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Autore Discussione: ROBERTO SAVIANO  (Letto 81854 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Novembre 18, 2010, 12:32:42 pm »

IL PERSONAGGIO

'O Ninno, il boss bambino che studiava da manager

Ascesa e caduta di Antonio Iovine, il camorrista che voleva conquistare l'Italia.

Tutto ciò che è cemento suscitava il suo interesse e quello delle sue imprese.

È riuscito anche a fare accettare la droga, un tabù per i Casalesi

di ROBERTO SAVIANO


FINALMENTE è stato arrestato. Era il viceré. Ma ormai i viceré dopo dieci anni diventano quasi re. E infatti lui e l'altro latitante Michele Zagaria sono i due capi che, dopo l'arresto di Sandokan Schiavone, hanno diviso il clan in una sorta di diarchia.

'O Ninno, il bambino, perché con il suo viso da fanciullo era arrivato giovanissimo ai vertici del clan. Perché le organizzazioni criminali hanno un grande vantaggio rispetto all'economia legale italiana: sono meritocratiche. Un merito identificato nella severità d'azione, nella spietatezza, nel saper gestire gli imprenditori, comprare la politica e saper ammazzare. Iovine, uomo della borghesia camorristica, è stato potente sulla piazza di Roma. È stato proprietario della discoteca più prestigiosa della capitale e l'edilizia è sempre stato, come per ogni capo casalese, il suo ambito privilegiato. Investimenti nel settore immobiliare in ogni angolo d'Italia e in molta parte dell'est Europa, ma cantieri, movimento terre, subappalti, forniture di cemento, noli a caldo e noli a freddo, alta velocità, gallerie. Tutto ciò che è cemento aveva l'interesse di Antonio Iovine e delle sue imprese. La droga, un tabù per i boss casalesi, che potevano trattarla ma mai direttamente nei loro territori, 'o Ninno riesce a farla accettare, riesce a creare sacche di tolleranza. Il suo clan aveva escogitato uno strumento infallibile per trasportare coca: usavano le macchine dei vigili urbani e i vigili stessi come corrieri.

Antonio Iovine non ha affatto il profilo dei vecchi boss che lo hanno preceduto, come Antonio Bardellino o Francesco Bidognetti. Non si presenta come un bufalaro, che la ricchezza criminale ha reso potente signorotto. 'O Ninno ha imparato da Schiavone ad agire come un manager e ad uccidere come i casalesi sempre dicono, "per legittima difesa", ossia solo persone che si mettono contro i tuoi affari o "compari" di clan nemici o amici, ma comunque camorristi e quindi pronti a dare e perdere la vita. Iovine ha gestito il clan con prudenza e ha portato ovunque i suoi affari, spesso anche all'estero. I suoi parenti si sono trovati in posti chiave. Carmine Iovine, suo cugino, è stato direttore dell'Asl di Caserta. Riccardo Iovine, fratello di Carmine, è stato arrestato per aver dato ospitalità al killer in latitanza Giuseppe Setola.

La fortuna della sua famiglia è dipesa dalla sua inflessibilità, dal suo essere un capofamiglia severo, talvolta spietato. Come nei riguardi di sua cognata, Rosanna De Novellis, vedova di suo fratello Carmine ucciso per ritorsione contro di lui. Rosanna, dopo la morte del marito prende a frequentare altri uomini, ma non sono mai relazioni stabili. Questo la famiglia può tollerarlo (purché resti tutto in segreto), perché nessuno deve prendere il posto del defunto marito. Rosanna però si innamora e decide di sposarsi con un uomo lontano dal clan e dagli affari di famiglia, senza chiedere parere e approvazione. Ma soprattutto Rosanna pretende di mantenere gli agi e i lussi concessi alle vedove rispettose nonostante avesse perso ogni privilegio perché in casa faceva comandare un estraneo. Era questo che la famiglia pensava e per questo si decise di allontanarla definitivamente. Antonio Iovine con lei fu inflessibile, rispose una sola volta alla preghiera di sua cognata con una lettera lapidaria in cui le intimava di non cercarlo mai più e che a giudicarla sarebbero stati i suoi figli maschi. Rosanna De Novellis fu allontanata, per lei niente più stipendio mensile, niente più pagamento del mutuo e il divieto assoluto di poter portare persino un fiore sulla tomba del defunto marito.

Così si comanda un clan. Così si incute timore e si ottiene rispetto: essendo inflessibili prima di tutto con la propria famiglia. Non facendo sconti a nessuno. Così si ottiene la possibilità di poter trattare stupefacenti, contravvenendo a una legge non scritta ma da sempre rispettata. Iovine, che rappresenta le nuove generazioni camorriste, costruite nel ciclo dei rifiuti e riciclando in quello del cemento, è cresciuto nel periodo delle faide che causavano come quella tra bardelliniani e casalesi centinaia di morti all'anno.

L'arresto di Antonio Iovine è una vittoria, ma lo sarà davvero se non si lascerà che altri lo sostituiscano. È una vittoria ogni qual volta ci si rende conto di aver fatto un passo in avanti, ogni volta che la legalità ha sottratto terreno alla criminalità organizzata. E dell'arresto di Antonio Iovine anche il Nord deve gioire perché non è immune da queste dinamiche che sempre più ne regolano affari e geografie. Antonio Iovine è divenuto potentissimo proprio al Nord. Ha i suoi affari, che continuano ad essere floridi, in Emilia Romagna, in Lombardia, in Piemonte e in Liguria. Il risultato messo a segno dalla Squadra mobile di Napoli è fondamentale ed è stato possibile raggiungerlo grazie alle inchieste dei giovani pm da sempre in prima linea contro il clan. Antonello Ardituro e Alessandro Milita coordinati dal pm Federico Cafiero De Raho, simbolo della lotta al clan dei casalesi, l'uomo che ne è la memoria storica.

Ma se la battaglia finisce con le manette per i boss ci saranno i sorrisi, come quelli mostrati dal Ninno. Sorrisi come a dire, in carcere vado a comandare, tutto questo l'avevo già previsto. Vi ho fatto il regalo così vi sentite tutti più efficienti e buoni tanto fuori restano i miei capitali. È il Nord il centro degli investimenti mafiosi, casalesi come calabresi e siciliani. Un Nord troppo aperto a prenderne i capitali e a divenire cassaforte sicure del reinvestimento. Un Nord dove le mafie cercano di interloquire con chi comanda in politica, un Nord che si crede immune e invaso quando invece sempre più spesso è complice e connivente. Quello lanciato dalla Dia sul condizionamento della politica dell'economia e dei servizi da parte delle organizzazioni criminali in Lombardia dovrebbe essere un allarme prioritario per tutto il Paese. Ieri è stato un bel giorno, ma da non far tramontare. A Sud si nascondono in tuguri e case di campagna da cui cercare di scappare dalla finestra, al Nord costruiscono palazzi come nel centro di Milano in via Santa Lucia.

©2010 Roberto Saviano/ Agenzia Santachiara
 

(18 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/11/18/news/_o_ninno_il_boss_bambino_che_studiava_da_manager-9229978/?ref=HREC1-4
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« Risposta #91 inserito:: Novembre 23, 2010, 09:50:03 am »

LA POLEMICA

"Napoli pattumiera del nord la camorra guadagna 20 miliardi"

Berlusconi ha detto 7 volte che l'emergenza era finita. Ma la Campania è invasa dalle ecoballe.

Ci vorranno 56 anni per smaltirle tutte. Problemi dal '94.

Un'incapacità pagata 780 milioni l'anno, 8 miliardi in 10 anni

di ROBERTO SAVIANO


IL MONTE più alto d'Europa è il Monte Bianco: 4810 metri. Il più alto del mondo è l'Everest, con i suoi 8848 metri. Ma se noi immaginassimo una montagna fatta con i rifiuti illegali supererebbe la somma dei due: qualcuno ha calcolato che avrebbe una base di tre ettari e sarebbe alta più di 15mila metri. Quest'immensa mole è una preziosa fonte di reddito per la criminalità organizzata.

Questo spiega perché in Campania la storia dell'immondizia lasciata a marcire per strada è, purtroppo, una storia infinita. Gli ispettori europei sono arrivati a Napoli e ci hanno detto quello che i napoletani sapevano già: e cioè che nulla è cambiato rispetto a due anni fa. In realtà è peggio. L'emergenza dura dal 1994. È moltissimo tempo. Vuol dire che un ragazzo che oggi ha 16 anni è cresciuto con l'idea che i sacchetti di plastica abbandonati sui marciapiedi sono la normalità, come lo è il caldo d'estate e il freddo d'inverno. I cassonetti regolarmente svuotati, invece, sono un'eccezione.

In questa terra la raccolta differenziata è un sogno. Tranne che in piccole isole felici, non viene fatta mai. Quella non differenziata dovrebbe essere - per legge - al massimo il 35%. Qui arriviamo all'84%. E pensare che erano stati per primi i Borbone a lanciare la diversificazione dei rifiuti. Sembra incredibile, ma così recita un editto di Ferdinando II: "Gli abitanti devono tenere pulita la strada davanti alla casa usando l'avvertenza di
ammonticchiarsi le immondezze al lato delle rispettive abitazioni e di separarne tutt'i frantumi di cristallo o di vetro che si troveranno riponendoli in un cumulo a parte".

Quello che i Borbone sapevano, le giunte di centrosinistra e di centrodestra, i commissari straordinari, da Rastrelli, a Bassolino, da Bertolaso a De Gennaro, non hanno più saputo. Tutti hanno provato a risolvere il problema, ma nessuno ci è riuscito. A Napoli sembra impossibile ciò che riesce a Milano, Bologna e Genova perché la regione è prigioniera di un gigantesco circolo vizioso. Il ciclo è basato sull'occupazione del territorio: si mettono i rifiuti in una discarica, la discarica si riempie, viene chiusa o sequestrata per versamenti di materiali tossici, i camion si fermano, si cerca l'ennesima discarica, la popolazione protesta, la spazzatura resta a terra e spesso viene addirittura bruciata, con pericoli serissimi per la salute. I clan pagavano 50 euro per ogni cumulo di immondizia messo al rogo.

Si è tentato di risolvere il problema con gli inceneritori, che dovrebbero per legge produrre energia, ma per funzionare al meglio devono essere alimentati da ecoballe che nascono dalla raccolta differenziata, in cui l'umido è eliminato. Non è così, naturalmente, e la Campania è invasa dalle ecoballe, che ne hanno addirittura modificato la geografia e che sono potenziali bombe ecologiche. Ci vorranno 56 anni per smaltirle tutte. Sempre che sia possibile.

Tutta questa incapacità è costata ai cittadini 780 milioni di euro all'anno, in emolumenti, consulenze, affitti degli immobili: circa 8 miliardi di euro in 10 anni, quasi una finanziaria. Tutti hanno perso, ma qualcuno ha guadagnato, e parecchio. Nel 2009 le ecomafie hanno fatturato oltre 20 miliardi di euro: un quarto dell'intero fatturato della criminalità organizzata.

Il grande business dei clan è quello dei rifiuti tossici: hanno trasformato la Campania nel secchio dell'immondizia delle imprese del Nord. (La monnezza di Napoli è la monnezza di tutta l'Italia. Ricordiamocelo, ogni volta che il Nord chiude le porte come se fosse un problema del Sud). Smaltire un rifiuto speciale costa moltissimo, fino a 62 centesimi al chilo, i clan sono capaci di offrire un prezzo di 9/10 centesimi. Un risparmio dell'80 per cento che mette a tacere la coscienza di tanti imprenditori. Il trucco è nella bolla di accompagnamento che viene falsificata, per cui il rifiuto come per magia non è più tossico, o nel miscelare i veleni ai rifiuti ordinari, in modo da diluirne la concentrazione tossica. Il meccanismo è talmente malato che a volte il composto viene trasformato in fertilizzante: così la malavita incassa i soldi due volte con lo stesso veleno.

Decine di inchieste giudiziarie testimoniano l'avvelenamento delle terre del Sud. Ne elenco alcune: nel 2003 si scopre che ogni settimana 40 Tir ricolmi di rifiuti sversano cadmio, zinco, scarto di vernici, fanghi da depuratori, plastiche varie, arsenico e piombo nel napoletano e nel casertano; nel 2006 la Procura di Santa Maria Capua Vetere accerta che tra Villa Literno, Castelvolturno e San Tammaro, vengono scaricati i toner delle stampanti d'ufficio della Toscana e della Lombardia. Il terreno è pieno di cromo esavalente. L'inchiesta "Eldorado" del 2003 ferma un traffico illecito di rifiuti pericolosi, che da Sud sono spediti in Lombardia per essere "miscelati" con terre di spazzatura delle strade milanesi e altri materiali, per passare poi come rifiuti non pericolosi smaltiti in una discarica pugliese. La Procura di Napoli ordina nel 2007 il sequestro di 5 aziende del Nord per traffico illecito di residui di lavorazioni siderurgiche.

Così il sottosuolo della bella, dolce, fertile Campania è diventato un fango nauseabondo e pericoloso: a Giugliano della Campania,, ci sono 590 mila tonnellate di fanghi e liquami contenenti amianto e tricloruro di etilene; a Pianura tra il 1988 e il 1991 sono stati sversati i seguenti rifiuti provenienti dall'Acna di Cengio: 1 miliardo e 300 milioni di metri cubi di fanghi; 300 mila metri cubi di sali sodici; 250 mila tonnellate di fanghi velenosi a base di cianuro; 3 milioni e mezzo di metri cubi di peci nocive contenti diossine, ammine, composti organici derivanti dall'ammoniaca e contenenti azoto; nelle campagne di Acerra tra il 1995-2004 sono stati nascosti 1 milione di tonnellate di fanghi industriali provenienti da Porto Marghera e 300 mila tonnellate di solventi clorurati.

E questo solo per citare alcuni esempi. Non c'è da meravigliarsi se l'agricoltura è crollata a picco, se i frutti spuntano malati, se le terre diventano infertili. Soprattutto non c'è da meravigliarsi se aumentano malattie e tumori. È quello che succede, nel silenzio generale. Il cancro, in Campania, non è una sventura, una tragedia ineliminabile, ma il frutto di una scelta sciagurata dell'imprenditoria criminale.

Le malattie legate alla presenza di rifiuti tossici sono una piaga silenziosa, difficile da monitorare ma assolutamente evidente. Una ricerca del 2008 dell'Istituto superiore di Sanità nelle province di Napoli e Caserta certifica un aumento della mortalità per tumore del polmone, fegato, stomaco, rene e vescica e di malformazioni congenite. Questi sono più numerosi vicino ai siti di smaltimento illegale. Anche l'Organizzazione Mondiale della Sanità parla di un aumento vertiginoso delle patologie di cancro in questa zona: la percentuale è più alta del 12% rispetto alla media nazionale.

Ecco, questo è lo stato in cui 16 anni di impotenza dello Stato e di potere criminale hanno ridotto la Campania. Eppure la fine dell'emergenza è stata annunciata per ben sette volte dal nostro capo del governo: era già risolta nel luglio di due anni fa.

Dopo decenni di crisi dei rifiuti, di napoletani identificati con la spazzatura, della perdita di ogni speranza di veder cambiare la propria città, mi viene in mente Eduardo che recitava: è cos'e niente. Ci siamo abituati a dire sempre è cos'e niente. Ci levano il diritto della vita, ci tolgono l'aria, e è cos'e niente". Temo che a forza di sentircelo dire rischiamo di diventare anche noi cose'e niente.

