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Autore Discussione: ROBERTO SAVIANO  (Letto 92318 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Settembre 19, 2009, 10:56:19 am »

IL RACCONTO.

Nel momento della tragedia non possiamo non chiederci perché a morire sono sempre, o quasi sempre, soldati del Meridione

Quel sangue del Sud versato per il Paese

di ROBERTO SAVIANO


Vengo da una terra di reduci e combattenti. E l'ennesima strage di soldati non l'accolgo con la sorpresa di chi, davanti a una notizia particolarmente dolorosa e grave, torna a includere una terra lontana come l'Afghanistan nella propria geografia mentale. Per me quel territorio ha sempre fatto parte della mia geografia, geografia di luoghi dove non c'è pace. Gli italiani partiti per laggiù e quelli che restano in Sicilia, in Calabria o in Campania per me fanno in qualche modo parte di una mappa unica, diversa da quella che abbraccia pure Firenze, Torino o Bolzano.

Dei ventun soldati italiani caduti in Afghanistan la parte maggiore sono meridionali. Meridionali arruolati nelle loro regioni d'origine, o trasferiti altrove o persino figli di meridionali emigrati. A chi in questi anni dal Nord Italia blaterava sul Sud come di un'appendice necrotizzata di cui liberarsi, oggi, nel silenzio che cade sulle città d'origine di questi uomini dilaniati dai Taliban, troverà quella risposta pesantissima che nessuna invocazione del valore nazionale è stato in grado di dargli. Oggi siamo dinanzi all'ennesimo tributo di sangue che le regioni meridionali, le regioni più povere d'Italia, versano all'intero paese.

Indipendentemente da dove abitiamo, indipendente da come la pensiamo sulle missioni e sulla guerra, nel momento della tragedia non possiamo non considerare l'origine di questi soldati, la loro storia, porci la domanda perché a morire sono sempre o quasi sempre soldati del Sud. L'esercito oggi è fatto in gran parte da questi ragazzi, ragazzi giovani, giovanissimi in molti casi. Anche stavolta è così. Non può che essere così. E a sgoccioli, coi loro nomi diramati dal ministro della Difesa ne arriva la conferma ufficiale. Antonio Fortunato, trentacinque anni, tenente, nato a Lagonegro in Basilicata. Roberto Valente, trentasette anni, sergente maggiore, di Napoli. Davide Ricchiuto, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato a Glarus in Svizzera, ma residente a Tiggiano, in provincia di Lecce. Giandomenico Pistonami, ventisei anni, primo caporalmaggiore, nato ad Orvieto, ma residente a Lubriano in provincia di Viterbo. Massimiliano Randino, trentadue anni, caporalmaggiore, di Pagani, provincia di Salerno. Matteo Mureddu, ventisei anni, caporalmaggiore, di Solarussa, un paesino in provincia di Oristano, figlio di un allevatore di pecore. Due giorni fa Roberto Valente stava ancora a casa sua vicino allo stadio San Paolo, a Piedigrotta, a godersi le ultime ore di licenza con sua moglie e il suo bambino, come pure Massimiliano Radino, sposato da cinque anni, non ancora padre.

Erano appena sbarcati a Kabul, appena saliti sulle auto blindate, quei grossi gipponi "Lince" che hanno fama di essere fra i più sicuri e resistenti, però non reggono alla combinazione di chi dispone di tanto danaro per imbottire un'auto di 150 chili di tritolo e di tanti uomini disposti a farsi esplodere. Andando addosso a un convoglio, aprendo un cratere lunare profondo un metro nella strada, sventrando case, macchine, accartocciando biciclette, uccidendo quindici civili afgani, ferendone un numero non ancora precisato di altri, una sessantina almeno, bambini e donne inclusi.

E dilaniando, bruciando vivi, cuocendo nel loro involucro di metallo inutilmente rafforzato i nostri sei paracadutisti, due dei quali appena arrivati. Partiti dalla mia terra, sbarcati, sventrati sulla strada dell'aeroporto di Kabul, all'altezza di una rotonda intitolata alla memoria del comandante Ahmad Shah Massoud, il leone del Panjshir, il grande nemico dell'ultimo esercito che provò ad occupare quell'impervia terra di montagne, sopravvissuto alla guerra sovietica, ma assassinato dai Taliban. Niente può dirla meglio, la strana geografia dei territori di guerra in cui oggi ci siamo svegliati tutti per la deflagrazione di un'autobomba più potente delle altre, ma che giorno dopo giorno, quando non ce ne accorgiamo, continua a disegnare i suoi confini incerti, mobili, slabbrati. Non è solo la scia di sangue che unisce la mia terra a un luogo che dalle mie parti si sente nominare storpiato in Affanìstan, Afgrànistan, Afgà. E' anche altro. Quell'altro che era arrivato prima che dai paesini della Campania partissero i soldati: l'afgano, l'hashish migliore in assoluto che qui passava in lingotti e riempiva i garage ed è stato per anni il vero richiamo che attirava chiunque nelle piazze di spaccio locali. L'hashish e prima ancora l'eroina e oggi di nuovo l'eroina afgana. Quella che permette ai Taliban di abbondare con l'esplosivo da lanciare contro ai nostri soldati coi loro detonatori umani.

E' anche questo che rende simili queste terre, che fa sembrare l'Afganistan una provincia dell'Italia meridionale. Qui come là i signori della guerra sono forti perché sono signori di altro, delle cose, della droga, del mercato che non conosce né confini né conflitti. Delle armi, del potere, delle vite che con quel che ne ricavano, riescono a comprare. L'eroina che gestiscono i Taliban è praticamente il 90% dell'eroina che si consuma nel mondo. I ragazzi che partono spesso da realtà devastate dai cartelli criminali hanno trovato la morte per mano di chi con quei cartelli criminali ci fa affari. L'eroina afgana inonda il mondo e finanzia la guerra dei Taliban. Questa è una delle verità che meno vengono dette in Italia. Le merci partono e arrivano, gli uomini invece partono sempre senza garanzia di tornare. Quegli uomini, quei ragazzi possono essere nati nella Svizzera tedesca o trasferiti in Toscana, ma il loro baricentro rimane al paese di cui sono originari. È a partire da quei paesini che matura la decisione di andarsene, di arruolarsi, di partire volontari. Per sfuggire alla noia delle serate sempre uguali, sempre le stesse facce, sempre lo stesso bar di cui conosci persino la seduta delle sedie usurate. Per avere uno stipendio decente con cui mettere su famiglia, sostenere un mutuo per la casa, pagarsi un matrimonio come si deve, come aveva già organizzato prima di essere dilaniato in un convoglio simile a quello odierno, Vincenzo Cardella, di San Prisco, pugile dilettante alla stessa palestra di Marcianise che ha appena ricevuto il titolo mondiale dei pesi leggeri grazie a Mirko Valentino. Anche lui uno dei ragazzi della mia terra arruolati: nella polizia, non nell'esercito. Arruolarsi, anche, per non dover partire verso il Nord, alla ricerca di un lavoro forse meno stabile, dove sono meno certe le licenze e quindi i ritorni a casa, dove la solitudine è maggiore che fra i compagni, ragazzi dello stesso paese, della stessa regione, della stessa parte d'Italia. E poi anche per il rifiuto di finire nell'altro esercito, quello della camorra e delle altre organizzazioni criminali, quello che si gonfia e si ingrossa dei ragazzi che non vogliono finire lontani.

E sembra strano, ma per questi ragazzi morti oggi come per molti di quelli caduti negli anni precedenti, fare il soldato sembra una decisione dettata al tempo stesso da un buon senso che rasenta la saggezza perché comunque il calcolo fra rischi e benefici sembra vantaggioso, e dalla voglia di misurarsi, di dimostrare il proprio valore e il proprio coraggio. Di dimostrare, loro cresciuti fra la noia e la guerra che passa o può passare davanti al loro bar abituale fra le strade dei loro paesini addormentati, che "un'altra guerra è possibile". Che combattere con una divisa per una guerra lontana può avere molta più dignità che lamentarsi della disoccupazione quasi fosse una sventura naturale e del mondo che non gira come dovrebbe, come di una condizione immutabile.

Sapendo che i molti italiani che li chiameranno invasori e assassini, ma pure gli altri che li chiameranno eroi, non hanno entrambi idea di che cosa significhi davvero fare il mestiere del soldato. E sapendo pure che, se entrambi non ne hanno idea e non avrebbero mai potuto intraprendere la stessa strada, è perché qualcuno gliene ne ha regalate di molto più comode, certo non al rischio di finire sventrati da un'autobomba. Infatti loro, le destinazioni per cui partono, non le chiamano "missione di pace".

Forse non lo sanno sino in fondo che nelle caserme dell'Afghanistan possono trovare la stessa noia o la stessa morte che a casa. Ma scelgono di arruolarsi nell'esercito che porta la bandiera di uno Stato, in una forza che non dispone della vita e della morte grazie al denaro dei signori della guerra e della droga. Per questo, mi augurerei che anche chi odia la guerra e ritiene ipocrita la sua ridefinizione in "missione di pace", possa fermarsi un attimo a ricordare questi ragazzi. A provare non solo dolore per degli uomini strappati alla vita in modo atroce, ma commemorarli come sarebbe piaciuto a loro. A onorarli come soldati e come uomini morti per il loro lavoro. Quando è arrivata la notizia dell'attentato, un amico pugliese mi ha chiamato immediatamente e mi ha detto: "Tutti i ragazzi morti sono nostri". Sono nostri è come per dire sono delle nostre zone. Come per Nassiriya, come per il Libano ora anche per Kabul. E che siano nostri lo dimostriamo non nella retorica delle condoglianze ma raccontando cosa significa nascere in certe terre, cosa significa partire per una missione militare, e che le loro morti non portino una sorta di pietra tombale sulla voglia di cambiare le cose. Come se sui loro cadaveri possa celebrarsi una presunta pacificazione nazionale nata dal cordoglio. No, al contrario, dobbiamo continuare a porre e porci domande, a capire perché si parte per la guerra, perché il paese decide di subire sempre tutto come se fosse indifferente a ogni dolore, assuefatto ad ogni tragedia.

Queste morti ci chiedono perché tutto in Italia è sempre valutato con cinismo, sospetto, indifferenza, e persino decine e decine di morti non svegliano nessun tipo di reazione, ma solo ancora una volta apatia, sofferenza passiva, tristezza inattiva, il solito "è sempre andata così". Questi uomini del Sud, questi soldati caduti urlano alle coscienze, se ancora ne abbiamo, che le cose in questo paese non vanno bene, dicono che non va più bene che ci si accorga del Sud e di cosa vive una parte del paese solo quando paga un alto tributo di sangue come hanno fatto oggi questi sei soldati. Perché a Sud si è in guerra. Sempre.

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(18 settembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #61 inserito:: Ottobre 15, 2009, 10:24:00 pm »

Lettera all'Italia infelice

di Roberto Saviano

Ecco alcuni stralci del testo dello scrittore. L'intera lettera di Saviano è pubblicata su 'L'espresso' in edicola venerdì 16 ottobre
 

"Se la libertà è divenuto tema di dibattito continuo, quasi ossessivo in Italia vuole dire che qualcosa non funziona. Verità e potere non coincidono mai e quello che sta accadendo in questi giorni lo dimostra. Ci sono lezioni che non si imparano, disastri naturali che si ripetono come se la storia non ci avesse insegnato nulla e sacrifici di persone che hanno lottato per rendere questo Paese migliore che vengono dimenticati se non ignorati o peggio insultati. Qualcosa non funziona perché non si vuole capire quello che è accaduto e che quello che avviene tutti i giorni: non si racconta il presente, non si analizza il passato, tutto diventa polemica, dibattito sterile; tutto si avvita in un turbine di gelosie e di guerre tra bande. La folla di piazza del Popolo mi ha stupito, stordito, emozionato. Non sapevo cosa dire: quella che avevo davanti era una testimonianza incredibile, non ero più abituato a vedere tanti volti e tanto sole. Da quando tre anni fa sono stato messo sotto protezione e costretto a vivere con la scorta non avevo mai potuto sentire un vento di speranza così forte.

Alla gente in Italia non interessa la libertà di stampa, non si preoccupa per il fatto che sia stata offuscata e minacciata da quello che sta accadendo: la libertà di stampa non è importante perché non la si considera necessaria e utile al proprio quotidiano. Non capiscono quello che stanno rischiando, quanto possono perdere. Se ne accorgeranno solo quando riusciranno a vedere con occhi diversi e comprenderanno che oggi sulla maggioranza dei media la vita non viene raccontata ma rappresentata. Ricostruita secondo luci e dinamiche che la rendono finta. Verosimile ma lontana dal reale: come quelle foto ritoccate al computer per cancellare le imperfezioni, far sparire le rughe, il peso del tempo e gli acciacchi del divenire fino a rendere un'immagine diversa delle persone che così rinunciano persino a specchiarsi. Ci viene raccontata un'Italia allegra, il Paese del bel mangiare e delle belle donne. Ci viene imposto il modello di un Paese spensierato, in fila per partecipare alla fortuna milionaria delle lotterie e per vincere un posto in un reality show. Ma l'Italia oggi è profondamente infelice e triste. Vive nella cattiveria di una guerra per bande generalizzata, di un sistema animato dalle invidie. E la nostra percezione è così lontana dalla realtà da impedirci anche di renderci conto dell'infelicità. Ho sempre dentro il racconto di un immigrato africano che incontrai a Castel Volturno prima delle riprese del film "Gomorra": "La cosa che odio degli italiani è la loro gelosia, quell'invidia cattiva che hanno nei confronti di chiunque riesca ad ottenere qualcosa. Quando in Francia lavori molto, riesci a guadagnare e puoi comprarti una bella macchina, ti guardano riconoscendo il risultato. Dicono: "Quanto ha faticato per farcela". Invece quando in Italia ti vedono al volante della stessa auto senti subito che ti stanno dicendo "Stronzo bastardo". Non si pongono nemmeno la domanda su quanti sacrifici hai fatto, scatta subito una gelosia che si trasforma in odio. Questo accade solo nei paesi dove i diritti divengono privilegi, e quindi dove il nemico non è il meccanismo sociale che ha permesso questo, ma bensì chi riesce ad avere quel diritto. Una guerra tra vicini ignorando i responsabili del disastro. Questo si combatte solo raccontando quello che non va, perché solo raccontando la realtà di quest'Italia arida si potrà sconfiggere l'infelicità: la libertà di stampa è utile per essere felici".

"L'assenza di serenità ci porta a rinunciare alla libertà di stampa. Sapere che la replica al proprio "lavoro non sarà una critica, ma un'offesa o un attentato alla sfera privata spinge ad autocensurarsi, convince a non attaccare qualunque autorità, rende schiavi di ogni potere. Dopo l'editoriale di Augusto Minzolini sul Tg1 mi sono chiesto se si rendesse conto di quello che stava facendo. Avrei voluto dirgli che manifestare per la libertà di stampa significava manifestare anche per lui, anche per il suo futuro: un futuro in cui se si potrà ancora parlare del potere, se lo si potrà criticare è perché qualcuno ha lottato per renderlo possibile. Si è scesi in piazza anche per lui, perché lui domani possa continuare a dire quello che dice oggi anche se dovesse cambiare il potere che difende le sue parole".

"Fare il politico oggi nell'immaginario è fare il lavoro più semplice e comodo. Mi vengono alla mente le famiglie meridionali in cui il figlio più intelligente fa l'imprenditore e quello incapace il politico. Invece la politica dovrebbe essere una responsabilità pesante e difficile, un mestiere duro. Capisco il fastidio che può avere un politico a essere esaminato nella sua vita privata, ma questo è l'onere della sua missione, fa parte della democrazia. Oggi bisogna ricalibrare l'immaginario del politico, ritornare a una figura che fa una vita dura e poco divertente. La politica come servizio al Paese e ai cittadini, non come privilegio. La politica è vivere nella difficoltà. Penso al rigore morale di Enrico Berlinguer, Giorgio Almirante e Giorgio La Pira, restano figure di servizio alle istituzioni, nonostante i loro ideali e la loro fede religiosa.

