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Autore Discussione: ROBERTO SAVIANO  (Letto 81223 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Ottobre 08, 2016, 05:02:36 pm »

Il Nobel per la Pace alla Colombia che sogna un domani senza cocaina
Il riconoscimento più ambito va al presidente Santos per la riconciliazione con le Farc.
Nonostante il referendum popolare che ha bocciato l’intesa


Di ROBERTO SAVIANO
08 ottobre 2016

Il premio Nobel per la Pace 2016 è andato all'uomo della riconciliazione tra Farc e governo, il presidente colombiano Juan Manuel Santos, 65 anni. "È un riconoscimento al suo impegno - è la motivazione - e un incoraggiamento a tutte le forze implicate perché vadano avanti". "Colombiani, questo premio è vostro - ha detto Santos - la pace è possibile malgrado la vittoria del "no" al referendum". Il leader delle Farc Timoleón Jiménez, ha twittato: "L'unico premio a cui aspiriamo è quello della pace con giustizia sociale". Felice Ingrid Bétancourt, ex prigioniera dei guerriglieri: "Ma il premio andava dato anche alle Farc ". E l'ex presidente Uribe, leader della destra: "Cambiamo questi accordi dannosi".

La Colombia sta vivendo una fase nuova. Dopo essere stata negli anni Ottanta e Novanta il centro del narcotraffico mondiale, pompando denaro e coca tra Nord America ed Europa, continua a essere tra i primi produttori di coca, ma nella distribuzione ha perso il suo ruolo a vantaggio del Messico. Inoltre non vive più la ricca stagione del monopolio poiché oggi producono coca in quantità competitive anche Perù e Bolivia. Per la Colombia coltivazione di coca e produzione di cocaina sono state a lungo l'asse fondamentale su cui tutto, nel Paese, ruotava. La monocoltura della coca ha infettato qualsiasi ambito dell'economia e della politica. Ma le cose oggi sono cambiate.

Se la storia del narcotraffico colombiano la sintetizzassimo in una fiction saremmo partecipi del destino dei cartelli di Medellìn e di Cali e sapremmo esattamente cosa piega un'organizzazione criminale dedita al narcotraffico. E non è la repressione armata, e non sono solo i processi nei tribunali, e non sono gli arresti e non è solo il contrasto culturale. Ma è tutto questo, unito al contrasto del segmento economico. I cartelli vanno in crisi e si disintegrano quando sono in crisi economica.

Il Nobel al Presidente colombiano Juan Manuel Santos segnala l'avvio di un percorso di fiducia verso una nuova pratica di pace. Verso un nuovo modo di intendere la storia e le cicatrici che ha lasciato, anche quelle che ancora non si sono rimarginate. Le Farc (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) gestivano un territorio più grande della Svizzera e sono la guerriglia, che si definisce comunista, più antica del mondo. Ma non era l'unica organizzazione di guerriglia in Colombia, segno evidente che il bottino da spartirsi era considerevole. C'erano anche le Auc (Autodifese Unite della Colombia), insieme di gruppi paramilitari che nel periodo in cui furono rette da Salvatore Mancuso ebbero rapporti strettissimi con la 'ndrangheta. Mancuso aveva il padre di origini italiane (era di Sapri) ma madre colombiana. Attualmente è in carcere e ha iniziato un percorso di collaborazione con la giustizia.

Ma le Auc e le Farc dovevano spartirsi la Colombia con l'Eln (Esercito di Liberazione Nazionale), che insieme alle prime due faceva operazioni militari avendo come fine l'occupazione di territori, usando per finanziarsi lo strumento del sequestro di persona e, soprattutto, il narcotraffico.

Ed eccoci giunti al punto nodale: le Farc hanno sempre gestito il traffico di coca in tutta la sua filiera, ma l'immagine che di loro nel mondo è a lungo passata, era quella delle guerriglia comunista. Guerriglia comunista pura, l'ultima grande guerriglia comunista, marxista, di matrice guevariana. La veste ideologica - quella stessa che è stata di Sendero Luminoso in Perù - ha generato un incredibile consenso, facendo passare la narco- guerriglia, per guerriglia socialista che aveva come fine una rivoluzione in Colombia: niente di più falso. Quello che le Farc facevano era difendere il loro territorio, gestire una sorta di Stato clandestino autonomo con le sue regole e le sue tasse.

È stato sfruttando povertà, contraddizioni ed equivoci che le Farc sono riuscite a costruire questa sorta di progetto politico che per me ha sempre avuto il sapore dell'impostura.

