustizia alla storia di un Movimento, intrisa di ingenuità politica ma non di disonestà o peggio di connivenze con la camorra.

C'è una storia che riguarda Quarto che voglio raccontare. Come spesso accade, i clan investono in società di calcio per ottenere consenso sul territorio, ma anche per riciclare denaro e camuffare il racket con le sponsorizzazioni imposte ai commercianti e agli imprenditori locali. La "Quarto Calcio" apparteneva al clan Polverino - storica cosca attiva nell'area nord di Napoli e legata alla famiglia Nuvoletta, a sua volta in rapporto con la mafia di Corleone -, un clan potentissimo e particolarmente attivo nel traffico di stupefacenti, che ha da sempre avuto un ruolo di primo piano proprio per lo storico legame con Cosa Nostra. A febbraio 2011 la DDA di Napoli sequestra la squadra di calcio ai Polverino e la affida a "Sos Impresa", un ente antiracket. Il sostituto procuratore Antonello Ardituro, oggi al Csm, diventa il presidente onorario della "Nuova Quarto Calcio". Nel 2013 la squadra viene promossa in Eccellenza e sembra prendere corpo il mantra che a Quarto ci si ripeteva: "Con la legalità si vince sempre".

Ma il territorio non fa cerchio, gli atti di sabotaggio sono sempre più frequenti e prendono di mira anche lo stadio Giarrusso, quello stesso stadio tornato in gestione al comune sotto il sindaco pentastellato. L'anno scorso l'avventura della squadra della legalità si è conclusa a dimostrazione che la legalità non vince sempre, non vince se la società civile è distratta e impaurita. Non vince se la politica non comprende come queste esperienze siano un collante vero. Che Quarto non fosse un comune come un altro era evidente sin dal principio ed è per questo che la vittoria alle amministrative del Movimento 5 Stelle ha costituito un fatto per certi versi epocale, ma purtroppo per la cittadinanza, dopo sei mesi sembra già venuto il momento del bilancio finale, per un'amministrazione che esce del tutto delegittimata. Il piano politico è quello dunque più significativo oggi ed è bene dire, senza esitazioni, che la delusione per l'incapacità di reggere il confronto con una sfida davvero probante, non può che condizionare il giudizio sulla capacità strutturale del Movimento di proporsi credibilmente alle amministrative che si terranno quest'anno nelle tre più grandi città italiane. Se alle criticità il Movimento è in grado di opporre la sola prassi dell'espulsione, allora il futuro è tutt'altro che roseo e la provocatoria invocazione "onestà, onestà", risuonata nell'aula del consiglio comunale di Quarto, e proveniente dal pubblico di militanti del Partito Democratico, ha finito per essere un amaro contrappasso, una grottesca inversione di ruoli.

Ciò che è accaduto a Quarto, ma qualche giorno fa anche a Gela (mi si potrebbe obiettare che le giunte guidate dal Movimento sono 16 e che non è giusto citare solo i casi critici: rispondo che sono i casi critici a mostrare le potenzialità di un movimento politico), ci dice chiaramente che le espulsioni non servono a creare gli anticorpi necessari per amministrare realtà complesse. Mi domando, infatti, cosa accadrà se e quando il Movimento dovesse governare realtà metropolitane in cui politica è giocoforza compromissione, nel senso positivo del termine di dover condividere decisioni importanti anche con altre forze sociali e più in generale con il territorio. Di fronte alle accuse, che ci sono e che ci potrebbero essere, non si può rispondere: voi siete peggio di noi. Non funziona così, i conti non tornano: se il nuovo è solo sentirsi migliori di quello che c'era prima, non è detto che questo sentimento basti a creare le condizioni per essere in grado di amministrare. Io stesso, quando il Movimento 5 Stelle vinse a Quarto, pensai e parlai di un successo del voto di opinione, in un contesto storicamente condizionato dagli interessi della camorra. Invece oggi il caso Quarto rischia di confermare nel cittadino l'idea che la politica in Italia viva solo nelle possibilità di ricatto e che non si possa uscire da questa logica. Rischia di confermare l'idea che non esista davvero la possibilità di evitare di candidare soggetti che prima o poi potrebbero risultare impresentabili. Ma questo non è vero: la conoscenza del territorio, insieme a strutture interne democratiche di pesi e contrappesi, sono le uniche prassi sicure di selezione e metterebbero al riparo da procedimenti di espulsione tipici di una logica da imbonitore. Invece il caso Quarto, per mancanza di competenze e di conoscenza del territorio, finisce per confermare la convinzione distruttiva che viviamo in una democrazia strutturalmente corrotta e arretrata, dove nessuno può ergersi a moralizzatore, perché i giustizieri, prima o poi, finiscono giustiziati. Chi può escludere oggi che l'inconveniente verificatosi a Quarto non possa ripetersi a Roma, a Milano o a Napoli?

E se dovesse capitare di nuovo? Se altre criticità dovessero riguardare la figura del sindaco eletto o di un importante assessore - a oggi nulla sappiamo sulla identità dei potenziali candidati e anche questa è vecchia, cattiva politica - cosa ha da proporre come rimedio politico il Movimento, oltre all'espulsione? Che sarà anche catartica, ma che non risolve i problemi enormi di realtà complesse.

La fedina penale immacolata non è sufficiente a evitare futuri imbarazzi: il boss Zagaria ha utilizzato come suoi referenti persone che lo avevano denunciato per racket e che quindi indossavano abusivamente la maglia dei "giusti". Le mafie da anni cercano di utilizzare persone senza precedenti, cercano tra i parenti di vittime delle mafie, cercano insospettabili. Quindi come avere soltanto la garanzia della fedina penale? Bisogna munirsi di altri meccanismi di valutazione che non siano inquisitoriali ma semplicemente presenza sul territorio e approfondimento. Sono anni che diciamo quanto le mafie non siano più riconducibili allo stereotipo di coppola e lupara, e abbiano come elementi interni faccendieri dai curricula immacolati, il cui ruolo è proprio fare da collegamento tra l'imprenditoria legata ai clan e la politica. E allora è lecito chiedersi: se le mafie avvicinano il Movimento lo fanno perché è mafioso? Assolutamente no. Lo fanno perché con le sue logiche di reclutamento è facile infiltrarlo, perché sospettano che l'inesperienza di governo possa lasciare spiragli (come sarebbe accaduto a Quarto) per ottenere appalti, ricattare assessori, consiglieri comunali e sindaci. Le mafie stanno provando a infiltrare M5S perché dove la parola d'ordine è purezza e onestà, sanno benissimo come gettare ombre, come far cadere una persona, come bloccare un percorso politico. Se predichi onestà qualsiasi graffio ti farà cadere, mentre dall'altra parte resterà in sella chi il problema dell'onestà non se l'è mai nemmeno posto.

E se il Movimento non sarà in grado di imparare e trarre profitto dallo sbandamento di queste ore, il caso Quarto potrebbe pesare come un macigno sulle possibilità di offrire una credibile ed efficiente alternativa ai partiti tradizionali, nonostante i venti di tempesta giudiziaria che oramai soffiano sempre più impetuosi dalle parti di Palazzo Chigi. Eppure il meccanismo inquisitoriale che sottende la logica delle epurazioni, in continuità con la matrice puritana propria della tradizione comunista, è in contrasto con l'ammirazione che il Movimento 5 Stelle prova verso Sandro Pertini, riformista socialista che sull'esempio di Filippo Turati e Anna Kuliscioff, contrastò l'intransigenza bolscevica "o tutto si cambia o nulla serve", spingendo al contrario verso trasformazioni graduali per rafforzare i meccanismi di legalità e giustizia. Negli anni più bui furono loro che salvarono il sentire democratico e socialista dalle derive totalitarie.

Quando è il momento di governare e di assumersi responsabilità, il cortocircuito innescato dai processi sommari a mezzo blog a soggetti infedeli ti presenta il conto: oggi è fin troppo chiaro che non basta candidare incensurati per avere la certezza che non commettano reati nel corso del loro mandato. Ed è altrettanto chiaro che non basta espellere chi non rispetta le "regole" per preservare un percorso politico. Il rischio – non faccio ironia – è che ne resti uno solo, il più puro, che finirà per espellere tutti gli altri.

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10 gennaio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/01/10/news/saviano_su_quarto-130936246/?ref=HREC1-5
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« Risposta #125 inserito:: Febbraio 26, 2016, 11:50:04 am »


Il j'accuse di Saviano: "Napoli senza futuro, per il Pd è un buco nero e De Magistris ha fallito"
L'intervista.
A pochi mesi dalle comunali lo scrittore denuncia la mancanza di rinnovamento della politica. Compresi i 5Stelle

Di CONCHITA SANNINO
26 febbraio 2016
   
ROMA. "Lo sa il Pd nazionale come tratta i posti difficili del sud? Come buchi neri. E difatti tende a lavarsene continuamente le mani". Roberto Saviano non ha smesso di scagliare le sue analisi indigeste. "Quello che accade a Napoli e in Campania è esemplare, basta osservare l'offerta politica, l'assenza di un autentico rinnovamento, proprio quando si decide il destino di una capitale del Mezzogiorno sempre più povera, e più preda del crimine". Ma ne ha anche per gli altri. "I Cinque Stelle sono un'estensione della volontà di Casaleggio. E il sindaco de Magistris ha fallito l'unica missione che aveva". Uno sguardo non addomesticato né dalla fama, né dalla (periodica) lontananza. Lo scrittore guarda dall'America al Mezzogiorno e alla sua Napoli, una delle metropoli che a giugno va al voto amministrativo in una sfida che non si annuncia semplice per il Pd di Matteo Renzi.

Saviano, cos'è cambiato cinque anni dopo la svolta arancione che accomunò Napoli a Milano, Genova e Cagliari? Con quale animo andrebbe a votare, se fosse rimasto in città?
"Io non voto a Napoli perché da dieci anni vivo sotto scorta. Forse bisognerebbe chiederlo a chi vive in una città dove si spara quotidianamente, dove è quasi impossibile trovare lavoro, dove non si investe più. Purtroppo, ciò che opprime la vita di tanti cittadini, o li costringe ad andare via, non è cambiato".

De Magistris si ricandida: si è paragonato al Che, poi a Zapata. Cosa salva e cosa boccia della sua "rivoluzione"?
"Il sindaco aveva una missione e l'ha fallita. A fine mandato non è importante isolare cosa va salvato e cosa no, ma quale città si è ereditata e quale città si lascia. L'evoluzione delle organizzazioni criminali a Napoli non ha vita propria, ma si innesta nel tessuto cittadino e in quello politico e imprenditoriale. Se fino a qualche anno fa era quasi solo la periferia a essere dilaniata da continui agguati di camorra, ora si spara in pieno centro. E si spara per le piazze di spaccio. Non una parola sulla genesi di agguati e ferimenti. Non una parola sul mercato della droga che in città muove capitali immensi. Fare politica a Napoli e in Campania dovrebbe voler dire essere l'avanguardia della politica in Italia, avere idee, proposte, e tenersi lontani il più possibile dalle logiche delle consorterie".