Sono cresciuto al fianco di uomini di destra che non avrebbero mai sopportato questo clima di intimidazione e crudeltà, così come ormai la divisione e la rivalità sono così diffuse che impediscono alla sinistra ogni forma di aggregazione vera. Ogni possibilità di parlare al cuore delle persone. Oggi invece chi racconta cose scomode, chi descrive la realtà infelice dell'Italia viene accusato dalle massime autorità politiche di gettare discredito sul Paese agli occhi del mondo... Raccontare la realtà non significa infangare il proprio Paese: significa amarlo, significa credere nella libertà. Raccontare è l'unico dannato modo per iniziare a cambiare le cose".

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(14 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #62 inserito:: Ottobre 16, 2009, 12:31:41 pm »

IL RACCONTO

Io, la mia scorta e il senso di solitudine

di ROBERTO SAVIANO


"LO VEDI, stanno iniziando ad abbandonarci. Lo sapevo". Così il mio caposcorta mi ha salutato ieri mattina. Il dolore per la protezione che cercano di farmi pesare, di farci pesare, era inevitabile. La sensazione di solitudine dei sette uomini che da tre anni mi proteggono mi ha commosso. Dopo le dichiarazioni del capo della mobile di Napoli che gettano discredito sul loro sacrificio, che mettono in dubbio le indagini della Dda di Napoli e dei Carabinieri, la sensazione che nella lotta ai clan si sia prodotta una frattura è forte.

Non credo sia salutare spaccare in due o in più parti un fronte che dovrebbe mostrarsi, e soprattutto sentirsi, coeso. Società civile, forze dell'ordine, magistratura. Ognuno con i suoi ruoli e compiti. Ma uniti. Purtroppo riscontro che non è così. So bene che non è lo Stato nel suo complesso, né le figure istituzionali che stanno al suo vertice a voler far mancare tale impegno unitario. Sono grato a chi mi ha difeso in questi anni: all'arma dei Carabinieri che in questi giorni ha mantenuto il silenzio per rispetto istituzionale ma mi ha fatto sentire un calore enorme dicendomi "noi ci saremo sempre".

Mi ha difeso l'Antimafia napoletana attraverso le dichiarazioni dei pm Federico Cafiero De Raho, Franco Roberti, Raffaele Cantone. Mi ha difeso il capo della Polizia Antonio Manganelli con le sue rassicurazioni e la netta smentita di ciò che era stato detto da un funzionario. Mi ha difeso il mio giornale. Mi hanno difeso i miei lettori.

Ma uno sgretolamento di questa compattezza è malgrado tutto avvenuto e un grande quotidiano se ne è fatto portavoce. Ciò che dico e scrivo è il risultato spesso di diversi soggetti, di cui le mie parole si fanno portavoce. Ma si cerca di rompere questa nostra alleanza, insinuando "tanti lavorano nell'ombra senza riconoscimento mentre tu invece...". Chi fa questo discorso ha un unico scopo, cercare di isolare, di interrompere il rapporto che ha permesso in questi anni di portare alla ribalta nazionale e internazionale molte inchieste e realtà costrette solo alla cronaca locale.

Sento di essere antipatico ad una parte di Napoli e ad una parte del Paese, per ciò che dico per come lo dico per lo spazio mediatico che cerco di ottenere. Sono fiero di essere antipatico a questa parte di campani, a questa parte di italiani e a molta parte dei loro politici di riferimento. Sono fiero di star antipatico a chi in questi giorni ha chiamato le radio, ha scritto sui social forum "finalmente qualcuno che sputa su questo buffone". Sono fiero di star antipatico a queste persone, sono fiero di sentire in loro bruciare lo stomaco quando mi vedono e ascoltano, quando si sentono messi in ombra. Non cercherò mai i loro favori, né la loro approvazione. Sono sempre stato fiero di essere antipatico a chi dice che la lotta alla criminalità è una storia che riguarda solo pochi gendarmi e qualche giudice, spesso lasciandoli soli.

Sono sempre stato fiero di essere antipatico a quella Napoli che si nasconde dietro i musei, i quadri, la musica in piazza, per far precipitare il decantato rinascimento napoletano in un medioevo napoletano saturo di monnezza e in mano alle imprenditorie criminali più spietate. Sono sempre stato antipatico a quella parte di Napoli che vota politici corrotti fingendo di credere che siano innocui simpaticoni che parlano in dialetto. Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi dice: "Si uccidono tra di loro", perché contiamo troppe vittime innocenti per poter continuare a ripetere questa vuota cantilena.

Perché così permettiamo all'Italia e al resto del mondo di chiamarci razzisti e vigliacchi se non prestiamo soccorso a chi tragicamente intercetta proiettili non destinati a lui. Come è accaduto a Petru Birladeanu, il musicista ucciso il 26 maggio scorso nella stazione della metropolitana di Montesanto che non è stato soccorso non per vigliaccheria, ma per paura.
Sono sempre stato fiero di risultare antipatico a chi mal sopporta che vada in televisione o sulle copertine dei giornali, perché ho l'ambizione di credere che le mie parole possano cambiare le cose se arrivano a molti.

E serve l'attenzione per aggregare persone. Sarò sempre fiero di avere questo genere di avversari. I più disparati, uniti però dal desiderio che nulla cambi, che chi alza la testa e la voce resti isolato e venga spazzato via com'è successo già troppe volte. Che chi "opera" sulle vicende legate alla criminalità organizzata e all'illegalità in generale, continui a farlo, ma in silenzio, concedendo giusto quell'attenzione momentanea che sappia sempre un po' di folklore. E se percorriamo a ritroso gli ultimi trent'anni del nostro Paese, come non ricordare che Peppino Impastato, Giuseppe Fava e Giancarlo Siani - esposti molto più di me e che prima di me hanno detto verità ora alla portata di tutti - hanno pagato con la vita la loro solitudine. E la volontà di volerli ridurre, in vita, al silenzio.

Sono sempre stato fiero, invece, di essere stato vicino a un'altra parte di Napoli e del Sud. Quella che in questi anni ha approfittato della notorietà di qualcuno emerso dalle sue fila per dar voce al proprio malessere, al proprio impegno, alle proprie speranze. Molti di loro mi hanno accolto con diffidenza, una diffidenza che a volte ha lasciato il posto a stima, altre a critiche, ma leali e costruttive. Sono fiero che a starmi vicino siano stati i padri gesuiti che mi hanno accolto, le associazioni che operano sul territorio con cui abbiamo fatto fronte comune e tante, tantissime persone singole.

Sono fiero che a starmi vicino sia soprattutto chi, ferocemente deluso dal quindicennio bassoliniano, cerca risposte altrove, sapendo che dalla politica campana di entrambe le parti c'è poco da aspettarsi. Sono sempre stato fiero che vicino a me ci siano tutti quei campani che non ne possono più di morire di cancro e vedere che a governare siano arrivati politici che negli anni hanno sempre spartito i propri affari con le cosche. Facendo, loro sì, soldi e carriera con i rifiuti e col cemento, creando intorno a sé un consenso acquistato con biglietti da cento euro.

È stato doloroso vedere infrangersi un fronte unico, costruito in questi anni di costante impegno, che aveva permesso di mantenere alta l'attenzione sui fatti di camorra. È stato sconcertante vedere persone del tutto estranee alla mia vicenda esprimere giudizi sulla legittimità della mia scorta. La protezione si basa su notizie note e riservate che, deontologia vuole, non vengano rese pubbliche. Sono stato costretto a mostrare le ferite, a chiedere a chi ha indagato di poter rendere pubblico un documento in cui si parla esplicitamente di "condanna a morte". Cose che a un uomo non dovrebbero mai essere chieste.

Ho dovuto esibire le prove dell'inferno in cui vivo. Ho esibito, come richiesto, la giusta causa delle minacce. Sento profondamente incattivito il territorio, incarognito. Gli uni con gli altri pronti a ringhiarsi dietro le spalle. Molti hanno iniziato a esprimere la propria opinione non conoscendo fatti, non sapendo nulla. Vomitando bile, opinioni qualcuno addirittura ha detto "c'è una sentenza del Tribunale che si è espressa contro la scorta". I tribunali non decidono delle scorte, perché tante bugie, idiozie, falsità? Addirittura i sondaggi online che chiedevano se era giusto o meno darmi la scorta.

Quanto piacere hanno avuto i camorristi, il loro mondo, lì ad osservare questo sputare ognuno nel bicchiere dell'altro? Dal momento in cui mi è stata assegnata una protezione, della mia vita ha legittimamente e letteralmente deciso lo Stato Italiano. Non in mio nome, ma nel nome proprio: per difendere se stesso e i suoi principi fondamentali. Tutte le persone che lavorano con la parola e sono scortate in Italia, sono protette per difendere un principio costituzionale: la libertà di parola. Lo Stato impone la difesa a chi lotta quotidianamente in strada contro le organizzazioni criminali. Lo Stato impone la difesa a magistrati perché possano svolgere il loro lavoro sapendo che la loro incolumità fa una grande differenza.

Lo Stato impone la difesa a chi fa inchieste, a chi scrive, a chi racconta perché non può permettere che le organizzazioni criminali facciano censura. In questi anni, attaccarmi come diffamatore della mia terra, cercare di espormi sempre di più parlando della mia sicurezza, è un colpo inferto non a me, ma allo stato di salute della nostra democrazia e a tutte le persone che vivono la mia condizione. Sento questo odio silenzioso che monta intorno a me crea consenso in molte parti
Sta cercando il consenso di certa classe dirigente del Sud che con il solito cinismo bilioso considera qualunque tentativo di voler rendere se non migliore, almeno consapevole la propria terra, una strategia per fare soldi o carriera.

Ma mi viene chiesta anche l'adesione a un "codice deontologico", come ha detto il capo della Mobile di Napoli, il rispetto delle regole. Quali regole? Io non sono un poliziotto, né un carabiniere, né un magistrato. Le mie parole raccontano, non vogliono arrestare, semmai sognano di trasformare. E non avrò mai "bon ton" nei confronti delle organizzazioni criminali, non accetterò mai la vecchia logica del gioco delle parti fra guardie e ladri. I camorristi sanno che alcuni di loro verranno arrestati, le forze dell'ordine sanno in che modo gestire gli arresti che devono fare.

Lo hanno sempre detto a me, ora sono io a ribadirlo: a ognuno il suo ruolo. La battaglia che porto avanti come scrittore è un'altra. È fondata sul cambiamento culturale della percezione del fenomeno, non nel rubricarlo in qualche casellario giudiziario o considerarlo principalmente un problema di ordine pubblico.

Continuare a vivere in una situazione così è difficile, ma diviene impossibile se iniziano a frapporsi persone che tentano di indebolire ciò che sino a ieri era un'alleanza importante, giusta e necessaria. So che è molto difficile vivere la realtà campana, ma c'è qualcuno che ci riesce con tranquillità. Io non ho mai avuto detenuti che mi salutassero dalle celle, né me ne sarei mai vantato, anzi, pur facendo lo scrittore, ho ricevuto solo insulti. Qualcuno dice a Napoli che è riuscito a fare il poliziotto riuscendo a passeggiare liberamente con moglie e figli senza conseguenze. Buon per lui che ci sia riuscito. Io non sono riuscito a fare lo scrittore riuscendo a passeggiare liberamente con la mia famiglia. Un giorno ci riuscirò lo giuro.
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© Riproduzione riservata (16 ottobre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #63 inserito:: Novembre 10, 2009, 09:34:20 am »

Quelle dichiarazioni dei pentiti su Nicola Cosentino, ex coordinatore provinciale Pdl, ora sottosegretario all'Economia

Unico sviluppo di questi territori è stato costruire enormi centri commerciali che andavano ad ingrassare gli affari dei boss

La camorra alla conquista dei partiti in Campania

Per i clan la sola differenza è tra uomini avvicinabili, uomini "loro", e i pochi politici che non lo sono

Se la politica non vuole essere una stampella di un'altra gestione del potere, deve correre ai ripari

ROBERTO SAVIANO


Quando un'organizzazione può decidere del destino di un partito controllandone le tessere, quando può pesare sulla presidenza di una Regione, quando può infiltrarsi con assoluta dimestichezza e altrettanta noncuranza in opposizione e maggioranza, quando può decidere le sorti di quasi sei milioni di cittadini, non ci troviamo di fronte a un'emergenza, a un'anomalia, a un "caso Campania". Ma al cospetto di una presa di potere già avvenuta della quale ora riusciamo semplicemente a mettere insieme alcuni segni e sintomi palesi.

Sembra persino riduttivo il ricorso alla tradizionale metafora del cancro: utile, forse, soprattutto per mostrare il meccanismo parassitario con cui avviene l'occupazione dello Stato democratico da parte di un sistema affaristico-politico-mafioso. Ora che le organizzazioni criminali decidono gli equilibri politici, è la politica ad essere chiamata a dare una risposta immediata e netta. Nicola Cosentino, attuale sottosegretario all'Economia e coordinatore del Pdl in Campania, fino a qualche giorno fa era l'indiscusso candidato alla presidenza della Regione. Nicola Cosentino, detto "o'mericano", è stato indicato da cinque pentiti come uomo organico agli interessi dei Casalesi: tra le deposizioni figurano quelle di Carmine Schiavone, cugino di Sandokan, nonché di Dario de Simone, altro ex capo ma soprattutto uno dei pentiti che si sono rivelati fra i più affidabili al processo Spartacus.

Per ora non ci sono cause pendenti sulla sua testa e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sono al vaglio della magistratura. Nicola Cosentino si difende affermando di non poter essere accusato della sua nascita a Casal di Principe, né dei legami stretti anni fa da alcuni suoi familiari con esponenti del clan. Però da parte sua sono sempre mancate inequivocabili prese di distanza e questo, in un territorio come quello casertano, sarebbe già stato sufficiente per tenere sotto stretta sorveglianza la sua carriera politica. Invece l'ascesa di Cosentino non ha trovato ostacoli: da coordinatore provinciale a coordinatore regionale, da candidato alla Provincia di Caserta a sottosegretario dell'attuale governo. E solo ora che aspira alla carica di Governatore, finalmente qualcuno si sveglia e si chiede: chi è Nicola Cosentino? Perché solo ora si accorgono che non è idoneo come presidente di regione?

Perché si è permesso che l'unico sviluppo di questi territori fosse costruire mastodontici centri commerciali (tra cui il Centro Campania, uno dei più grandi al mondo) che sistematicamente andavano ad ingrassare gli affari dei clan. Come ha dichiarato il capo dell'antimafia di Napoli Cafiero de Raho "è stato accertato che sarebbe stato imposto non solo il pagamento di tangenti per 450 mila euro (per ogni lavoro ndr) ma anche l'affidamento di subappalti in favore di ditte segnalate da Pasquale Zagaria". Lo stesso è accaduto con Ikea, che come denunciato al Senato nel 2004 è sorto su un terreno già confiscato al capocamorra Magliulo Vincenzo, e viene dallo Stato ceduto ad una azienda legata ai clan. Nulla può muoversi se il cemento dei clan non benedice ogni lavoro.

Secondo Gaetano Vassallo, il pentito dei rifiuti facente parte della fazione Bidognetti, Cosentino insieme a Luigi Cesaro, altro parlamentare Pdl assai potente, in zona controllava per il clan il consorzio Eco4, ossia la parte "semilegale" del business dell'immondizia che ha già chiesto il tributo di sangue di una vittima eccellente: Michele Orsi, uno dei fratelli che gestivano il consorzio, viene freddato a giugno dell'anno scorso in centro a Casal di Principe, poco prima che fosse chiamato a testimoniare a un processo. Il consorzio operava in tutto il basso casertano sino all'area di Mondragone dove sarebbe invece - sempre secondo il pentito Gaetano Vassallo - Cosimo Chianese, il fedelissimo di Mario Landolfi, ex uomo di An, a curare gli interessi del clan La Torre. Interessi che riguardano da un lato ciò che fa girare il danaro: tangenti e subappalti, nonché la prassi di sversare rifiuti tossici in discariche destinate a rifiuti urbani, finendo per rivestire di un osceno manto legale l'avvelenamento sistematico campano incominciato a partire dagli anni Novanta. Dall'altro lato assunzioni che garantiscono voti ossia stabilizzano il consenso e il potere politico.