Il testo è una sintesi del monologo trasmesso a "Vieni via con me"
 

(23 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/11/23/news/napoli_pattumiera_del_nord_la_camorra_guadagna_20_miliardi-9397379/?ref=HRER1-1
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« Risposta #92 inserito:: Novembre 29, 2010, 11:47:36 am »

L'autore di Gomorra: la politica non è il mio mestiere

Saviano: ora mi fermo per un po'

«Maroni? Un errore arrabbiarsi»

Lo scrittore: dopo «Vieni via con me» è tempo di ricostruirmi una vita


MILANO - Roberto Saviano, e adesso?
«Cerco di finire il mio prossimo libro. A essere sinceri, il mio vero capolavoro non sarà fare un'altra Gomorra o una nuova trasmissione per milioni di persone ma cercare di ricostruirmi una vita. Ce la sto mettendo tutta, ma non so come andrà a finire».
Via Mecenate, studi della Rai di Milano. A metà del corridoio che porta allo studio di Vieni via con me. Lo scrittore più famoso e discusso d'Italia appoggiato a una parete di linoleum. Sulla faccia ancora qualche traccia del ragazzo che è stato, fino alla primavera del 2006. Quando uscì il libro di uno sconosciuto che collaborava con ogni possibile testata napoletana, uno che aveva la fissa della camorra. Appena quattro anni fa.

Vieni via con me è finito. Il suo bilancio?
«Un miracolo. Quando l'abbiamo scritto pensavamo a qualcosa di spurio, magari più adatto al teatro che alla televisione. Non ci aspettavamo questo successo. Quando un monologo ha un picco di 11 milioni di spettatori, più di una finale di Champions, è davvero una cosa incredibile».

Dicono che lei abbia fatto ombra a Fabio Fazio.
«Errore. Il merito del successo è suo. Un grande creatore di televisione. Con la sua esperienza, Fabio ha saputo creare l'alchimia giusta».

Prima di partire vi siete lamentati tanto della Rai, ma non sembra sia andata così male...
«Ah no? Abbiamo davvero fatto il programma contro l'editore. Non c'era un gran clima intorno a noi, e continua a non esserci. Il bello è che ce l'abbiamo fatta nonostante questa Rai. Nonostante questa politica».

Vieni via con me è televisione militante?
«A me piace una definizione che i più snob considerano fastidiosa: racconto civile. Il nostro è stato un programma trasversale. I dati dicono che ci hanno seguito tanti giovani tra i 14 e i 24 anni. E che il pubblico era diviso in maniera equa tra centro destra e centro sinistra».

E la faziosità, presunta o meno?
«Per superficialità oggi si definisce faziosa l'espressione di un punto di vista. Mi sembra incredibile: avere un'idea significa essere di parte. Non si può esprimere una posizione senza che immediatamente sia data la parola al suo contrario, perché possa annullarla».

Lo rifarà?
«E' stato bello, ma ora mi fermo. Esperienza durissima. Scrittura, prove serrate, memoria. E molta, troppa tensione che i dirigenti di Raitre ci aiutavano a sopportare. Non so se la ripeterò. Di sicuro non a queste condizioni. In una Rai come quella di oggi, mai più».

Maroni aveva ragione ad arrabbiarsi?
«Assolutamente no. Io ho raccontato le inchieste. Dire che non hanno portato all'arresto di politici leghisti, che ragionamento è? Un'inchiesta racconta un clima culturale, un modus operandi. La 'ndrangheta interloquisce con i poteri del Nord: dove c'è la Lega si rivolge alla Lega. Il problema principale del Nord non sono certo gli immigrati, come vogliono far credere, ma l'alleanza impresa-politica-criminalità. Il caso Desio lo dimostra. La Lega ha abbandonato la giunta dopo che un'inchiesta ha dimostrato che una parte di quella maggioranza faceva affari con la 'ndrangheta. E prima? Ignoravano? Il Nord Italia è sempre più infiltrato, piaccia o non piaccia alla Lega».

E poi Maroni cattura Antonio Iovine, il suo persecutore. Si è sentito in imbarazzo?
«Ma non scherziamo. Iovine non l'ha mica arrestato Maroni. Era 16 anni che lo cercavano. Il pm Federico Cafiero de Raho, dell'Antimafia di Napoli, uno degli eroi silenziosi di questo Paese, è la persona a cui deve andare il merito morale del contrasto ai boss casalesi».

Lo ammetta, ha pensato che quello di Iovine fosse un arresto a orologeria...
«In molti l'hanno fatto. Io non ci sto, detesto la dietrologia. Iovine era un capo, e adesso è in galera».

Perché Maroni sì e i pro life no?
«Perché raccontare una storia d'amore come quella tra Piero Welby e sua moglie Mina non significa affatto oscurare altre voci. Chi, dopo quarant'anni di sofferenza, ha chiesto di fermare la macchina a cui era attaccato non è affatto contro chi invece continua a sperare in quella macchina che lo tiene in vita. Il mio era un racconto d'amore, di sentimenti e di libere scelte. Non c'era nulla a cui replicare».

Il suo successo televisivo ha destato qualche invidia. Saviano in tivù fa venire le Gomorroidi, come dice Vauro?
«Lasciamo stare, dai. "Ma io già l'ho detto molto prima...", "Ma io l'ho scritto nell'89", "Ma è troppo lento, troppo veloce, troppo televisivo, troppo poco televisivo". Sono commenti che sento tutti i giorni. Un po' ne soffri, poi finisce che ne ridi. Veder nascere la bile perché grazie alla televisione arrivi a tante persone che in genere ignorano certi argomenti, in fondo, ti dà soddisfazione».

Pino Daniele è l'ultimo a dire che se lei fosse davvero "scomodo" l'avrebbero già ammazzata. Cosa ne pensa?
«Rispondo con le parole di Falcone: "Questo è il Paese felice dove per essere credibile bisogna essere uccisi". Io non me la prendo, perché credo si tratti di ignoranza, tipica di chi si accosta con superficialità a una persona e a un argomento che non conosce. Non so, mi verrebbe da dire: "Prima di parlare studiate di più"».

Fare televisione non è una dimostrazione di scarsa fiducia nelle sue possibilità di scrittore?
«Semmai il contrario. Anche raccontare storie in tivù è scrittura. Teatro, radio, cinema, televisione, fiction. Laddove si può comunicare io ci provo».

La grande speranza della sinistra?
«A volte questa cosa mi spaventa, a volte mi lusinga. Quando racconto delle gravi connivenze di questo governo con le organizzazioni criminali, quando intervengo per la libertà di stampa, dicono che sono di sinistra. Quando racconto dei dissidenti cubani, dei crimini del comunismo sovietico, sono di destra. Quando invito i migranti di Rosarno a non abbandonare l'Italia, torno di sinistra».

Scrivere è anche una attività privata. Saviano invece è ormai un personaggio pubblico, a stare bassi.
«Il Saviano privato? Mi fa sorridere questa espressione. Quando sei così esposto nessuno ti è a fianco, tutti ti sono addosso. Il Saviano privato deve nascondersi per difendere se stesso e non si fida di nessuno. Nessuno».

Si sente tirato per la giacca?
«Spesso. Quel che più mi colpisce è la paura dei politici. Molti di loro li ho visti terrorizzati all'idea che io scegliessi di servire il Paese, e non di scendere in campo, espressione orrenda che ha infettato la comunicazione politica, apparentando il Parlamento a uno stadio».

E Saviano, in che squadra giocherà?
«Destra e sinistra, tutti vorrebbero che urlassi le ragioni degli uni e i torti degli altri. Non è il mio mestiere, la politica. Io mi considero un narratore. Uno scrittore di 31 anni, ecco quel che sono».

Marco Imarisio

29 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_novembre_29/saviano-fazio-intervista_2b470c48-fb98-11df-bfbe-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #93 inserito:: Dicembre 16, 2010, 03:09:05 pm »

L'INTERVENTO

Lettera ai ragazzi del movimento

di ROBERTO SAVIANO

CHI LA LANCIATO un sasso alla manifestazione di Roma lo ha lanciato contro i movimenti di donne e uomini che erano in piazza, chi ha assaltato un bancomat lo ha fatto contro coloro che stavano manifestando per dimostrare che vogliono un nuovo paese, una nuova classe politica, nuove idee.

Ogni gesto violento è stato un voto di fiducia in più dato al governo Berlusconi. I caschi, le mazze, i veicoli bruciati, le sciarpe a coprire i visi: tutto questo non appartiene a chi sta cercando in ogni modo di mostrare un'altra Italia.

I passamontagna, i sampietrini, le vetrine che vanno in frantumi, sono le solite, vecchie reazioni insopportabili che nulla hanno a che fare con la molteplicità dei movimenti che sfilavano a Roma e in tutta Italia martedì. Poliziotti che si accaniscono in manipolo, sfogando su chi è inciampato rabbia, frustrazione e paura: è una scena che non deve più accadere. Poliziotti isolati sbattuti a terra e pestati da manipoli di violenti: è una scena che non deve più accadere. Se tutto si riduce alla solita guerra in strada, questo governo ha vinto ancora una volta. Ridurre tutto a scontro vuol dire permettere che la complessità di quelle manifestazioni e così le idee, le scelte, i progetti che ci sono dietro vengano raccontate ancora una volta con manganelli, fiamme, pietre e lacrimogeni. Bisognerà organizzarsi, e non permettere mai più che poche centinaia di idioti egemonizzino un corteo di migliaia e migliaia di persone. Pregiudicandolo, rovinandolo.

Scrivo
questa lettera ai ragazzi, molti sono miei coetanei, che stanno occupando le università, che stanno manifestando nelle strade d'Italia. Alle persone che hanno in questi giorni fatto cortei pieni di vita, pacifici, democratici, pieni di vita. Mi si dirà: e la rabbia dove la metti? La rabbia di tutti i giorni dei precari, la rabbia di chi non arriva a fine mese e aspetta da vent'anni che qualcosa nella propria vita cambi, la rabbia di chi non vede un futuro. Beh quella rabbia, quella vera, è una caldaia piena che ti fa andare avanti, che ti tiene desto, che non ti fa fare stupidaggini ma ti spinge a fare cose serie, scelte importanti. Quei cinquanta o cento imbecilli che si sono tirati indietro altrettanti ingenui sfogando su un camioncino o con una sassaiola la loro rabbia, disperdono questa carica. La riducono a un calcio, al gioco per alcuni divertente di poter distruggere la città coperti da una sciarpa che li rende irriconoscibili e piagnucolando quando vengono fermati, implorando di chiamare a casa la madre e chiedendo subito scusa.

Così inizia la nuova strategia della tensione, che è sempre la stessa: com'è possibile non riconoscerla? Com'è possibile non riconoscerne le premesse, sempre uguali? Quegli incappucciati sono i primi nemici da isolare. Il "blocco nero" o come diavolo vengono chiamati questi ultrà del caos è il pompiere del movimento. Calzano il passamontagna, si sentono tanto il Subcomandante Marcos, terrorizzano gli altri studenti, che in piazza Venezia urlavano di smetterla, di fermarsi, e trasformano in uno scontro tra manganelli quello che invece è uno scontro tra idee, forze sociali, progetti le cui scintille non devono incendiare macchine ma coscienze, molto più pericolose di una torre di fumo che un estintore spegne in qualche secondo.

Questo governo in difficoltà cercherà con ogni mezzo di delegittimare chi scende in strada, cercherà di terrorizzare gli adolescenti e le loro famiglie col messaggio chiaro: mandateli in piazza e vi torneranno pesti di sangue e violenti. Ma agli imbecilli col casco e le mazze tutto questo non importa. Finito il videogame a casa, continuano a giocarci per strada. Ma non è affatto difficile bruciare una camionetta che poliziotti, carabinieri e finanzieri lasciano come esca su cui far sfogare chi si mostra duro e violento in strada, e delatore debole in caserma dove dopo dieci minuti svela i nomi di tutti i suoi compari. Gli infiltrati ci sono sempre, da quando il primo operaio ha deciso di sfilare. E da sempre possono avere gioco solo se hanno seguito. E' su questo che vorrei dare l'allarme. Non deve mai più accadere.

Adesso parte la caccia alle streghe; ci sarà la volontà di mostrare che chi sfila è violento. Ci sarà la precisa strategia di evitare che ci si possa riunire ed esprimere liberamente delle opinioni. E tutto sarà peggiore per un po', per poi tornare a com'era, a come è sempre stato. L'idea di un'Italia diversa, invece, ci appartiene e ci unisce. C'era allegria nei ragazzi che avevano avuto l'idea dei Book Block, i libri come difesa, che vogliono dire crescita, presa di coscienza. Vogliono dire che le parole sono lì a difenderci, che tutto parte dai libri, dalla scuola, dall'istruzione. I ragazzi delle università, le nuove generazioni di precari, nulla hanno a che vedere con i codardi incappucciati che credono che sfasciare un bancomat sia affrontare il capitalismo. Anche dalle istituzioni di polizia in piazza bisogna pretendere che non accadano mai più tragedie come a Genova. Ogni spezzone di corteo caricato senza motivazione genera simpatia verso chi con casco e mazze è lì per sfondare vetrine. Bisogna fare in modo che in piazza ci siamo uomini fidati che abbiano autorità sui gruppetti di poliziotti, che spesso in queste situazioni fanno le loro battaglie personali, sfogano frustrazioni e rabbia repressa. Cercare in tutti i modi di non innescare il gioco terribile e per troppi divertente della guerriglia urbana, delle due fazioni contrapposte, del ne resterà in piedi uno solo.

Noi, e mi ci metto anche io fosse solo per età e per  -  Dio solo sa la voglia di poter tornare a manifestare un giorno contro tutto quello che sta accadendo  -  abbiamo i nostri corpi, le nostre parole, i colori, le bandiere. Nuove: non i vecchi slogan, non i soliti camion con i vecchi militanti che urlano vecchi slogan, vecchie canzoni, vecchie direttive che ancora chiamano "parole d'ordine". Questa era la storia sconfitta degli autonomi, una storia passata per fortuna. Non bisogna più cadere in trappola. Bisognerà organizzarsi, allontanare i violenti. Bisognerebbe smettere di indossare caschi. La testa serve per pensare, non per fare l'ariete. I book block mi sembrano una risposta meravigliosa a chi in tuta nera si dice anarchico senza sapere cos'è l'anarchismo neanche lontanamente. Non copritevi, lasciatelo fare agli altri: sfilate con la luce in faccia e la schiena dritta. Si nasconde chi ha vergogna di quello che sta facendo, chi non è in grado di vedere il proprio futuro e non difende il proprio diritto allo studio, alla ricerca, al lavoro. Ma chi manifesta non si vergogna e non si nasconde, anzi fa l'esatto contrario. E se le camionette bloccano la strada prima del Parlamento? Ci si ferma lì, perché le parole stanno arrivando in tutto il mondo, perché si manifesta per mostrare al Paese, a chi magari è a casa, ai balconi, dietro le persiane che ci sono diritti da difendere, che c'è chi li difende anche per loro, che c'è chi garantisce che tutto si svolgerà in maniera civile, pacifica e democratica perché è questa l'Italia che si vuole costruire, perché è per questo che si sta manifestando. Non certo lanciare un uovo sulla porta del Parlamento muta le cose.
Tutto questo è molto più che bruciare una camionetta. Accende luci, luci su tutte le ombre di questo paese. Questa è l'unica battaglia che non possiamo perdere.