Sul Pd ha detto, a Ballaró, che la "più credibile è la vecchia generazione, che con Bassolino ha clientele". Ma lui, osteggiato dai renziani, può raccontarsi come nuovo.
"Lo ripeto. Io vedo che il Pd nazionale si lava continuamente le mani della Campania e di Napoli. Buchi neri, così percepisce le realtà tanto difficili da gestire. Ecco perché non c'è nessuna proposta nuova, nessun percorso alternativo, ma tutto è lasciato ad assetti già esistenti. Cosa c'è da spiegare? È tutto evidente".

Il Movimento 5 Stelle appare ancora segnato dal caso Quarto: da 20 giorni non riesce a indicare il candidato sindaco di Napoli e a sedare malumori.
"Il Movimento 5 Stelle, che sul Sud poteva fare la differenza, sconta un vizio di forma: essere sempre meno un partito e sempre più un'estensione della volontà di Casaleggio. Così il codice d'onore, la multe e - vedi Quarto - le espulsioni assumono un profilo pericoloso perché antidemocratico: quello della cessione di sovranità attraverso la negoziazione privata. Per logica dovrebbe essere: se vengo eletto, credo di poter amministrare secondo le specificità del territorio. Ma nel M5S non è così, perché basta invece prendere una decisione in disaccordo col direttorio per essere cacciato via. Mi domando se gli iscritti al Movimento questa cosa l'abbiano compresa, se la ritengano giusta o la subiscano. La mia sensazione è che anche per loro la politica ormai sia solo comunicazione".

Cosa serve di più al futuro sindaco di Napoli?
"Attenzione costante. E progetti veri: da Roma, dall'Europa. Nessun politico, nessun partito può farcela senza un progetto nazionale e internazionale che sostenga la riforma della città. Chiunque creda di potercela fare inganna se e gli elettori".

Nella città dove i killer sono sempre più "bambini", gli intellettuali si dividono sulla temporanea esposizione a Roma d'una splendida opera del Caravaggio. Ha vinto il no. Lo chiedo a lei che ha fondato una corrente narrativa: ma Gomorra si può esportare e i capolavori d'arte no?
"Capisco la provocazione: un Caravaggio esposto a Roma avrebbe agito ottimamente da marketing per il turismo. Se poi è vero quanto ho letto, e cioè che il prestito avrebbe garantito fondi per una casa rifugio al rione Sanità per donne e bambini, allora credo che certe polemiche non solo siano sterili, ma anche dannose. Il Pio Monte della Misericordia, dove si trova il Caravaggio, è in via dei Tribunali, a due passi da Forcella, dove a Capodanno è stato ucciso un innocente. Mi viene da sorridere quando oltre al vincolo di inamovibilità si fa appello alla comprensione dell'opera solo nel contesto che in cui è inserito. Perché quel contesto è terribile e difficile per chi ci vive e per chi resiste".

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26 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/02/26/news/il_j_accuse_di_saviano_napoli_senza_futuro_per_il_pd_e_un_buco_nero_e_de_magistris_ha_fallito_-134258007/?ref=HRER1-1
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« Risposta #126 inserito:: Marzo 10, 2016, 06:23:18 pm »

Modesta proposta per salvare il sud
Quel che accade a Napoli presto potrebbe accadere anche altrove


Di ROBERTO SAVIANO
10 marzo 2016

MI ACCUSANO di non essere propositivo per Napoli: è vero, lo ammetto. Ci ho riflettuto a lungo e ho un consiglio. Un consiglio da dare ai napoletani e ai cittadini di altre realtà del Mezzogiorno. Organizzate un'inaugurazione.

Direi quasi: inventate un'inaugurazione. Il cantiere di una nuova stazione della metropolitana, una strada, un ponte, una mostra. Qualcosa che possa provare l'usurato assunto secondo cui l'Italia è ripartita. Fatelo anche se non è vero, magari allestite un palco, chiamate un cantautore a suonare, qualcuno che possa veicolare un messaggio positivo. Che non sia uno di quei rapper che raccontano di periferie desolate e straccione, no. Le note devono arrivare in alto ed essere melodiose. E poi invitate il presidente del Consiglio, nonché segretario del Partito democratico: vedrete che verrà, a lui piacciono le inaugurazioni, a lui piace tutto ciò che sa di ripartenza, di nuovo inizio. Lui ha sempre forbici in tasca pronte a tagliare nastri. Sono i problemi che lo turbano, che lo spingono sistematicamente a cambiare strada. È davanti ai problemi che tace e smarrisce la sua nota parlantina.

Ma non tendetegli tranelli, non parlate con lui di ciò che nel suo partito sta accadendo a Napoli: anzi, sta accadendo ovunque solo che a Napoli è più evidente che altrove. Lui che quel partito lo ha ereditato, lui che ne voleva rottamare i dirigenti, se ne laverà le mani. Meglio tagliare nastri e tenersi lontano dai disastri, anche quando si consumano in casa propria.

E così intervistato a Genova da Ezio Mauro nel 2015, dopo la sconfitta del Pd alle regionali liguri, non una parola sugli immigrati a cui era stato distribuito l'euro, ma una frase chiara sulle primarie: "Il Pd deve avere il coraggio di dire se le primarie sono lo strumento che va ancora bene o no". Un anno dopo la risposta non è ancora arrivata. Il Pd non è un'entità astratta, mi verrebbe di dire a Renzi, ma ha un segretario, ed è lui a doverci dire, una volta per tutte, se un istituto non prescritto da nessuno, che volontariamente è stato introdotto per scegliere democraticamente e dal basso i candidati, può ancora andare bene dopo i brogli di Napoli nel 2011, dopo i ricorsi di Genova nel 2015 e dopo gli "euro per le donazioni" a Napoli di domenica scorsa.

In questo momento è lui il Pd e non altri. È da lui che aspettiamo questa risposta. Lui, che ha conquistato il Pd proprio grazie alle primarie, non dovrebbe accettare che il suo partito le riduca a quella farsa di democrazia che abbiamo visto a Napoli.

Un euro. Un euro per la donazione. Si difenderanno dicendo: "Figuriamoci se possiamo comprare un voto con un euro!". Vero, non se ne fanno niente. Quell'euro serviva ad accedere al diritto di votare. A Napoli con un euro ci compri una pizzetta, una graffa (come chiamiamo le krapfen), dolce di cui i napoletani (ed io per primo) vanno pazzi. Ci compri mezza zeppola di san Giuseppe. Ma un voto no. Un voto lo compri facendo promesse. Promettendo una casa, un posto di lavoro, un posto auto. Promettendo ciò che non puoi dare perché non è in vendita. Un euro non rappresenta ovviamente il costo di un voto alle primarie, ma è la prova dell'esistenza di un'organizzazione rodata, di un sistema di potere e di controllo del voto di cui Antonio Bassolino ora vittima, fu un tempo creatore.

Questo vale un euro, nulla e insieme la consapevolezza che esistono pacchetti di voti che da destra a sinistra si muovono per inquinare le acque, per falsare il normale svolgimento di ogni cosa, elezioni e persino primarie.

A Napoli il Pd meriterà di perdere perché non ha più credibilità. E rischia di riconsegnare la città a De Magistris: un sindaco con il maggior numero di deleghe nella storia dei sindaci italiani. Un sindaco che si vanta di aver riempito la città di turisti, ma che avrebbe perso parte dei fondi stanziati dall'Unione Europea e dall'Unesco per la riqualificazione del centro storico per ritardi colossali nei lavori. Sito che rischia di perdere la tutela, nonostante la sua enorme bellezza, per lo stato di degrado in cui versa e che l'Unesco definisce oramai "sito a rischio". Un sindaco che non è un buon amministratore, ma che è senza dubbio una persona onesta e per questo (e forse unico motivo) potrebbe essere rieletto. Un sindaco che, dopo lo scempio di queste primarie, potrà poi contare sui voti di chi, ora deluso, era pronto per votare per il Pd.

Le polemiche di queste ore, i trucchi di domenica e il silenzio di Renzi scavano ferite profonde, in una città che drammaticamente va avanti, che sopravvive a ogni nuovo giorno. L'altro ieri un vigile urbano è stato ucciso a Ponticelli con modalità mafiose. Centrato da tre colpi d'arma da fuoco in un quartiere che solo nell'ultimo mese ha contato tre omicidi. Qualche giorno prima è stata sventata una tragedia nel centro sportivo di Marianella-Piscinola, in un campetto di calcio sorto su un terreno comunale sequestrato qualche anno fa alla camorra. Un ordigno rudimentale, il secondo attentato alla struttura, azionato quando sul campo c'erano 15 bambini. Ne avete avuto notizia? Pochi, pochissimi ne hanno parlato. Silenzio.

Scampia, Piscinola, ecco dove sono stati girati i video da Fanpage che documentavano il pagamento di un euro per il voto a Valeria Valente. Dove la camorra ci mette un attimo ad arruolare ragazzi pronti a tutto, tanta è la miseria. Dove da anni chiedo ai giornali nazionali di spostare le loro sedi perché possano raccontare cosa accade davvero in una delle città più importanti d'Italia. Dove da anni imploro la politica locale di spostare i suoi uffici, perché vi sia luce e perché diventino il cuore della città. Affinché si possa voltar pagina. Altrimenti Napoli rischia di diventare un'avanguardia del nostro Paese: quel che oggi accade qui, accadrà presto anche altrove. Per questo è impossibile accettare l'inerzia del segretario del Pd davanti a questo piccolo, grande, scandalo. Il silenzio di oggi genera la cattiva politica del futuro.

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10 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/03/10/news/modesta_proposta_per_salvare_il_sud-135143431/?ref=HRER2-1
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« Risposta #127 inserito:: Aprile 02, 2016, 10:47:26 am »

Una dose di Dante Virgili per renderci immuni all'odio
Lo scrittore spiega perché rileggere il libro più controverso


Di ROBERTO SAVIANO
02 aprile 2016

Odio. Odio vivo, sanguinante, pulsante. Odio vero, non gioco di prestigio, sotterfugio letterario, pigro sfogo di penna. Odio, odio, odio. Scriverlo tre volte di seguito forse basterà nella somma a far intuire cosa ha scritto e chi è stato Dante Virgili. I francesi, in letteratura, sanno quando si parla d’odio vero, con che cosa si ha a che fare. Louis-Ferdinand Céline, che non abbisogna altro che d’esser citato, Blaise Cendrars e la sua mano mozza, artefice di pagine dove l’odio umano vibra in un incredibile meccanismo armonioso, e il padre assoluto degli odiatori, Charles Baudelaire, sono autori capaci d’usare la parola come arnese acuminato contro tutto ciò che si pone a portata d’affondo, di staffilata. L’odio totale non ha un obiettivo preciso, o un piano d’accusa, è un’irradiazione circolare che investe ogni elemento e soprattutto l’origine del proprio odio: se stessi. Nell’attività dell’odiatore letterario vi sono oggetti prediletti, preferenze di distruzione, precedenze di disprezzo ma non v’è una chiara gerarchia e ancor più non v’è una politica dell’odio, una possibilità di soluzione dialettica tra odiatore e odiato. È una scrittura fatta col martello!