Districare i piani è quasi impossibile, così come è impossibile trovare le differenze tra economia legale e economia criminale, distinguere il profilo di un costruttore legato ai clan ed un costruttore indipendente e pulito. Ed è impossibile distinguere fra destra e sinistra perché per i clan la sola differenza è quella che passa tra uomini avvicinabili, ovvero uomini "loro", e i pochi, troppo pochi e sempre troppo deboli esponenti politici che non lo sono. E, infine, è pura illusione pensare che possa esistere una gestione clientelare "vecchia maniera", ossia fondata certo su favori elargiti su larga scala, ma aliena dalla contaminazione con la camorra. Per quanto Clemente Mastella possa dichiarare: "Io non ho nessuna attinenza con i clan e vivo in una provincia dove questo fenomeno non c'è, o almeno non c'era fino a poco fa", sta di fatto che un filone dell'inchiesta sullo scandalo che ha investito lui, la sua famiglia e il suo partito sia ora al vaglio dell'Antimafia. I pubblici ministeri starebbero indagando sul business connesso alla tutela ambientale; si ipotizza il coinvolgimento oltre che degli stessi Casalesi anche del clan Belforte di Marcianise. Il tramite di queste operazioni sarebbe Nicola Ferraro, anch'egli nativo di Casal di Principe, consigliere regionale dell'Udeur, nonché segretario del partito in Campania. Di Ferraro, imprenditore nel settore dei rifiuti, va ricordato che alla sua azienda fu negato il certificato antimafia; ciò non gli ha impedito di fare carriera in politica. E questo è un fatto.

Di nuovo, non è l'aspetto folkloristico, la Porsche Cayenne comprata dal figlio di Mastella Pellegrino da un concessionario marcianisano attualmente detenuto al 416-bis, a dover attirare l'attenzione. L'aspetto più importante è vedere cos'è stato il sistema Mastella - un sistema che per trent'anni ha rappresentato la continuità della politica feudale meridionale - e che cosa è divenuto. Oggi, persino se le indagini giudiziarie dovessero dare esiti diversi, non si può fingere di non vedere che Ceppaloni confina con Casal di Principe o vi si sovrappone. E il nome di Casale qui non ha valenza solo simbolica, ma è richiamo preciso alla più potente, meglio organizzata e meglio diversificata organizzazione criminale della regione.

Per la camorra - abbiamo detto - destra e sinistra non esistono. Il Pd dovrebbe chiedersi, ad esempio, come è possibile che in un solo pomeriggio a Napoli aderiscano in seimila. Chi sono tutti quei nuovi iscritti, chi li ha raccolti, chi li ha mandati a fare incetta di tessere? Da chi è formata la base di un partito che a Napoli e provincia conta circa 60.000 tesserati, 10.000 in provincia di Caserta, 12.000 in quella di Salerno, 6.000 ciascuno nelle restanti province di Avellino e Benevento? Chiedersi se è normale che il solo casertano abbia più iscritti dell'intera Lombardia, se non sia curioso che in alcuni comuni alle recenti elezioni provinciali, i voti effettivamente espressi in favore del partito erano inferiori al numero delle tessere. Perché la dirigenza del Pd non è intervenuta subito su questo scandalo?

Che razza di militanti sono quelli che non vanno a votare, o meglio: vanno a votare solo laddove il loro voto serve? E quel che serve, probabilmente, è il voto alle primarie, soprattutto nella prima ipotesi che fosse accessibile solo ai membri tesserati. Questo è il sospetto sempre più forte, mentre altri fatti sono certezza. Come la morte di Gino Tommasino, consigliere comunale Pd di Castellammare di Stabia, ucciso nel febbraio dell'anno scorso da un commando di cui faceva parte anche un suo compagno di partito. O la presenza al matrimonio della nipote del ex boss Carmine Alfieri del sindaco di Pompei Claudio d'Alessio.

L'unica cosa da fare è azzerare tutto. Azzerare le dirigenze, interrompere i processi di selezione in corso, sia per la candidatura alla Regione che per le primarie del Pd, all'occorrenza invalidare i risultati. Non è più pensabile lasciare la politica in mano a chi la svende a interessi criminali o feudali. Non basta più affidare il risanamento di questa situazione all'azione del potere giudiziario. Non basterebbe neppure in un Paese in cui la magistratura non fosse al centro di polemiche e i tempi della giustizia non fossero lunghi come nel nostro. È la politica, solo la politica che deve assumersi la responsabilità dei danni che ha creato. Azzerare e non ricandidare più tutti quei politici divenuti potenti non sulle idee, non su carisma, non sui progetti ma sulle clientele, sul talento di riuscire a spartire posti e quindi ricevere voti.

Mentre la politica si disinteressava della mafia, la mafia si è interessata alla politica cooptandola sistematicamente. Ieri a Casapesenna, il paese di Michele Zagaria, è morto un uomo, un politico, il cui nome non è mai uscito dalle cronache locali. Si chiamava Antonio Cangiano, nel 1988 era vicesindaco e si rifiutò di far vincere un appalto a un'impresa legata al clan. Per questo gli tesero un agguato. Lo colpirono alla schiena, da dietro, in quattro, in piazza: non per ucciderlo ma solo per immobilizzarlo, paralizzarlo. Tonino Cangiano ha vissuto ventun'anni su una sedia a rotelle, ma non si è mai piegato. Non si è nemmeno perso d'animo quando tre anni fa coloro che riteneva responsabili di quel supplizio sono stati assolti per insufficienza di prove.

Se la politica, persino la peggiore, non vuole rassegnarsi ad essere mero simulacro, semplice stampella di un'altra gestione del potere, è ora che corra drasticamente ai ripari. Per mero istinto di sopravvivenza, ancora prima che per "questione morale". Non è impossibile. O testimonia l'immagine emblematica e reale di Tonino che negli anni aveva dovuto subire numerosi e dolorosi interventi terminati con l'amputazione delle gambe, un corpo dimezzato, ma il cui pensiero, la cui parola, la cui voglia di lottare continuava a prendersi ogni libertà di movimento. Un uomo senza gambe che cammina dritto e libero, questo è oggi il contrario di ciò che rappresentano il Sud e la Campania. È ciò da cui si dovrebbe finalmente ricominciare.
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« Risposta #64 inserito:: Novembre 23, 2009, 10:39:18 am »

LA LETTERA

Saviano risponde a Bondi "Ecco perché non possiamo tacere"

Appello sulla giustizia: lo scrittore sulla lettera con cui il ministro della Cultura lo invita a non schierarsi

di ROBERTO SAVIANO


Caro ministro Sandro Bondi, la ringrazio per la sua lettera e per l'attenzione data al mio lavoro: ho apprezzato il suo tono rispettoso e dialogante non scontato di questi tempi e quindi con lo stesso tono e attitudine al dialogo le voglio rispondere. Come credo sappia, ho spesso ribadito che certe questioni non possono né devono essere considerate appannaggio di una parte politica. Ho anche sempre inteso la mia battaglia come qualcosa di diverso da una certa idea di militanza che si riconosce integralmente in uno schieramento.

Ho sempre creduto che debbano appartenere a tutti i principi che anche lei nomina - la libertà, la giustizia, la dignità dell'uomo e io aggiungo anche il diritto alla felicità in qualsiasi tipo di società si trovi a vivere. E per questo ho sempre odiato la prevaricazione del potere, che esso assuma la forma di un sistema totalitario di qualsiasi colore, o, come ho potuto sperimentare sin da adolescente, sotto la forma del sistema camorristico.

Anch'io auspico che in Italia possa tornare un clima più civile e ho più volte teso la mano oltre gli steccati politici perché sono convinto che una divisione da contrada per cui reciprocamente ci si denigra e delegittima a blocchi, sia qualcosa che faccia male.
Eppure oggi il clima in questo paese è di tensione perché ognuno sa che, a seconda della posizione che intende assumere nei confronti del governo, potrà vedere la propria vita diffamata, potrà vedere ogni tipo di denigrazione avvenire nei confronti dei propri cari, potrà vedere ostacolate le proprie possibilità lavorative.

Qualche giorno fa la Germania mi ha onorato del premio Scholl, alla memoria dei due studenti dell'organizzazione cristiana Rosa Bianca, fratello e sorella, giustiziati dai nazisti con la decapitazione per la loro opposizione pacifica, per aver solo scritto dei volantini e aver invitato i tedeschi a non farsi imbavagliare.

Tutte le persone che ho incontrato lì alla premiazione, all'Università di Monaco, erano preoccupate per quanto accade oggi in Italia nel campo della libertà di stampa e del diritto. Non era un premio di pericolosi sovversivi o di chissà quali cospiratori anti-italiani. Tutt'altro. Raccoglieva cristiani tedeschi bavaresi che commemorano i loro martiri. Tutti seriamente preoccupati quello che sta accadendo in Italia e tutti pronti a chiedermi come faccio a tenere alla libertà d'espressione eppure a continuare a lavorare in Italia.
Non è un buon segnale e, in quanto scrittore non posso che raccogliere l'imbarazzo di essere accolto come una sorta di intellettuale di un paese dove la libertà d'espressione subisce un'eccezione. Il programma da lei apprezzato ha mostrato, in prima serata, il terrore causato dal regime comunista russo, e persecuzioni castriste agli scrittori cubani e l'inferno nell'Iran di Ahmedinejad.

Tutto andato in onda in una trasmissione come "Che tempo che fa", su una rete come RaiTre, così spesso tacciata di essere faziosa, ideologizzata, asservita alla sinistra che persino un boss come Sandokan si compiaceva di chiamarla "Telekabul". Questo a dimostrare, Ministro, quanto siano spesso pretestuose e false le accuse che vengono fatte contro chi invece si prefigge il compito di raccontare per bisogno - o dovere - di verità.

Però sono altrettanto convinto che a volte, proprio per semplice senso civile, non si possa stare zitti. Che bisogna prendere posizione al costo di schierarsi. E schierarsi non significa ideologicamente. La paura che questa legge possa colpire il paese sia per i suoi effetti pratici, sia per l'ingiustizia che ratifica, in me è assolutamente reale e per niente pretestuosa.
In questi anni, ossia da quando vivo sotto scorta, ho avuto modo di poter approfondire cosa significhi, tradotto nel funzionamento di uno stato democratico, il concetto di giustizia. Ho potuto capire che non tocca solo la difesa della legalità, ma che ciò che più lo sostiene e lo rende funzionante è la salvaguardia del diritto e dello stato di diritto.

Ho deciso di pubblicare quell'appello perché la legge sul processo breve mi pare un attacco pesante - non il primo, ma quello che ritengo essere finora il più incisivo - ai danni di un bene fondamentale per tutti i cittadini italiani, di destra o di sinistra, come ho scritto e come credo veramente. E le assicuro che lo rifarei domani, senza timore di essere ascritto a una parte e di poterne pagare le conseguenze.
Non vi è nulla in quel gesto che non corrisponda a ogni altra cosa che ho fatto o detto. Le mie posizioni sono queste e del resto non potrei comportarmi diversamente. Ciò che mi spinge a raccontare, in prima serata, dei truci omicidi di due giovani donne, la cui colpa era stata unicamente l'aver manifestato in piazza, in maniera pacifica.

Ciò che mi spinge a raccontare dei crimini del comunismo in Russia e dei soprusi delle multinazionali in Africa non è un "farsi impadronire dal demone della politicizzazione e della partitizzazione della cultura" bensì un altro demone. Quello che ha lo scopo di raccontare le verità o almeno provarci. Un'informazione scomoda per chi la da e per chi l'ascolta, la osserva, la legge. In Italia la deriva che lo stato di diritto sta prendendo è pericolosa perché ha tutte le caratteristiche dell'irreversibilità. È per questo che agisco in questo modo, perché è l'unico modo che conosco per essere scrittore, è questo l'unico modo che conosco di essere uomo.
La saluto con cordialità

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« Risposta #65 inserito:: Novembre 26, 2009, 03:57:53 pm »

La storia del giornalista torna grazie ad un libro.

Dopo l'omicidio anche la delegittimazione

Si disse persino che era corrotto, in modo da nascondere i suoi testi, le sue parole

Giuseppe Fava ucciso due volte prima la mafia, poi le calunnie

di ROBERTO SAVIANO



Anticipiamo parte della prefazione di al romanzo di Giuseppe Fava, "Prima che vi uccidano" (Bompiani pagg. 406, euro 19)

GLI sparano cinque colpi alla testa. Tutti mirati alla nuca. Per ammazzarlo e per sfregiarlo. Chi nasce al Sud sa bene che non tutti i modi di ammazzare sono uguali.
Alle mafie non basta eliminare. Nella modalità della morte è siglata una precisa comunicazione. Giuseppe Fava, Pippo per chi lo conosceva, lo sfregiano sparandogli in testa quando si sta muovendo in una situazione che non c'entra nulla col suo lavoro. L'esecuzione di Pippo Fava gli uomini di Cosa Nostra la compiono il 5 gennaio 1984, mentre sta andando al Teatro Verga a prendere sua nipote che aveva appena recitato in Pensaci Giacomino!, l'inno pirandelliano al nostro eterno Stato incapace. Ma la morte di Pippo Fava non termina con quegli spari. Non si esaurisce con quel singolo atto di violenza. La si stava preparando da tempo e sarebbe continuata per molto tempo ancora.

Nei giorni tra Natale e Capodanno, poco prima di essere ucciso, Giuseppe Fava riceve in dono dal cavaliere Gaetano Graci ? uno dei proprietari del "Giornale del Sud", quotidiano che dirigeva prima di fondare "I Siciliani" e da cui era stato licenziato per, diciamo così, divergenze nella linea editoriale ? una quantità smisurata di ricotta e una cassa di bottiglie di champagne. Nella simbologia mafiosa questi due elementi sono molto chiari. Dicono: ti ridurremo in poltiglia e brinderemo sulla tua bara.

Ma fare questo, brindare alla sua eliminazione fisica, non è sufficiente. Pippo Fava sembra dar fastidio anche da morto. Si vuole evitare che diventi un simbolo.
Comincia così una vera e propria campagna di delegittimazione in cui si mescolano, con perizia, verità e menzogne.

Non c'è alcuna volontà di indagare sugli assassini e questo lo si capisce subito, il giorno stesso del funerale, quando il sindaco di Catania, in totale spregio di ciò che è accaduto, dichiara che: "Catania è una città che non ha la mafia. La mafia è a Palermo".
L'odio che da allora in poi il territorio di Catania riversa sulla memoria di Giuseppe Fava è paragonabile a un secondo omicidio. Poliziotti e politici, notabili e persone qualsiasi, tutti pronti a ripetere che non era un omicidio di mafia, tutti a insinuare la pista del delitto passionale. Tutti a dire "mannò, ma quale eroe?".
Tutti a insultarlo con la più degradante delle balle: misero in giro la voce che fosse un puppo, cioè un omosessuale pronto ad adescare ragazzini fuori dalle scuole.
Voci che vogliono creare intorno un'aura di sospetto, allontanare il peso infamante del sangue versato. A difenderlo resta solo quella parte di Catania per cui l'impegno contro la mafia è istinto di pancia più che vanto ideologico.

Negli anni successivi si battono le piste più improbabili per cancellare la realtà dei fatti. Furono indagati tutti i movimenti economici di Fava, i suoi conti correnti ridotti a poche lire dopo che per fondare "I Siciliani" aveva venduto tutti i suoi averi nella convinzione che in Sicilia l'unico modo per fare informazione fosse possedere un proprio giornale. Il conto di Pippo Fava fu sezionato. Fu ordinata una delle prime inchieste favorite dalla legge La Torre, legge creata per indagare sui patrimoni di mafia, e invece, ironia della sorte, a essere inquisiti furono i conti correnti dei giornalisti de "I Siciliani".