©2010 /Agenzia Santachiara

(16 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/scuola/2010/12/16/news/lettera_saviano-10251124/?ref=HRER3-1
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« Risposta #94 inserito:: Dicembre 29, 2010, 06:36:37 pm »

IL CASO

Così si muore in Calabria per la legge della terra

Cinque morti, quattro assassini.

A Vibo Valentia una storia di confini, di alberi tagliati, di rancori e violenza che fa dire ai magistrati: "Peggio della 'ndrangheta"

di ROBERTO SAVIANO


Gli animali che sconfinano e mangiano l'orto e rovinano la coltivazione. Alberi tagliati senza permesso compromettendo la frutta. I confini della terra continuamente manomessi, e poi in piazza non ci si saluta e si sentono gli sfottò arrivare dietro la schiena. Anzi, un giorno dopo una discussione prendersi uno schiaffo in pieno viso. Questo è sufficiente per far decidere a Filandari in provincia di Vibo Valentia di condannare a morte. Ercole Vangeli e - secondo quanto sta emergendo dalle indagini - alcuni suoi parenti, non vogliono più che i vicini gli freghino la terra, non vogliono più che li prendano in giro in paese dicendo a tutti che loro, i Fontana, fanno quello che vogliono e i vicini, i Vangeli, sono dei miserabili che devono obbedire. Non vogliono più vedere gli zoccoli delle bestie dei Fontana rovinare le loro colture. Né vogliono vedere i loro nocciòli e gli ulivi estirpati per allargare le coltivazioni dei Fontana. Vogliono vendicarsi.

Aspettano i vicini della loro masseria. Li attendono per strada. Tutti gli uomini della famiglia Fontana stanno entrando nel furgone quando Vangeli si piazza davanti al cofano e vuole ammazzarli proprio lì, tutti insieme, tutti in auto. Non hanno ancora chiuso le porte dell'auto quando si catapultano fuori, ma Vangeli inizia a sparare sul capofamiglia Domenico Fontana e su suo figlio Pietro 36 anni e Giovanni di 19 anni. Muoiono subito. Altri due figli, Pasquale di 37 anni e Emilio di 32, iniziano a correre e si nascondono nel capannone, ma i Vangeli li raggiungono
e li finiscono. Mirano sicuri, al petto alle gambe e alla faccia. Sparano con due pistole, una nove millimetri e una 7.65. Verranno rinvenuti più di trenta colpi. Hanno scaricato addosso ai Fontana tutti i caricatori che avevano portato. Una strage.

Può esser semplice e potrebbe anche essere sufficiente dire che è solo una ferocia barbarica generata da arretratezza medievale profonda ignoranza e assenza di Stato, ossia impossibilità di credere che con il diritto tu possa ottenere una qualche forma di giustizia. Ma tutto questo sarebbe solo uno sguardo superficiale che certo potrebbe esser sufficiente se si vuol presto liquidare questa storia. Ma questa non è una strage dettata semplicemente dal raptus di paesani che vivono in terre del Sud dove ci sono più pistole che forchette.

Non è così semplice. Sono stragi della regola. Barbarie certo, ma che si fondono su meccanismi assolutamente disciplinati dalle regole eterne di queste terre. Quando il procuratore di Vibo Valentia dichiara "non è una strage di mafia, è peggio", quel "peggio" sta a indicare che non siamo di fronte a dinamiche militari di due clan con regole di sangue. Sono dinamiche culturali, quella regola non è una regola di mafia, è una regola e basta. La regola appunto, qualcosa di diverso dalle stragi della depressione e dall'isteria del Nord. O quantomeno qualcosa che anche se nasce come raptus si alimenta di una prassi. Se tocchi la roba mia sei morto. Atavica, perenne, inamovibile, eterna. Una regola. Regole assunte come modi di vivere, come meccanismi per stare al mondo. E queste regole sono la forza di cui si alimentano le consorterie imprenditoriali più forti d'Italia ossia 'ndrangheta, camorra e Cosa nostra.
La regola esiste in paese, non in città. Il bandito Salvatore Giuliano diceva "in città scivolo". Come dire che sulla terra il piede è saldo, sull'asfalto delle città complesse che distraggono e dove non ci si conosce e ci si confonde, si rischia di sbagliare. E sbagliare significa vivere senza regola. L'Italia infatti è comandata dai paesi, non certo dalle città. È nei paesi che le regole vengono scritte e gestite. Platì, Casal di Principe, Africo, Corleone, Casapesenna, Natile di Careri e la lista dei paesi che dirigono gran parte dei capitali italiani è assai lunga. In questi luoghi cresci e ti formi, sia che tu prenda la strada della criminalità sia quella dura del lavoro in una terra senza lavoro, insomma, cresci con la certezza che il primo bene è la terra. Case, bestie, cemento, alberi. Il resto, le auto, i soldi investiti e le banche, non sono la radice delle cose. La roba è la roba che passerà al tuo sangue e che tu hai avuto dal tuo sangue. Il confine della terra è il confine del tuo corpo. Guardare negli occhi è già superare quel confine.

Quando ero ragazzino e mi presi il primo mazziatone di calci e pugni perché avevo guardato negli occhi tal Ciruzzo Romano, un ragazzino delle mie parti, perché "m'hai guardato" mi dissero subito con fare stupito: "Non guardare negli occhi, che gli occhi sono territorio, quindi pensaci bene se in quel territorio ci puoi entrare". Rubare un moggio di terra è come toccare un figlio, tagliare un albero è come rapire, venire a farti mangiare le coltivazioni dalle bestie è come sputarti in faccia. La regola è chiara. Non toccare la roba. Vivere per prendere roba. Vangeli, l'uomo della strage ha sua figlia iscritta all'Università che studia legge, una vita solita, e un'assoluta consapevolezza di quello che stava facendo. Del resto, nel 2008 e sempre in provincia di Vibo Valentia, in una frazione di Briatico, Vincenzo Grasso aveva ammazzato a pallettoni due suoi cugini perché secondo lui gli fregavano la terra trattandolo come un fesso. "Se vivo ti ammazzo, se muoio ti perdono", è un adagio che chi è cresciuto in questi paesi, dalla Locride alla Barbagia passando per l'Aversano, ha sentito decine di volte pronunciare durante le litigate per i confini o negli sgarri familiari. Il contesto non è affatto la miseria contadina, la solitudine e l'analfabetismo. Stiamo parlando di un episodio accaduto in provincia di Vibo Valentia, un territorio egemonizzato da un clan spietato, disciplinato, ricchissimo e internazionale. Il clan Mancuso. Giuseppe Lumia con molta chiarezza l'aveva definito la prima consorteria criminale per potenza economica d'Europa. Investe soprattutto in Lombardia, nel cemento, nella distribuzione di cibo e di benzina, nella gestione degli appalti, nel narcotraffico, nel condizionamento delle amministrazioni comunali e nel segmento sanitario di Monza, Novara e nei Comuni di Giussano, Seregno, Verano Brianza e Mariano Comense.

Nel paese della strage, Filandari. C'è una loro costola, la 'ndrina dei Soriano che egemonizza tutto quanto accade, impone dazi sui lavori alla Salerno-Reggio Calabria e su ogni camion che passa per il loro territorio. Leone Soriano, il boss di Filandari, voleva che gli fosse ceduta qualsiasi attività imprenditoriale di successo. Da proprietario diventavi dipendente. Le 'ndrine del territorio investono molto nella calabresella, la marijuana calabrese che è considerata la marijuana di maggior qualità sul piano internazionale, preziosa e più costosa rispetto alle altre ma molto più forte e molto più difficile da coltivare rispetto alla Skunk e alla White Widow (che ha vinto la Cannabis Cup, pur essendo di qualità inferiore alla calabresella) e il cui traffico è egemonizzato dalla 'ndrangheta. Due dei ragazzi Fontana ammazzati nella strage erano stati arrestati per estorsione e investivano in calabresella. E' un territorio, quindi, che grazie alla marijuana e al traffico di coca è diventato molto ricco. Ricchissimo. Anche Francesco Leonardo Brasca, sindaco negli anni '90 di Vibo Valentia ed insegnante, nel settembre scorso è stato arrestato dai carabinieri perché in un castagneto aveva una piantagione di calabresella. Quale arretratezza in un luogo dove, attraverso il narcotraffico, arrivano milioni e milioni di euro? Sta qui il nodo. Il massimo grado della tradizione della regola arcaica unito al massimo grado dell'evoluzione economica. Web, mercato, finanza, droga, ma solo se tutto questo viene governato dalle regole ataviche della roba, dello sguardo basso, dei matrimoni combinati, della verginità, delle regole di sangue. Il mondo lo comandi se sai vivere con queste regole anche quando le regole ti portano a svantaggi e alla galera per nequizie. E' la regola, se subisci hai perso, diventi nulla meno che nulla, nulla mischiato con niente, verme, bruco, topo, sottoterra.

Questa è la verità drammatica di questa strage che se viene ascritta solo ad un feroce raptus in terra barbarica non servirà nemmeno a far capire come una parte del paese vive ed egemonizza. Mi sono sempre chiesto com'era possibile che nei posti dove sono nato e in quelli dove il mio mestiere mi ha portato venisse ucciso un uomo come Antonio Magliulo solo perché aveva corteggiato una ragazzina e lui era un uomo sposato e la ragazzina la nipote di un boss. Come era possibile che il clan fosse disposto a prendersi ergastoli perché un boss uccideva un suo compaesano a Mondragone negli anni '90 solo perché non gli aveva regalato il maiale per Natale? Com'è possibile che una delle faide più feroci della storia italiana, quella a San Luca d'Aspromonte tra i Nirta-Strangio e i Pelle-Vottari. trovi come origine il 10 febbraio 1991 in un gesto all'apparenza futile? Quando un gruppo di ragazzi legati ai Nirta, detti "Versu", nei giorni di carnevale lanciarono uova contro il circolo ricreativo Arci gestito allora da Domenico Pelle, uno dei "Gambazza", sporcando anche l'auto di uno dei Vottari. E' possibile perché questi comportamenti rendono le loro regole inderogabili, le rafforzano proprio nella pratica quotidiana, proprio quando sembrano superflue. Le 'ndrine di Vibo Valentia hanno per prime creato un legame con le organizzazioni criminal-imprenditrici cinesi. A Monza le 'ndrine di Vibo vengono coinvolte nella storia del Multisala delle meraviglie, che avrebbe dovuto portare nel Parco del Grugnotorto 180mila metri quadrati di spazio verde con laghetto, piste ciclo-pedonali, piantumazione, 130 nuovi posti di lavoro, internet cafè, biblioteche multimediali, sale convegno, teatro. Il multisala, inaugurato nel 2005 da Cristina D'Avena, era rimasto vuoto ed era stato ceduto dopo pochi mesi a Song Zichai, per trasformarlo nel Cinamercato, il più grande centro commerciale di merce cinese del Nord Italia, con 280 mini negozi, scuola italo-cinese, palestra di kung fu, alloggi per le famiglie cinesi che ci avrebbero lavorato. Invece è stato dichiarato il fallimento e tutto si è fermato. Per realizzare l'acquisto dell'immobile, del valore di oltre 40 milioni di euro, sono stati presi contatti con esponenti della cosca Mancuso.

Com'è possibile che nel territorio dove avvengono patti internazionali e joint venture con i cinesi, dove passano capitali internazionali e da dove vengono gestite persino le province lombarde, ci si ammazzi per confini di terra, perché sono stati tagliati ulivi o le capre hanno calpestato i pomodori? La corazzata (im)morale delle mafie italiane si fonda su questa cultura. Cultura che ha portato alla strage di Filandari. Chi si avvicina a te sa che esiste una regola, chi affili sa che esiste una regola. E questa regola è la vendetta, la punizione. Semplice. Sai cosa puoi fare, sai cosa non puoi fare. Non c'è altra interpretazione. Chi comanda può dare altre regole, renderne alcune meno severe ma non può cambiarle. Al massimo aggiungerne. E sono la terra, gli ulivi, i noci, i limoni, le pecore, le capre e le vacche o le bufale, i cavalli e il grano, la masseria. L'elemento primo e sicuro. L'olio, il pane e i pomodori. I molti nipoti e le galline. La moglie che ti sposi vergine (le amanti poi le prendi al Nord o all'Est) e il fatto che al paese tutti ti salutano, al ristorante ti servono per primo anche se arrivi ultimo, il parcheggio ti viene lasciato se arrivi in una zona dove tutto è occupato. Perché tutti gli imperi di capitali finanziari, di banche e ristoranti, di coca e usura, di marjuana e racket, di politica e palazzi, tutto questo si regge sulla regola. E quella regola la confermi e difendi se al tuo paese esiste e vive. Perché se anche sei un boss ed investi a New York nella ricostruzione delle torri gemelle, tutto questo lo puoi fare proprio perché quando entri dal barbiere, qualsiasi cliente si alza e ti fa sedere. "L'impero sulla terra sta" sulla roba e sulla regola. Quei trenta colpi di pistola, purtroppo sono molto peggio di una barbarie, sono frutto di un meccanismo a cui obbedisce chi in questo momento investe, vince e gestisce gran parte di questo nostro bellissimo e dannato paese.

(29 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #95 inserito:: Gennaio 23, 2011, 10:57:10 am »

LA POLEMICA

Il vero "orrore" è isolare i magistrati

di ROBERTO SAVIANO

Ho ricevuto la laurea honoris causa in Giurisprudenza, mi è stata conferita dall'Università di Genova; è stata una giornata per me indimenticabile. Credevo fosse fondamentale impostare la lezione, che viene chiesta ad ogni laureato, partendo proprio dall'importanza che il racconto della realtà ha nell'affermazione del diritto.

Soprattutto quando il racconto descrive i poteri criminali. Senza racconto non esiste diritto. Proprio per questo ho voluto dedicare la laurea honoris causa ai magistrati Boccassini, Forno e Sangermano del pool di Milano. Marina Berlusconi dichiara che le fa orrore che parlando di diritto si difenda un magistrato. Così facendo avrei rinnegato ciò per cui ho sempre proclamato di battermi. Così dice, ma forse Marina Berlusconi non conosce la storia della lotta alle mafie, perché difendere magistrati che da anni espongono loro stessi nel contrasto all'imprenditoria criminale del narcotraffico non vuol dire affatto rinnegare. Non c'è contraddizione nel dedicare una laurea in Giurisprudenza a chi attraverso il diritto cerca di trovare spiegazioni a ciò che sta accadendo nel nostro Paese. Mi avrebbe fatto piacere ascoltare nelle parole di un editore l'espressione "orrore" non verso di me, per una dedica di una laurea in Legge fatta ai magistrati. Mi avrebbe fatto piacere che la parola "orrore" fosse stata spesa per tutti quegli episodi di corruzione e di criminalità che da anni avvengono in questo paese, dalla strage di Castelvolturno sino alla conquista
della 'ndrine di molti affari in Lombardia. Ma verso questi episodi è stato scelto invece il silenzio.

Orrore mi fa chi sta colpevolmente e coscientemente cercando di delegittimare e isolare coloro che in questi anni hanno contrastato più di ogni altro le mafie. Ilda Boccassini, coordinatrice della Dda di Milano, ha chiuso le inchieste più importanti di sempre sulle mafie al Nord. Pietro Forno è un pm che ha affrontato la difficile inchiesta sulla P2 ed ha permesso un salto di qualità nelle indagini sugli abusi sessuali, abusi su minori. Antonio Sangermano, il più giovane, ha un'esperienza passata da magistrato a Messina, recentemente ha coordinato un'inchiesta, una delle prime in Italia, sulle "smart drugs", le nuove droghe. Accusarli, isolari, delegittimarli, minacciare punizioni significa inevitabilmente indebolire la forza della magistratura in Italia, vuol dire togliere terreno al diritto. Favorire le mafie. Ecco perché ho dedicato a loro la lezione di cui, qui di seguito, potete leggere un ampio stralcio.