Torna ora in libreria Dante Virgili, non me l’aspettavo, credevo ormai che non avrebbe mai più rivisto scaffale, che sarebbe rimasto nelle mani di chi già sprovvedutamente ne avesse preso rara copia. Detto ciò, prendete le pagine di Dante Virgili e schiacciatele con un pestello in un robusto mortaio di pietra viva, dopo pochissime pestate nel fondo del mortaio troverete un liquido bilioso, denso, simile a un bolo di catarro narrativo e rigagnoli di sangue, un pasticcio d’ossa umane e ali di falena. Non mi sovviene altra figura descrittiva per meglio rappresentare la scrittura di questo osceno narratore ritrovato. Il nome Dante Virgili è sconosciuto ai più. Anche gli addetti ai lavori non ricordano questo strano nome, anzi si arrovellano nel cercare di venire a capo di uno pseudonimo così assurdo da sembrare banale. Nessuno pseudonimo. Dante Virgili è il nome reale dell’unico scrittore “nazista” italiano, autore di un solo romanzo pubblicato (e con diversi pseudonimi autore di molti romanzi western e libri per ragazzi), personaggio solitario, ipocondriaco, di lui non esiste neanche una fotografia. Quando è morto nessun familiare ha voluto spendere un obolo per fargli il funerale, nessun amico ha sofferto, nessuna lacrima, nessuna presenza. Dante Virgili faceva schifo a tutti e tutti gli facevano schifo, o quasi.

Nel 1970 la Mondadori pubblica un romanzo, La distruzione, in copertina campeggia il volto di Adolf Hitler in una sua smorfia tipica, costruita con una molteplicità di colori a chiazze. Una grafica particolare per un testo davvero singolare. Il libro è provocatorio, dannatamente tormentato, un inno disperato al nazismo e al Führer come negazione assoluta di un presente decadente e decaduto. Il libro di Dante Virgili è una cassa di nitroglicerina pronta a esplodere. Sogna stroncature, si immagina fiaccolate contro di lui, raccolte di firme che lo indichino come bersaglio. Invece, il romanzo è ignorato. Gli ambienti politici non lo considerano, i cenacoli intellettuali non lo detestano, non lo stroncano. Virgili e La distruzione sono riassorbiti nell’oblio.

Il protagonista è un uomo brutto, che lavora come correttore di bozze in un giornale squallido, burocratizzato, circondato da mediocrità e stupidaggine. Sogna la fine dell’umanità, gode nell’immaginare la tragedia ultima di una guerra nucleare che possa far terminare «l’esperimento umano, come quello dei dinosauri». Il distruttore non ha famiglia, non ha moglie né figli, osserva la politica internazionale nella speranza che i tempi per il conflitto nucleare si velocizzino, che la catastrofe sia prossima. Il distruttore ha nostalgia del Reich, ammira la Germania di Hitler, adora le possenti armate tedesche, ha svolto il ruolo di traduttore per le Ss, durante l’occupazione tedesca in Italia, ha assistito estatico a Berlino a un discorso del Führer. Eppure Dante Virgili non sembra essere un intellettuale conservatore. Predilige il suono del cingolato, la marcia della Wermacht, la protervia del soldato; gli scenari di sangue che appaiono nella sua mente gli ricordano, nella melma della pigrizia, cosa può ancora significare essere uomo. «Ho evitato la mediocrità. Moglie scialba prole male allevata. Accettando la pura sopravvivenza non mi sono compromesso. Vivendo in attesa della vendetta non mi sono alienato. Sono ancora IO... In ultimo un conflitto nucleare mi salverà. È fatale che scoppi prima o poi. DEVE scoppiare. Si strazieranno a vicenda bruceranno vivi nel loro calderone di streghe. Si macereranno in un’orgia di fuoco».

La libidine e la Germania sono due cardini, due ossessioni che tempestano il romanzo. Il sadomasochismo, spinto sino ad aneliti pornografici, è una costante per Virgili che lo usa con un accento misogino. Il distruttore considera la donna null’altro che la vita trionfante che si manifesta in tutta la sua versatilità. Trionfo della vita, che nel tempo del capitalismo significa trionfo della merce, attrazione per il danaro, rapporti finalizzati all’accumulare finanze. Il distruttore vede nella possibilità di pagare le donne un mezzo per dominarle, per esperire il potere su quegli esseri che essendo lui squattrinato, brutto e trascurato, non si avvicinerebbero mai.

Nel suo libro Cronaca della fine Antonio Franchini racconta della vicenda umana e intellettuale di Dante Virgili, della complicatissima vicenda editoriale dei suoi scritti, delle sue manie di tormentare i funzionari della Mondadori. Molti funzionari si erano legati a Virgili, nonostante la sua insistenza, antipatia, spesso tracotanza. Insomma Virgili, pur avendo tutte le caratteristiche del solito aspirante scrittore, scocciatore e rompiballe, aveva lasciato traccia di sé nella casa editrice.

Il suo primo romanzo fu pubblicato quasi come tentativo provocatorio, l’altro testo fu bocciato, eppure quando Dante Virgili si presentava, fisicamente, alla Mondadori, un capannello di persone gli si raccoglieva d’intorno. Cosa vedevano questi funzionari nelle pagine e nella vita di Virgili? Solo curiosità per un mostro metropolitano, nascosto al terzo piano di un qualsiasi palazzo a imbrattare fogli? Giuseppe Genna, Michele Monina e Ferruccio Parazzoli scrissero un bel libro dal titolo I Demoni dove il personaggio Dante Virgili (modificato in Dante Virgilio) è mostrato in tutto il suo aspetto mitico, amalgamato agli spettri dostoevskijani di cui sembra essere figlio abortito. Proprio la magica impubblicabilità di Virgili, rende le sue pagine così importanti e necessarie, ma d’una necessità che trascende il piano d’un romanzo. Le parole di Virgili marchiate a fuoco su pagine bianche, potranno anche esser pubblicate, ma manterranno la loro labirintite scompaginata, l’accumulazione parossistica d’odio ed efferatezza, la tenerezza nascosta di un’umanità in letargo. Virgili non è da leggere ma da iniettare.

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02 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2016/04/02/news/una_dose_di_dante_virgili_per_renderci_immuni_all_odio-136727610/?ref=HRER2-2
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« Risposta #128 inserito:: Aprile 08, 2016, 08:44:12 pm »

Quei pusher dell'Is arruolati come kamikaze
In comune i terroristi di Parigi e di Bruxelles non hanno solo il Jihad.
Prima di fare i kamikaze vivevano di criminalità. Ecco come hanno varcato quel confine

Di ROBERTO SAVIANO
03 aprile 2016
   
BRAHIM Abdeslam, il terrorista che la sera del 13 novembre si fece saltare in aria davanti alla brasserie di boulevard Voltaire a Parigi, era noto alle forze dell'ordine per furto e traffico di droga, reati per i quali era già stato processato. Suo fratello Salah, che era riuscito a scappare ed è stato arrestato quattro mesi dopo a Molenbeek, l'ormai famoso quartiere "arabo" di Bruxelles, nel 2010 era finito in prigione in Belgio per rapina insieme ad Abdelhamid Abaaoud, considerato la mente degli attentati nella capitale francese e rimasto ucciso durante l'operazione di polizia a Saint-Denis a novembre. I fratelli Abdeslam, nel 2013, a Molenbeek avevano preso in gestione un bar diventato la loro base per lo spaccio di hashish, e il locale era stato poi chiuso per traffico di droga. Anche i fratelli Khalid e Ibrahim El Bakraoui, due dei kamikaze degli attentati di Bruxelles, avevano precedenti per spaccio di droga e rapina. Ayoub El Khazzani, l'attentatore del treno Amsterdam-Parigi bloccato da alcuni passeggeri nell'agosto del 2015 prima di compiere una strage a colpi di kalashnikov, era stato invece condannato da un tribunale spagnolo: per traffico di droga. Chérif Kouachi, uno dei terroristi dell'attentato a Charlie Hebdo , aveva vissuto nella periferia nord-est di Parigi, dove droga e piccoli crimini erano la sua occupazione principale prima di diventare jihadista insieme al fratello Saïd.

I terroristi islamisti hanno quasi sempre un passato da pusher o da criminali comuni, eppure questo non diventa tema di dibattito. Sembra che la cosa sia una pura casualità. Passano da esperienze di criminalità organizzata a esperienze di prassi terroristica senza modificare i propri comportamenti, sfruttano l'esperienza criminale per continuare a spacciare e riciclare danaro allo scopo di sostenersi e per continuare ad approvvigionarsi di armi, prima usate nei conflitti tra bande, ora negli attentati. Tutto questo incredibilmente risulta secondario nel dibattito internazionale sulle stragi. Come mai? È difficile individuare la chiave giusta, perché forse neanche esiste, ma è doveroso sgombrare il campo dai travisamenti che hanno viziato il racconto degli attentati terroristici avvenuti in Belgio il 22 marzo 2016 e prima ancora in Francia il 13 novembre 2015, quelli per cui noi europei, utilizzando una metafora scacchistica, saremmo in una situazione di potenziale scacco al re. L'errore è quello di trattare i gruppi che progettano, preparano e compiono attentati esclusivamente come un'emanazione diretta del Califfato, come una sua declinazione, senza riflettere sullo specifico delle loro azioni. Lo sguardo di molti analisti si sofferma sulla dottrina fondamentalista, su come si diventa kamikaze; e anche quando si approfondisce, a contare è essenzialmente il dato militante, la pratica religiosa che diventa pratica terroristica e l'incidenza di tutti questi fattori nel contesto delle seconde generazioni di immigrati. Si stenta a comprendere che la strategia dell'Is nei territori occupati dal Califfato, e altrove, è ascrivibile a prassi che siamo di solito abituati ad analizzare e comprendere - e nei tribunali a processare - con riferimento alle organizzazioni criminali in senso stretto.
Generazione Is, dalle banlieue alla jihad. Saviano: "Criminali prima che terroristi"
L'arresto di Salah Abdeslam costituisce, questo sì, un punto di non ritorno, poiché ci aiuta a leggere diversamente la storia di questi giorni. Il quartiere di Molenbeek a Bruxelles, dove Salah si nascondeva - pur essendo un quartiere con tante anime, dunque non ascrivibile all'idea di ghetto in senso stretto - non lo trattava come un corpo estraneo. Anzi, al suo arresto ha vissuto una sorta di ribellione, come accade nelle periferie del mondo quando a essere arrestati sono giovani affiliati ai clan locali. Accade in Italia, in Serbia, in Messico e oggi, con forme e modalità diverse, in Belgio. Molenbeek è un quartiere vicinissimo al centro di Bruxelles, ci vivono moltissimi immigrati provenienti dal NordAfrica e dai paesi arabi, ospita ventidue moschee e il vicesindaco, Ahmed El Khannouss, ha dichiarato al Guardian che non è nei centri ufficiali che avviene il reclutamento, ma nei luoghi di preghiera clandestini. Ciononostante, il quartiere ha risposto con fastidio all'arresto di Salah Abdeslam, lanciando salsa di pomodoro verso i militari. Su questo vale la pena soffermarsi, perché quando in un quartiere capita che ci sia chi si mantiene con spaccio di droga e ricettazione, quando un quartiere è attraversato da immigrati, talvolta irregolari, ecco che un ricercato diventa un problema perché attira polizia e retate. Non è casuale che, negli anni Settanta, i brigatisti rossi, come i militanti di Action Directe o della Raf, spesso sparissero in quartieri borghesi, non solo perché loro luoghi di origine ma anche perché, se avessero cercato riparo in quartieri popolari che vivevano prevalentemente di criminalità e fossero stati identificati, sarebbero stati immediatamente "invitati" ad andar via. Al contrario, quando capitava che venissero accolti, accadeva per autorizzazione dell'organizzazione criminale egemone. Qui c'è qualcosa di diverso: un quartiere (una parte di esso) che sembra aver difeso e tutelato un ricercato considerandolo un pericolo ma non un corpo estraneo.