Soltanto dieci anni dopo, nel 1994, c'è una svolta nelle indagini. Un pentito, Maurizio Avola, comincia a parlare e si autaccusa dell'omicidio Fava. Racconta di aver fatto parte del gruppo di fuoco permettendo così di riaprire il caso. Da quel momento in poi la magistratura catanese inizia a ricostruire le tracce di ciò che era realmente accaduto. Dieci anni di accuse, di insulti, di sputi, a cui la famiglia e gli amici hanno dovuto resistere senza segnali di solidarietà e di speranza. Dieci anni in cui a infangare la sua memoria non era Cosa Nostra ma un territorio che non voleva saperne di vedere tracce di mafia nella propria imprenditoria. Un territorio dove chi invece a quel mondo dava un nome era come se mettesse le mani addosso alle anime e alle coscienze di ognuno. Meglio continuare a sfregiare la memoria di Pippo Fava con le più banali insinuazioni. Meglio nasconderlo all'opinione pubblica nazionale, nascondere i suoi libri, il suo operato.

Emerge che quando Nitto Santapaola decide che è tempo di uccidere Fava, pronuncerà semplici e inequivocabili parole di condanna: "Questo noi dobbiamo farlo non tanto o non soltanto per noi. Lo dobbiamo ai cavalieri del lavoro perché se questo continua a parlare come parla e a scrivere come scrive, per i cavalieri del lavoro è tutto finito.
Per loro e per noi".

Quindi prima minacce - Fava è preoccupato e compra una pistola, dice che potrebbero ucciderlo per cinquecentomila lire -, poi l'omicidio e la diffamazione.
E Pippo Fava sa benissimo che entrambe le cose non possono che andare insieme. Una condanna a morte non parte mai senza che si sappia come agire sulla memoria dell'assassinato. Prima della traiettoria delle pallottole, il percorso che dovrà avere la delegittimazione è già tracciato.

Per offuscare il peso politico che la sua morte avrebbe potuto avere, per istillare il dubbio sull'onestà delle sue parole, la strategia delle calunnie era iniziata già da tempo. E quelle voci le diffondevano non solo uomini vicini ai boss, ma, cosa più grave, anche chi non era corrotto dal danaro della mafia: cronisti biliosi, politici ostili, persone rispettabili e rispettate che si sentivano messe sotto accusa da Giuseppe Fava, ancor più dal momento in cui il suo sacrificio urlava al cielo il loro colpevole silenzio.

Roberto Saviano Agenzia Santachiara e Bompiani Editore

© Riproduzione riservata (26 novembre 2009)
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« Risposta #66 inserito:: Dicembre 07, 2009, 07:43:16 pm »

A bordo di un pullman partito dalla provincia nord di Napoli

No B Day, in viaggio verso Roma "Speriamo di smuovere qualcosa"

Uomini di partito, sindacalisti e ragazzi alla prima manifestazione

Si discute dei temi dell'attualità politica ma soprattutto del movimento

di CARMINE SAVIANO


Centinaia di pullman, treni speciali, una nave dalla Sardegna e migliaia di automobili. E' in corso, sin dalle prime ore della giornata, il viaggio del popolo del No B Day. Un'onda viola che dopo due mesi di preparativi e discussioni si appresta a invadere pacificamente Roma. Con in testa l'ultimo messaggio lanciato su Facebook dal comitato organizzatore della manifestazione nazionale che oggi chiederà le dimissioni di Silvio Berlusconi: "Siamo qui perché non ne possiamo più, perché siamo stanchi di questa indolenza italiana che da quindici anni giustifica l'ingiustificabile".

Sul pullman partito alle 10 dalla provincia nord di Napoli si discute e si leggono giornali. Una platea intergenerazionale fatta di studenti e uomini di partito, sindacalisti e bambini. E di ragazzi che per la prima volta partecipano a un evento simile: "E' la forza della rete, l'unica forza che abbiamo contro l'impero mediatico di Berlusconi". Dopo cinque minuti già si affrontano i temi al centro dell'agenda politica. Dalle dichiarazioni del pentito Gaspare Spatuzza alla riforma della giustizia, dal rinnovato impegno in Afghanistan alla stabilità e alla tenuta della maggioranza di governo.

L'autobus in viaggio verso Roma è anche un pezzo di network in movimento. Netbook e smartphone per compilare in tempo reale il proprio diario di viaggio online. "Roma arriviamo", "speriamo di smuovere qualcosa", "vorrei che le televisioni dessero alla manifestazione lo spazio che merita". E per tenere i contatti con gli amici digitali incontrati in questi mesi. "Ho aggiunto tantissime persone su Facebook, vorrei conoscerne qualcuna". Quasi unanimi i pareri sul social network che ha permesso la realizzazione del No B Day. "E' un mezzo che permette a idee e messaggi di diffondersi in maniera esponenziale e veloce". Ma c'è anche chi è scettico: "E' solo un punto di partenza, bisogna organizzarsi. E Facebook non basta".

Poi, immancabili, le digressioni su teoria e prassi della manifestazione perfetta. Una "scienza esatta" per l'esperto sindacalista, il "momento in cui si realizza un'utopia" per il giovane studente. Scattano subito paragoni con le altre grandi manifestazioni di questo decennio. Da quella del marzo 2003 organizzata dalla Cgil in difesa dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori a quella dell'ottobre 2008 tenuta dal Pd al Circo Massimo. Con i quadri di partito che rivendicano il proprio ruolo: "Senza la nostra macchina organizzativa non ci sarebbe stato nessun No B Day, si sarebbe trattato di un fenomeno del tutto virtuale".

Un viaggio che è anche un momento di incontro e di confronto. Due insegnanti discutono delle nuove forme di mobilitazione giovanile. E un laureando in scienze politiche riflette sullo stato dell'arte nella sinistra italiana: "Spero che oggi sia solo il punto di partenza per organizzare e rendere fruttuosa l'enorme disaffezione che c'è nella nostra gente". E puntuale la replica dalle retrovie: "Prima però dobbiamo risolvere quell'anomalia chiamata Berlusconi".

© Riproduzione riservata (5 dicembre 2009)
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« Risposta #67 inserito:: Dicembre 14, 2009, 10:12:48 am »

Tre giorni per decidere, dopo undici anni la sentenza in Cassazione se la Corte confermerà non si potrà più dire che non esiste la camorra


Spartacus, la madre di tutti i processi per i Casalesi arriva la paura della fine

di ROBERTO SAVIANO


NEI prossimi tre giorni si chiuderà dopo undici anni il terzo e ultimo grado del Processo Spartacus. È un evento epocale che rischia di passare inosservato, sotto silenzio. Come un normale ingranaggio giudiziario che volge al termine. Il processo Spartacus è il più grande processo di mafia della storia della criminalità organizzata in Europa, paragonabile solo al Maxi Processo contro Cosa Nostra istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Un processo che ha visto complessivamente 1.300 indagati, seicentoventisei udienze complessive, 508 testimoni sentiti, più 24 collaboratori di giustizia, 90 faldoni di atti acquisiti. Una inchiesta-madre che ha generato decine di processi paralleli: omicidi, appalti, droga, truffe allo Stato. Questa sentenza che avverrà a Roma, alla Corte di Cassazione, potrebbe sancire un pezzo di storia non solo giudiziaria del sud ma dell'intero paese. Se la Corte dovesse confermare le condanne del secondo grado, sarebbe l'ultima parola: in terra casertana esiste un clan egemone, al tempo stesso feroce e imprenditoriale.

Un punto di non ritorno. Non si potrà più dire - come molti collegi difensivi dei clan hanno fatto negli ultimi anni - che non esiste la camorra. Che ci sono solo sottoculture della violenza, che i pentiti inventano storie per attaccare concorrenti politici o imprenditoriali. Il clan spera che possa essere annullata in Cassazione la sentenza di secondo grado. Se dovesse accadere, bisognerà rifare tutto da capo. Per un processo iniziato il primo luglio del 1998 e che arriva al terzo grado alla fine del 2009, significa rifare un lavoro enorme. I Casalesi sperano soprattutto nello scadere dei tempi di custodia cautelare. Qualora invece la Cassazione dovesse confermare, la leadership storica dei Casalesi avrebbe la sua condanna definitiva. Non ci sarebbero più istanze di remissione, cavilli, vizi di forma. È tutto lì. È storia.

Tre gradi di giudizio a sancire definitivamente con gli ergastoli qual è stato il modo in cui i Casalesi hanno assunto il potere e hanno interpretato il loro modo di dominare il territorio e il loro modo di fare impresa. Chiuso questo processo significherà potersi occupare del presente, e non più dei vent'anni scorsi di dominio camorrista. È solo l'inizio del contrasto, non la fine.
A partire da Francesco Schiavone. Il capo riconosciuto. Colui che in questi anni dal carcere ha atteso, gestito, controllato tutte le diatribe interne, avallato ogni decisione. Colui che ha cercato di non innescare guerre tra le diverse anime del clan, arrivando - nonostante il regime di carcere duro lo vieterebbe - persino a scrivere sulle prime pagine dei giornali locali dando indicazioni su come comportarsi. È lui che vedrebbe per sempre dietro le sbarre il suo destino. Francesco Schiavone detto Sandokan non avrebbe altra strada che collaborare con la giustizia. Ha cinquant'anni e non gli rimarrebbero che due alternative. Pentirsi o morire in galera. Il figlio Nicola si vede poco in paese, è sempre fuori, come si stesse preparando alla latitanza. Su di lui ancora non pendono mandati di cattura. Le informative lo indicano chiaramente come il reggente del clan, ma può ancora andare a parlare col padre, può ancora gestire gli affari. É lì, libero di farlo, nonostante le intercettazioni lo segnalino come colui che deve decidere al posto del padre.

Il clan ha gli occhi puntati sulla famiglia Schiavone. L'annuncio di Sandokan - pubblicato qualche mese fa e poi smentito - di voler allontanare i figli da Casal di Principe, era stato letto con ansia. Se il capofamiglia si pentisse, sarebbero i figli i primi a sparire. Quindi i fedelissimi di Sandokan guardano ogni loro allontanamento come possibile segno di tradimento del capo in carcere. Eppure se quello che in paese ormai tutti non chiamano più come l'eroe salgariano ma semplicemente "Ciccio o' barbonè " decidesse di collaborare, allora potrebbe non morire in galera. Allora potrebbe svelare decenni di storia imprenditoriale e politica italiana. I rapporti con le banche, i politici costruiti con i suoi voti, il ciclo del cemento in Emilia-Romagna e nel Lazio, gli appalti dell'alta velocità, la coca che alimenta le betoniere, i rifiuti tossici di mezzo paese dislocati dove sa solo lui. Sandokan pentito permetterebbe alla sua famiglia di poter vivere protetta e non sotto assedio come ora. Persino di andare incontro a un destino diverso, visto che i figli sembrano essere ormai sulla strada del padre: potere, galera e morte. Non solo Nicola Schiavone ma anche Emanuele, arrestato a Riccione per un panetto di hashish, usato per adescare le ragazzine. Lui, rampollo diciottenne di uno dei gruppi imprenditoriali più potenti d'Europa, capace addirittura di raggiungere, secondo le stime della Dda, un fatturato di trenta miliardi di euro, viene pizzicato come l'ultimo dei pusher in giro per le discoteche romagnole. Ai poliziotti che lo arrestano, dichiara: "Sono il figlio di Sandokan". Cerca di impaurirli e non ci riesce.

Questo episodio, secondo quanto si ascolta a Casal di Principe, ha innescato nelle famiglie di camorra del Casertano il commento che Giuseppina Nappa, la moglie di Sandokan, dovendosi occupare troppo degli affari giudiziari del marito, non ha educato bene i figli. Così le sono usciti "i figli drogati". L'immagine degli Schiavone continua a perdere credibilità presso le altre famiglie. Se venissero confermate le condanne, Nicola Schiavone, l'erede al trono, sarà sicuramente più debole. Sino ad ora ha avuto rispetto automatico, perché Sandokan era considerato re e poteva ancora uscire di galera. Ma dopo una condanna all'ergastolo definitiva, Francesco Schiavone finirà prima o poi per diventare un detenuto che porta lo stesso nome di tanti altri. Mentre chi è rimasto fuori e sino alla sentenza definitiva era viceré, ora vorrà essere re. E per divenire re, dovrà schiacciare i figli di Sandokan.
In attesa di questo verdetto solo una cosa è certa. Non calerà mai più il silenzio su quegli affari. O meglio: non lo faremo mai più calare. I boss di Casal di Principe hanno sperato che prima o poi l'attenzione tornasse confinata alla cronaca locale, alle pagine dei giornali di provincia. E quel che per loro è una speranza, per noi è un rischio sempre vivo.

Quel che ha fatto negli ultimi tempi il Ministro Maroni non si era mai visto negli anni precedenti e va riconosciuto. Il suo "Modello Caserta" è stato utile e necessario per segnalare per la prima volta la forte volontà dello Stato italiano di essere presente su quel territorio, di volerlo controllare, di volersene riappropriare. Questo è ancora più importante dei vari successi ottenuti dalle forze dell'ordine, dei singoli arresti effettuati. Ma la battaglia è lunghissima e ora si è davvero solo all'inizio. Non bisogna, infatti, farsi troppo fuorviare dagli arresti. Si tratta spesso degli scarti degli stessi clan, di frange isolate, persone che ormai hanno fatto quel che dovevano. É possibile farne a meno o rimpiazzarli con altri. O vecchi narcotrafficanti in pensione, o persino killer feroci ma strafatti come quelli del gruppo Setola, serviti in un certo momento per una strategia del terrore ma non rappresentativi di ciò che rimane ancora oggi la vera forza e l'anima del clan, che è l'anima economica; utile e più facile falciare ed arrestare il livello militare, molto più complicato fermare il livello economico e soprattutto svelare i nodi dove si intrecciano imprenditori legali e camorra.

Per il clan dei Casalesi sono lì ancora fuori a comandare Michele Zagaria e Antonio Iovine. Scorazzano da dodici anni tra l'Emilia Romagna, Roma, la Romania, gestiscono il business. É attraverso il business che il clan controlla il territorio casertano e arriva ovunque, sia in qualsiasi parte d'Italia e anche oltre, sia nelle sfere dell'economia che dovrebbe essere pulita, della finanza, della politica. È fondato sul business il suo dominio. Il ciclo del cemento, la gestione dei rifiuti, i centri commerciali, le sale bingo, gli alberghi e le fabbriche nell'est Europa. Tutto questo è ancora intatto.

Il nome di questo processo è Spartacus. Il nome dello schiavo che si ribellò a Roma. L'unico uomo che sia mai riuscito insieme a un manipolo di schiavi ad arrivare alle porte della capitale dell'impero, con il solo obiettivo di riacquistare la libertà. É cosa bizzarra per un processo, prendere il nome da un ribelle. Però a sud la vera ribellione è la legalità. La legalità contro l'impero, "la dittatura armata della camorra" come la chiamava don Peppino Diana.

Siamo convinti che oggi infrangere la pax casalese significhi preparare le condizioni perché ci possa essere maggiore libertà anche a Roma a Milano a Reggio Emilia. Addirittura a Bucarest o a Berlino. Per questo siamo sicuri di una cosa semplice: non ci sarà più quella che loro chiamavano pace, e che noi invece chiamiamo silenzio, non ci sarà più in paese quella che loro chiamavano serenità, e che noi invece chiamiamo omertà. Non permetteremo, fino a quando il meccanismo camorristico non sarà debellato, sconfitto, eliminato, che la luce si spenga su queste terre, che torni quell'ombra che copriva affari e dominio. E ascolteremo con indifferenza chi vorrà definire diffamante raccontare e scrivere libri sul potere criminale. Perché abbiamo invece la certezza che solo raccontando, analizzando, scrivendo, condividendo, si possa capire e far conoscere. E siamo oggi più che mai convinti che solo la conoscenza possa permettere un'azione davvero efficace. Fino a quando ci sarà sangue nelle vene e aria nei polmoni, noi andremo avanti. Qualunque sia il verdetto che verrà emesso e qualsiasi ne siano le conseguenze politiche e umane che raccontare di mafia oggi in Italia comporta.