* * *

È difficilissimo in questa fase storica italiana parlare al grande pubblico di come la parola possa contrastare un potere fatto di grandi capitali, di eversione, di forza militare, di grandi investimenti internazionali. Ogni volta che mi trovo a parlare nelle università piuttosto che in tv, c'è sempre dell'incredulità: come è possibile che lobby così potenti possano avere paura della parola?

In realtà forse la dinamica è un po' più complessa. Non è la parola in sé, scritta, pronunciata, dichiarata, ripresa, quella che fa paura. È la parola ascoltata, sono le persone che ascoltano e che fanno di quella parola le proprie parole. È questo che incute timore alle organizzazioni criminali. Paura che non riguarda semplicemente la repressione, loro la mettono in conto, come mettono in conto il carcere. Ma quasi mai mettono in conto l'attenzione nazionale e internazionale. Che poi significa semplicemente una cosa: significa dire che queste storie non riguardano solo gli addetti ai lavori, i politici locali, i magistrati, i cronisti, ma riguardano anche noi. Quelle storie sono le nostre storie, quel problema è il nostro problema, e va risolto perché è come risolvere la nostra stessa esistenza.

Raccontare è parte necessaria e fondamentale del diritto. Non raccontare è come mettere in discussione il diritto. Può sembrare un pensiero astratto ma quando si entra in conflitto con le organizzazioni, il loro potere, il loro modo di fare, allora si inizia a capire. E si capisce perché, non solo in Italia, c'è chi investe energie e interviene non sul racconto delle cose, ma su chi le racconta. Come se il narratore fosse responsabile dei fatti che sta narrando. Si invita per esempio a non raccontare l'emergenza rifiuti a Napoli per non delegittimare la città: quindi non sono i rifiuti che delegittimano la città ma chi li racconta. Se un problema non lo racconti, e soprattutto se non lo racconti in televisione, quel problema non esiste. È una sorta di teoria dell'immateriale, ma in realtà fa capire quanto sia fondamentale la necessità di raccontare.

Non è una particolarità italiana, dicevo. In Messico per esempio negli ultimi sei mesi sono stati ammazzati 59 giornalisti: ragazzi che avevano aperto dei blog, che avevano fondato delle radio, giornalisti delle testate più importanti. Caduti per mano del narcotraffico, che è oggi il più potente del mondo e che ha deciso di impedire la comunicazione di quello che sta succedendo in Messico con una scelta totalitaria, nell'eliminazione sistematica di chiunque tenti non solo di raccontare. Qualsiasi persona che inizi a raccontare diventa immediatamente un nemico, un pericolo perché accende la luce, anche piccola, ma che può interessare.
Ricordo una persona che ho molto stimato, e avevo conosciuto quando decise di esprimermi solidarietà nei momenti più difficili della mia vita: Christian Poveda. Aveva deciso di andare in Salvador a raccontare la Mara Salvatrucha, potentissime bande di strada che controllano lo spaccio della coca. Poveda li riprende con il loro consenso e ne fa un documentario dal titolo La vida loca, meravigliosamente tragico, forte perché anche lì c'è quel principio: queste storie diventano le storie di tutti. Ebbene Poveda con questo documentario comincia ad accendere luci ovunque, anche sui rapporti tra le Maras e la politica. Iniziano ad arrivare i giornalisti. E il 20 settembre del 2009 sparano in testa a Christian, che muore in totale silenzio, sia in Italia che in Europa, lasciando in qualche modo una sorta di ormai fisiologica accettazione: hai scritto di queste cose, o meglio hai ripreso questo cose, non puoi che essere condannato.

Spesso la morte non è neanche la cosa peggiore. Chi prende questa posizione, chi usa la parola per raccontare, per trasformare, paga un prezzo altissimo, nella delegittimazione, nell'isolamento e in quello che devono pagare i loro cari. La poetessa russa Anna Achmatova vive il periodo della rivoluzione bolscevica, il regime la considera una dissidente, una sorta di scarto della società del passato da modificare. Il suo ex marito che è un grandissimo poeta, viene fucilato, bisognava indebolirla in tutti i modi. Lei era già diventata una poetessa di fama soprattutto in Francia, quindi era difficile toccarla senza dare un'immagine repressiva della Russia sovietica. La prima cosa che fanno è cercare di spezzarle la schiena poetica: le arrestano il figlio. Lei è disposta a scambiare la vita del figlio con la sua. Non serve a molto, lui resta in carcere e lei racconta una scena bellissima: ogni mattina migliaia di donne si mettevano in fila davanti alle carceri sovietiche portando dei pacchi, spesso vuoti, soltanto per vedere l'espressione del secondino. Se il secondino accettava il pacco significava che la persona, marito, figlio, fratello, padre, era viva. Se non lo accettavano era stata fucilata. Quando lei si presenta il secondino la riconosce: "Ma lei è Anna Achmatova". Lei fa cenno di sì, e la persona che sta dietro: "Ma lei è una poetessa, quindi può raccontare tutto questo". Lì c'è una poetessa, piccola magra, devastata dai suoi drammi, che diventa all'improvviso la speranza. I versi diventano la speranza: può raccontare, può far esistere, cioè può trasformare.

Mi sono sempre chiesto come si fa a vivere così, come hanno fatto queste persone a sopportare decenni di delegittimazione, per aver scritto poesie o anche solo delle canzoni. Come è successo a Miriam Makeba, a cui il governo bianco sudafricano ha inflitto trent'anni di esilio per il disco "Pata pata", una canzone che racconta di una ragazza che vuole solo danzare, divertirsi, che vuole essere felice. Ma questo fa paura, voler vivere meglio fa paura, Miriam Makeba fa paura. E più canta nei teatri di tutto il mondo, più l'Africa intera si riconosce in quella canzone, che non parla di indipendenza, di lotta ai bianchi, ma di voglia di vivere e felicità. Fin quando non arriva il governo Mandela che la richiama in Sudafrica. È anche questa l'incredibile potenza della parola. Per questo sono convinto che il racconto sia parte del diritto, non può esistere il diritto senza racconto. Ma oggi, e non è solo la mia opinione, in Italia chi racconta ha paura. Certo, siamo in una democrazia, non abbiamo a che fare con un regime, con le carceri. Non siamo in Cina. Ma non si può negare che chiunque oggi decida di prendere in Italia una posizione critica contro il potere, contro il governo, rischia la delegittimazione, rischia di essere travolto dalla macchina del fango. Quando accende il computer per iniziare a scrivere sa già cosa gli può succedere. La formula è scientifica e collaudata: "Se tu racconti quello che dai magistrati è considerato un mio crimine, io racconto il tuo privato. Tutti hanno scheletri nell'armadio, quindi meglio che abbassiate lo sguardo e molliate la presa".

Ma per gli intellettuali raccontare è una necessità, comunque la si pensi. E in queste ore il loro compito è quello di dire che non siamo tutti uguali, non facciamo tutti le stesse cose. Certo, tutti abbiamo debolezze e contraddizioni, ma diverso è l'errore dal crimine, diversa è la corruzione dalla debolezza. Mentre si cerca di far passare il concetto che siamo tutti "storti" per coprire le storture di qualcuno. Oggi si parla molto di gossip e il gossip è rischioso, perché lo si usa per nascondere i fatti emersi dalle inchieste e per dimostrare che "fanno tutti schifo". E il compito, ancora una volta, delle persone che ascoltano, che scrivono e che poi parlano, è quello di discernere, di capire, ovunque esse siano, con i figli a tavola, nei bar, comunque la pensino.

C'è una bellissima preghiera di Tommaso Moro: Dio aiutami ad avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare, di sopportare le cose che non posso cambiare ma soprattutto dammi l'intelligenza per capire la differenza. Questo è il momento in cui in noi possiamo trovare la forza di cambiare e comprendere finalmente che non dobbiamo credere che tutto quello che accade sia inevitabile e quindi soltanto sopportare.

Infine, dedico questa laurea e questa giornata, che ovviamente non dimenticherò per tutta la vita, a tre magistrati: alla Boccassini, a Forno e a Sangermano, che stanno vivendo, credo, giornate complicate solo per aver fatto il loro mestiere di giustizia.
 

(23 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #96 inserito:: Gennaio 27, 2011, 12:00:35 am »

L'autore di «Gomorra»: dalla casa editrice tanta solidarietà solo da dirigenti ed editor

Saviano: «Mondadori, la proprietà non mi sopporta»

La dedica ai pm? Coerente con ciò che scrivo.

Felice che Feltrinelli pubblichi i monologhi di «Vieni via con me»

 
MILANO - Roberto Saviano, è davvero un addio?
«Mondadori ed Einaudi sono case editrici libere. Nel mio caso sento però che la proprietà non sopporta più la mia presenza. Si sta vivendo una contraddizione tra la proprietà che alza la voce assumendo toni autoritari e gli uomini che lavorano nella casa editrice, liberi e autonomi. Una cosa è la proprietà un'altra è l'editore. Ma nel mio caso questo equilibrio sembra rompersi. Anzi, si è rotto».

Come mai ha deciso di pubblicare con un altro editore?
«Semplice: sono felice che Feltrinelli mi abbia proposto di fare un libro con i monologhi di Vieni via con me. Si tratta di testi sofferti, che hanno avuto vita difficile fin dall'inizio. Mentre li preparavo, mentre raccoglievo il materiale, io e la redazione non sapevamo se sarebbero mai andati in onda».

Mondadori non le ha mai fatto una proposta per averli?
«Mai. Del resto, fuori dalla casa editrice, in tanti hanno cercato in ogni modo di fermarli, da quando ho proposto i temi di cui avrei voluto parlare. Li hanno contrastati con ogni polemica possibile e infine cercato di farli dimenticare il prima possibile. E ora sono davvero entusiasta di trovarmeli in libreria».

Con la sua dedica di una laurea honoris causa ai pubblici ministeri di Milano non ritiene di aver fatto una provocazione?
«No. Io l'ho vista in coerenza con ciò che scrivo, non certo come una provocazione».

Sono titolari di una certa inchiesta sul suo editore, non è un dettaglio da poco...
«Senta: Ilda Boccassini è il magistrato che in questi anni al Nord si è schierato come pochi altri contro la 'ndrangheta e il riciclaggio. Delegittimarla significa dare forza all'imprenditoria del narcotraffico».

E gli altri?
«A quel che mi risulta, Pietro Forno e Antonino Sangermano hanno sempre svolto il loro lavoro con serietà. Mi sono sentito in dovere di far riferimento alla loro situazione di minacce e isolamento solo per una scelta di giustizia. E ricordo a tutti che la dedica ai pubblici ministeri è avvenuta mentre ricevevo una laurea in legge».

Ogni laurea, un caso politico. Lo fa apposta?
«A essere sinceri, non è sempre stato così. Nel senso che la mia la prima laurea, avevo poco più di vent'anni, la dedicai a mio nonno, scampato ai campi di concentramento tedeschi, ma di quella dedica ne erano a conoscenza solo in pochi, ovviamente. La seconda laurea, honoris causa, la dedicai invece agli immigrati meridionali di Milano, i veri milanesi. E puntualmente un viceministro leghista, Roberto Castelli, mi mandò "a ciapà i ratt". Ma questa volta è diverso, molto diverso».

Dove nasce il cortocircuito con Mondadori?
«Dalla constatazione che Marina Berlusconi non è intervenuta contro le molteplici dichiarazioni che in questi giorni sono state fatte su suo padre, se non in maniera generica. Eppure ha sentito la necessità di intervenire sulle mie parole, in quanto mio editore e su una questione non di natura editoriale, ma politica».

Il fatto che si tratti di suo padre non è un'attenuante?
«La mia dedica ha generato "orrore" in Marina Berlusconi, alla quale però non mi risulta che in questi anni abbiano fatto orrore molte cose terribili avvenute in questo Paese».

Dalla casa editrice non ha ricevuto alcuna solidarietà?
«Tantissima, e proprio in queste ore, da dirigenti ed editor come Riccardo Cavallero, Massimo Turchetta, Severino Cesari, Edoardo Brugnatelli, Paolo Repetti, Antonio Franchini. Ma purtroppo non rappresentano la proprietà».

Si è chiesto la ragione del putiferio scatenato dalle sue parole?
«Credo che dedicare qualcosa a qualcuno, una laurea, un premio o un libro, sia un modo per sentirsi in continuità con delle azioni o delle persone. È come dire: io sono il risultato dell'impegno, delle speranze e delle loro sofferenze. Ecco perché dà così tanto fastidio».

E adesso?
«Si volta pagina. Negli ultimi anni ho avuto contatti con tanti editori, credo sia giunto il tempo di tornare a vivere e lavorare di parole. Spero che questo libro con Feltrinelli possa darmi ossigeno, e che questa nuova avventura mi possa anche far divertire. Ne ho bisogno».

Marco Imarisio

26 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #97 inserito:: Febbraio 05, 2011, 09:56:54 pm »

L'APPELLO

Il diritto di sognare un'Italia pulita

Nel nostro Paese, certo, si può dissentire. Ma a che prezzo? Al prezzo di essere pronti a sottoporsi ai veleni della macchina del fango.

Don Milani diceva: "A che cosa sarà servito avere le mani pulite se le abbiamo tenute in tasca?"


di ROBERTO SAVIANO


L'ITALIA oggi non è un paese libero. Sia chiaro: non sto dicendo che la situazione italiana sia in qualche mondo comparabile con i totalitarismi del passato. Niente a che vedere con fascismo o comunismo, è ovvio. Ma ciò non ci deve impedire di dire che oggi chiunque attacchi il governo sa che subirà un'intimidazione, una forma di ritorsione. Sa che potrebbe essere colpito, lui, o i suoi cari, da una qualche veline infamante che cercherà di sporcarlo davanti all'opinione pubblica.

La libertà non può esistere solo come costruzione astratta o peggio come principio.

"La libertà politica - scriveva Salvemini - è sostanzialmente il diritto del cittadino di dissentire dal partito al potere. Da questo diritto di opporsi al potere nascono tutti gli altri diritti".

In Italia, certo, si può dissentire: ci mancherebbe altro. Ma a che prezzo? Al prezzo di essere pronti a sottoporsi ai veleni della macchina del fango. Lo abbiamo visto in passato con Boffo, con Fini, con il giudice Mesiano, ora con Ilda Boccassini. Lo vedremo ancora.

Parlo da trentenne. L'odio che senti vicino quando ti poni contro certi poteri mi ha stupito. Guicciardini aveva ragione quando definiva l'Italia un paese di contrade. Temo che se queste contrade non saranno dismesse non potremo andar lontano. Sembriamo condannati a dividerci su ogni cosa. Ci si può essere antipatici, ma in questo momento non c'è spazio per sottolineare le differenze, per misurare chi è più critico
e chi è più puro, chi ha la corona del miglior antagonista o dell'Italia migliore. Questo è il momento non dico dell'unità, ma almeno delle affinità. La purezza non serve più. Ricordo quel che diceva Don Milani: "A cosa sarà servito avere le mani pulite se le abbiamo tenute in tasca?". Sporcarsi le mani non ha nelle parole del parroco della scuola di Barbiana nessun significato di corruzione, è ovvio: vuol dire la necessità di fare, anche sbagliando, di realizzare cose che possano essere difficili, ma utili. Unirsi nelle diversità è cosa complicata ma ormai imperativa. Certi che da questa unità verrà del bene per tutti.