La pratica mafiosa è esattamente quella che utilizza l'Is nella protezione dei suoi militanti; i quartieri a maggioranza islamica stanno con loro pur non condividendone tattica e strategia di guerra, pur guardando con fastidio al loro universo di senso. E i militanti dell'Is, agli occhi dei ragazzi islamici - che non sono simpatizzanti del radicalismo, che non ucciderebbero mai per motivi religiosi, né si farebbero mai saltare in aria, o che magari neppure frequentano moschee - diventano amici sventurati che hanno superato una linea di demarcazione. Non c'è consenso, ma c'è empatia: sono compagni che sbagliano. "Questi giovani che si arruolano nell'Is sanno più di furti d'auto che di Corano", ha scritto lo scrittore belga David Van Reybrouck riferendosi ai terroristi. E allora cosa sta pagando l'Europa? E cosa stanno pagando Francia e Belgio? Il fallimento assoluto dell'aver considerato il crimine una sorta di male marginale, da tollerare fino a quando si fosse mantenuto dentro i confini della periferia: spacciano, si ammazzano tra di loro e vanno bloccati solo quando alzano il tiro, escono dal recinto e arrivano al centro delle città. È un fallimento che ha una radice anche negli errori commessi sul piano urbanistico negli anni Settanta, spesso ascrivibili non a governi di destra, bensì a esecutivi socialisti o socialdemocratici. Progetti teoricamente affascinanti, figli di idee progressiste, ma che da soli non potevano evitare che i nodi venissero al pettine.

Il fallimento si è realizzato quando le nuove generazioni cresciute ai margini dell'Europa hanno preso coscienza del disinteresse di fondo per i loro destini da parte delle società che li ospitavano. Perditi pure, purché tu lo faccia lontano dai miei occhi. Quando hanno finito per considerare le loro vite già perdute poiché insignificanti - con l'unica opzione di far denaro con il crimine comune - alcuni hanno reagito ritenendo di essere nel giusto a combattere per una causa comune: uno Stato Islamico Globale. Un'idea grande, un'utopia che condivisa diventa l'unica possibilità di riscatto. Questa logica aiuta a entrare in una dialettica con la morte assolutamente quotidiana, ecco perché il salto tra il crimine comune e il fondamentalismo islamista non è affatto così improvviso: la linea di demarcazione c'è, ma basta un passo per superarla.

La storia delle cellule fondamentaliste in Europa viene invece raccontata secondo l'interpretazione suggerita dallo stesso Califfato, che riesce agevolmente a farci credere quanto a esso funzionale. E se chi sposa la causa, la vita se la gioca come su una scacchiera per cercare emancipazione dal ghetto, per ribellarsi al ghetto, la scelta del fondamentalismo arriva in fondo come un salto quasi obbligato e non è diversa dalla scelta della pratica criminale. E se dai contrasti derivanti dalla lotta di classe l'Europa credeva di essersi liberata, eccoli che rientrano dalla porta principale, nelle manifestazioni prima di crimine organizzato e poi di fondamentalismo islamista, pratiche che in determinate realtà finiscono per coincidere.

Al di là degli addestramenti in Siria, chi si "arruola" sa esattamente come muoversi perché ha ben presente la pratica criminale: riconosce poliziotti in borghese, sa come gestire l'ansia, sa dove acquistare armi, come farle circolare, sa come muoversi sui mercati clandestini. E in ultimo, sa come sfruttare le maglie, fin troppo larghe, attraverso cui entrano i capitali che finanziano le cellule terroristiche. Sa riconoscere le incompetenze (e la corruzione) delle polizie in Francia e in Belgio, le misura da decenni attraverso la competizione che ha con loro nel controllo del territorio. Il Belgio paga una strategia di assoluta tolleranza del traffico criminale, lasciato proliferare entro i limiti della periferia, dove faide e conflitti venivano considerati utili per una sorta di autocontrollo, un "uccidersi tra loro" in cui la polizia interveniva a tagliar le cime troppo alte delle piante criminali ma mai a estirpare la radice. Traffico di droga e di armi da un lato, riciclaggio ed evasione dall'altro sono state le debolezze del Belgio più di qualsiasi altra cosa. Ma come può un narcotrafficante diventare terrorista? Domanda ingenua.

Dal Messico all'Ucraina passando per l'Italia, le organizzazioni mafiose vivono una sorta di semplicistica interpretazione da parte dell'opinione pubblica, ossia la convinzione che ammazzino solo coloro che rientrano nelle loro logiche rivali e di opposizione. Nulla di più falso: le mafie uccidono da sempre innocenti, per errore, per caso, o per terrorizzare. Quindi formano persone in grado di perpetrare violenza. Ma il tema non è questo, è l'esistenza di generazioni europee - così come africane, sudamericane e asiatiche - che vivono con l'idea che ogni miglioramento economico coincida con il rischio del carcere, con la prospettiva di una vita meno che mediocre ma protetta o una vita con possibilità di crescita economica e di responsabilità ma ottenuta uccidendo e mettendo in conto di poter essere uccisi. A Napoli come a Molenbeek il sogno di fare soldi significa giocarsi la vita. In molti quartieri europei non c'è per gran parte dei giovani altra strada di crescita che rischiare la vita, ammazzare, essere ammazzati o prendersi decenni di galera. E qui accade il cortocircuito. Quando si decide di morire e di non fare la fine dei propri compari in carcere. Quando si decide di morire non in una faida ma uccidendo e dandosi un senso maggiore, una fama maggiore, un riconoscimento. Quando si decide di morire per il Jihad. Ecco che, vista da questa prospettiva, la morte in un attentato suicida non è una scelta così distante dalle vite di una generazione che ha il proprio corpo come unico capitale e la violenza come moneta da spendere nel commercio quotidiano.

Dopo gli attentati di Parigi di novembre è apparso su Le Monde un editoriale a firma di Olivier Roy, politologo e profondo conoscitore dell'Islam, che ha fatto molto discutere. Riguardo agli attentatori kamikaze, Roy ha parlato di rivolta generazionale e nichilista - qualcuno potrebbe pensare a un ossimoro - che nasce non nel radicalismo religioso, ma come conseguenza degli aspetti più disumanizzanti della globalizzazione, tra cui la frustrazione e l'emarginazione che vivono i figli delle seconde generazioni di immigrati. Per Roy non ci troviamo di fronte a una rivolta dell'Islam o dei musulmani, ma a una rivolta di giovani che hanno in comune l'isolamento dalla società in cui sono cresciuti e la voglia di rivincita su questa. Che la loro battaglia abbia poco a che fare con l'ortodossia religiosa è opinione anche del professore belga Rik Coolsaet, che studiando i motivi che spingono i giovani occidentali a unirsi all'Is ha notato che il loro processo di reclutamento avviene molto velocemente e non richiede una vera e profonda radicalizzazione: a differenza degli estremisti e dei terroristi del passato, i foreign fighters che si arruolano oggi lo fanno spesso con una superficiale conoscenza sia della religione sia della politica, e hanno molta più conoscenza della vita sulla strada che di quella in moschea.

L'Europa è disunita su tutto, lo è stata e lo è pericolosamente ancora, ma oggi al pettine è venuto il nodo degli errori commessi nel contrasto a realtà criminali che sono divenute il brodo di coltura di un tentativo di eversione dei valori fondativi del secondo dopoguerra. La politica di molti governi, anche "progressisti", si è limitata ad attendere che i criminali si sterminassero tra loro, risolvendo problemi che si è sempre evitato di affrontare. Non ha funzionato, e la cronaca di questi mesi ha presentato un conto drammatico. La lotta europea all'Is sta fallendo anche sul piano della comunicazione. Intervistato dalla radio newyorchese Wnyc , Nicolas Henin, giornalista francese che nel 2013 venne rapito dall'Is e tenuto prigioniero per dieci mesi in Siria, ha spiegato che per combattere l'Is bisogna distruggere la sua narrazione, il mito che è riuscito a crearsi grazie a un'accurata opera di comunicazione. L'Is ha costruito una narrazione mitologica vincente che colpisce e cattura l'attenzione dei giovani musulmani occidentali, i quali decidono di arruolarsi nelle sue file prima di tutto perché vogliono diventare eroi, diventare famosi, diventare qualcuno in una società che non gli ha dato altre opportunità, proprio come la propaganda jihadista gli prospetta. Per questo, secondo Henin, l'unico modo per contrastare tale meccanismo è costruire altri eroi, un altro film, una narrazione vincente da contrapporre a quella dell'Is. Per contrastare i terroristi, più che usare le bombe l'Occidente deve costruire una propria narrazione che uccida la loro.