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« Risposta #68 inserito:: Gennaio 05, 2010, 10:17:14 pm »

IL CASO

La 'ndrangheta e la svolta del tritolo così l'altra mafia ha scelto la guerra


di ROBERTO SAVIANO


CHI parla di mafia diffama il Paese? Chi parla di mafia difende il Paese. Le organizzazioni criminali contano molto: solo con la coca i clan fatturano sessanta volte quanto fattura la Fiat. Calabria e Campania forniscono i più grandi mediatori mondiali per il traffico di cocaina. Si arriva a calcolare che 'ndrangheta e camorra trattano circa 600 tonnellate di coca l'anno, ed è una stima per difetto. La 'ndrangheta - come dimostrano le inchieste di Nicola Gratteri - compra coca a 2.400 euro al kilo e la rivende a 60 euro al grammo, guadagnando 60.000 euro. Quindi con meno di 2.400 euro di investimento iniziale, percepisce una entrata pulita di 57.600 euro. Basta moltiplicare questa cifra per le tonnellate di coca acquistate e distribuite da tutte le mafie italiane e diventa facile capire la quantità di denaro di cui dispongono, al netto di cemento ed estorsioni.

E raffrontarla con il peso industriale delle imprese leader - che hanno molti meno profitti - per comprendere il potere che oggi hanno realmente nel paese e in Europa le organizzazioni criminali.

Proprio dinanzi a fatti come l'attentato di Reggio Calabria diventa imperativa la necessità di capire. È la conoscenza che permette di capire cosa stia accadendo. E non raccontare questa azione come un episodio avvenuto in un altro mondo, in un altro paese. Un paese di quelli lontani dove una bomba o un morto rientrano nel quotidiano. Le organizzazioni criminali italiane quando agiscono e quando decidono di mandare un segnale, sanno perfettamente cosa fanno e dove vogliono arrivare. La bomba non è stata messa davanti a una caserma, né alla sede della Direzione Antimafia, ma alla Procura generale. Il messaggio, dunque, è rivolto alla Procura Generale. E forse - ma qui si è ancora nel territorio delle ipotesi - a Salvatore Di Landro, da poco più di un mese divenuto Procuratore generale. Da quando si è insediato, il clima non è più quello che le 'ndrine reggine conoscevano. Le cose stanno cambiando e le 'ndrine non apprezzano questo cambiamento. Preferirebbero magari che le difficoltà burocratiche e certe gestioni non proprio coraggiose del passato possano continuare. Le mafie sanno che la giustizia italiana è complicata e spesso così lenta che è come se un bambino rompesse un vaso a sei anni e la madre gli desse uno schiaffo quando ne ha compiuti trenta.

Se volessero, le cosche potrebbero far saltare in aria tutta Reggio Calabria. La 'ndrangheta possiede esplosivo c3 e c4. Decine di bazooka. Perché, allora, far esplodere una bomba artigianale davanti alla Procura, quasi fosse una lettera da imbucare? Evidentemente non volevano colpire duramente, ma lanciare un primo segnale, dare inizio a un "confronto militare". Anche l'operatività potrebbe essere stata di una sola famiglia, con una sorta di silenzio-assenso delle altre che in questo modo hanno reso il gesto collettivo.

Ora bisogna accendere una luce su ogni angolo della Procura generale, stare al fianco di chi sta attuando questo cambiamento. Capire se le 'ndrine vogliono che una corrente prevalga sull'altra. Capire, parlarne, dare visibilità alla Calabria, alle dinamiche che legano imprenditoria, criminalità, massoneria, politica in un intreccio che fattura miliardi di euro di cui nessuno viene investito in Calabria e tutti fuori. Da Montreal a Sidney. E alla solita idiozia che verrà ripetuta a chi scrive di questi temi, ossia di essere "professionisti dell'antimafia", occorre rispondere che il vero problema è che esistono troppi "dilettanti" dell'antimafia.

Le mafie stanno alzando il tiro. O almeno, si sente in diversi territori una forte tensione. Dovuta a diversi motivi, non ultima la chiusura di importanti processi, come il terzo grado del processo Spartacus di cui fra pochi giorni verrà pronunciata la sentenza. I Casalesi potrebbero agire militarmente dopo una condanna definitiva. Avevano nei loro referenti politici una sorta di garanzia che si sarebbero occupati dei loro processi. In caso di ergastoli, gli inquirenti temono risposte e l'attenzione mediatica dovrebbe essere massima, ma non lo è.

A Reggio Calabria l'arresto di Pasquale Condello, nel giugno dell'anno scorso, fatto dai Carabinieri comandati da una leggenda del contrasto alle 'ndrine, il colonnello Valerio Giardina, ha rotto gli equilibri di pace. Pasquale Condello detto "il supremo" era riuscito a mettere pace tra le 'ndrine di Reggio dopo una faida tra 1985 e il 1991 tra i De Stefano-Tegano e Condello-Imerti che aveva portato ad una mattanza di più di mille persone. Condello faceva affari ovunque: senza un suo si o un suo no nulla sarebbe potuto accadere a Reggio. Quindi è anche alla sua famiglia che bisogna guardare per capire da dove è partito l'ordine della bomba. La sua capacità di aprire verticalmente e orizzontalmente i propri affari era la garanzia di pace. All'inizio di ottobre, la famiglia Condello è persino riuscita ad ottenere la lettura delle parole di felicitazione di Benedetto XVI trasmesse nella cattedrale di Reggio Calabria da don Roberto Lodetti, parroco di Archi, agli sposi Caterina Condello e Daniele Ionetti: la prima, figlia di Pasquale; il secondo, il figlio di Alfredo Ionetti, ritenuto il tesoriere della cosca. "Increscioso e deplorevole" ha definito l'episodio il settimanale diocesano l'Avvenire di Calabria. La prassi vuole che quando gli sposi desiderano ricevere un telegramma o una pergamena del Papa, ne facciano richiesta al parroco o ad un prete di loro conoscenza, il quale trasmette la richiesta all'ufficio matrimoni della Curia. Non è il telegramma a destare scandalo quanto piuttosto il via libera dato dalla Curia reggina per le nozze in cattedrale di due rampolli di una potentissima 'ndrina calabrese. Difficile credere che non si sia prestata attenzione ai cognomi dei due sposi. Anche perché Caterina Condello e Daniele Ionetti sono cugini di primo grado e il diritto canonico (art. 1091) consente un matrimonio tra consanguinei solo con motivata dispensa richiesta dal parroco e sottoscritta dal vescovo.

Il clan Condello da oltre 25 anni ha comandato a Reggio. I matrimoni dovrebbero essere molto controllati e i preti dovrebbero davvero interessarsi alla motivazione delle unioni. Nel 2003 fu sequestrata una lettera a Cesena a casa di Alfredo Ionetti, lettera scritta dalla moglie del Supremo, Maria Morabito. In questa lettera spedita a un'amica si parlava dell'altra figlia femmina, Angela: "Cara Anna (...) mia figlia ha dovuto lasciare un bel ragazzo solamente perché, nel passato, alcuni suoi parenti erano nemici di mio marito (...) Non c'è stato niente da fare, hanno dovuto smettere (...) Avevo sperato in un futuro migliore per mia figlia, che sarebbero stati bene insieme. (...) Ma dobbiamo portare la nostra croce...".

Le famiglie di Reggio vivono di questi vincoli, e spesso le prime vittime sono i familiari. In questo contesto, rompere il ruolo del sacramento religioso come patto di sangue tra mafiosi è qualcosa che solo i sacerdoti coraggiosi - e per fortuna ce ne sono - possono fare.

È importante che le istituzioni diano una risposta forte dopo la vicenda dell'attentato in Calabria. Quindi è bene che Maroni visiti Reggio, ma dovrebbe farlo anche il Ministro della Giustizia. Ai messaggi mafiosi bisogna rispondere subito, duramente, e soprattutto comprendendoli e non lasciandoli passare come un generico assalto alle istituzioni. Le mafie sanno che la più grande tragedia e la più grande festa non durano per più di cinque giorni. Quindi l'attenzione si abbassa, il giunco si cala e passa la china. Oggi la situazione storica sembra pericolosamente somigliare a quella già passata in Sicilia. Non è questo un governo con la priorità antimafia, non è questa un'opposizione con una priorità antimafia. Nonostante gli sforzi degli arresti.

Ad esempio: la legge sulle intercettazioni. Nella lotta alla mafia sono uno strumento indispensabile. E ora diviene talmente difficile poterle fare e ancora più poterle far proseguire per un tempo adeguato per ottenere dei risultati, che la macchina della giustizia viene nuovamente oberata di burocrazia, rallentata. Si rischia di privare gli inquirenti dell'unico strumento capace di stare al passo con una criminalità che dispone di ogni mezzo moderno per continuare a fare i propri interessi. Se i magistrati si trovano davanti a grossissime limitazioni nell'uso delle intercettazioni, è come se dovessero tornare a combattere con lo schioppetto contro chi possiede nel proprio armamentario ogni sofisticato dispositivo tecnologico.
L'altro problema sta in ogni disegno che cerca di accorciare i tempi processuali. Abolito il patteggiamento in appello, resta in vigore il rito abbreviato. Per un mafioso è conveniente: così - fra vari sconti e discrezionalità della pena valutata dai giudici - va a finire che spesso un boss può cavarsela con cinque anni di galera. Per lui e il suo potere non sono nulla, anzi sono quasi un regalo. E questa situazione col disegno sul processo breve cambia, ma solo in peggio.

Per i reati di mafia bisogna fare il contrario: creare un sistema più certo e più serio delle pene, tale da rendere non conveniente essere mafiosi. La pena deve essere comminata in dibattimento, senza possibilità di abbreviazione del rito. Lo stato non può rinunciare a celebrare processi regolari contro chi si macchia di certi reati e, peggio ancora, inquina il suo stesso funzionamento. Non si tratta di giustizialismo, ma semplicemente dell'esigenza che una condanna equa scaturisca da un processo fatto come si deve.

Questo governo agisce soprattutto a livello di ordine pubblico. In primo luogo con gli arresti, che divengono l'unica prova dell'efficacia della lotta alla mafia. Ma l'esecutivo non ha approntato strumenti per colpire il punto nevralgico delle organizzazioni criminali: la loro forza economica. Sì certo, i sequestri di beni ci sono, ma i sequestri dei beni materiali sono il risultato di imprese che invece ancora proliferano e di un sistema economico che non è stato affatto aggredito. Sul piano legislativo sarebbe gravissimo reimmettere all'asta i beni dei mafiosi. Li acquisterebbero di nuovo. Lo scudo fiscale per le mafie è un favore. E questa è la valutazione di moltissimi investigatori antimafia. Bisogna fare invece altro. Intervenire sul piano legislativo altrove. Cominciare col mettere uno spartiacque tra i reati comuni e quelli della criminalità organizzata. Ma bisogna anche smettere una volta per tutte di definire "diffamatori" coloro che accendono una luce sui fenomeni di mafia. Anche perché non è purtroppo con l'episodio di Reggio che si chiude una vicenda. Questo è soltanto l'inizio.


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« Risposta #69 inserito:: Gennaio 16, 2010, 02:58:52 pm »

Sipario sul processo ai Casalesi

Carcere a vita per Sandokan e gli altri boss

La Cassazione conferma 16 ergastoli

A Gomorra la rivincita della giustizia

di ROBERTO SAVIANO


SULL'ultimo foglio riposto in cima ai faldoni degli inquisiti che subiscono una condanna appare la seguente dicitura: Fine pena. E dopo due punti, l'anno in cui verranno scarcerati. Per i boss storici dei Casalesi, Francesco "Sandokan" Schiavone, Francesco Bidognetti ci sarà scritto: fine pena mai. La camorra non è imbattibile. La Corte di Cassazione ha confermato le condanne. Dopo 11 anni si è chiuso il più grande processo di mafia, paragonabile solo al maxiprocesso di Palermo istruito da Falcone e Borsellino negli anni '80. Per lo Stato italiano ora è definitivo: esiste il clan dei Casalesi, esistono i loro affari i boss. È una vittoria. Tre gradi di giudizio, la parola dei pentiti è confermata dalle indagini. Fino alla fine i boss e i loro collegi difensivi hanno sperato che la Cassazione annullasse il secondo grado, ma non è andata così.

Quando è arrivata la notizia, è come se vent'anni mi fossero d'immediato passati negli occhi. Nel corpo un'emozione strana, come di rabbia e di amaro sollievo al contempo. Il pensiero va a coloro che quando parlavi di camorra dicevano che esageravi. Agli imprenditori che hanno fatto affari con il clan. Ai politici che hanno acquisito caratura nazionale grazie al potere e ai favori del clan, ai giornalisti che flirtavano con le organizzazioni divenendone portavoce. Il pensiero va a quando pronunciare la parola camorra era impossibile, a quando nessuno voleva saperne della realtà mafiosa del casertano. Ma il pensiero va anche a tutti coloro che hanno resistito. Il pensiero va ai giudici che hanno lavorato contro i casalesi, dai pm Federico Cafiero De Raho a Franco Roberti, da Lucio Di Pietro, Francesco Greco, Carlo Visconti, Francesco Curcio e poi Raffaele Cantone, Raffaello Falcone, Antonello Ardituro e Lello Magi.

Ma soprattutto il pensiero va a tutti i morti innocenti che sono caduti per mano casalese. Non riesco a non pensare a don Peppe Diana ammazzato per essersi messo contro i clan per aver detto e scritto "per amore del mio popolo non tacerò". A Salvatore Nuvoletta, carabiniere ucciso per vendicare morte del nipote di Sandokan. A Federico Del Prete, ucciso per aver fondato un sindacato contro i clan. Ad Antonio Cangiano sparato alla spina dorsale perché si era opposto da vice sindaco a dare un appalto senza gara regolare. A tutti i morti per cancro, uccisi dai rifiuti tossici sotterrati nelle terre, nelle cave, tra le bufale e le coltivazioni di mele. Una storia lunga. Che i clan avevano mantenuto al buio, solo pochi coraggiosi cronisti locali in grado di raccontare e poi una enorme indifferenza. Il primo grado si era chiuso senza nemmeno un cenno sui giornali nazionali.

Questo processo riguarda vicende che vanno dalla morte del capo dei capi Antonio Bardellino sino al 1996. E ci sono voluti dieci anni quasi per accertare quei fatti, e per chiudere il primo grado di questo processo. Nel 2005 un processo con circa 1300 inquisiti avviata dalla Direzione distrettuale antimafia nel 1993, partendo dalle dichiarazioni di Carmine Schiavone. Un processo durato seicentoventisei udienze complessive, 508 testimoni sentiti oltre ai 24 collaboratori di giustizia, di cui 6 imputati. Acquisiti 90 faldoni di atti. Una inchiesta-madre che durante questi anni ha generato decine di processi paralleli: omicidi, appalti, droga, truffe allo Stato. Dopo quasi un anno dal blitz del 1995, nacque Spartacus 2, Regi Lagni, ossia il recupero dei canali borbonici che bonificarono nel diciottesimo secolo i territori casertani dalle paludi ma che dall'epoca di Carlo III non ricevevano ristrutturazione adeguata. Il recupero dei Regi Lagni fu per anni pilotato dai clan che generarono per loro appalti miliardari inutilizzati per ristrutturare le vecchie strutture borboniche ma a dislocare miliardi di lire negli anni '90 verso le loro imprese edili che sarebbero divenute vincenti in tutt'Italia gli anni successivi.

Per la prima volta furono sequestrate come beni della camorra anche due società di calcio: l'Albanova e il Casal di Principe. 21 gli ergastoli, oltre 750 anni di galera inflitti. Persino le carte processuali da trasmettere ai giudici d'appello, i 550 faldoni contenenti gli atti del procedimento nel novembre 2006, hanno avuto bisogno di un camion blindato e scortato dai carabinieri che portò i documenti da Santa Maria Capua Vetere a Napoli. Tutto questo era accaduto con una sostanziale indifferenza dei media nazionali ed internazionali. Questo secondo grado non sarà così. I nomi dei boss, delle loro aziende, i nomi dei loro delitti non passeranno solo sulla stampa locale, non avranno solo vita d'inchiostro nei documenti processuali. Verranno conosciuti, saranno resi noti.