Monicelli poco prima di morire auspicava una rivoluzione. Oggi la parola rivoluzione in me non evoca banchetti di sangue né vendette, né palazzi d'inverno né Moncada. Ancor meno fucilazioni e "uomini nuovi". E' invece la parola che mi fa tornare alla mente la lezione di Piero Gobetti: oggi ho la sensazione che sia rivoluzionario non considerare gli elettori di un'area avversa come perduti. Che sia rivoluzionario sentirci tutti partecipi di uno stesso paese ed un unico destino. O si riparte da questo o non saprei proprio il motivo di impegnarci, intervenire, "sporcarsi le mani".

Sento di poter scrivere queste parole proprio perché vengo da una terra dove la legalità significa vita e libertà in maniera forse più chiara che qui a Milano. E perché non appartengo alla generazione che ha creduto nel socialismo reale. Non ho amato i rivoluzionari tramutati in dittatori. Non ho creduto in sogni di società perfette divenuti inferni in terra. Appartengo alla generazione che ha visto i caduti della sua resistenza morire per costruire un paese dove le opportunità, il talento, il diritto, fossero cose reali. Gianni Falcone, Rocco Chinnici, Rosario Livatino, Carlo Alberto Dalla Chiesa. non muoiono mentre stanno portando avanti la loro professione di magistrati a difesa del diritto e perseguendo i reati. Almeno, non solo per questo. Fanno molto di più.

Così come Giancarlo Siani, Pippo Fava, De Mauro non muoiono perché inciampano in verità indicibili. Ma perché scrivendo rendono pubbliche le verità che conoscono: e molti uomini e donne che hanno verità possono trasformare lo stato di cose. Per questo vengono condannati a morte. Per la loro parola.

In questa battaglia la mia generazione è cresciuta. In un Paese dove lo Stato non era un monolite tutto corrotto o tutto rivolto al bene. Ma dove una parte di Stato corrotto era affrontato quotidianamente dall'altra parte dello Stato. Vivere costruendo le possibilità di essere felici è una necessità dell'uomo, l'unica alternativa ad una rassegnata, cupa disperazione: un sogno che non può non farti combattere con tutto te stesso contro l'impossibilità di far affermare il merito, l'impegno, il talento. L'ingiustizia è di questo mondo. Ma sono di questo mondo anche gli strumenti per affrontarla. In questa fase in Italia non sembra possibile. Il governo e l'area culturale che lo sostiene non si difende mai dalle accuse - così evidenti, così manifeste - dicendo: non si fanno certe cose. Ma sostenendo l'autoassolutoria tesi del "così fan tutti". L'accusa maggiore a chi chiede un paese diverso è l'accusa di essere un ipocrita: "Berlusconi fa quel che tutti fanno o vorrebbero fare". Non è vero, non è così, dobbiamo ribellarci al ritratto di un Paese piegato e corrotto, accomunato in una specie di complicità collettiva. C'è un'Italia che ha il diritto e il dovere di venire alla luce e di prendere voce: un'Italia che crede nelle regole, nella legalità, che crede che non sia normale avere un premier che, preda di una senile ossessione sessuale, paga le minorenni, mente allo Stato per proteggerle e sfugge ai magistrati.

Albert Camus diceva che la sofferenza, come la morte, non si può sconfiggere: ma che il nostro dovere è di riparare nella creazione tutto ciò che può essere riparato. Io in questo credo: nella possibilità di ridurre aritmeticamente il dolore. Forse un mondo migliore non esiste, ma credo nella possibilità di migliorare il mondo. Per questo sento che è il tempo per tornare a sognare. Non sembri scontato e retorico e anche se lo fosse ben venga. Ma sognare un paese diverso non può che essere il carburante vivo e persino divertente del tentativo di cambiare le cose. Di cercare una felicità possibile. Una felicità semplice, fatta di un lavoro dignitoso, della possibilità dell'individuo di provare quanto vale. Di ricevere quanto merita. Non è il sogno di un paradiso inesistente ma di un luogo un po' diverso, dove l'ingiustizia, il favore, la raccomandazione del potente di turno per ottenere un lavoro o addirittura un posto in consiglio regionale o in parlamento, non esistano più. I valori che ci fanno in questo momento stare insieme sono sepolti con l'urgenza di identificare ciò che non siamo ciò che non vogliamo. Ora è il tempo di dire anche ciò che siamo e ciò che vogliamo.

(05 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/02/05
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« Risposta #98 inserito:: Aprile 04, 2011, 11:11:38 am »

L'INIZIATIVA

Cinquantamila ragioni per vivere

Tutti gli elenchi della felicità

Tra passioni e piccoli piaceri, che cosa dà realmente un senso all'esistenza? Roberto Saviano, dopo aver stilato al sua lista, aveva chiesto ai nostri lettori di fare altrettanto. E loro hanno risposto in tanti. Più di seimila persone hanno inviato la loro classifica.
Ecco il catalogo dei nostri piaceri più intimi

di ROBERTO SAVIANO


CINQUANTAMILA motivi per cui vale la pena vivere. Tutti giunti in pochi giorni. Un'incontenibile voglia di scrivere la carta costituente di se stessi. Elenchi di donne e uomini, di ogni generazione, di ogni parte d'Italia. Dai seimila elenchi che sono arrivati finora a Repubblica.it 1 (e molti altri continuano ad arrivare) emerge l'autoritratto collettivo di un paese, l'immagine di un'Italia che trova il suo fondamento in pochi cardini capaci di congiungere il passato al futuro, in beni comuni. Sentimenti antichi, desideri vivi, lampi di gioie quotidiane irrinunciabili.

... video su http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2011/03/24/news/roberto_saviano-14025237/?ref=HREC2-5

Ci sono molte cose che ritornano in queste liste, sempre le stesse, sempre essenziali. L'amore, fare l'amore - ma farlo con la persona che si ama. Lo dicono le donne, però anche moltissimi uomini. Lo dicono di qualcuno che spesso è la moglie, il marito, il compagno o la compagna di una vita. O l'amore di un momento, il sogno d'un amore, il desiderio di amare. L'amore per i figli, da quelli non ancora nati e rappresentano la speranza del futuro a quelli già diventati adulti, che magari per lavoro sono lontani. L'amore di quelli che non ce l'hanno ancora, per cui una ragione di vivere diventa l'attesa del giorno in cui lo troveranno. L'amore per i genitori, anche malati, anche quando non ci sono più, ma continuano a vivere nel ricordo dei propri cari. Per i fratelli con cui si cerca di restare sempre in contatto.

C'è un senso fortissimo della famiglia in questi elenchi, ma il sentimento dei legami va oltre la cerchia del sangue.
Spesso si elencano gli amici, quelli veri, quelli con cui si è legati, annodati per sempre. O i gesti che ci mettono in comunicazione con gli altri: da un sorriso per strada ricambiato al trovarsi insieme per manifestare. C'è il piacere di ridere, a crepapelle, sino alle lacrime: risate terapeutiche capaci di contagiare e curare chi è triste. E il bisogno di piangere che spesso diviene un diritto conquistato con la consapevolezza di voler essere se stessi, sempre. Ci sono i viaggi, il mare, i paesaggi dei ritorni a casa, i cieli stellati, il profilo dei monti. E poi i sapori: la cioccolata, la pizza, nuotare nel Piave, il sole, i fiori. Inseriti negli elenchi smettono di essere cose trascurabili e divengono dettagli fondamentali.

Elenchi banali, diranno i cinici, pieni di ipocrisia e di falso buonismo, diranno i saccenti. Ma chiunque abbia ascolto sincero delle parole sa che sono loro a banalizzare, impauriti dalla semplicità quando diviene senso della vita e soprattutto punto fermo di felicità. Perché la ricerca della felicità, che si fa corpo in questi elenchi coincide anche con la necessità di un nuovo inizio, di un nuovo paese, di un nuovo orizzonte. Scrivono i loro decaloghi uomini e donne che non hanno perso la fiducia in se stessi e nei loro simili, ma hanno voglia di allargare lo sguardo e di scoprire. C'è tanta musica, cinema, libri, il gusto di leggerli in spiaggia o sotto le coperte. Le squadre del cuore. C'è spesso la fede in Dio, ma anche l'orgoglio di essere italiani. C'è molta voglia di un paese migliore, molto ricordo vivo di uomini come Falcone e Borsellino, Berlinguer e Pertini. Però è un'Italia che sta anche nel mondo, ricorda Gandhi e Martin Luther King, canta Springsteen e gli U2, ha un pensiero partecipe per il Nordafrica e il Giappone.

Avevo promesso di scegliere cinque elenchi nel mare di quelli che mi hanno mandato: impresa difficile, impossibile. Non ce ne sono, è ovvio, migliori o peggiori.

Alla fine quelli che ho scelto 6 sono solo cinque esempi di un coro immenso che dà voce a un'Italia diversa, diversissima da come ci viene rappresentata tutti i giorni. Un paese che ha sviluppato una propria bussola, non solo interna: perché la dimensione privata di molti messa insieme può divenire pubblica. È da qui che mi piace pensare l'inizio di una possibile e necessario percorso, un insieme di desideri di felicità che si uniscono. Non il paese incattivito, egoista, in fondo disperato in cui ciascuno bada solo ai fatti propri, dove tutti sono ugualmente sporchi, compromessi, piegati, e quindi tutti uguali nella meschinità. Dove non resta che tacere e far vincere il più furbo. Ma un'Italia integra, pulita, allegra e colma di rispetto in cui possiamo riconoscere la nostra speranza e la nostra forza - a partire dai punti fermi delle nostre vite che nulla riuscirà mai a scardinare.

Elenchi e ancora elenchi. Leggerli mi fa sentire bene, mi fa sentire parte di qualcosa che riconosco. Come se riuscissi a conoscere le vite delle persone che mi hanno scritto (e ringrazio tutti coloro che hanno voluto includermi nei loro elenchi). Come se vedessi una vita in dieci punti, come se tutto il bene e tutto il male - o meglio ogni ricerca del bene e ogni resistenza al male incontrato - recassero la loro traccia in queste poche parole. Elenchi che sommati l'uno all'altro formano un castello di parole e preannunciano la costruzione di un paese per cui vale ancora la pena di vivere.

(24 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #99 inserito:: Giugno 02, 2011, 04:57:36 pm »

L'INCHIESTA

Quando il boss prende la valigia

Ecco i segreti della mafia al Nord

Le organizzazioni criminali hanno colonizzato il Nord. Moltiplicando i loro affari.

Un libro-inchiesta di Federico Varese spiega come ci sono riuscite: alla base del loro potere c'è un bisogno di protezione che lo Stato non riesce ad assolvere

di ROBERTO SAVIANO


Incontrai Federico Varese nel 2008, per la mia prima lezione ad Oxford. Ero terrorizzato. Mi accolse il suo sorriso insieme a quello di Davide Gambetta, due veri e propri esploratori del mondo delle mafie. Due maestri. Oxford mi sembrò un luogo che guardava spesso alle dinamiche mafiose del nostro paese e del mondo, con una urgenza più evidente rispetto a tanti altri atenei. Ora Federico Varese pubblica un libro in Italia dopo aver pubblicato molto in Gran Bretagna. Un saggio disciplinato, complesso, un'opera scientifica: Mafie in movimento (Einaudi). Si tratta di un'analisi profonda sul trapianto delle mafie fuori dai propri territori di origine. Fuori da quelli che vengono comunemente percepiti, con superficialità, come i loro confini "naturali". Nel luglio 2010 la maxi-operazione denominata Il Crimine, condotta da Polizia e Carabinieri all'interno dell'indagine coordinata dalle Procure di Milano e di Reggio Calabria, portò a 300 ordinanze di custodia cautelare contro boss riconosciuti e presunti affiliati della 'ndrangheta, di cui 160 in Lombardia.

E all'individuazione di almeno 15 "locali" lombardi. L'eccezionalità di quest'operazione non risiede solo nel numero di persone coinvolte nell'attività criminale, ma soprattutto dalle zone nelle quali molte di queste persone operavano. Non Platì, San Luca, Reggio Calabria, Marina di Gioiosa Ionica, nomi che siamo abituati a sentire quando si parla di 'ndrangheta. Ma Milano, Bollate, Cormano, Rho, Pioltello, Erba. Città e paesi di quel Nord che si è sempre sentito immune. Che ci hanno sempre fatto credere fosse immune.

Se in Calabria rimane il vertice direttivo, la Lombardia emerge come cuore economico dell'associazione: qui la 'ndrangheta è riuscita a ricreare una struttura parallela, dotata di un alto grado di autonomia d'azione. L'Operazione Il Crimine ha totalmente ribaltato l'assioma secondo cui la mafia è frutto della "cultura" del Meridione e che il trapianto mafioso fosse impossibile in zone con un alto tasso di civismo e di "capitale sociale". Ha dimostrato l'ingenuità della convinzione che il soggiorno obbligato sarebbe bastato a redimere i mafiosi.

Ma nessun territorio è immune dalle infiltrazioni, perché la mafia non è una malattia, è un sistema economico e non si eredita come una tara familiare e non si cura con aria di mare come una polmonite. Come spiegarsi altrimenti ciò che è accaduto a Bardonecchia, l'operoso comune piemontese, sciolto per mafia nel 1995?
Dati questi precedenti, e soprattutto adesso, nell'era della globalizzazione e della "società liquida" si sarebbe portati a pensare che anche per le organizzazioni criminali sia più facile espandersi e andare oltre i propri confini. In realtà, questa tesi, che vale certamente per un'impresa legale, non è così scontata quando si parla di imprese illegali. Anzi, gli studiosi di criminalità hanno sempre considerato le mafie stanziali, fortemente radicate nel territorio che governano. È Machiavelli a ricordare che il Principe deve risiedere fra la sua gente. E non dimenticherò mai quanto mi disse Maurizio Prestieri, boss della camorra attualmente collaboratore di giustizia.
"Io lo dico sempre: non dovevamo essere Vip, ma Vipl". Vipl? Chiedo. E cioè? "Sì la L sta per Local". Very Important Person, Local! L'importante è essere importanti solo nel recinto.

Per quanto un'organizzazione possa essere potente, infatti, il trapianto in un territorio altro sarà reso arduo dalla difficoltà del boss di controllare i suoi affiliati che operano lontano, dalla difficoltà di creare nel nuovo territorio una rete solida di complici e soprattutto dalla difficoltà per il mafioso di crearsi quella stessa "reputazione" che in patria gli permette di essere temuto e rispettato, di essere, appunto, un VIPL. Quindi la decisione di invadere mercati distanti molto spesso non avviene "a tavolino", ma è il risultato di pressioni esterne o interne al gruppo criminale. I mafiosi emigrano perché ricercati dalla giustizia, per salvarsi da faide, perché obbligati al soggiorno in un territorio lontano dal proprio. Le organizzazioni, penso ai casalesi in Emilia Romagna e Spagna o agli 'ndranghetisti in Portogallo, si spostano anche laddove il capitale li porta, ma la dinamica che osserva Varese ha diversa natura.

Fu il soggiorno obbligato che portò i calabresi del clan Mazzaferro, tra gli anni '50 e '70, a trasferirsi a Bardonecchia e a radicarsi qui con la propria organizzazione, arrivando non solo a controllare il settore edile, ma anche a infiltrarsi nella politica locale. E perché il trapianto avvenisse, però, fu determinante la presenza di un fattore fondamentale: la domanda di protezione criminale.