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03 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/04/03/news/dell_is-136788111/?ref=HREC1-10
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« Risposta #129 inserito:: Aprile 28, 2016, 06:14:21 pm »

La politica della resa
Il sud sta morendo. Il Sud è già morto.
Nell'agenda di questo governo, il Sud è stato affrontato con promesse politiche, con proclami, mentre nel mondo reale sono altre le forze che agiscono.
Per capire il Paese bisogna studiare le organizzazioni criminali approfonditamente

Di ROBERTO SAVIANO
28 aprile 2016

IL SUD sta morendo. Il Sud è già morto. Nell'agenda di questo governo, il Sud è stato affrontato con promesse politiche, con proclami, mentre nel mondo reale sono altre le forze che agiscono. Per capire il Paese bisogna studiare le organizzazioni criminali approfonditamente. Il loro assioma di partenza è semplice: sia che tu voglia fare politica, sia che tu voglia fare impresa, devi sporcarti. Se vuoi emergere, devi sporcarti. Se vuoi guadagnare, devi sporcarti. Se non vuoi essere nulla - zi' nisciun (zio nessuno), come si dice dalle mie parti - allora puoi essere immacolato e onesto. Un principio che deriva da una convinzione altrettanto chiara: nessuno è pulito, nessuno può esserlo, se vuole crescere economicamente. E questo è il motivo per cui il primo gesto davvero efficace contro le mafie sarebbe aiutare gli imprenditori onesti.

L'inchiesta su camorra e Pd in Campania ruota intorno a Alessandro Zagaria, l'uomo che, secondo le accuse della Dda di Napoli, gestisce il meccanismo di mazzette per ottenere l'appalto di ristrutturazione del palazzo Teti-Maffuccini a Santa Maria Capua Vetere, si interfaccia con la politica e con le aziende, cerca - secondo le accuse - un appoggio nel presidente del Pd campano, Stefano Graziano, che vuole trasformare nella sua testa di ponte con Roma. Graziano avrebbe sbloccato per esempio fondi per circa due milioni di euro per il restauro del palazzo e avrebbe ricevuto sostegno elettorale "con l'impegno di porsi come stabile punto di riferimento politico e amministrativo del clan dei casalesi". Così si legge nell'inchiesta della Dda di Napoli, coordinata da Giuseppe Borrelli. Ma come può un imprenditore così esposto avere credito? Essere frequentato e ascoltato da politici e imprenditori? Vincere gare d'appalto?

Nel 2008 il pentito Oreste Spagnuolo racconta (e le sue dichiarazioni furono ritenute attendibili) che Giuseppe Setola, il camorrista che stava portando avanti una strategia terroristica (sua la strage degli africani di Castel Volturno), voleva entrare nell'affare del grande porto. Per ingraziarsi il boss Michele "Capastorta" Zagaria gli regalò un cesto con prosciutti, champagne e una collana d'oro. Un gesto simbolico come richiesta di benevolenza. Per far arrivare il regalo a Zagaria, all'epoca latitante, Setola lo fece recapitare proprio al ristorante "Il Tempio", di Ciccio Zagaria, padre di Alessandro. Per la cronaca, il ristorante girò il pacco alla sorella del boss, ma Michele Zagaria rifiutò il dono, perché Setola aveva messo le zampe nella distribuzione latte e nei lavori del biogas, che erano suo monopolio: era quindi molto indispettito. E ancora, nel 2014 il pentito Massimiliano Caterino, ex uomo di Michele Zagaria, raccontò che lo stesso ristorante cucinava i pasti per il boss. Grazie a questa devozione, Alessandro Zagaria vinse appalti per mense scolastiche, bar universitari e egemonizzò il settore della ristorazione. Con precedenti e sospetti del genere, poteva la politica capire che non era il caso di avere un dialogo con Alessandro Zagaria? O doveva aspettare condanne in Cassazione?

La stessa cosa capitata a Roma con Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. Se queste persone avessero fatto concorso per un posto da uscieri in una scuola sarebbero state bloccate, non avrebbero nemmeno potuto fare gli autisti: qualsiasi società avrebbe rischiato l'interdittiva antimafia. Come sono potuti diventare interlocutori della politica, gestire voti e appalti, intimidire e decidere?
Il presidente del pd campano, Stefano Graziano, è indagato per il reato di concorso esterno in associazione camorristica: pare abbia chiesto e ottenuto appoggi elettorali nelle ultime consultazioni per l'elezione del Consiglio regionale. Ora la giustizia farà il suo corso, bisognerà capire se Graziano era consapevole o ingenuo "utile idiota". Ma al di là di come finirà questa vicenda sul piano giudiziario, la questione è prima di tutto politica. Se venisse confermato che questi mondi criminali si sono organizzati per fare avere voti e sostegno, e che Graziano ha accettato l'appoggio pensando che non si trattasse di camorra, ma di normale logica provinciale di scambio di favori e protezioni, sul piano politico sarebbe ancora più grave.

La politica viene sostenuta dalle mafie a sua insaputa. È tollerabile? È credibile? La camorra così fa, è la sua astuzia più grande quella di far credere che non esiste, che è tutta un'esagerazione, che qui si tratta solo di normali affari e favori. La vicenda di Santa Maria Capua Vetere non ha nulla di straordinario, perché incarna un meccanismo tipico. La politica ha bisogno dell'impresa, l'impresa ha bisogno del danaro pubblico, il danaro pubblico si ottiene facilmente attraverso l'accesso al potere criminale, che può vantare capacità industriale, liquidità finanziaria, potenziale intimidatorio e controllo dei voti. Il potere criminale minaccia e ammazza senza temere ripercussioni, considera il business qualcosa per cui si può morire e uccidere; grazie a questo ha la capacità di ottenere velocizzazioni burocratiche e riesce quindi a snellire anche i processi. Appoggiarsi alla camorra significa avere il controllo di tutti i passaggi. La camorra lubrifica ogni singola parte dell'ingranaggio. A intervenire in questo meccanismo è anche Michele Zagaria, il boss-imprenditore dagli affari tentacolari (il cuore delle sue imprese è in Emilia Romagna, il fratello ha costruito un palazzo in centro a Milano), ma soprattutto l'uomo che ha intuito meglio di ogni altro un paradigma fondamentale: il miglior modo di fare impresa mafiosa è sostenere l'antimafia.

Storica dimostrazione di questa strategia si ha quando Zagaria permette a due imprenditori del suo giro di denunciare estorsioni da parte di due presunti camorristi. Questi vengono identificati e condannati grazie alla dichiarazione degli imprenditori, che assumono un'immagine antimafia, ma in realtà continuano a essere affiliati al clan. Analogo è il metodo utilizzato da tutte le mafie in questi anni: con il Pd, con i Cinque Stelle, con tutta quella politica che si dichiara contro la mafia e persino con le associazioni antimafia. Se avessero potuto - e la 'ndrangheta c'è riuscita - avrebbero lavorato sicuramente anche con giudici antimafia. Basti pensare che molte famiglie camorriste e mafiose oggi si fanno difendere da avvocati, spesso proprio ex magistrati, che provengono da un contesto antimafia.

Ma il caso di Santa Maria Capua Vetere evidenzia anche un altro problema: l'incapacità del governo di modificare i meccanismi criminali. Qualunque sarà il risultato giudiziario di questa inchiesta, è evidente che la politica non è in grado di fare autodiagnosi, non riesce più a capire quando diventa partner della camorra. Ma l'aspetto più tragico della vicenda è che la politica non riesce più a difendersi senza la magistratura: rimuove, o costringe alla sospensione, i propri dirigenti solo quando intervengono inchieste giudiziarie. Il potere politico è nudo, totalmente indifeso di fronte alle infiltrazioni mafiose, incapace di stanarle e, dunque, di combatterle. E anche il governo di Matteo Renzi ha perso l'occasione, in questi due anni, di cambiare davvero. È dal Sud che si cambia. E la questione che più sta inficiando la sua autorevolezza è proprio il fallimento della gestione del Meridione, che Renzi conosce pochissimo: non ha interlocutori affidabili e quindi non può valutare il problema nella sua portata reale. In questi anni la paura ha fatto rinchiudere il premier tra amici, nel cosiddetto "cerchio magico".

L'errore risiede non nell'avere tra i propri collaboratori persone di cui ci si fida, ma piuttosto nel posizionare in posti chiave persone del proprio giro. E questa è la sua più grande debolezza. Questa chiusura l'ha inevitabilmente condotto a ignorare la questione meridionale, a delegarla nel peggior modo, quello leghista: puntando sulla retorica del Sud lamentoso, che non vuole reagire ma pretende di essere aiutato da altri. Questa è un'accusa inconsistente, basta leggere i classici della letteratura meridionalista - da Guido Dorso a Tommaso Fiore - per rendersene conto. Questa presunta lamentosità è storicamente legata non a tutti i meridionali ma a quella parte di notabili che puntava ad aumentare lo spazio del proprio privilegio e per farlo chiedeva una prebenda, in cambio della quale smetteva di lamentarsi: pronti a rifarlo quando serviva di nuovo mungere lo Stato.

Finora il governo si è affidato ai proclami: prospettare, come ha fatto il Pd (anche se il premier ha dimostrato maggiore prudenza), assunzioni di sviluppatori Apple, quando invece si tratta di un banalissimo corso a pagamento; parlare di pioggia di milioni di euro che non saranno più sprecati riferendosi ai fondi europei, per i quali manca totalmente un piano di spesa costruttivo; sbandierare il rinnovamento per poi affidarsi a politici (dalla Calabria alla Campania e alla Sicilia) che hanno assai poco rappresentato una linea di rinnovamento reale. A Sud ci sono persone in politica, da esponenti Pd a Cinque Stelle a Sel, che non vedono l'ora di potersi prendere la responsabilità, di indicare un progetto nuovo: ma vengono lasciati al margine. Renzi conta sul suo più grande alleato: il commento finale. Il commento finale? Sì, proprio quello. Il commento che si fa alla fine di ogni dibattito su questo governo: "Ma l'alternativa quale sarebbe? Possiamo dare il Paese in mano a Grillo e Salvini?". Ecco: per quanto Renzi crede di poter godere di questa immunità politica del commento finale? A Palazzo Teti Maffuccini, a Santa Maria Capua Vetere, Garibaldi accolse il documento di resa delle truppe borboniche. Ora quel palazzo sembra accogliere la resa del Pd al meccanismo criminale.

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28 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/28/news/la_politica_della_resa-138616723/?ref=HRER2-1
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« Risposta #130 inserito:: Aprile 30, 2016, 05:04:53 pm »

Appalti e camorra, Saviano risponde sui social: "Io, Renzi e il Sud"

Lo scrittore reagisce alle polemiche su Facebook in seguito all'articolo pubblicato su Repubblica in cui accusa il governo per il caso delle infiltrazioni camorristiche nel Pd campano
29 aprile 2016

ROMA - Le critiche di Roberto Saviano al Pd e a Matteo Renzi lanciate ieri dalle colonne di Repubblica, dopo il caso delle infiltrazioni camorristiche nel Pd campano, hanno scatenato molte polemiche sui social. Nella valanga di commenti ricevuti su Facebook ci sono tanti apprezzamenti e incoraggiamenti ma anche duri attacchi. C'è chi sostiene che lo scrittore vive ormai lontano e non conoscere più nei dettagli le dinamiche territoriali. C'è anche chi lo accusa di infangare il Sud con discorsi negativi e privi di qualunque speranza di cambiamento.