Per chi viene dal casertano e ha sentito parlare di onore rivolti a questi personaggi leggendo le carte del processo capirà che non hanno nulla di onorevole, che sono in grado di non rispettare nessun patto. Antonio Bardellino aveva cresciuto Sandokan e tutti gli altri capi dell'organizzazione e i suoi delfini gli fingevano rispetto. Sandokan usò le spigolosità della diplomazia camorristica per raggiungere il suo scopo che avrebbe potuto realizzasi solo facendo scoppiare una guerra interna al sodalizio. Come racconta il pentito Carmine Schiavone, i due boss pressarono Antonio Bardellino per farlo ritornare in Italia e cercare di eliminare Mimì Iovine, fratello del boss Mario Iovine, che aveva un mobilificio ed era formalmente estraneo alle dinamiche di camorra, ma che secondo i due boss aveva per troppe volte svolto il ruolo di confidente dei carabinieri. Per convincere il boss gli avevano raccontato che persino Mario Iovine era disposto a sacrificare suo fratello pur di mantenere ben salto il potere del clan. Bardellino si lasciò convincere e fece ammazzare Mimì mentre stava andando a lavoro nel suo mobilificio. Immediatamente dopo l'agguato, Sandokan e i suoi fecero pressione su Mario Iovine per eliminare Bardellino dicendogli che aveva osato uccidere suo fratello per un pretesto, soltanto per una voce. Un doppio gioco che sarebbe riuscito a mettere contro Mario Iovine il più maturo tra i delfini del boss e il boss stesso, Antonio Bardellino.

I casalesi iniziarono ad organizzarsi. Schiavone avrebbe dato l'appoggio totale per l'eliminazione di ogni residuo bardelliniano. Erano tutti d'accordo i suoi delfini per eliminare il capo dei capi, l'uomo che più di tutti in Campania aveva creato un sistema di potere criminal-imprenditoriale. Il boss fu convinto a spostarsi da Santo Domingo nella villa brasiliana, gli raccontarono la balla che aveva l'Interpol alle costole. In Brasile lo andò a trovare Mario Iovine con il pretesto di mettere a punto i loro affari circa l'impresa di import-export di farina di pesce-coca. Un pomeriggio, Iovine non trovandosi più nei calzoni la pistola, prese una mazzuola, sfondò il cranio di don Antonio e seppellì il corpo in una buca scavata sulla spiaggia brasiliana. Il corpo però non fu mai ritrovato. Eseguita l'operazione, il boss telefonò immediatamente a Vincenzo De Falco per comunicare la notizia e dare inizio alla mattanza di tutti i bardelliniani. Paride Salzillo nipote di don Antonio Bardellino, venne invitato ad un summit tra tutti i dirigenti del cartello casalese.

Racconta sempre il pentito Carmine Schiavone che lo fecero sedere al tavolo e poi d'improvviso Sandokan gi disse: "Guarda tuo zio è morto in Brasile e mo' farai la stessa fine pure tu". Ammazzano persone solo perché hanno relazioni con personaggi collegabili ai clan: come Liliano Diana che si era fidanzato con una figlia di un boss, oppure Genovese Pagliuca che era fidanzato con una ragazza di cui si era innamorata in modo saffico una amante di Bidognetti. E hanno fatto vivere nel terrore questo territorio come in una guerra civile. In una telefonata presente nelle carte processuali è scritto: "Poi dicono che a Casale stanno facendo tutti le porte di ferro, pure le botteghelle, le bancarelle, stanno tutti a fare le porte di ferro, dicono che Pucci il fabbro ha fatto seicento milioni di ferro". In questi territori, gran parte di coloro che sono vicini agli affari dei clan non lo dichiara pubblicamente ma porta avanti la tesi che la camorra sono solo coloro che sparano, solo il segmento militare.

Restano fuori dal carcere Michele Zagaria e Antonio Iovine. I due capi. Anche loro condannati in via definitiva, ma ancora latitanti da oltre tredici anni. E' Michele Zagaria il capo che con Sandokan, ora condannato definitivamente, smetterà di essere vicerè e diventerà re, almeno fin quando resterà libero. L'uomo del cemento. Il clan Zagaria infatti - secondo le accuse - è riuscito persino a lavorare per il Patto Atlantico edificando la centrale radar posta nei pressi del Lago Patria, punto fondamentale per le attività militari Nato nel Mediterraneo. Michele Zagaria che non vuole sia sparso sangue nel suo paese natale di Casapesenna, che ha pagato le feste patronali riuscendo a far venire artisti di caratura nazionale, che gestisce il ciclo del cemento in molte zone d'Italia- dall'Emilia Romagna all'Umbria sino alla Toscana- ha fatto consegnare in galera in fratelli Pasquale, Carmine e Antonio. Hanno piccole pene da scontare, tutte sotto i dieci anni e una solida strategia: una volta scontata la pena comanderanno loro i Casalesi, facendo soprattutto affari legali e internazionali. E se nel frattempo qualcuno ucciderà o penserà di ostacolare Michele, i suoi fratelli in galera saranno la sua assicurazione sulla vita. Appena gli accadrà qualcosa, hanno l'ordine di pentirsi riuscendo a far immediatamente incarcerare i loro rivali.

Per evitare di essere beccato, Michele Zagaria non ha messo su famiglia, visto che i capi che lo hanno preceduto sono stati arrestati usando il punto debole di mogli e figli. Ha fatto la latitanza persino in una chiesa, un posto dove i poliziotti non andrebbero mai a controllare. Lo Stato cerca Zagaria e Iovine (o li dovrebbe cercare) da molto tempo. Eppure difficilmente i capi operativi possono stare troppo lontano dal loro territorio. Zagaria e Iovine continuano a vivere in una manciata di chilometri, nei loro paesi di non più di 20mila abitanti, con una rete di appoggio che rende impossibile che vengano arrestati. Antonio Iovine, detto o'Ninno per il suo viso da bambino e per essere divenuto capo già da ragazzino, è l'altro reggente, legato a doppio filo a Sandokan. Quindi il suo ruolo potrebbe essere messo in crisi dall'uscita degli Schiavone dal vertice del clan. Il Ninno è potente sulla piazza di Roma, è stato proprietario della discoteca più prestigiosa della capitale e inserito nel settore dell'edilizia e del turismo. Il suo clan aveva escogitato uno strumento infallibile per trasportare coca: usavano le macchine dei vigili urbani di San Cipriano d'Aversa e i vigili stessi come corrieri.

Il ruolo dei reggenti latitanti è fondamentale per il nuovo asse cemento, rifiuti, centri commerciali, investimenti all'estero e la loro libertà permette al clan di dimostrare un'impunità continuativa per le nuove generazioni di affiliati. La chiusura del processo è anche il successo autentico di quei magistrati e quegli uomini della polizia, dei carabinieri, della guardia di finanza che in uno dei territori più inquinati e infiltrati, sono riusciti a non farsi corrompere. Che hanno creduto nel loro dovere e mestiere fosse necessario in un contesto dove tutti sono amici di tutti, dove i parenti divengono il vincolo per fare qualsiasi cosa, per avere carriere spianate o distrutte, dove il sangue viene prima di ogni scelta e di ogni coscienza. Dove dalle farmacie ai centri commerciali, dalle squadre di pallone ai giornali, dalle cave ai ristoranti, la presenza dei clan è oppressiva. In situazioni simili, fare bene il proprio mestiere è qualcosa che sa di resistenza, non solo di deontologia.

Qui si va oltre le ore di lavoro, si sente che attraverso il proprio impegno si gioca il destino di un paese. Non bisogna mai dimenticare che non si tratta solo di imprenditori senza regole, furbi e di talento, ma soprattutto di uomini feroci e spietati. Spesso pensano di ammazzare per niente, come racconta il pentito Dario de Simone: "Walter Schiavone voleva ammazzare Zagaria perché avrebbe detto che Walter non sa sparare" oppure Di Bona, altro pentito: "Michele Zagaria con il kalashnikov aveva dato tanti di quei colpi alla testa di De Falco che schizzavano in alto e fuori dal finestrino dall'abitacolo della macchina pezzi del cuoio capelluto di De Falco".

Spartacus: un nome che non è stato scelto a caso ma si riferisce proprio a Spartaco, il gladiatore tracio che nel 73 avanti Cristo insorse con un pugno di uomini contro Roma, riuscendo, partendo dalla scuola gladiatoria di Capua, a raccogliere nella sua insurrezione schiavi, liberti, gladiatori d'ogni parte del meridione. Non era mai successo nella storia giudiziaria internazionale che un processo avesse il nome di un ribelle gladiatore, di un uomo che sfidò quella che nel mito del diritto mondiale è l'assoluta capitale e simbolo: Roma. Spartacus è stato chiamato questo processo, con l'idea che il diritto potesse liberare queste terre schiave del potere dei clan e dell'imprenditoria criminale. Con il sogno che un processo potesse divenire la sollevazione legale di un territorio laddove la vera insurrezione, la vera rivoluzione in questo territorio è la possibilità di agire legalmente, senza sotterfugi, alleanze, parenti, appalti truccati e aziende dopate dal mercato illegale. In questi momenti viene voglia di parlare, a rischio di esser presi per matti, romantici, o mistici, con chi è morto. Solo i morti, dice Platone, hanno visto la fine della guerra. Ma noi, che morti non siamo, non ci daremo pace, convinti che sia possibile combattere e sconfiggere l'economia criminale.

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« Risposta #70 inserito:: Febbraio 25, 2010, 09:32:13 am »

L'ANALISI

Ribellarsi allo scandalo


di ROBERTO SAVIANO

I giudici dicono che la 'ndrangheta è entrata in Parlamento. E' un'affermazione terribile: proviamo a fermarci un momento e cerchiamo di capire cosa vuol dire. Significa che il potere mafioso  ha messo piede direttamente nel luogo più importante, delicato dello Stato: quello dove il popolo si fa sovrano, dove la democrazia si realizza. E' questa la vera emergenza di cui dovremmo discutere. E' come un terremoto, una valanga, solo che la colpa non è del fato: non è stata una calamità.

Sapevamo tutto. La criminalità organizzata prima crea zone dove il diritto non entra, poi si espande, pervade l'economia, si appropria del Paese, e infine entra lei stessa nello Stato. Ci sono anni di inchieste, prove raccolte, fiumi di denaro che testimoniano l'immenso potere delle mafie d'Italia. Prima le cosche siciliane, poi le calabresi e campane hanno tolto al sud ogni possibilità di sviluppo e  avvelenano l'intera economia.

Ma la vera emergenza non è questa.

L'emergenza è che tutto questo passi come l'ennesimo scandalo silenzioso, al quale siamo rassegnati. L'emergenza è che tutto ciò non faccia sentire nel cuore, nello stomaco, nella mente di ogni italiano (qualsiasi sia il suo credo e la sua posizione politica) un'indignazione che lo porti a ribellarsi, a dire: "Ora basta".
 

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« Risposta #71 inserito:: Marzo 20, 2010, 09:58:15 am »

IL COMMENTO

Per un voto onesto servirebbe l'Onu

di ROBERTO SAVIANO

"LA DISPERAZIONE più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile. E questa disperazione avvolge il mio paese da molto tempo". È una riflessione che Corrado Alvaro, scrittore calabrese di San Luca, scrisse alla fine della sua vita. E io non ho paura a dirlo: è necessario che il nostro Paese chieda un aiuto. Lo dico e non temo che mi si punti il dito contro, per un'affermazione del genere. Chi pensa che questa sia un'esagerazione, sappia che l'Italia è un paese sotto assedio. In Calabria su 50 consiglieri regionali 35 sono stati inquisiti o condannati. E tutto accade nella più totale accondiscendenza. Nel silenzio. Quale altro paese lo ammetterebbe?

Quello che in altri Stati sarebbe considerato veleno, in Italia è pasto quotidiano: dai più piccoli Comuni sino alla gestione delle province e delle regioni, non c'è luogo in cui la corruzione non sia ritenuta cosa ovvia. L'ingiustizia ha ormai un sapore che non ci disgusta, non ci schifa, non ci stravolge lo stomaco, né l'orgoglio. Ma come è potuto accadere?
Il solo dubbio che ogni sforzo sia inutile, che esprimere il proprio voto e quindi la propria opinione sia vano, toglie forza agli onesti. Annega, strozza e seppellisce il diritto. Il diritto che fonda le regole del vivere civile, ma anche il diritto che lo trascende: il diritto alla felicità.

Il senso del "è tutto inutile" toglie speranza nel futuro, e ormai sono sempre di più coloro che abbandonano la propria terra per andare a vivere al Nord o in un altro paese. Lontano da questa vergogna.
Io non voglio arrendermi a un'Italia così, a un'Italia che costringe i propri giovani ad andar via per vergogna e mancanza di speranza. Non voglio vivere in un paese che dovrebbe chiedere all'Osce, all'Onu, alla Comunità europea di inviare osservatori nei territori più difficili, durante le fasi ultime della campagna elettorale per garantire la regolarità di tutte le fasi del voto. Ci vorrebbe un controllo che qui non si riesce più a esercitare.

Ciò che riusciamo a valutare, a occhio nudo, sono i ribaltoni, i voltafaccia, i casi eclatanti in cui per ridare dignità alla cosa pubblica un politico, magari, si dovrebbe fare da parte anche se per legge può rimanere dov'è. Ma non riusciamo a esercitare un controllo che costringa la politica italiana a guardarsi allo specchio veramente, perché lo specchio che usiamo riesce a riflettere solo gli strati più superficiali della realtà. Ci indigniamo per politici come l'imputata Sandra Lonardo Mastella che dall'esilio si ricicla per sostenere, questa volta, non più il Pd ma il candidato a governatore in Campania del Pdl, Stefano Caldoro. Per Fiorella Bilancio, che aveva tappezzato Napoli di manifesti del Pdl ma all'ultimo momento è stata cancellata dalla lista del partito e ha accettato la candidatura nell'Udc. Così sui manifesti c'è il simbolo di un partito ma lei si candida per un altro.

Ci indigniamo per la vicenda dell'ex consigliere regionale dei Verdi e della Margherita, Roberto Conte, candidatosi nuovamente nonostante una condanna in primo grado a due anni e otto mesi per associazione camorristica e per giunta questa volta nel Pdl. Ci indigniamo perché il sottosegretario all'economia Nicola Cosentino, su cui pende un mandato d'arresto, mantiene la propria posizione senza pensare di lasciare il suo incarico di sottosegretario e di coordinatore regionale del Pdl.

Ci indigniamo perché è possibile che un senatore possa essere eletto nella circoscrizione Estero con i voti della 'ndrangheta, com'è accaduto a Nicola Di Girolamo, coinvolto anche, secondo l'accusa, nella mega-truffa di Fastweb. Ci indigniamo, infine, perché alla criminalità organizzata è consentito gestire locali di lusso nel cuore della nostra capitale, come il Café de Paris a via Vittorio Veneto.
Ascoltiamo allibiti la commissione parlamentare antimafia che dichiara, riguardo queste ultime elezioni, che ci sono alcuni politici da attenzionare nelle liste del centrosinistra.

E ad oggi il centrosinistra non ha dato risposte. Si tratta di Ottavio Bruni candidato nel Pd a Vibo Valentia. Sua figlia fu trovata in casa con un latitante di 'ndrangheta. Si tratta di Nicola Adamo candidato Pd nel Cosentino, rinviato a giudizio nell'inchiesta Why not. Di Diego Tommasi candidato Pd anche lui nel Cosentino e coinvolto nell'inchiesta sulle pale eoliche. Luciano Racco candidato Pd nel Reggino, che non è indagato, ma il cui nome spunta fuori nell'ambito delle intercettazioni sui boss Costa di Siderno. Il boss Tommaso Costa ha fornito, per gli inquirenti, il proprio sostegno elettorale a Luciano Racco in occasione delle Europee del 2004 che vedevano Racco candidato nella lista "Socialisti Uniti" della circoscrizione meridionale. Tutte le intercettazioni sono depositate nel processo "Lettera Morta" contro il clan Costa ed in quelle per l'uccisione del giovane commerciante di Siderno Gianluca Congiusta.