La bravura di Santos - e da qui la decisione di assegnare a lui il Premo Nobel per la Pace - è stata quella di aver percepito le difficoltà crescenti che stava affrontando la guerriglia in Colombia. E non è stata la repressione o la distruzione dei campi di coca, non sono state le conseguenze del Plan Colombia, iniziativa diplomatica e militare tra amministrazione colombiana e Usa a indebolire il narcotraffico. Tutto questo ha piuttosto avuto un effetto indesiderato e non calcolato: il potenziamento del segmento militare dei gruppi di insorti. Cioè se da un lato il Plan Colombia si poneva come obiettivo quello di rendere più difficile la coltivazione della coca e la presenza di laboratori di cocaina, dell'altro ha sostanzialmente aumentato la militarizzazione dei cartelli.

Santos capisce questo: con la fine del Cartello di Medellìn e la morte di Pablo Escobar (1993) e con la fine del Cartello di Cali (fine anni Novanta), la guerriglia è in difficoltà perché in difficoltà era il settore più redditizio: il narcotraffico. La parcellizzazione, la struttura pulviscolare che i cartelli avevano assunto aveva rafforzato il Messico spostando lì l'asse del narcotraffico mondiale. In questo nuovo scenario per reggere la concorrenza le Farc si sono trovate costrette ad abbassare il prezzo della coca, per rendere la propria merce concorrenziale: ma non sono riuscite più a reggersi come Stato autonomo, parallelo e clandestino. Il pericolo maggiore per le Farc dunque non è stata la repressione, ma la crisi economica generata dal loro principale indotto: il narcotraffico. E Santos su questo ha lavorato. Le Farc avevano una priorità: cercare nuove forme di guadagno e sottrarre campi di coca ai gruppi concorrenti. Santos ha deciso che era arrivato il momento di mettere da parte le ferite del conflitto e iniziare il dialogo.
Ma il 2 ottobre il popolo colombiano ha risposto "no". È stato "no", per una manciata di voti, alla negoziazione iniziata la scorsa estate a Cuba alla presenza del presidente cubano Raúl Castro e del Segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon.

Perché Cuba? Il luogo in cui il processo di pace ha avuto inizio non è stato ovviamente scelto a caso: Cuba è da sempre luogo di passaggio della cocaina diretta negli Stati Uniti e in Europa. A Cuba ha sempre fatto scalo e da Cuba è poi sempre ripartita per la Florida, per il confine messicano, per il Canada. Anche se Fidel lo ha sempre negato, Cuba forniva logistica a Escobar in cambio di un indennizzo al regime.

Ma perché il popolo, seppur per pochissimi voti, boccia? Soprattutto perché ha paura, paura che le Farc come partito politico possano avvelenare il dibattito democratico, diventando una sorta di narcopartito. Anche se, nella trattativa di pace, l'obbligo ad abbandonare qualsiasi attività illegale è molto chiaro.

La verità è che il popolo colombiano è un popolo molto stanco. Molto simile a quello italiano anche nella totale sfiducia verso la classe politica. Non si fida più delle promesse ed è spossato da una immagine di sé sempre ridotta al Paese da cui la coca parte per raggiungere ogni angolo di mondo. La Colombia è come l'Italia. Un Paese dalla storia incredibile e dalla bellezza rara, inquinata da organizzazioni criminali che l'hanno resa campo di battaglia.

E l'Italia in questo dibattito non è entrata per nulla, sottovalutando il suo ruolo. I paesi dell'America Latina è all'Italia che guardano per il contrasto alle organizzazioni criminali e la politica italiana invece di rispondere e di prendere il ruolo che potrebbe avere Oltreoceano, resta sempre chiusa nel suo ghetto, incapace di capire quello che accade a un metro dal suo naso.

L'Italia perde l'occasione storica, l'ennesima, di essere partner non solo commerciale (intendo legalmente, non nel traffico di droga, dove i rapporti esistono da molto tempo e sono fiorenti) ma anche culturale dei Paesi latini. Il Nobel a Santos dimostra che la politica dell'incontro, anche quando non porta consenso, è l'unica strada per sradicare tumori che hanno infettato per decenni uno Stato.

Il prossimo passo in Colombia? Perseverare su questa strada di legalizzazione
e pace. E dovrebbe essere anche il prossimo passo da fare anche in Italia. Ma chi sa quali altre personalissime priorità ci impediranno di contrastare ciò che davvero blocca la nostra crescita: le economie criminali che, a differenza dell'economia legale, sono fortissime.