E oggi l'autore di Gomorra risponde su Facebook con un nuovo post. "ll Pd in Campania sembra avere un nuovo nemico, non la camorra i cui voti fanno sempre comodo, ma Roberto Saviano -scrive -. Ma qualcuno del Pd sa spiegarmi perché al posto di Stefano Graziano non c'era (e non ci sarà) uno dei tanti giovani militanti in prima linea?". Per concludere: "Ma sì, sono io a essere lontano. E voi che siete vicini cosa siete capaci di pretendere dal segretario del vostro partito? (...) A me, da lontano, viene da dirvi che il vostro carezzare le belle esperienze per tenerle sempre da parte, in panchina, o peggio, in trincea a prendere le mazzate e a subire attentati, pare la conferma del vostro fallimento. E la vittoria della camorra".
Nel suo articolo su Repubblica Saviano ha criticato il governo, il premier e il Partito democratico per non aver posto un argine alla capacità criminale di permeare istituzioni e partito. "Il Sud sta morendo. Il Sud è già morto - ha scritto ieri - Nell'agenda di questo governo, il Sud è stato affrontato con promesse politiche, con proclami, mentre nel mondo reale sono altre le forze che agiscono. L’inchiesta su camorra e Pd in Campania evidenzia l'incapacità del governo di modificare i meccanismi criminali. Qualunque sarà il risultato giudiziario di questa inchiesta, è evidente che la politica non è in grado di fare autodiagnosi, non riesce più a capire quando diventa partner della camorra. Il potere politico è nudo, totalmente indifeso di fronte alle infiltrazioni mafiose, incapace di stanarle e, dunque, di combatterle. E anche il governo di Matteo Renzi ha perso l'occasione, in questi due anni, di cambiare davvero".
 
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29 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/04/29/news/camorra_e_sud_saviano_risponde_alle_critiche_dopo_l_attacco_a_renzi-138693097/?ref=HRER2-2
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« Risposta #131 inserito:: Giugno 17, 2016, 07:49:53 am »

Comunali, Napoli: l'errore del voto di scambio e gli zapatisti in salsa campana
L’analisi.
Ora il premier deve indicare i punti decisivi per cambiare il territorio e per selezionare una vera classe dirigente

Di ROBERTO SAVIANO
07 giugno 2016

Napoli. Il Pd che a Napoli non arriva al ballottaggio è un sintomo, certo, ma di un malessere ancora più grande, che non si può confinare soltanto qui. Intanto non è vero che altrove se la passi meglio: basta guardare la mappa del voto in Italia - da Torino a Milano fino a Roma. Lo specifico del Sud, però, è indicativo: perché dove ha vinto il Pd non lo ha fatto muovendo l'opinione ma legandosi alle clientele - manovrando pacchetti di voti. E allora che cosa è successo? Che Renzi e il governo, al Sud, hanno sbagliato tutto: ignorando e rubricando gli allarmi suonati in questi anni.

Durante le primarie, il Pd si era mostrato assolutamente incapace di capire il voto di scambio. Ha poi peggiorato la propria posizione presentandosi con Ala. Cioè alleandosi - con tanto di Verdini presente in campagna elettorale - alla peggiore formazione politica del territorio. Flirtando con ambienti ambigui, eredi del cascame berlusconiano, che peraltro in termini di consenso hanno fatto perdere più di quanto hanno apportato. Anche questa alleanza è sintomo della noncuranza del presidente per il Mezzogiorno d'Italia: Ala è utile a Roma e sull'altare di questa alleanza strategica si può ben sacrificare la terza città d'Italia.
Perché allora Renzi, a Napoli, non ha deciso di rinnovare il Pd? Si è invece nascosto dietro dichiarazioni di massima e promesse fragilissime. Pensando di recuperare il tempo perduto e gli sbagli fatti intensificando negli ultimi tempi la sua presenza: l'ennesima scorciatoia, l'ultimo tentativo di risolvere con un eccesso di immagine i deficit strutturali della sua segreteria, tanti pezzi di un puzzle da dare in pasto ai media ma che rispecchiano una realtà irrimediabilmente frammentata.

Ma non si tratta solo di questo: perché il voto meridionale è anche una ulteriore conferma della furbizia tattica (non strategica) di Matteo Renzi. In fondo - l'hanno già osservato in molti - sembra quasi che il premier volesse perdere. Voleva perdere perché non aveva altro modo di commissariare - come ha annunciato di voler fare solo ieri - il suo Pd. Il problema della impresentabilità non è nuovo: pensiamo alla vicenda di Stefano Graziano, il segretario regionale del Pd coinvolto in una inchiesta dell'antimafia che ipotizza suoi legami diretti con un soggetto ritenuto organico ai clan. E perché allora Renzi arriva a commissariare in tutta fretta soltanto ora? Perché non lo ha fatto quando la campagna elettorale è cominciata con la pantomima delle primarie che pochi volevano e hanno poi condotto a una frattura interna insanabile?

Lo fa adesso perché, come segretario del partito, implicitamente rompe le righe prima del ballottaggio. Se questo Pd finirà per sostenere Lettieri, in fondo la responsabilità non sarà imputabile a Renzi: il voto tracimerà "naturalmente" verso il centrodestra e per nascondere il flusso si dirà che ormai si tratta di un'emorragia di truppe. Saranno i capibastone, i traffichini dei voti comprati a poco prezzo a muoversi liberamente nella prateria aperta dal ballottaggio, ognuno provando a vendere il capitale accumulato al primo turno: pacchetti di preferenze neanche lontanamente sfiorati da quel voto di opinione che il Pd ha in tutti i modi, e coscientemente, scoraggiato. Così oggi Renzi commissaria il partito perché teme che Napoli e il Mezzogiorno possano diventare un serbatoio immenso di resistenza alla sua riforma costituzionale: sa bene che gente come de Magistris e Emiliano si sente ormai stretta nei propri avamposti.

Purtroppo per il Pd, la noncuranza del segretario nei confronti di questioni cruciali ha finito per presentargli il conto. Non regge più, alla prova delle urne, neanche lo spauracchio agitato nel corso degli ultimi due anni: se vai contro Renzi, se vai contro questo governo e questo Pd, dai spazio al populismo. È esattamente il contrario. Per come si sono messe le cose oggi, sono stati proprio il comportamento di Renzi e del suo governo a spianare la strada al populismo. Cosa pensava di ottenere il segretario del Pd candidando a Napoli una delle figure più incolori del centrosinistra finito ingloriosamente cinque anni fa? Valeria Valente ha accettato questa corsa a perdere in cambio della ricandidatura alle prossime politiche: altre ragioni non ci sono. Ma il segretario del Pd cosa pensava di ottenere? E cosa pensava di ottenere quando ha costretto la periferia ad ingoiare l'amaro boccone della alleanza con Ala? Sono questi gli errori che hanno aperto la strada al populismo.

De Magistris è adesso pronto a vincere un nuovo ballottaggio catalizzando forze che vanno dall'ex rettore democristiano dell'Università di Salerno, Raimondo Pasquino, alle avanguardie di Hamas a Napoli - sembra incredibile, ma un tema centrale della campagna elettorale napoletana è stata la questione israelo-palestinese. Forze che sembrano già pronte ad andare ciascuna per la propria strada non appena il sindaco, se rieletto, si concentrerà nella campagna elettorale per il no al referendum di ottobre. Il vero paradosso di questi anni è che de Magistris, quando subì la sospensione causa legge Severino, era in crisi piena di consenso: aveva perso per strada tutte le personalità autorevoli che aveva voluto nella sua prima giunta e le promesse mancate già cominciavano a pesare. Quel meccanismo imperfetto però ha finito per costituire la sua più grande fortuna. Gli ha indicato la strada a disposizione di ogni politico spregiudicato dei nostri giorni: essere al governo e all'opposizione allo stesso tempo. De Magistris ha così costruito la sua campagna elettorale praticamente contro se stesso: il sindaco rivoluzionario contro i poteri di lunga data - come a governare fino a ieri non fosse invece stato lui. Tutto ciò che di buono poteva attribuirsi - l'incremento del turismo - lo ha ascritto a sé. Tutto ciò che era opaco lo ha riferito a Roma. Nel suo comizio ha addirittura utilizzato l'immaginario preunitario: "Napoli capitale, Gran Ducato di Toscana dietro". A tutti è sembrata un'ingenuità. Invece de Magistris in questo modo ha parlato ai tifosi, agli ultrà, perché è questo che ha costruito intorno a sé: un appoggio strappato agli ultimi residuali centri sociali, sfruttati come cinghia di trasmissione per il consenso sui social e come perenne propaganda ideologica. Tra gli elettori, anche quelli più disincantati, è passato con una efficacia formidabile un unico messaggio: "Non ruba".

De Magistris non aspettava altro e ha meticolosamente programmato una campagna elettorale furba, populista, culmine di una prima sindacatura chiusa con una enorme quantità di deleghe personalmente detenute dal Sindaco, che davvero così delinea una situazione di stampo venezuelano. Per non parlare del consenso che gli arriva dalle associazioni: a Napoli c'è una tale miseria nel terzo settore che tanti, pur di avere un po' di prebende, cercano di avvicinarsi al sindaco "in fondo onesto", il sindaco che giura che governerà dalla strada, che realizzerà lo zapatismo in salsa napoletana: la sua "rivoluzione bolivarista"". Programma che genera inquietudine, ma anche tenerezza, nei giorni in cui il Venezuela degli ultimi bolivaristi affronta una delle crisi più severe della sua storia.

Eppure è così che de Magistris ha vinto al primo turno: doppiando gli avversari. E ha vinto a mani basse di fronte al suo avversario vero. E cioè quel Renzi terrorizzato dall'immischiarsi in vicende criminali e complesse, quel Renzi che ha relegato la rinascita politica del territorio alla sola battaglia morale - peraltro persa, poiché molto di facciata: il Pd a Caserta ha stravinto al primo turno ma guardate chi lo rappresenta.

Eppure i segnali, per il segretario democratico, erano arrivati da più parti. Gli erano stati più volte esposti gli errori madornali commessi dal Pd al Sud. Gli era stato spiegato come una classe dirigente incolta e inadatta rischiasse di far implodere il partito. Niente. Quando la lotta alla corruzione diventa una religione ecco che si sta apparecchiando la soluzione migliore perché tutto rimanga così come è.