A tutto questo non possiamo rimanere indifferenti e ci indigniamo perché facciamo delle valutazioni che vanno oltre il  -  o vengono prima del  -  diritto, valutazioni in merito all'opportunità politica e alla possibilità di votare per professionisti che non cambino bandiera a seconda di chi sta alla maggioranza e all'opposizione. Trasformarsi, riciclarsi, mantenere il proprio posto, l'antica prassi della politica italiana non è semplicemente una aberrazione. È ormai considerata un'abitudine, una specie di vizio, di eventualità che ogni elettore deve suo malgrado mettere in conto sperando di sbagliarsi. Sperando che questa volta non succeda. È un tradimento che quasi si perdona con un'alzata di spalle come quello d'un marito troppo spensierato che scivola nelle lenzuola di un'altra donna.

Ma si possono barattare le proprie attese e i propri sogni per la leggerezza e per il cinismo di qualcun altro?
Oramai si parte dal presupposto che la politica non abbia un percorso, non abbia idee e progetti. Eppure la gente continua ad aspettarsi altro, continua a chiedere altro.

Dov'è finito l'orgoglio della missione politica? La responsabilità di parlare a nome di un elettorato? Dov'è finita la consapevolezza che le parole e le promesse sono responsabilità che ci si assume? E la consapevolezza che un partito, un gruppo politico, senza una linea precisa, non è niente? Eppure proprio questo è diventata, nella maggioranza dei casi, la politica italiana: niente, spillette colorate da appuntarsi al bavero del doppiopetto. Senza più credibilità. Contenitori vuoti da riempire con parole e a volte nemmeno più con quelle. A volte si è divenuti addirittura incapaci si servirsi delle parole.

Quando la politica diviene questo, le mafie hanno già vinto. Poiché nessuno più di loro riesce a dare certezze  -  certezza di un lavoro, di uno stipendio, di una sistemazione. Certezze che si pagano, è ovvio, con l'obbedienza al clan. È terribile, ma si tratta di avere a che fare con chi una risposta la fornisce. Con chi ti paga la mesata, l'avvocato. Non è questo il tempo per moralismi, poco importa se ci si deve sporcare le mani.

Solo quando la politica smetterà di somigliare al potere mafioso  -  meno crudele, certo, ma meno forte e solido  -  solo quando cesserà di essere identificato con favori, scambi, acquisti di voti, baratto di morale, solo allora sarà possibile dare un'alternativa vera e vincente.
Anche nei paesi dominati dalle mafie è possibile essere un'alternativa.
Lo sono già i commercianti che non si piegano, lo sono già quelli che resistono, ogni giorno.

Del resto, quello che più d'ogni altra cosa dobbiamo comprendere è che le mafie sono un problema internazionale e internazionalmente vanno contrastate.
L'Italia non può farcela da sola. Le organizzazioni criminali stanno modificando le strutture politiche dei paesi di mezzo mondo. Negli Usa considerano i cartelli criminali italiani tra le prime cause di inquinamento del libero mercato mondiale. Sapendo che il Messico oramai è divenuto una narcodemocrazia la nostra rischia di essere, se non lo è già diventata una democrazia a capitale camorrista e ndranghetista.

Qui, invece, ancora si crede che la crisi sia esclusivamente un problema legato al lavoro, a un rallentamento della domanda e dell'offerta. Qui ancora non si è compreso davvero che uscire dalla crisi significa cercare alternative all'economia criminale. E non basta la militarizzazione del territorio. Non bastano le confische dei beni. Bisogna arginare la corruzione, le collusioni, gli accordi sottobanco. Bisogna porre un freno alla ricattabilità della politica, e come per un cancro cercare ovunque le sue proliferazioni.

Sarebbe triste che i cittadini, gli elettori italiani, dovessero rivolgersi all'Onu, all'Unione Europea, all'Osce per vedere garantito un diritto che ogni democrazia occidentale deve considerare normale : la pulizia e la regolarità delle elezioni.
Dovrebbe essere normale sapere, in questo Paese, che votare non è inutile, che il voto non si regala per 50 euro, per un corso di formazione o per delle bollette pagate. Che la politica non è solo uno scambio di favori, una strada furba per ottenere qualcosa che senza pagare il potere sarebbe impossibile raggiungere. Che restare in Italia, vivere e partecipare è necessario. Che la felicità non è un sogno da bambini ma un orizzonte di diritto.

©2010 Roberto Saviano/Agenzia Santachiara

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« Risposta #72 inserito:: Marzo 25, 2010, 10:15:54 pm »

Roberto Saviano torna con un libro e un dvd dal titolo "La parola contro la camorra"

Ne anticipiamo un brano. Le organizzazioni criminali temono i libri, i discorsi e i pensieri

Così le parole cambiano il mondo

di ROBERTO SAVIANO


SPESSO mi si chiede come sia possibile che delle parole possano mettere in crisi organizzazioni criminali potenti, capaci di contare su centinaia di uomini armati e su capitali forti. E come è possibile - questa domanda mi viene ripetuta spessissimo, soprattutto all'estero - che uno scrittore possa mettere in crisi organizzazioni capaci di fatturare miliardi di euro l'anno e di dominare territori vastissimi?

È complicato dare una sola risposta e, in verità, l'unica risposta che mi viene in mente, la più plausibile è che sia proprio la diffusione della parola a mettere paura. Non è lo scrittore, l'autore, non è neanche il libro in sé, né la parola da sola, che riesce ad accendere riflettori e per questo a mettere paura. Quello che realmente spaventa è che si possa venire a conoscenza di determinati eventi e, soprattutto, che si possano finalmente intravedere i meccanismi che li hanno provocati. Quel che spaventa è che qualcuno possa d'improvviso avere la possibilità di capire come vanno le cose. Avere gli strumenti che svelino quel che sta dietro. E soprattutto avere la possibilità di percepire determinate storie come le proprie storie. Non più come storie lontane, non più come vicende geograficamente distanti, ma come facenti parte della propria vita. Allora ciò che più temono le organizzazioni criminali non è soltanto la luce continua che gli viene posta addosso, ma soprattutto che migliaia, forse milioni di persone in Italia e nel mondo, possano sentire le loro vicende e il loro destino come qualcosa che riguarda tutti.

Qualcuno può credere che questa sia una visione troppo mediatica e quindi distante dalla realtà. Ma non è così. Molti episodi dimostrano che l'attenzione, anche degli intellettuali e degli artisti, data alle organizzazioni criminali e a quello che accade intorno a loro ha realmente cambiato le cose e il destino di molte persone. La storia di Giuseppe Impastato, giornalista ucciso a Cinisi in Sicilia nel 1978, ne è un esempio. Quando Impastato fu ucciso, l'opinione pubblica venne inconsapevolmente condizionata dalle dichiarazioni che provenivano da Cosa Nostra. Che si fosse suicidato in una sottospecie di attentato kamikaze per far saltare in aria un binario. Questa era la versione ufficiale, data anche dalle forze dell'ordine. Poi, dopo più di vent'anni, esce un film, I cento passi, che non solo recupera la memoria di Giuseppe Impastato - ormai conservata solo dai pochi amici, dal fratello, dalla mamma - ma, addirittura, la rende a tutti, come un dono. Un dono allo stato di diritto e alla giustizia. Questa memoria recuperata arriva a far riaprire un processo che si chiuderà con la condanna di Tano Badalamenti, all'epoca detenuto negli Stati Uniti. Un film riapre un processo. Un film dà dignità storica a un ragazzo che invece era stato rubricato come una specie di matto suicida, un terrorista.


È successo per molte persone. Pippo Fava, giornalista de I Siciliani, una rivista che stava dando molto fastidio a Cosa Nostra, viene ucciso mentre sta andando a prendere la nipotina a teatro. Gli sparano in testa, lo sfregiano. Gli omicidi delle organizzazioni criminali hanno sempre una sintassi simbolica. Sparare in faccia, per esempio, ha un significato diverso rispetto a sparare al petto. A Pippo Fava lo sfregiano, gli sparano alla nuca e pochissime ore dopo iniziano a diffondere la notizia, che poi diventerà la versione ufficiale nella società civile catanese - o forse bisognerebbe definirla incivile - che era stato ucciso perché "puppo", ovvero omosessuale, come dicono in Sicilia. Perché aveva messo le mani addosso a dei ragazzini fuori dalla scuola. Si erano inventati questa balla per delegittimarlo, per suscitare fastidio al solo pronunciare il suo nome. Per suscitare quella sensazione di diffidenza nelle persone, che trova terreno fertile in simili circostanze.

Chiunque si occupi di mafie sente questa melma intorno a sé: la melma della diffidenza. Io ci convivo da anni; dal primo giorno. Va di pari passo con la mia quotidianità sentire diffidenza, soprattutto quella degli addetti ai lavori, infastiditi spesso per il solo fatto che sei arrivato a molte persone. Questo, soprattutto, a intellettuali e giornalisti non torna. "Come mai sei arrivato a tante persone?" In un Paese dove chi arriva a tanti spesso è sceso a patti con qualche potere o ha scelto di compromettere le proprie parole. "Dove hai tradito? Dove ti sei venduto? Con chi ti sei alleato?". Il cinismo degli addetti ai lavori è sempre questo: arrivare a un pubblico vasto di lettori, di ascoltatori, di osservatori, significa tutto sommato accettare i codici più bassi, più biechi della comunicazione.
Così le parole cambiano il mondo

Ebbene, le organizzazioni criminali non sono tanto diverse nel valutare e nel delegittimare i propri nemici. Le organizzazioni criminali hanno necessità di portare avanti un assioma: chi è contro di noi lo fa per interesse personale. Chi è contro di noi sta diffamando il territorio, perché noi non esistiamo come loro ci raccontano. Chi è contro di noi è pagato da qualcuno per essere contro di noi. E, nella migliore delle ipotesi, sta facendo carriera personale su di noi.

Le parole, quando arrivano a molte persone, quando raccontano di certi poteri, diventano assai pericolose. Assai pericolose perché il rischio è che a difenderle debba essere il tuo corpo, il tuo sangue, la tua stessa carne. È successo a moltissimi scrittori, a moltissimi giornalisti. L'Italia ha una caratteristica che in genere, quando raccontano di noi, non viene riportata: l'Italia è un Paese cattivo. Molto cattivo. Perché è un Paese dove è difficile realizzarsi, dove il diritto sembra un privilegio.

La storia dell'antimafia spesso è una storia di enormi cattiverie e quando me ne rendo conto non riesco a capire come sia possibile, di fronte a delle vicende tragiche e tutto sommato chiare. La morte di don Peppe Diana, per esempio. La morte di un uomo, un ragazzo, ammazzato poco più che trentenne, sul cui conto, per anni, si è detto di tutto. Che fosse stato ucciso per presunte relazioni con delle donne, che avesse collaborato con un clan. Che era morto perché anche lui colluso e non perché aveva scritto un documento, Per amore del mio popolo non tacerò, che aveva dato molto fastidio ai poteri criminali. In quel documento, don Diana, segnalava la strada che avrebbe seguito in quanto prete di Casal di Principe. Lì dichiarava quale fosse il compito di un prete in quelle terre, cioè raccontare, denunciare e, appunto, non tacere.

La morte, così, diventa la garanzia che ciò che hai detto e fatto è vero, o quantomeno che ci hai creduto sino in fondo. Questo mio è un ragionamento difficile da capire e mi rendo conto che chiedo uno sforzo enorme a chi mi sta leggendo. Però è uno sforzo che vale la pena fare per capire come funzioni il meccanismo della parola. Anna Politkovskaja, scrittrice e giornalista russa, viene uccisa e il giorno stesso della sua esecuzione il marito dichiara di provare, oltre a un profondo dolore, anche un sentimento di serenità, quasi di sollievo. Stupisce tutti. Perché serenità? Perché sollievo? Com'è possibile? "Perché so", spiega lui "che almeno con la morte non potrà più essere diffamata". Pochi giorni prima che Anna morisse, avevano tentato di sequestrarla, per narcotizzarla e farle delle foto erotiche da diffondere sui giornali di gossip. Di fronte a una delegittimazione del genere puoi invocare solo la morte. Chi lavora con le parole, con le parole che spaventano certi poteri, sa benissimo che quegli stessi poteri non possono consentire che tu abbia contemporaneamente autorevolezza e vita. O l'una o l'altra. Se hai la vita non hai l'autorevolezza, se hai l'autorevolezza non hai la vita.

Tantissimi scrittori e magistrati si sono trovati nella necessità di dover scegliere. Io stesso ho avuto a che fare, in questi anni, con molti magistrati che hanno affrontato la paura, il terrore di dover morire ma ancor più di essere delegittimati. Come si può salvare la parola da questa terribile doppia condanna? Facendo sì che non appartenga più a una singola persona. La parola, se smette di essere mia, di altri dieci, di altri quindici, di altri venti e diventa di migliaia di persone, non si può più delegittimare, perché anche se si delegittima me quelle parole sono già diventate di altri. E se anche si dovesse eliminare fisicamente la persona che per prima le ha pronunciate, sarebbe comunque troppo tardi.

So bene che si rischia di essere tacciati di eccessivo romanticismo se si pronunciano espressioni come "parola usata da molti", "parola contro il potere". Ma sono convinto che far diventare concreta una parola significhi innanzitutto consentirle una piena realizzazione nel quotidiano. E affinché la parola diventi realmente efficace contro le mafie non deve concedere tregua. Il grande sogno che hanno alcuni scrittori è quello che le loro parole possano mutare la realtà, che le loro parole, magari nel tempo, possano effettivamente indirizzare il percorso umano verso nuove strade. Certo mi rendo conto che nessuno può isolare il momento esatto in cui Dostoevskij o Tolstoj hanno modificato, indirizzato o semplicemente suggestionato il pensiero umano. Non è che un mese dopo l'uscita dei loro scritti qualcosa immediatamente sia cambiato. Nessuno può dire quale sia il peso reale della Metamorfosi di Kafka oppure delle parole di Ovidio. Nessuno può dire quanto abbiano reso migliori o peggiori o indifferenti gli esseri umani.

Ma chi ha la possibilità e lo strano e drammatico privilegio di vedere le proprie parole agire nella realtà, quando ancora è in vita, quando ancora il suo libro è caldo, allora questo scrittore può accorgersi di quanto effettivamente il peso specifico delle sue parole stia entrando nella quotidianità, contribuendo a modificare i comportamenti delle persone. Quando questo accade ti rendi conto che il potere reale che hanno le parole è davvero infinito, ancor di più perché è un potere anarchico. Un potere che si basa sulla condivisione e sulla persuasione non è più un potere e la parola, quando viene accolta, non suscita più diffidenza e paura. E quando questo accade, significa che qualcosa sta cambiando, che qualcosa è già cambiato, che nessuno può più permettersi di ignorare certi argomenti, di relazionarsi a certi territori e a certe logiche.

Io vengo da una terra complicata dove ogni cosa è gestita dai poteri criminali. Tutto è a loro sottoposto e tutto è loro espressione, dalla sessualità alla cronaca locale. Ed è proprio partendo dalla cronaca locale che ho voluto raccontare il mio territorio per mostrare che esiste un modo di raccontare giorno per giorno la cronaca, nelle edicole, sui giornali che poi arriveranno nei bar, che circoleranno nelle salumerie, dai barbieri, che aderisce completamente al linguaggio e alle logiche delle organizzazioni criminali.

Si dirà che sono giornali che hanno tirature molto basse e diffusione limitata a quelle zone. Ma è esattamente in quelle zone che loro devono circolare. È lì che devono comunicare, costruire opinioni e far aderire il lettore alle logiche di camorra. È lì che deve essere considerato normale che un pentito venga definito infame. Che chi muore combattendo le organizzazioni criminali venga immediatamente riportato alla sua dimensione mediocre di uomo come tutti.

Perché chi si oppone - secondo la loro ottica - non si sta opponendo al sistema di cose, si sta opponendo perché vuole guadagnare di più, perché vuole spazio maggiore. Si è pentito perché non è diventato capo. Ci sta denunciando perché non l'abbiamo fatto guadagnare, perché vuole prendere il nostro posto. Ne sta scrivendo perché non ha il fegato o le capacità per diventare uno di noi e allora fa l'anticamorrista.