Negli anni '60, quando i boss arrivarono a Bardonecchia per il soggiorno obbligato, il settore edile era in espansione e c'era bisogno di forza lavoro maggiore. Alcune aziende della zona cominciarono quindi a rivolgersi a "faccendieri" che procuravano manodopera del Sud presente a Torino ma che non riusciva a essere assorbita negli stabilimenti Fiat. Questi lavoratori non specializzati e privi di ogni tutela sindacale, pur di guadagnare accettavano occupazioni in nero e mal pagate. I boss calabresi cominciarono così a gestire il cosiddetto "racket delle braccia", un sistema di reclutamento che favoriva sia gli operai immigrati non sindacalizzati, sia le imprese edili della zona. Non solo: trattandosi di lavoro nero, questa mafia era in grado di assicurare anche la soluzione a eventuali conflitti tra dipendenti e datori di lavoro. Un'indagine della Commissione parlamentare antimafia che visitò la zona nel 1974, stimò che l'80% della forza lavoro a Bardonecchia veniva reclutata attraverso canali illegali. Rocco Lo Presti, boss di spicco della 'ndrangheta, il primo ad essere mandato al soggiorno obbligato al Nord, era riuscito a diventare il principale fornitore abusivo di manodopera a buon mercato nella zona, e aveva attirato a Bardonecchia imprese di costruzione dalla Calabria, che presto riuscirono a sbaragliare la concorrenza delle ditte piemontesi. Il controllo sul territorio consentì al gruppo criminale di diversificare i propri interessi e di proteggere altre attività illegali, come il traffico d'armi e di droga e il riciclaggio di denaro. L'ultimo passo fu condizionare la politica e la reazione della società civile non fu sufficiente a impedirlo. Le mafie vincono quando tutti ci guadagnano.

A Verona, invece, il soggiorno obbligato non ha avuto gli stessi effetti. Con un'economia basata principalmente sull'esportazione di prodotti artigianali, c'era minore domanda di protezione criminale perché la mafia non può aiutare gli esportatori a penetrare mercati lontani. L'unico "servizio" che i calabresi potevano fornire agli imprenditori veronesi era quindi la semplice estorsione o il furto di camion carichi di mobili.

La 'ndrangheta cercò allora di prendere il controllo dell'unico mercato illegale di una certa rilevanza presente a Verona in quegli anni: il consumo e il traffico di eroina. Famosa in tutta Italia per la "veronese", la più economica e la più pura, la città veneta era diventata la "Bangkok d'Italia".

Il traffico era gestito da spacciatori locali non legati alla mafia, spesso imprenditori insospettabili, che avevano rapporti ormai consolidati con i fornitori e di fiducia con i clienti, ma soprattutto applicavano a questo mercato le medesime norme di correttezza commerciale che caratterizzavano i settori legali dell'economia. Non c'era quindi bisogno di affidarsi a terzi per far rispettare i patti. La droga la gestivano gli imprenditori veronesi e non c'era spazio per le colonie 'ndranghetiste a meno che non decidessero di intraprendere una guerra.

Ecco allora che la domanda di protezione diventa un fattore determinante per la riuscita del trapianto delle mafie. Domanda connaturata ai mercati illegali, ma spesso presente anche in quelli legali, dove lo Stato, per vari motivi, non è in grado di proteggere i propri cittadini, di risolvere le dispute economiche e commerciali e di far rispettare i patti. In questo caso le parti saranno più propense a rivolgersi a un'autorità "altra" che fornisca protezione alternativa a quella del diritto.

In altri casi la domanda di protezione può scaturire da politiche protezioniste, come accadde agli inizi del '900 a New York con le cosiddette "riforme Gaynor". Si tentò di bloccare la prostituzione, il gioco d'azzardo, il consumo notturno di alcolici e, successivamente, la produzione, la vendita e il trasporto di alcolici e ciò favorì la nascita di un mercato illegale milionario perché quei settori, estremamente redditizi, erano d'improvviso rimasti senza protezione. La mafia siciliana presente a New York fu pronta a intervenire, si espanse e cominciò ad affrancarsi anche dalla madrepatria siciliana.

In quello stesso periodo, alcuni conterranei in cerca della stessa fortuna e in fuga dalle stesse minacce, scelsero di emigrare in Argentina, a Rosario. Una città che, per il boom edilizio pareva rappresentare un'ottima opportunità di affari. Ma il mercato della manodopera a buon mercato era già gestito da impresari che procuravano operai alle aziende edili nel rispetto delle regole e quindi non si creò il bisogno di risolvere le dispute al di fuori della legge. Inoltre l'attivismo sindacale veniva represso con duri interventi degli apparati statali e ai mafiosi non veniva lasciato nemmeno il compito di punire i sindacalisti e gli scioperanti. In aggiunta, in città non esistevano mercati illegali significativi sui quali poter esercitare un controllo.

Dall'analisi di Federico Varese risulta che la sola presenza di mafiosi non è condizione sufficiente perché le organizzazioni criminali si possano radicare in luoghi diversi da quelli in cui sono nate. È essenziale perché questo avvenga che esista una domanda di protezione, è essenziale che lo Stato sia incapace di far rispettare i diritti dei propri cittadini.

Quindi fa danno enorme ritenere le mafie legate unicamente ai propri, marginali, paesi di origine. Fa danno al nord Italia e ai paesi europei considerarsi immuni. Fa danno porre l'attenzione sull'aspetto repressivo e non sulle riforme economiche e di sistema che renderebbero i mercati nazionali immuni ai capitali criminali.

Quando un territorio è minacciato dalla presenza mafiosa, quando ne è invaso, soprattutto se si tratta di paesi in fase di sviluppo, la politica diventa decisiva, al Sud come al Nord, ad Est come ad Ovest, ovunque. E conoscere i fattori che facilitano l'espansione delle mafie, liberarsi da pregiudizi e paraocchi, è un passo fondamentale per combatterle.
 

(02 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #100 inserito:: Agosto 01, 2011, 11:40:17 am »

 
Il racconto

"Ecco che cosa mi ha insegnato l'amicizia con Peppe D'Avanzo"

Il ricordo del grande giornalista, scomparso sabato a 57 anni, dell'autore di Gomorra: "Aveva uno sguardo matematico sulle inchieste, quel rigore che ti permette di agire sempre con la lucidità e la sicurezza che solo la ricerca della verità può dare. E quei pranzi con antipasto a base di fragole..."

di ROBERTO SAVIANO


Non riesco ad abituarmi all'idea che non potrò più rivedere Peppe D'Avanzo. O sentirne il vocione al telefono. Quando una persona muore così all'improvviso, fai fatica a realizzare che sia successo davvero. Ti sembra impossibile.

L'ultimo suo messaggio mi era arrivato solo qualche giorno fa. Leggendo i ricordi dedicati a D'Avanzo si sente chiaramente l'affetto per l'uomo, la stima per il giornalista, la gratitudine per il maestro. Il vuoto che lascia D'Avanzo nel giornalismo italiano è enorme. Qualcosa in più della capacità di indignazione. La sua forza risiedeva nella rigorosa disciplina del dato e nella capacità narrativa di raccontare il meccanismo. In altre parole, fare il giornalista.

Peppe lo mostrava chiaramente che dar vita a un'inchiesta giornalistica non significa semplicemente andare a leggere il casellario giudiziario e sbattere la notizia in prima pagina, ma capire i meccanismi che stanno dietro alle vicende, analizzare i dati, collegare i fatti. Questo faceva con sapienza D'Avanzo. Ed era questo che gli permetteva di non accanirsi sulle persone, piuttosto sui loro sulle loro azioni. Sembra un dettaglio, questione di lana caprina, epistemologia per scuole di giornalismo. Tutt'altro.

E' ciò che fa la differenza tra la militanza e una inchiesta. D'Avanzo infatti detestava la superficialità che porta spesso a creare processi mediatici, che poi si sgonfiano senza nulla di fatto, lasciando dietro di sé solo vittime del cattivo giornalismo, per le quali una smentita non potrà mai cancellare l'onta della notizia. Lui aveva bisogno di fatti, di prove, di capire lui stesso prima di scrivere e far capire agli altri.

Sembrava infatti che mentre scriveva lui stesso stesse capendo sempre di più, non una lezione da ammannire al lettore, ma un percorso. Peppe era diffidente verso tutto ciò che non approfondiva. Lo era stato anche nei miei confronti quando la mia vicenda era apparsa sui giornali: voleva capirne di più. Fin quando iniziammo a vederci. Andai a casa sua discutere con D'Avanzo era piacevole. Anche quando non condivideva un'analisi o aveva dei dubbi su un passaggio dai lui giudicato troppo frettoloso, e chiosava con un "dai Robbè" che non lasciava scampo. Come a dire, questa cosa la devi dimostrare.

D'Avanzo aveva uno sguardo da matematico sulle inchieste: i passaggi possono essere semplificati solo quando ci sono fattori semplificabili e il tutto deve essere il risultato di una somma di passaggi. Questo rigore non ti assicura di metterti al riparo da errori o imprecisioni, tutt'altro, ma ti permette di agire sempre con la lucidità e la sicurezza che solo la ricerca della verità può dare. Questo faceva di D'Avanzo molto di più di un cronista d'indignazione, un analista. E questa la differenza.

Peppe cercava di mantenersi invisibile perché questo gli permetteva di fare meglio il suo lavoro di giornalista d'inchiesta, di muoversi più facilmente e liberamente: io dinanzi ai suoi occhi ero esattamente il contrario, perché cercavo e cerco di ottenere visibilità per arrivare al più alto numero di persone possibile. E temevo che questa diversità ci allontanasse, che Peppe fosse un giornalista della vecchia guardia, di quelli convinti che sia nobile avere una firma, non un volto televisivo, che sia importante scrivere libri, non venderli.

Ma mi sbagliavo. Con il passare del tempo ci legammo perché Peppe era incuriosito e ammirato soprattutto dalla diversità di metodo. Il racconto del potere ci univa, e io ricorrevo a lui quando proprio non riuscivo comprendere alcune dinamiche. Fu il primo a chiamarmi dopo il polverone partito con il mio racconto televisivo sulla ndrangheta al nord. Mi incoraggiò a mantenere il punto a non indietreggiare e anzi ad andare a fondo certo che il fastidio era giunto al governo dal troppo ascolto di quelle parole.... Quando una persona scompare ti restano nelle prime ore il ricordo di dettagli a cui non avevi mai pensato.

Almeno a me così accade. Ancor prima che all'intera vita lavorativa di una persona penso a piccole cose, mi tornano in mente per la prima volta. Quando ci incontravamo per pranzo Peppe mi faceva trovare la mozzarella, che io adoro. Mentre lui invece come antipasto mangiava le fragole. Non l'avevo mai visto fare. E a fine pasto c'era sempre mentre si accendeva il sigaro il momento in cui si parlava di Napoli. Sempre. Per nessuno tranne che per i meridionali è così. Se scrivi se canti se giochi, e vieni da napoli sarai sempre il giornalista napoletano, scrittore napoletano pittore napoletano. Quel napoletano non te lo toglierai mai.

La sua bravura e il suo metodo rigoroso spesso infallibile lo portavano ad essere un giornalista temuto. Peppe generava paura, paura nelle persone che finivano nelle sue inchieste, ma anche timore riverenziale in tutti coloro che si apprestavano a scrivere sugli stessi argomenti. Peppe sapeva essere duro, durissimo. Era umorale, sanguigno. Esigente con se stesso prima che con gli altri, non si tirava indietro nel ritrattare un giudizio su una persona o una vicenda. Il suo carattere e i suoi modi lasciavano intravedere una malinconia che ci aveva visti vicini.

Capitava spesso che dopo un forte impegno giornalistico, Peppe sparisse. Il giornale lo cercava, così come gli amici e i colleghi, ma lui si inabissava. Inutile cercarlo, inutile implorare risposta inutile chiamarlo. Peppe non c'era. Per i colleghi questo era un aspetto indecifrabile del suo carattere, a volte mal sopportato o persino visto come l'atteggiamento snob di chi vuole porre delle distanze. A me, invece, quest'aspetto di Peppe piaceva molto, perché lo vedevo come il suo modo di non essere inghiottito dal mondo difficile che aveva scelto. Il giornalismo, anche se hai un'anima forte e una morale rigorosa, è un territorio torbido.

Quando poi si fanno inchieste, tragedie, morti e crimini diventano parte della tua quotidianità: con il tempo e l'abitudine tendono inevitabilmente a diventare solo qualcosa da mettere in prima pagina. Perdono il loro pathos, il loro valore di coscienza. Dopo un po' ne vieni anestetizzato: una morte non ti spaventa più, un omicidio lo vedi solo come un titolo sul giornale, i rapporti diventano utili solo se convenienti a trovare notizie o ad avere contatti con un certo mondo. Peppe metteva sé al riparo da tutto questo ritirandosi dopo esserci stato in mezzo alle cose senza risparmiarsi. Come se il darsi troppo rischiasse di compromettere la sua anima. Quando chiudi una inchiesta ti resta l'amaro, il disgusto. "Questo davvero è lo schifo di mondo in cui viviamo", gli dicevo, e Peppe sentiva nelle mie parole tutta l'eco della strisciante depressione, se non trovi una via di sfogo, ne vieni inghiottito.

La depressione la malinconia è ciò a cui una persona che lavora con la sola fragile potenza delle parole si espone. Da fuori osservarlo era davvero un'esperienza. Peppe era geloso delle persone che amava. Una gelosia che era l'unico tratto quasi fanciullesco del suo vivere (a parte il tifo maniacale per il rugby), il suo legame con il direttore Ezio Mauro a vedersi era qualcosa di unico e indefinibile, rapporto giornalista direttore amicizia fratellanza simbiosi che non rinunciava a discussioni. Perché per Peppe convincerlo o convincere era la fine di un percorso di combattimento. Peppe voleva che le persone verso cui nutriva affetto vero lo curassero e voleva che queste si concedessero alle sue cure. Anche questo credo che mancherà soprattutto ai suoi colleghi e mancherà a me.

L'esclusività che richiedeva, il sentirsi di continuo necessario, voluto bene, tenuto in considerazione. Tutt'altro che insicurezza ma il ribadire il valore del legame. Se quel valore non lo difendi e coltivi soprattutto quando fai questo mestiere, sempre esposto, sempre criticato, sempre nel mirino, beh dicevo se non lo difendi quel valore tutto crolla.

Ero stato a casa sua diverse volte, ma ne ricordo una in particolare: il giorno in cui sentii che non ne potevo più di vivere così. Blindato eppure con i soliti commentini crudeli e sotto banco, "lo fa per soldi" "macché rischio non c'è nessun rischio" "tutta una messa in scena". Scappai a casa sua, lontano dagli schiamazzi salii di fretta le scale fino all'ultimo piano. Mi accolse con un bicchiere di vino in terrazza, ai nostri piedi sempre la dolcissima Noce, la sua cagnolina sempre presente.

Mi fece sfogare, annuendo o accompagnando le mie parole con un "mmm" cadenzato come a rassicurarmi che mi stava ascoltando con attenzione. E alla fine del mio lungo sfogo disse semplicemente ma con fermezza: "Robbè io la terrei la scorta, quelli te la danno resisterei, non fare cazzate". Quando nel 2009 fu messa in dubbio la necessità della scorta  -  affermazioni subito smentite dal capo della Polizia Antonio Manganelli  -  Peppe scrisse un articolo analitico, puntuale, come era nel suo stile in cui cercava le ragioni di queste dichiarazioni senza senso. Quando una persona interviene pubblicamente in tua difesa, non lo dimentichi. Mi disse anche di partire, di andare via. E il suo ultimo messaggio era di rimprovero perché non l'avevo salutato subito seguito da "ti raggiungo, contaci".