E adesso? Lo confesso. Io non so darmi una risposta: non so che cosa si possa fare concretamente. Certo: sbandierare ideali da battaglia farebbe finalmente accorrere giovani, e meno giovani, risvegliando passioni sopite e grandi progetti. Ma non è questa la strada. Bisogna porsi domande autentiche perché alle domande autentiche non si può che rispondere con la verità. Bisogna iniziare a essere umili: realizzare che bisogna ripartire piano, un passo alla volta, con progetti concreti piuttosto che con grandi propagande. Senza grancassa. Non cedere a chi sostiene che raccontare le contraddizioni significhi diffamare. Bisogna ricostruire. Bisogna convogliare il meglio del Paese e non continuare a dividere il mondo tra "i propri uomini" e tutti gli altri.
Sì, il Sud è al collasso, tranne piccole felici eccezioni. È inutile fingere di non vedere. Il suo collasso si vede nella rabbia rivolta verso chiunque abbia un po' di visibilità. Ecco perché Renzi dovrebbe fare mea culpa sugli errori che sta commettendo al Sud. Basta con la politica dell'apparire: senza una trasformazione reale la bolla della "narrazione" tanto cara al premier finirà per scoppiare. E non ci si può nascondere dietro un dito sostenendo che il cambiamento è rallentato da tempi troppo lunghi.

Il segretario del Pd dica ai napoletani che adesso non si può votare per Lettieri. Dica che è stato un errore allearsi con Ala. Prenda posizione. Sappia indicare pochi e decisivi punti su cui cambiare il territorio. A cominciare dai criteri per la selezione di una vera classe dirigente e lasciando perdere le mogli, i figli e i fratelli di chi ha fallito. Lo faccia - e lo faccia presto. Sì, fate presto: se potete

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07 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-comunali-edizione2016/2016/06/07/news/comunali_napoli_l_errore_del_voto_di_scambio_e_gli_zapatisti_in_salsa_campana-141458641/?ref=HRER2-1
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« Risposta #132 inserito:: Giugno 26, 2016, 11:53:16 am »

Saviano: "In fuga dalle bugie"
La mia generazione era costretta a spostarsi da sud a nord per studiare e lavorare.
Oggi l'unico tentativo possibile per migliorare la vita è andarsene, mentre il nostro governo canta vittorie effimere


Di ROBERTO SAVIANO
26 giugno 2016

Renzo piano le definisce "le città del futuro", ma le periferie sembrano essere, oggi, gli spazi meno compresi dal governo e, visto il risultato del referendum sulla Brexit, non solo dal nostro.

Non più solo quartieri ai margini della grande città, oggi sono definibili periferia interi paesi che si sviluppano ai margini delle città. Intere province diventano periferia dei capoluoghi, delle metropoli. Questa evoluzione postmoderna rende assai più complesso identificarle, parlarne, comprenderne le dinamiche. "Il governo perde in periferia": questa è stata l'analisi finale dell'ultimo voto amministrativo in Italia (e non solo dell'ultimo). E si può dire lo stesso valutando i risultati del referendum sulla Brexit, dal momento che a votare Leave sono state soprattutto città e paesi che spesso si considerano decentrati rispetto a quelli che vengono percepiti come centri nevralgici. L'Europa ha perso nelle periferie e le periferie sono di gran lunga più vaste dei centri.

Questo corto circuito è la naturale conseguenza di un errore che i governi spesso commettono senza nemmeno rendersene conto: credere che uno storytelling positivo possa essere di per sé sufficiente al mantenimento del potere e delle posizioni acquisite, quello stesso racconto di sé che ormai viene percepito come menzognero, niente altro è che insopportabile propaganda. Può sembrare strano che in un momento così complesso si stia qui a ragionare di parole e narrazione, ma il gravissimo errore del governo Renzi è stato proprio quello di ignorare le province, di ignorarle al punto tale da non comprendere che proprio da lì sarebbe arrivato il fallimento. Hannah Arendt diceva che la democrazia è il luogo dove è la parola che convince: non è più la lama a costringere o la punizione a obbligare, lo strumento di decisione è la parola. E, in un certo senso, la narrazione di un'Italia che si era ripresa, di miracolosi sforzi che in tempi brevissimi avevano già portato a miglioramenti epocali, ha costituito per le periferie un inganno insopportabile.

La mia generazione era costretta a spostarsi dalle periferie al centro, da sud a nord per studiare e per lavorare. Era un centro, quello, inteso anche come centro della vita. Oggi questo centro si è spostato e l'unico tentativo possibile per migliorare la propria vita è andare all'estero, mentre il nostro governo canta vittorie effimere a fronte di questa emorragia, e non spende una parola su quanto sia impossibile trovare lavoro in periferia, sugli sforzi titanici per portare a casa uno stipendio da fame e sullo sfruttamento cui spesso chi lavora è soggetto. Questo contrasto narrativo è aggravato dal fatto che le periferie sono consapevoli di essere la parte attiva del territorio. Da qui la rabbia e la rivolta. Sanno di essere il luogo di raccolta del denaro, pompato dalle periferie al centro. La periferia napoletana e quella romana pompano lavoro e denaro criminale al centro della città. Anche la periferia torinese pompa forza lavoro al centro della città. Ma la contrapposizione centro-periferia genera conflittualità che non possono essere considerate solo di ordine culturale. Il disagio sociale vero e proprio trae linfa dalla frustrazione creata dall'alto tasso di disoccupazione e da un cambiamento irreversibile del mercato del lavoro che a fronte di una flessibilità crescente non è riuscito ad assorbirne forza lavoro. La conseguenza più dolorosa è che il bacino di forza lavoro offerto dai migranti viene visto come uno spazio sottratto al lavoratore italiano destinato a restare disoccupato. Il corto circuito nasce proprio da questa contraddizione: la periferia ha la ricchezza del lavoro, dei figli, degli spazi, ma questo capitale non resta lì, non è lì che viene investito, viene calamitato dalla forza centripeta delle città. E così le periferie, da "città del futuro", sono di fatto diventati aborti.

Le periferie sono orrende, si dirà, eppure la bruttezza dei luoghi può diventar fascino attraverso la partecipazione e la cura. Ecco perché il progetto di Renzo Piano sulle periferie (da lui chiamato G124 dal numero della stanza che occupa in Senato) è fondamentale per il nostro paese e lo sarebbe per l'Europa tutta. Il progetto ha l'obiettivo di rendere i luoghi "deboli" spazi di sperimentazione e interesse. Ripartire dalla gradevolezza, da nuove ipotesi di bellezza. Provare a respingere la schifezza abitativa. È prassi reale come lo sono i sogni nutriti dall'ossessione della trasformazione. Ma non bisogna lasciare che sia solo un esperimento bello, un tentativo di rammendo. Deve diventare affare di stato. Centralità ossessiva delle pratica della poltica. Sino a ora invece al disastro delle periferie italiane si fa fronte con grandi operazioni di carità sociale, con il sostegno massiccio ad associazioni di vario genere, con roboanti operazioni di immagine (una su tutte la fallimentare idea di tenere le scuole aperte anche pomeriggio e sera: uno spazio fatiscente al mattino lo è anche nel resto della giornata).

Ma l'aspetto forse più allarmante di questo racconto forzatamente positivo è che innesca un meccanismo populista. Con "populista" — aggettivo abusatissimo che andrebbe utilizzato con immensa cautela — intendo tutte quelle soluzioni proposte con leggerezza pur sapendo che non si realizzeranno mai. È stata la forza, per esempio, di tutta la politica di Luigi de Magistris. In centro a Napoli si spara, è un dato di fatto, il controllo da parte delle organizzazioni criminali sul centro storico è ormai totale. Eppure soltanto la bellezza della città è da attribuire ai suoi amministratori, mentre le morti, la paura, la mancanza totale di sicurezza sono da imputare al sistema capitalista e alla miseria.

Come possa la politica sottrarsi a queste responsabilità è solo questione di comunicazione, di storytelling appunto, una narrazione alimentata da chi, cinicamente, ritenendo che nulla possa davvero cambiare sale sul carro del vincitore. Questo meccanismo si basa su una furbizia uguale e contraria a quella del governo: il racconto rovesciato nel quale la negatività viene mostrata, la contraddizione viene svelata, ma ci si sente perennemente non responsabili. Sindaci incaricati delle città si discolpano come se fossero capi rivoluzionari in balìa di poteri a loro esterni e loro nemici.

Il governo avrebbe dovuto evitare la grancassa del miglioramento e tematizzare i disastri e le difficoltà per affrontarli. La periferia non può essere luogo di approccio romantico: se hai talento, sarai più bravo del ragazzo o della ragazza privilegiata nati in centro perché avrai voglia di riscatto e quindi ce la farai. Fesserie. Queste sono le favole à la Saranno Famosi che non sono più sostenibili in un'Italia in cui la mobilità sociale è pressoché immobile, in cui la meritocrazia rimane utopia, in cui non esiste riciclo di potere.

Ecco perché la narrazione politica del "daremo l'università gratuita per tutti", del "distruggeremo i poteri forti", è in fondo il risultato di approcci sempre identici e ormai plurisecolari che non fanno i conti col principio di realtà. Risuona in loro il sempiterno contrasto tra massimalismo — idee meravigliose con realizzazioni impossibili e spesso derive autoritarie — e riformismo, ossia un modello di trasformazione graduale, senza romanticismo e fiammate di riscatto universale ma sostanzialmente inattuabile. Per questo motivo Turati è la lettura che consiglierei ai dirigenti del Partito democratico e del Movimento 5 Stelle che si riconoscono in una tradizione riformista. Turati diceva di non confondere il gradualismo con l'eccessiva prudenza, ma che gradualmente le cose vengono davvero cambiate: non prudentemente, per non pestare i piedi a opinione pubblica e aziende, ma con criterio e realismo.

In periferia il Pd muore perché ha utilizzato questi territori come luoghi di facile estrazione di voto di scambio. Un voto un favore. Eppure, i dati lo mostrano, i giovani sono sfuggiti a questa logica e hanno votato candidati che non avrebbero potuto (per ora) prometter loro nessun favore e non avevano alcuna clientela. Su questo M5S e de Magistris hanno puntato.

La centralità delle periferie non è nelle promesse né nelle opere "sociali", ma in una sfida che è vitale: rendere le periferie luoghi in cui si vuole rimanere, comprare casa, investire. Certo, il cambiamento, quello vero, richiede tempo, impegno, dedizione, pazienza e costanza. Ma è esattamente dalle periferie che può arrivare l'unica rinascita possibile del nostro paese.