L'elemento fondamentale per questi poteri è dimostrare che tutti abbiamo vizi, tutti siamo sporchi, tutti seguiamo due cose: il potere, e dunque fama e denaro, e le donne. O gli uomini, naturalmente. Segnalare che si possa non essere santi o eroi, ma uomini diversi, con tutte le contraddizioni del caso, questo, invece, dà fastidio, mette paura, perché sarebbe come ammettere che si può cambiare anche senza dover compromettere la propria vita o dover raggiungere chissà quali gradi di perfezione o sacrificio. Che non si può essere, non si deve essere soltanto marci, soltanto disposti ad accettare il compromesso.

Molti chiedono a chi si pone contro le organizzazioni criminali perché lo faccia. C'è un corridore, un atleta, un recordman dei cento metri, a cui hanno chiesto una volta perché avesse deciso di correre. E la sua risposta è la risposta che io do a me stesso e a chi ogni volta mi chiede perché mi occupi di certi temi e perché continui a vivere questa vita infernale. A questo corridore chiesero: "Ma perché corri?" E lui rispose: "Perché io corro? ... perché tu ti sei fermato?".

Anche a me piace rispondere così. Quando mi chiedono perché racconto, rispondo semplicemente: "... e perché tu non racconti?".

©2010 Roberto Saviano/Agenzia Santachiara

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« Risposta #73 inserito:: Aprile 25, 2010, 05:54:13 pm »

PERUGIA

Saviano, risponde a Berlusconi "Io racconto la mafia, non diffamo l'Italia"

Lo scrittore e Al Gore al Festival internazionale dell'informazione: "E' come accusare un oncolgo che scrive un libro sui tumori, di diffondere il cancro". E poi: "Non potrei entrare in politica"

di LEONARDO MALA'.

PERUGIA - "Io non diffamo l'Italia, io racconto, racconto la mafia". Nel teatro di Perugia, Roberto Saviano è durissimo e pacato, nello stesso tempo. Non cita neppure direttamente il premier, gli basta ricordare che c'è chi "incredibilmente ha detto che scrivere di mafia è un modo di diffamare il proprio paese". E gli basta ricordare a tutti il suo mestiere: "Io racconto e continuo a farlo. Perché bisogna parlare, raccontare, farsi
capire, solo così abbiamo una speranza di sconfiggere le mafie"

E' stato un happening pirotecnico, il clou del IV Festival del giornalismo, con l'autore italiano oggi più amato e il premio Nobel Al Gore, proprietario di Current tv e consapevole del traino che comporta avere al fianco un personaggio del genere. Cento metri di fila, fuori del teatro, gente arrivata quattro ore prima per prendere un posto, almeno trecento persone davanti al maxischermo, oltre alle 600 presenti in sala.

Protetto da due file di palchi deserte (almeno una trentina di uomini avevano bonificato il teatro nel pomeriggio), circondato dagli inseparabili sette uomini di scorta, Roberto Saviano ha ricevuto un'interminabile standing ovation da un pubblico sinceramente solidale.

E ha cominciato a parlare, come sa, della sua terra ancora profanata dal voto di scambio, svalutato ormai alla miseria di 25 euro. E ancora di quella infelice, infelicissima battuta berlusconiana. Lapidaria la sua risposta: "Quando un Sottosegretario allo Sviluppo viene arrestato per contiguità con la malavita organizzata, come si può pensare che 200 pagine stampate possono danneggiare un Paese? Come si può incolpare chi dà l'allarme per l'incendio, senza prendersela con chi l'incendio lo appicca? E' come accusare chi scrive un trattato di oncologia di procurare il cancro". Una storia vecchia come il mito di Cassandra, che annunciava saggiamente sventura di fronte alla scellerata belligeranza maschile e che il potere relegò a portatrice di disgrazie.

Come se non bastasse, sono poi echeggiate in teatro le parole di Paolo Borsellino in memoria di Falcone, sulla lotta alla mafia non come azione repressiva ma come movimento culturale. "La gente fa il tifo per noi", diceva eccitato Falcone. Forse siamo rimasti là.

Lo scrittore ha anche risposto a una domanda che ormai molti gli fanno. Entrerà in politica? "Non potrei entrare in politica, il mio mestiere è raccontare. La politica ha perso fascino e autorevolezza - ha detto Saviano - se qualcosa non cambia questo paese continuerà e riprodurre sempre gli stessi modelli. La sofferenza più grande è vedere questo deserto che rappresenta la politica solo come scambio e conflitto, quando dovrebbe invece essere uno strumento per arrivare alla felicità".

Maria Latella ha intervistato a lungo sia Saviano che Al Gore il quale ha molto sponsorizzato la sua Current tv, magnificandone l'indipendenza e la assolutà libertà. Ha parlato apertamente di sponsor e di business, in perfetto american style, ma il segnale che la depressione democratica italiana possa stimolare gli appetiti dei grossi network mondiali è sintomatico.

Roberto Saviano è rimasto ancora un po' per qualche autografo, quindi  i sette agenti si sono scambiati il segnale. Quando varca la soglia del teatro, la scorta comincia a spingere, a scrutare, a fendere. Se ne va, Roberto Saviano, verso una meta ignota e un destino incerto. Il destino di un uomo con sette ombre.


(24 aprile 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #74 inserito:: Giugno 07, 2010, 06:00:37 pm »

L'INCHIESTA

I veleni dell'Ecomafia che investe sulla crisi

Affari illegali per 20 miliardi. Non solo al Sud.

L'emergenza immondizia in Campania durata 15 anni è costata come un paio di leggi finanziarie

di ROBERTO SAVIANO


RACCONTANO che la crisi rifiuti è risolta. Che l'emergenza non c'è più. Gli elenchi dei soldati di camorra e 'ndrangheta arrestati dovrebbero rassicurare che la battaglia è vinta. O almeno, questa è la versione. Molto distante, però, da ciò che realmente accade.
Ogni anno Legambiente attraverso il suo Osservatorio ambiente e legalità produce storie e numeri: "Ecomafia".

Quello dei rifiuti è uno dei business più redditizi che negli anni ha foraggiato le altre economie. Come il narcotraffico, il fare affari con i rifiuti, sotterrare scorie tossiche, devastare intere aree, ha permesso alle organizzazioni criminali e a semplici consorterie imprenditoriali di accumulare capitali poi necessari per specializzarli in altri settori. Catene di negozi, imprese di trasporti, proprietà di interi condomini, investimenti nel settore sanitario, campagne elettorali. Sono tutte economie sostenute con i rifiuti.
Esempio lampante ne è l'economia campana e i suoi gangli politici che si sono strutturati intorno alla crisi rifiuti. Il mondo intero non si spiegava come fosse possibile che un territorio in Europa vivesse una piaga tanto purulenta. Come fosse possibile che le dolcissime mele annurche o le pregiate bufale campane, caratteristiche proprio di quelle zone, potessero trasformarsi improvvisamente in prodotti rischiosi per la salute. Possibile che convenga di più avvelenare che concimare e raccogliere?

Evidentemente sì, basta saperne leggere i vantaggi. L'emergenza rifiuti in Campania è costata 780 milioni di euro l'anno. Questa è la cifra quantificata dalla Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti nella scorsa legislatura che, moltiplicata per tre lustri (tanto è durata la crisi), equivale a un paio di leggi finanziarie. Di fronte a cifre come questa è comprensibile che nessuno avesse convenienza a porre rimedio all'emergenza. Rapporti di consulenza politica, assunzioni, e persino specializzazione delle ditte nello smaltimento; oggi le imprese campane del settore rifiuti, grazie anche ai soldi dell'emergenza e alla pubblicità - sembra assurdo parlare di pubblicità, no? - che ne hanno ricavato, sono tra le più richieste in Europa.

Ma risolvere un'emergenza significa anche non averne più i benefici e gli utili. E in verità, nonostante i proclami, oggi si è risolto poco. Si è tolta la spazzatura dalle strade ma, come afferma chi lavora nel settore, è solo fumo negli occhi, perché sta per tornarci.
"Se non ci saranno altri impianti entro il 2011 la Campania, come molte regioni italiane, rischia una nuova crisi rifiuti".
Sono parole dell'amministratore delegato dell'Asia (l'azienda che fornisce servizi di igiene ambientale ai napoletani.) Come un tempo, quindi, la spazzatura sta di nuovo per essere accumulata. Resta quindi il problema di scongiurare una crisi da mancanza di discariche. Una crisi che sarebbe estremamente grave anche perché purtroppo in Italia sono ancora le discariche la valvola di sicurezza del sistema rifiuti. Come risulta dal rapporto di Enea e Federambiente queste continuano a ingoiare il 51,9 per cento del totale della spazzatura del nostro Paese e il 36,5 per cento senza nessun trattamento. Nel Sud le bonifiche delle terre avvelenate da decenni di sversamenti di veleni sono rare e lente. I rifiuti tossici hanno spalmato cancro prima nei terreni, poi nei frutti della terra, nelle falde acquifere, nell'aria. Poi addosso alla gente, nelle loro ossa e nei tessuti molli. Ogni ciclo di vita è stato compromesso.

La diossina, i metalli pesanti e le sostanze inquinanti vengono ingerite, respirate, assimilate come una qualunque altra sostanza.
La pelle di ogni cittadino delle zone ammorbate trasuda sudore e scorie. Il cancro ha raggiunto percentuali molto più alte che negli altri Paesi europei. Gli ultimi dati pubblicati dall'Organizzazione Mondiale della Sanità mostrano che la situazione campana è incredibile, parlano di un aumento vertiginoso delle patologie di cancro. Pancreas, polmoni, dotti biliari più del 12% rispetto alla media nazionale.
La rivista medica "The Lancet Oncology", già nel settembre 2004, parlava di un aumento del 24% dei tumori al fegato nei territori delle discariche e le donne sono le più colpite. Ma l'ecomafia non è un fenomeno che appartiene solo al Sud. Nel Sud assume caratteristiche totalizzanti e più evidenti: nelle strade si inscena il dramma dei cassonetti incendiati, il puzzo accompagna ogni movimento, e il silenzio copre ogni cava, ogni singolo luogo dove è possibile accumulare e nascondere. Ma è sempre più il nord Italia il centro del vero business.
E la novità di quest'anno, al di là del noto primato di Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, è che il Lazio si posiziona al secondo posto tra le regioni con il più alto numero di reati ambientali. Tra le inchieste più rilevanti del settore, nel 2009, ce ne sono alcune con nomi fantasiosi, talvolta anche vagamente familiari. "Golden Rubbish", "Replay", "Matassa", "Ecoterra", "Serenissima", "Laguna de Cerdos", "Parking Waste". Alcune, già dal nome si riescono anche a localizzare geograficamente, e tutte quelle che ho citato sono inchieste che riguardano il nord Italia. È evidente che il Nord ce la sta mettendo davvero tutta per non essere secondo al Sud in questa gara all'autodistruzione.

La "Golden Rubbish" è un'inchiesta che vede coinvolta la provincia di Grosseto, ma ancora conserva legami con Napoli e la Campania perché ha preso le mosse da un'inchiesta che riguardava la movimentazione dei rifiuti prodotti dalla bonifica del sito industriale contaminato di Bagnoli. Si tratta di un traffico spaventoso: un milione di tonnellate di rifiuti e un sistema che ha coinvolto decine e decine di aziende di caratura nazionale. L'inchiesta "Replay" è tutta lombarda e l'organizzazione criminale sgominata operava tra Milano e Varese. Un affiliato al clan calabrese che fa capo a Giuseppe Onorato è finito in manette insieme a un manipolo di colletti bianchi, tra cui funzionari di banche. Lombarda è anche l'inchiesta denominata "Matassa".

È trentina, e precisamente della Valsugana, l'inchiesta "Ecoterra" che ha bloccato un traffico illecito di scorie di acciaierie che venivano riutilizzate, senza alcun trattamento, per coprire discariche o per bonifiche agrarie. Come dimenticare Porto Marghera, dove l'operazione "Serenissima" ha scoperto il traffico illecito di rifiuti diretti in Cina. Ma anche nelle Marche l'"Operazione Appennino" ha intercettato un flusso criminale di scarti derivanti dalle lavorazioni delle industrie agroalimentari e casearie.

È umbra, invece, nonostante il nome spagnoleggiante l'operazione "Laguna de Cerdos" un traffico illecito di rifiuti liquidi di origine suinicola per cui la regione e i singoli comuni si sono a lungo palleggiati le responsabilità. Friulana, invece è l'inchiesta "Parking Waste" che ha smascherato lo smaltimento illecito di medicinali scaduti. In tutte queste inchieste, l'aspetto che più colpisce è il legame strettissimo che si è creato tra gestori delle ditte di smaltimento, politici locali e istituti di credito presenti sul territorio.
Tra le altre cose, vale la pena ricordare che a marzo l'Italia è stata condannata dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea per come ha gestito l'emergenza rifiuti in Campania. È stata condannata per "non aver adottato tutte le misure necessarie per evitare di mettere in pericolo la salute umana e danneggiare l'ambiente". E nella sentenza si legge che l'Italia ha ammesso che "gli impianti esistenti e in funzione nella regione erano ben lontani dal soddisfare le sue esigenze reali".

Come non rimanere colpiti da questo dato: se i rifiuti illegali gestiti dai clan fossero accorpati, diverrebbero una montagna di 15.600 metri di altezza, con una base di tre ettari, quasi il doppio dell'Everest, alto 8850 metri.
Se un cittadino straniero conservava l'illusione delle colline toscane e del buon vino, delle belle donne e della pizza gustata osservando il Vesuvio da lontano mentre il mare luccica cristallino, qualcosa inesorabilmente cambia. Tutto assume una dimensione meno idilliaca e più sconcertante. La domanda più semplice che viene da porsi è come può un Paese che dovrebbe tutto al suo territorio, alla salvaguardia delle sue coste, al suo cielo, ai prodotti tipici, unici nelle loro caratteristiche, permettere uno scempio simile? La risposta è nel business: più di venti miliari di euro è il profitto annuo dell'Ecomafia, circa un quarto dell'intero fatturato delle mafie. Le mafie attraverso gli affari nel settore ambientale ricavano un profitto superiore al profitto annuo della Fiat, che è di circa 200 milioni di euro, e più del profitto annuo di Benetton, che è di circa 120 milioni di euro. Quindi in realtà usare il territorio italiano come un'eterna miniera nella quale nascondere rifiuti è più redditizio che coltivare quelle stesse terre. Tumulare in ogni spazio vuoto disponibile rifiuti di ogni genere costa meno tempo, meno sforzi, meno soldi. E dà profitti decisamente più alti. Bisogna guadagnare il più possibile e subito. Ogni progetto a lungo termine, ogni ipotesi che tenga conto di una declinazione del tempo al futuro viene vista come perdente. Un euro non guadagnato oggi è un euro perso domani. Questo è l'imperativo del nostro Paese che vede coincidere mentalità dell'imprenditoria legale e criminale. Per difendere il Paese, per continuare a respirare, è necessario comprendere che in molte parti del territorio il cancro non è una sventura ma è causato da una precisa scelta decretata dall'imprenditoria criminale e che molti, troppi, hanno interesse a perpetrare.
O quello delle ecomafie diventa il tema principale della gestione politica del Paese, o questo veleno ci toglierà tutto ciò che aveva permesso di riconoscere il nostro territorio. La speranza è che questo allarme venga ascoltato, e che non si aspetti di sentire la puzza che affiori dalla terra, che tutto perda di luce e bellezza, che il cancro continui a dilagare prima di decidersi a fare qualcosa. Perché a quel punto sarebbe davvero troppo tardi. E coloro che sono stati chiamati i grandi diffamatori del Paese sarebbero rimpianti come Cassandre colpevolmente inascoltate.

©2010 Roberto Saviano/Agenzia Santachiara

(Il testo pubblicato è la prefazione al volume  "Ecomafia" di Legambiente che sarà in libreria mercoledì 9 giugno)
 

(07 giugno 2010) © Riproduzione riservata
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