Il dispiacere che non si arresta in queste prime ore senza Peppe è aumentato dal pensiero che non è riuscito a vedere la fine del potere berlusconiano, un potere che aveva descritto e capito come pochi. Senza odio personale anzi, ma comprendendone le dinamiche che hanno minato, eroso lo scheletro e il midollo della democrazia italiana. Un potere che gli aveva reso anche la vita difficile. Il kaddish per Peppe lo reciterò il primo giorno della nuova Italia, perché quel giorno ormai vicino verrà anche grazie a Peppe.

(01 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #101 inserito:: Novembre 16, 2011, 11:58:39 am »

COMMENTO

Il ventennio dell'arabesco

di ROBERTO SAVIANO

ESISTE una parola che più di tutte descrive ciò che il governo Berlusconi è stato per l'Italia, ciò che lo ha davvero caratterizzato in senso politico ed economico, questa parola è immobilismo. Negli ultimi venti anni non è successo niente per il Paese. Non una delle riforme promesse nel 1994 e che avrebbero contribuito a scongiurare la crisi che ora l'Italia sta vivendo, è stata fatta. Ed è evidente che dove non sono riusciti gli elettori, dove non sono riuscite le opposizioni, dove non è riuscita la stampa, dove non sono riusciti gli intellettuali, è riuscito il mercato. Ironia della sorte, proprio Silvio Berlusconi, che si è sempre vantato di aver creato un impero dal nulla, di aver incarnato il sogno americano del self-made man, che si è sempre considerato campione di numeri e denaro, è stato sopraffatto dove si sentiva onnipotente, in quello che ha sempre detto essere il suo stesso elemento: dal mercato. È stato commissariato da un'economia che della sua gestione non poteva più fidarsi.

Ennio Flaiano diceva: in Italia la linea più breve tra due punti è l'arabesco. I vent'anni di governo Berlusconi sono stati un arabesco: la linea più lunga possibile tra il vecchio e il vecchio che si vestirà di nuovo. Quante bugie in questi venti anni, quante mistificazioni. Dalle false, umili origini, perché in lui l'italiano medio potesse identificarsi, alla menzogna più grande di tutte, passata di bocca in bocca e progressivamente svuotata di ogni significato, secondo cui un uomo che ha creato un impero, che è ricco e a capo di aziende floride  -  o che floride apparivano  -  non ha bisogno di rubare, di sottrarre denaro pubblico al Paese, come avevano fatto i partiti nella prima Repubblica. Un sogno fondato su menzogne ed equivoci perché, fatti fuori i padrini politici, occorreva che Berlusconi prendesse in mano la situazione. Del resto lui stesso ripeteva che il suo ingresso in politica avveniva per tutelare i suoi interessi. Suoi personali e delle sue aziende. Ed è esattamente quello a cui abbiamo assistito nei venti anni in cui è stato protagonista indiscusso della scena politica italiana. Gli incarichi istituzionali sono divenuti strumento di realizzazione di affari privati. Gli stessi capi di Stato stranieri, che negli ultimi anni gli sono stati più vicini, non sono altro che soci. Dal gas di Putin: gli affari energetici russi rappresentano il 70% delle esportazioni verso l'Italia e la stessa Hillary Clinton ha avanzato dubbi sulla natura affaristica delle convergenze politiche tra Berlusconi e Putin, all'imbarazzante amicizia con Gheddafi: dal giugno 2009 la Lafitrade della famiglia Gheddafi e la Fininvest, tramite la controllata lussemburghese Trefinance, sono i veri proprietari della Quinta Communications di Tarak Ben Ammar. L'affare con la società tunisina, in cui Lafitrade ha il 10% e Fininvest il 22%, ha aperto la strada al riciclo occidentale, a partire dall'Italia, di una massa voluminosissima di petroldollari di Gheddafi, valutata 65 miliardi di euro.

Nessuna legge per l'Italia, solo leggi per lui. E non che gli mancassero i numeri in Parlamento. Ha avuto, e per molto tempo, una maggioranza incredibilmente forte che gli avrebbe consentito di attuare le riforme promesse, che lo avevano consacrato  -  all'indomani della sbornia seguita al terremoto giudiziario che ha distrutto i vecchi partiti italiani all'inizio degli anni '90  -  l'uomo nuovo, il vento nuovo, il campione di quel riformismo liberale che lui contrapponeva alla stagnazione delle sinistre incapaci di trasformarsi. Non la riforma della giustizia, non quella delle pensioni, nessuna prospettiva per le nuove generazioni vittime, viceversa, di una nefasta deregolamentazione del mercato del lavoro che ha portato con sé una precarizzazione finalizzata solo a favorire le aziende, legittimate ad adottare un sistema di sfruttamento dei lavoratori, che non prevede alcuno spazio per la formazione. In Italia il settore pubblico è allo sfascio, la sanità non ha standard degni dell'Europa, la scuola e l'università arrancano. Le spese per la nomenclatura militare deliberate dal ministero della Difesa  -  presieduto in questi anni da un ex (ma non tanto, come ama ripetere) fascista, Ignazio La Russa  -  hanno umiliato, deriso, lo stato di abbandono nel quale versa la ricerca scientifica nel nostro Paese. Il Parlamento è stato per anni impegnato a discutere, emendare e votare leggi ad personam e leggi, come le abbiamo definite, ad aziendam. E il mondo nuovo che Berlusconi aveva promesso è diventato un mondo vecchio, più vecchio di quello che lo ha preceduto. Il sogno liberale è divenuto un incubo di "lacci e lacciuoli", quelli dai quali prometteva di liberare gli italiani e che invece ha solo contribuito a stringere più forte, come in una morsa. Il governo che verrà avrà l'arduo compito di attuare le riforme economiche che potevano essere pensate e discusse con le parti sociali nei passati venti anni e che invece strozzeranno l'Italia nei prossimi mesi, come un boccone troppo grande, da ingoiare comunque, poiché la necessità poco spazio lascia al contraddittorio politico.

L'Europa si fida di Mario Monti e ciò potrà dare ossigeno all'economia italiana. Ma se davvero toccherà a lui raccogliere il testimone, dovrà fare scelte difficili che, la storia italiana lo dimostra, non saranno premiate. Formare il nuovo governo sarà infinitamente più facile che farlo resistere, nelle insidie dei prossimi giorni, settimane, forse mesi. La lenta e ingiustificabile agonia inflitta nell'ultimo anno del berlusconismo, in uno con la pratica dell'"acquisto" di parlamentari dell'opposizione, nel tentativo disperato di puntellare una maggioranza politicamente inesistente, ha prodotto la paralisi del Parlamento e ha favorito la formazione di numerosi centri di potere all'interno del partito del padrone, il Pdl. Nella prima Repubblica si sarebbero chiamate correnti e, forse, non è un caso che uno degli uomini chiave del tracollo berlusconiano sia stato un esponente simbolo della corrente andreottiana, Paolo Cirino Pomicino, ministro delle Finanze in epoche scellerate, di vacche grasse e irresponsabilità diffusa. Tutti questi piccoli potentati non rispondono più al vecchio capo e il Pdl non è più un partito coeso, dato che lo stesso suo fondatore Berlusconi è pronto a disfarsene; uno scenario grottesco, nel quale ognuno pare essere pronto a sabotare il percorso del governo Monti, per guadagnare un posto al sole, una visibilità perversa. Il governo che dovrebbe nascere nelle prossime ore potrà morire da un momento all'altro. E ciò accadrà nonostante lo sforzo del presidente della Repubblica, che nel pieno rispetto delle sue prerogative costituzionali, ha condotto il Paese con spirito saldo.

Del resto, anche se l'uomo Berlusconi sembra finito, il berlusconismo non è ancora morto. Sta lì, paziente, aspettando di risorgere, pronto a dire "senza di me è stato peggio". I suoi protagonisti aspettano di speculare sui momenti difficili che l'Italia vivrà, fingendo di non esser stati anche loro a generarli. Già adesso, alcuni surreali ex neo-con e ora neo-keynesiani (alla bisogna) maître a' penser mistificano la realtà, difendendo l'indifendibile e reclamando libere elezioni, ovviamente senza spendere una sola parola sulla legge elettorale in vigore, dalla stessa uscente maggioranza introdotta e significativamente definita, dal suo medesimo estensore, porcellum. L'impressione è che, ancora una volta, ci sia spazio per tutto tranne che per il talento e per la volontà di ricostruire davvero un Paese che più ancora che economicamente è piegato nel morale, nella fiducia e nella speranza che si possa tornare a essere felici e realizzati senza dover andar via. In Italia ancora una volta il rischio è che si faccia piazza pulita perché si possa più agevolmente tornare indietro.

(14 novembre 2011) © Riproduzione riservata
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« Risposta #102 inserito:: Dicembre 25, 2011, 11:48:17 pm »

Il ricordo

Addio, partigiano Giorgio

di Roberto Saviano

La sua Resistenza è iniziata sulle montagne del Piemonte.

Ed è continuata per i 66 anni successivi, con la penna e l'inchiostro al posto del fucile.

L'omaggio dello scrittore Roberto Saviano al grande giornalista scomparso

(25 dicembre 2011)

Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati... Quelli che parlavano erano due piemontesi e discutevano delle radici profonde del male meridionale, loro lo avevano capito e l'analisi che si scambiavano come un testimone che l'uno affidava all'altro non era disprezzo colonialista verso un popolo schiavo che non aveva la forza di riscattare i suoi diritti. No, il loro era amore per il Sud, da italiani che sapevano di essere parte di quella stessa terra così lontana dai portici delle città sabaude, costruiti per proteggere da un clima europeo che il sole della Sicilia e della Campania non sa immaginare: un amore che andava oltre il senso del dovere o della professione e che per questo si trasformava in denuncia, nella metodica, sistematica analisi di quanto il male fosse profondo nella vita della gente che non sapeva, non voleva, non poteva ribellarsi.

Quel colloquio tra Carlo Alberto Dalla Chiesa e Giorgio Bocca è stato importante per me e per quelli della mia generazione che hanno sempre chiesto di capire. Noi che abbiamo cominciato a fare domande dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per riscoprire così il sacrificio del carabiniere diventato prefetto che aveva rinunciato alle scorte e alle blindate per essere parte della vita di Palermo, l'altra capitale del Sud, e si era imposto di cominciare la sua missione proprio dalle scuole, dal consegnare ai giovani meridionali la speranza in un futuro di legalità.

Noi volevamo capire perché senza capire non si può cambiare; capire anche a costo di specchiarsi nell'orrore di una realtà che non poteva più restare nascosta dietro slogan logori e paesaggi da soap: guardarsi in faccia, scoprire il proprio volto a costo di rendersi conto di quanto fosse brutto.

Questo è quello che Giorgio Bocca mi ha insegnato, a raccontare senza avere scrupoli né sentirmi un traditore. Lo hanno accusato di essere razzista, antimeridionale, di odiare il Sud. Sono le stesse cose che hanno detto di me, contro di me, "il rinnegato". Ci hanno dato degli "avvoltoi" che si arricchiscono con il dolore altrui. Bocca invece ha fatto dell'essere "antitaliano" una virtù, il metodo per non arrendersi a luoghi comuni. Da lui ho capito che non bisognava mai lasciarsi ferire, né abbassare gli occhi: gli insulti sono spinte ad andare oltre, a entrare più in profondità nei problemi. La mia strada per l'inferno l'ha indicata lui, "Gomorra" si è nutrito della sua lezione: guardare le cose in faccia, respirarle, sbatterci contro fino a farsele entrare dentro e poi scrivere senza reticenze, smussature, compiacenze.

Bocca lo ha sempre fatto, da fuoriclasse, lo continua a fare oggi a novant'anni con la curiosità e la tenacia di un ventenne; sempre pronto a mettersi in discussione come quel ragazzo che nel 1943 salì in montagna superando il suo passato e scegliendo il suo futuro.

E quando lui e Dalla Chiesa parlavano di un popolo da liberare lo facevano con l'anima dei partigiani, di chi aveva combattuto lo stesso nemico in nome dello stesso popolo. Avevano rischiato la vita e ucciso anche per consegnare un domani diverso a chi accettava passivamente la dittatura fascista e la dominazione nazitedesca; sono stati partigiani anche per chi non aveva il coraggio, la forza, la volontà, la possibilità o la capacità di lottare per i propri diritti. La loro vittoria è stata la Costituzione, quel documento vivo che dovrebbe essere il pilastro della nostra democrazia, un monumento di libertà troppo spesso ignorato o bollato di vecchiaia. No, è un testo modernissimo, come ancora oggi lo sono gli interventi di Giorgio Bocca. Essere partigiano prima con il fucile e poi per altri 65 anni con l'inchiostro significa avere la misura della libertà, saperla riconoscere ovunque.

A sud di Roma è difficile ascoltare racconti partigiani. La guerra di liberazione è stata più a nord e anche questo ha contribuito a non risvegliare coscienze già rassegnate. Napoli con le sue quattro giornate è stata una fiammata d'eroismo, l'unica metropoli europea a cacciare i tedeschi, ma la sua levata d'orgoglio è bruciata in meno di una settimana. Sembrava quasi che ad animare i napoletani diventati guerriglieri ci fosse lo stesso sentimento del tassista che Bocca descrive nell'incipit del suo "Napoli siamo Noi": "Lui che è più intelligente del forestiero. La maledetta presunzione individualista per la quale un napoletano è pronto a dannarsi".

     
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« Risposta #103 inserito:: Maggio 11, 2012, 12:04:05 am »

Saviano, tra pubblico e privato

Una lunga e intensa intervista rilasciata in esclusiva dallo scrittore al nostro giornalista Gianluca Di Feo.

Proposta da 'l'Espresso' in un dvd che accompagna il libro con tutti i suoi interventi a 'Vieni via con me'

(07 maggio 2012)

Capita, di tanto in tanto, nella scatola televisiva costipata di game show e reality, che un programma sfondi gli argini dei maxi ascolti grazie alla potenza della parola e della qualità.

E' successo, ad esempio, nel novembre 2010, quando Fabio Fazio e Roberto Saviano hanno oltrepassato con 'Vieni via con me' il 30 per cento di share e i nove milioni di spettatori. Ed è quanto mai probabile che il successo si ripeta il 14, 15 e 16 maggio prossimi, allorché su La7 riappariranno fianco a fianco il conduttore di 'Che tempo che fa' e l'autore di 'Gomorra' in un nuovo spazio titolato "Quello che (non) ho".

Il punto, però, è che 'Vieni via con me' non può essere semplicemente letto come un episodio di buona tv baciata dallo share. Al contrario, in piena deriva berlusconiana, ha segnato una tappa chiave nella realtà catodica di questo Paese, dando voce all'Italia esasperata dall'arroganza delle mafie, al Sud come al Nord, dalle inadeguatezze della politica, e dalla difficoltà di dialogare su questioni come l'eutanasia o il rispetto della carta costituzionale.

Temi che ora tornano alla pubblica attenzione con l'uscita del dvd 'Roberto Saviano racconta Vieni via con me': una lunga e intensa intervista rilasciata in esclusiva dallo scrittore campano al nostro giornalista Gianluca Di Feo, e proposta (sul prossimo numero, venerdì, al costo di 9,90 euro) da 'l'Espresso' in un cofanetto che include il volume 'Vieni via con me', dov'è possibile ripercorrere tutti gli interventi di Saviano durante la trasmissione della terza rete Rai.