© Riproduzione riservata
26 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/26/news/saviano_periferie_scontento_generazione_in_fuga-142828411/?ref=HREC1-3
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« Risposta #133 inserito:: Settembre 02, 2016, 05:42:21 pm »

Il terremoto e l'informazione: il coraggio del rigore
Basta con la falsa par condicio: non ci interessano tutte le opinioni, ci interessano le opinioni di chi sa di che cosa parla. Altrimenti, davvero, basta un click: ma stavolta per spegnere questo frastuono assordante di falsità

Di ROBERTO SAVIANO
30 agosto 2016

ORA che abbiamo capito che sul web, insieme alla stragrande maggioranza di normalissimi navigatori, ci sono anche "hater" e "webeti", odiatori e creduloni, possiamo iniziare a fare il nostro lavoro. Possiamo recuperare una regola aurea, poco cinica, quindi se volete poco in linea con i tempi, ma che io credo debba essere il nostro punto di partenza e il nostro fine: avere rispetto per il lettore, per il telespettatore, per il cittadino. E ora che abbiamo tutti riscoperto la correttezza sui social, quella netiquette che sembrava ormai naufragata e irrecuperabile, cerchiamo anche di applicarla dove veramente serve e dove può fare la differenza: la televisione, la carta stampata, i siti di informazione e il nostro modo di conoscere e interpretare il mondo.

I social, si sa, mostrano sempre reazioni schizofreniche quando commentano un avvenimento, perché non hanno un'anima sola. Sui social c'è chi la pensa esattamente come me e chi la pensa nel modo opposto. Sui social c'è chi legge e basta e chi non legge e commenta. C'è chi ha un atteggiamento conciliatorio e chi cerca lo scontro. Non è detto che sui social chi è combattivo e alza i toni lo faccia anche nella vita relazionale, come è vero che ciascuno di noi cambia tono, argomenti, comportamento a seconda della situazione in cui si trova, del contesto, degli interlocutori. E i social, con la loro empatia, la loro rabbia, il loro livore, la loro delicatezza e la loro violenza, si sono confrontati con le conseguenze del terremoto. Ma come? Raccogliendo e rilanciando di tutto e di più, com'è nella natura di questa "rete" senza rete: anche tante accuse, offese, notizie non provate. Ma si può dire, forse, che tutto ciò che è venuto prepotentemente fuori sui social dopo il terremoto possa essere letto, quasi fosse una cartina di tornasole, come il conto presentato all'informazione italiana, cioè al modo in cui ha trattato i suoi utenti, oltre che agli utenti stessi, che hanno abdicato alla loro funzione di controllo.

Sì, la realtà che il terremoto nel centro Italia ha portato alla luce è amara e tragica, e lo è ancora di più perché dopo la strage dell'Aquila (riesce qualcuno di voi ancora a chiamarlo semplicemente terremoto?) tutti sapevamo quali fossero i rischi, le probabilità che la strage si ripetesse, e nessuno, o quasi, ha fatto nulla. Certo, abbiamo avvertito i nostri lettori, spettatori e navigatori sui rischi della ricostruzione, abbiamo detto che si sarebbe dovuto mettere a norma gli edifici, almeno quelli pubblici, nei territori a rischio. Ma, poi, chi è andato davvero a controllare fino in fondo? Quanti di noi lo hanno fatto? Certo, un terremoto non si può prevedere: ma i danni si possono e si devono arginare, si possono prevedere i suoi effetti. E l'informazione ha avuto una progressione da manuale: il "rispettoso silenzio" - e sacrosanto - la netiquette, mentre ancora si estraevano i corpi dalle macerie, hanno lasciato il posto ai j'accuse soliti, sempre uguali. Alle interviste agli esperti, alle omelie dai pulpiti.

E nel momento della caccia alle streghe non c'è nessuno che sappia riconoscere la strega che alberga in se stesso. Ora tutti si affannano a dire che dopo L'Aquila (quindi dal 2009) i soldi c'erano ma che sono stati spesi male. Ma questo lo sapevamo già: lo immaginavamo. E lo sapevamo perché sapevamo che non c'è stato alcun serio controllo, sapevamo che i controllori hanno rapporti con i controllati, e che spesso hanno un tornaconto per cui quindi si chiude un occhio, e a volte due. Domanda: perché è dunque successo tutto questo? Che cosa non ha funzionato? Quali meccanismi sono scattati, o meglio non sono scattati, nel nostro sistema di difesa, che nel nostro caso si chiama anche sistema di informazione?

Intanto, le vittime di oggi forse sono anche vittime della crisi, perché solo in pochi hanno ammesso che la messa in sicurezza di Norcia è avvenuta in un'altra epoca. Ma continuando ad analizzare il rapporto tra social e informazione, è evidente che non possiamo affidare la correttezza della seconda ai primi: sarebbe come voler arginare il mare, in mare. È ovvio che in un Paese come l'Italia tutto deve ripartire necessariamente dall'autorevolezza dei media. Ora che abbiamo evidenziato il webetismo ("webete", termine coniato da Enrico Mentana) facciamo dunque un passo avanti, e smettiamo di dare voce (non è censura, non lo è affatto) ai disinformatori di professione, a chi non ha alcun talento se non quello di andare in televisione, fare polemica, alzare quel tanto che basta la curva degli ascolti facendo danni che spesso sono irreparabili. La televisione è un opinion maker importantissimo, imprescindibile nel nostro Paese: si assumano allora le reti pubbliche e private la responsabilità di dare voce a chi parla perché sa, a chi dà informazioni verificate e verificabili. E si smetta di dare credito a chi diffonde leggende metropolitane (Giorgia Meloni che invita alla donazione del jackpot del Superenalotto per ricostruire Amatrice), a chi semina odio (Matteo Salvini sui migranti e i loro falsi soggiorni in hotel a cinque stelle).

Mentre seppelliamo i morti di Amatrice, sta per iniziare una nuova stagione televisiva, un nuovo anno per l'informazione e l'intrattenimento. Il mio invito, che è spero anche la pretesa di chi mi legge, si chiama rigore: rigore nell'intrattenimento e rigore nell'informazione. Certo, anche nell'intrattenimento: perché leggerezza e evasione sono cose legittime, ma il rigore e la correttezza devono esserne sempre la cifra. Il mio invito, e la pretesa di chi ci legge, è quello di chiudere la porta alle leggende metropolitane in tv (vaccini che causano autismo, scie chimiche, Club Bilderberg), a quei discorsi infiniti, a ore e ore di parole che dette con leggerezza fanno danni incalcolabili. Il mio invito, e la pretesa di chi ci legge, è la richiesta di una informazione che davvero "serva": servizio privato e pubblico vero, orientato a un dibattito pubblico oltre i dettami di questo storytelling forzatamente positivo, da strapaese, e che tollera anche la fandonia, la falsa notizia, quella che fa più scalpore - e magari più click.

Se crollano interi paesi, è anche (sottolineo anche: stiamo parlando di un terremoto) perché nonostante i fondi stanziati i lavori non sono stati mai fatti, e non sono stati fatti a dovere, nel silenzio di chi avrebbe dovuto controllare (e raccontare). Basta con la falsa par condicio: non ci interessano tutte le opinioni, ci interessano le opinioni di chi sa di che cosa parla. Altrimenti, davvero, basta un click: ma stavolta per spegnere questo frastuono assordante di falsità.

© Riproduzione riservata 30 agosto 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/08/30/news/il_coraggio_del_rigore-146854684/?ref=HRER2-1
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« Risposta #134 inserito:: Settembre 10, 2016, 10:32:30 pm »

Roberto Saviano: "I peggiori nemici di M5s sono dentro al movimento"

L'Huffington Post | Di Redazione
Pubblicato: 09/09/2016 15:04 CEST Aggiornato: 2 ore fa

ROBERTO SAVIANO

"Oggi i peggiori nemici del M5S sono nel M5S e non è la stampa che ha esagerato o gli avversari politici che sull'affaire capitolino ci hanno marciato". Lo scrive su Facebook Roberto Saviano, spiegando di aver "osservato con attenzione quanto è accaduto a Roma nelle ultime settimane", e che le vicende legate alla giunta Raggi lo hanno portato "a fare alcune riflessioni".

Mi domando spesso, dice, "se in questo Paese sia realmente possibile entrare nel dibattito politico senza ricevere in risposta l'urlo da stadio. E allora si scende in campo e si tifa per una parte politica: se critichi Renzi sei dei 5Stelle, se critichi De Magistris sei renziano e così via".

"Mi domando spesso - prosegue - perché in questo Paese non posso dire, liberamente, senza essere additato come sostenitore dei poteri forti, che la responsabilità che ha il M5S è quella di aver spinto nel precipizio più profondo anche l'ultima briciola di fiducia che gli italiani ancora, gelosamente, conservavano nella politica. In quella politica che aveva tradito e rubato, insozzato e corrotto, ma che pure era ed è popolata da una folta schiera di onesti che non fanno notizia, che amministrano realtà difficili senza che nessuno si occupi di loro".

Per Saviano "la politica è prima di tutto patto di fiducia, non solo con il movimento o il partito, ma con il progetto e poi con la persona. Pensare che tutti siano intercambiabili e sostituibili mi restituisce il senso di una società che dovrebbe rattristarci. 'Uno vale uno' significa che nessuno di noi deve avere un ego potenziato, ma 'uno vale uno' spesso viene frainteso come 'se non mi vai bene tu, avanti un altro'. È questo il tenore dei commenti che leggo: 'Se Raggi non ci piace, poco importa, avanti il prossimo cittadino'. E poi ancora un altro. Questa non è democrazia, è confusione". "Ok: Saviano attacca il Movimento! Saviano è renziano! Saviano è con i poteri forti!", sottolinea lo scrittore che poi attacca: "Mettetela come vi pare, il punto è che per governare bisogna scendere a compromessi e il modo peggiore di condividere con i cittadini delle scelte che sanno di compromesso è attraverso mail private o messaggi telefonici fatti trapelare senza che ci fosse alcun accordo. Questa è la negazione della trasparenza e pone un problema enorme tutto interno al Movimento".

"Sarò fuori tempo - continua Saviano-, ma continuo a pensare che la politica sia altro e che non basta essere novità per essere realmente diversi". "Sarò fuori contesto - dice ancora -, ma continuo a pensare che per fare politica ci vogliano competenze (meglio ladro e corrotto o a digiuno di competenze ma onesto? Ma davvero credete che si debba per forza scegliere tra queste due categorie astratte? Chi ci ha fatto il lavaggio del cervello e convinto che non esistano politici per bene e competenti?)". "Continuo a credere che la politica sia una professione che richiede competenze specifiche e che non lascia spazio a improvvisazioni. Questo vale per il M5S, per gli altri partiti e per il Governo (basta vedere le continue boutade di Lorenzin e i continui 'non sapevo' di Alfano per capire che nessuno può tirarsi fuori e nessuno può puntare il dito). Se non la pensassi così, sarei sceso in campo anch'io", conclude.

Da - http://www.huffingtonpost.it/2016/09/09/roberto-saviano-m5s-nemici_n_11928666.html?1473426278&utm_hp_ref=italy
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