«E' difficile», premette lo scrittore a Di Feo, «affrontare una vita in cui sei totalmente pubblico o pubblicamente nascosto». Ed è questo il filo narrativo attraverso cui Saviano sviscera per un'ora abbondante se stesso, partendo dall'esordio di 'Gomorra' («quando la magia letteraria ha oltrepassato la linea d'ombra») fino all'impatto con i grandi numeri della platea televisiva, ingombranti al punto da «impedirmi di entrare in un ristorante, perché i presenti si sentono comunque in dovere di abbracciarmi o magari sbuffarmi contro».

E' un continuo rimando, il Saviano di questo dvd, tra la sfera privata (in cui rimpiange «la possibilità di vivere a contatto diretto con le cose») e le riflessioni pubbliche: sul profondo significato del pattume napoletano, in primo luogo, simbolo pratico e filosofico dello «scoramento» partenopeo; ma anche sulle strategie della malavita al Sud, e sul suo sforzo di svicolare dai media nazionali.

Un avvilente affresco italiano che, non per niente, è tracimato un anno e mezzo fa nel caso di 'Vieni via con me': programma che - come testimonia Saviano stesso - i vertici di viale Mazzini avrebbero voluto contenere nel limite della nicchia, dell'offerta innocua per i soliti pochi ma buoni, e invece è esploso con ascolti record: «Abbiamo avuto l'editore contro», sottolinea l'autore di 'Gomorra' nel dvd de 'l'Espresso'. Senza tacere, in parallelo, come lo scontro attorno a "Vieni via con me" sia stata «una delle esperienze più difficili da vivere»: a tal punto dolorosa, da spingere Fazio e Saviano a trasferire il loro format sotto il tetto de La7.

«Vorrei scendere dal pulpito, anzi dallo sgabello», commenta non a caso Saviano spinto da fame di libertà e leggerezza. Ma alla vigilia di 'Quello che (non) ho', ribadisce anche qual è l'essenza della sua formula comunicativa: «Fare scorrere nello stesso letto il fiume della narrativa e quello della cronaca». Un'impresa non da tutti.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/saviano-tra-pubblico-e-privato/2180182/8
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« Risposta #104 inserito:: Luglio 31, 2012, 04:41:11 pm »

IL CASO

Dalla carne alla mozzarella

Camorra Food Spa serve a tavola

Cibi avariati, frutta dai terreni pieni di rifiuti tossici, controllo dei grandi mercati alimentari: così il menù dei boss arriva sulle tavole


di ROBERTO SAVIANO

MOZZARELLE, zucchero, burro, caffè, pane, latte, carne, acqua minerale, biscotti, banane, pesce. Difficile ammettere che quando andiamo a fare la spesa rischiamo di finanziare le organizzazioni criminali. Eppure è così. Il paniere della camorra, di Cosa Nostra, della 'ndrangheta tocca la giornata tipo di un comune cittadino. Ogni gesto, dal primo che compiamo al mattino sino alla cena, può far arricchire i clan a nostra insaputa. Per comprendere come ogni passaggio possa esser dominato dai clan, basta descrivere una giornata.

Si inizia dal bar. Il caffè in molti territori è monopolio dei boss. A volte ne gestiscono la produzione, altre solo la distribuzione. Esempio: il clan Mallardo di Giugliano imponeva ai bar di comprare il caffè Seddio prodotto da una ditta intestata ai D'Alterio, nipoti del boss Feliciano Mallardo. L'operazione della Guardia di finanza "Caffè macchiato" del 2011 ha mostrato che l'imposizione del caffè Seddio era di tipo estorsivo, ma ha anche svelato l'esistenza di un vero e proprio accordo tra il clan Mallardo e i vertici dei Casalesi, che consentivano l'espansione degli interessi dei giuglianesi anche in aree tradizionalmente sotto il loro controllo, previo pagamento di una tangente che veniva versata al "gruppo Setola". Consumare una tazzina di caffè Seddio era molto più di una pausa dal lavoro, era molto più di un modo per trovare energie al mattino: era bere il frutto di un patto, di un'alleanza. Il clan Vollaro di Portici imponeva la marca di caffè "È cafè", prodotto da un cognato dei Vollaro, subconcessionario di El Brasil di Quarto. Spesso le organizzazioni riescono a trattare sui chicchi direttamente in Sudamerica, ne gestiscono la torrefazione e poi la distribuzione. Imponendo la marca di caffè ai bar, accade che iniziano in qualche modo a partecipare alla loro gestione: entrano nelle attività e appena sono in crisi ne rilevano la proprietà.

Sembra un'economia minore, ma garantisce un flusso continuo di denaro ed è un modo per conquistare nuovi territori, per stringere alleanze, per creare coperture. Giuseppe Setola costrinse gran parte dei bar e delle caffetterie dell'agro aversano e del litorale domizio ad acquistare una miscela di caffè di pessima qualità, il Caffè nobis, a un normale prezzo di mercato. Con i suoi fedelissimi aveva costituito un vero e proprio marchio, aperto partite Iva e creato società, per dare all'affare una parvenza di legalità. E poi c'è il Caffè Floriò, che fa capo a Cosa Nostra: imposto a decine di locali di Palermo.

Anche lo zucchero che mettiamo nella tazzina è un business enorme e può essere sospetto. Dante Passarelli, considerato l'imprenditore di riferimento della famiglia Schiavone, era riuscito a divenire il re dello zucchero con la sua società Ipam. Lo zucchero Ipam era ovunque. Eridania, il colosso italiano, denunciò un'espansione innaturale dei prodotti dello zuccherificio di Passarelli. La società fu sequestrata tra il 2001 e il 2002 dalla Dda, da allora il marchio è diventato Kerò. Dante Passarelli morì misteriosamente cadendo da un terrazzo
nel 2004 poco prima della sentenza Spartacus. Morendo, i beni congelati tornarono alla famiglia e quindi, presumibilmente, nella disponibilità del clan dei casalesi, di cui Passarelli era stato prestanome.
A Napoli, il caffè viene sempre servito con un bicchiere d'acqua minerale. Ma anche l'acqua può essere affare dei clan. Il boss

dei Polverino di Marano, Peppe o' Barone, aveva una rete distributiva gigantesca che comprendeva acqua minerale, uova, polli, bevande e, ovviamente, anche caffè. Storia antica questa dell'acqua minerale: la camorra negli anni 80 aveva iniziato a esportare l'acqua campana negli Stati Uniti. Poi d'improvviso le bottiglie smisero di partire da Napoli. Eppure il commercio d'acqua in America continuava. Cosa accadde lo ha raccontato il film di Giuseppe Tornatore "Il camorrista" (tratto dall'omonimo libro di Giuseppe Marrazzo pubblicato nel 1984 da Pironti): il boss o' Malacarne decise di spedire soltanto le etichette, che venivano incollate su bottiglie riempite con acqua di rubinetto di New York. Bastava il marchio, perché, come diceva o' Malacarne: "Che ne capiscono gli americani, tanto quelli bevono la Coca- Cola".

I clan, anche quelli che investono nei mercati finanziari di tutto il mondo, hanno i piedi ben radicati nei Paesi, nelle province, nella terra, nelle cose. E partono da bisogni primari. Dal cibo. Dal pane. Ma poiché sul pane il margine di guadagno è spesso bassissimo, le strategie cambiano. O il racket impone un vero e proprio monopolio nella vendita della farina ai panettieri della zona che, terrorizzati dalle continue minacce, comprano a un prezzo altissimo e completamente fuori mercato una farina scadente e di bassissima qualità (lo racconta l'operazione Doppio zero a Ercolano). Oppure i clan si trasformano in panificatori: hanno spesso forni clandestini che utilizzano per produrre tonnellate di pane da vendere la domenica mattina in strada. Pane clandestino ed esentasse. I forni venivano alimentati evitando di comprare legna costosa e bruciando vecchie bare trovate nei cimiteri, infissi marci, tronchi di alberi morti trattati con agenti chimici: tutto ciò che avrebbe dovuto essere smaltito perché rifiuto speciale, finiva nei forni per cuocere il pane.

E poi il latte. Nulla di male assoceremmo mai al latte: bianco, candido, ricordo d'infanzia. E invece il suo è uno dei mercati più ambiti dalle organizzazioni criminali che presero a proteggere anche quello, anche il latte Parmalat. Il clan dei casalesi e i Moccia avevano praticamente eliminato nelle province di Napoli e Caserta ogni residua concorrenza. Quando qualche ditta riusciva ad abbassare il prezzo del proprio latte, il racket bruciava i camion o imponeva un pizzo elevatissimo costringendo quindi ad aumentare il prezzo per non insidiare il mercato del latte Parmalat. Cirio e Parmalat agivano in regime di monopolio grazie a un obolo che ogni mese versavano ai clan. Era tale la gravità della situazione che a fine anni 90 l'Autorità garante per la concorrenza si trovò costretta a imporre alla Eurolat (acquisita da Parmalat nel 1999) la cessione di alcuni marchi per sanare la situazione.

Pane, latte e burro: un tempo la prima colazione si faceva così. Ma anche il burro per anni è stato al centro degli affari dei clan. Nel 1999, la Dda di Napoli scoprì una vera e propria holding mafiosa che coinvolgeva i maggiori produttori di burro a uso industriale dell'Italia meridionale insieme ad aziende di burro piemontesi e grandi aziende dolciarie francesi e belghe compiacenti. Protagonista la Italburro controllata dal clan Zagaria, che produceva un burro venefico, utilizzando sostanze tossiche, oli per la cosmesi, sintesi di idrocarburi e grassi animali.

Non poteva sfuggire il mercato della carne, da sempre settore con una forte influenza mafiosa, come già aveva denunciato Giancarlo Siani nel 1985 parlando del clan Gionta nell'articolo che probabilmente lo condannò a morte. Forse l'operazione più importante sul traffico illegale del mercato della carne è stata Meat Guarantor, un'inchiesta conclusasi nel 2002 e condotta dai carabinieri del Nas che ha descritto il coinvolgimento di rappresentanti di tutti i settori della filiera della carne: allevatori, macellatori, proprietari delle macellerie, amministratori pubblici conniventi. L'organizzazione sgominata aveva base a Napoli e in provincia di Salerno, ma si estendeva al nord Italia e in Germania; utilizzava veterinari che certificavano la buona salute di animali che invece erano stati sequestrati perché malati. Ad altri animali, privi di documentazione sanitaria e spesso malati, somministravano medicine perché rimanessero vivi e potessero essere macellati. Recentemente il collaboratore di giustizia Domenico Verde ha dichiarato ai pm: "Si vende esclusivamente la carne delle aziende di Giuseppe Polverino", dell'omonimo clan che già commercializzava acqua. Polverino, camorrista e imprenditore, arrestato pochi mesi fa in Spagna, aveva utilizzato lo spaccio di cocaina e hashish come apripista per le sue imprese nel settore alimentare. Aveva i piedi saldi a terra, saldi nella sua terra, e utilizzava l'attività criminale per sostenere l'impero dei generi alimentari.

E poi c'è la frutta: la camorra fa da tramite dall'Africa al mercato ortofrutticolo di Fondi e nei porti: senza pagare i clan, non si può scaricare la merce che rimane a marcire nei container. L'operazione della Dia Sud Pontino svelò un patto tra Cosa nostra e camorra per controllare ortofrutta e trasporti. Fondi, in provincia di Latina, era lo snodo centrale per controllare il mercato della frutta e della verdura al centro-sud e anche in alcune zone del nord. Il clan dei Casalesi, i Mallardo, i Licciardi, insieme alle famiglie mafiose siciliane dei Santapaola-Ercolano di Catania, imponevano il monopolio dei trasporti facendo fluttuare i prezzi. Non solo Fondi, anche la frutta e la verdura nel nord Italia hanno avuto un controllo mafioso. L'ortomercato alla periferia sud-est di Milano è stata una delle piazze in cui la 'ndrangheta ha compiuto molti dei suoi affari, controllando ampi settori della filiera agroalimentare. Non esisteva mela, pera o melanzana trasportata in tutta Italia che non portasse nel suo prezzo la traccia dell'affare mafioso.

Allearsi con le mafie spesso significa distribuire i propri prodotti a prezzi migliori, a condizioni vantaggiose. Non è raro che importanti marchi finiscano per essere rappresentati da agenti dei clan. Agli inizi degli anni Duemila, un affiliato del clan Nuvoletta, Giuseppe Gala detto Showman, aveva acquistato importanza nel clan proprio perché nel business alimentare sapeva muoversi. Era diventato agente della Bauli. I Nuvoletta tra l'altro imponevano il raddoppio del prezzo del panettone Bauli a Natale come "tassa" per sostenere le famiglie dei detenuti in carcere.

Infine c'è la mozzarella, prodotto campano d'eccellenza, nel mirino delle organizzazioni da sempre. I casalesi importavano latte proveniente dall'est Europa, dove avevano allevamenti di bufale, mozzarelle romene che venivano vendute come mozzarelle casertane. Poi hanno iniziato a importare a basso costo le bufale dalla Romania, per infettarle con sangue marcio di brucellosi e guadagnare dall'abbattimento. Inquinare con affari mafiosi la produzione di mozzarella significa compromettere una delle storie culturali ed economiche più preziose della Campania. E i clan lo fanno da decenni. Nella vicenda che ha portato all'arresto di Giuseppe Mandara e al sequestro dell'azienda è emerso che grazie al rapporto con i La Torre, l'imprenditore aveva tratto vantaggio dalla rete criminale messa a disposizione dal clan e dalla sua condotta mafiosa. Non solo ci sarebbe un rapporto economico, ma anche un appoggio strategico. Mandara, secondo le accuse, utilizza una prassi tipica della logica mafiosa: per abbassare i costi utilizza prodotti di scarsa qualità o mischia tipi di latte diverso. Nelle mozzarelle di bufala prodotte da Mandara era infatti presente anche del latte vaccino in percentuali considerevoli. Le mozzarelle di bufala venivano quindi messe in commercio con l'indicazione Dop anche se il procedimento non l'avrebbe affatto consentito.

Ultimo viene il dolce. I clan sono riusciti a infettare, secondo la Dda di Napoli, persino uno dei marchi di pasticceria industriale più famosi d'Europa: la Lazzaroni e i suoi amaretti. Secondo le accuse dell'antimafia, capitali criminali avrebbero risollevato aziende del Nord in crisi sanando i conti e facendo chiudere i bilanci in attivo. Un miracolo in tempo di crisi. È un salto di qualità: la trasformazione del crimine in un'imprenditoria ricca, forte, competitiva. Ma dalle fondamenta marce.

Ciò che dovrebbe far riflettere è che le mafie hanno solo anticipato quei meccanismi che spesso sono diventati prassi nel settore alimentare italiano, europeo e non solo. Essere competitivi, per molte imprese, significa abbassare a tal punto la qualità, da rendere talvolta ciò che si produce al limite dei criteri consentiti per la commercializzazione. Come per ogni settore, prima che arrivino forze dell'ordine e magistratura, i consorzi di categoria sono fondamentali. È fondamentale che chi fa prodotti di qualità pensi di unirsi e tutelare i consumatori, se stessi e il proprio mercato. L'alternativa è che il massimo ribasso non farà vincere la qualità, la bravura, i talenti, ma solo i prodotti più corrotti e le imprese più furbe. Triste destino per l'eccellenza italiana.
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(23 luglio 2012) © Riproduzione riservata

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