© Riproduzione riservata
08 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2016/10/08/news/il_nobel_per_la_pace_alla_colombia_che_sogna_un_domani_senza_cocaina-149321104/?ref=HRER2-1
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« Risposta #136 inserito:: Ottobre 14, 2016, 11:31:38 am »

Saviano sulla direzione del Pd: “Renzi rottamatore mancato, D’Alema assente come il personaggio di Nanni Moretti”
Con un post sul suo profilo facebook, lo scrittore attacca Renzi e D’Alema: «La sinistra non si è mossa di un millimetro»


11/10/2016
Domenico di Sanzo
Roma

«Minoranza Pd inconcludente», «D’Alema assente come il personaggio di Nanni Moretti in Ecce Bombo» e Renzi «quel gran rottamatore che non è stato». Roberto Saviano, torna a parlare di politica. E attacca il Partito Democratico. Il post sul profilo facebook dello scrittore diventa subito virale e scatena commenti, condivisioni, “mi piace”. Il video pubblicato da Saviano a corredo del breve commento è quello di una delle scene più famose di Nanni Moretti, altra “coscienza critica” della sinistra italiana. «Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente», dice al telefono l’ex sessassontino Michele Apicella, impersonato da Moretti nel film del 1978. 

L’accusa rivolta da Saviano a Massimo D’Alema, in prima linea per il No al Referendum, è «l’assenza fisica» dalla direzione di lunedì. Un «aleggiare da lontano» che è simile all’indecisione, e forse anche allo snobismo del personaggio del film di Nanni Moretti. Il citazionismo di Saviano ricorda un altro film di Moretti. L’altrettanto celebre scena di Aprile, quando lo stesso Nanni Moretti, guardando un confronto televisivo tra D’Alema e Berlusconi esortava l’allora leader della sinistra a «dire qualcosa di sinistra». Quella sinistra che per Saviano «non si è mossa di un millimetro» a distanza di 38 anni «da quel film geniale». 

Ma lo scrittore punta dritto anche contro l’attuale leader del Pd, accusato di essere un rottamatore mancato. Intanto i like fioccano. 

Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2016/10/11/italia/politica/saviano-sulla-direzione-del-pd-renzi-rottamatore-mancato-d-alema-assente-come-il-personaggio-di-nanni-moretti-m52maMPQ15BNAFTCO4xAqK/pagina.html
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« Risposta #137 inserito:: Ottobre 21, 2016, 12:39:29 pm »

Roberto Saviano racconta i suoi 10 anni sotto scorta. "Sono ancora vivo"
Su Repubblica lo scrittore narra la sua esperienza, da quella telefonata che gli annunciò la protezione al grido diretto ai boss: "Non avete vinto"
Di ROBERTO SAVIANO
17 ottobre 2016

DIECI anni. Eppure, è come se fosse accaduto stamane. Ci sono cose a cui non ci si abitua. Mai. Una di queste è la scorta. Dieci anni fa ricevetti una telefonata dall'allora maggiore dei carabinieri Ciro La Volla. Non dimenticherò mai le sue parole. Cercava di non spaventarmi, cercava di dare una comunicazione tecnica, ma lui stesso aveva la voce preoccupata: mi avvertiva che sarei stato messo sotto protezione. Quando vennero a prendermi, chiesi: "Ma per quanto?". E un maresciallo rispose: "Credo pochi giorni ". Sono passati dieci anni. I motivi mi giunsero come una grandinata di situazioni che non conoscevo. Una detenuta che aveva svelato un piano contro di me, poi le dichiarazioni di Carmine Schiavone, poi informative su informative. Volevo tornare indietro e non scrivere più Gomorra, non scrivere più alcun articolo, rifugiarmi.

Fare una sintesi di questi anni è difficilissimo, le prime parole che mi sento di spendere sono tutte di gratitudine per i carabinieri che mi hanno scortato ogni giorno, così come per gli ufficiali che li hanno coordinati. Ho vissuto con i carabinieri gran parte del tempo.

Ho visto il loro impegno, i sacrifici, le attenzioni, che in questo momento vorrei omaggiare. Sono diventati per me una famiglia, spesso le loro caserme mi hanno accolto.

Il tempo dello sconforto arriva quando ti accorgi che tutto viene percepito come normale. Dopo il mio caso, in Italia è esplosa una quantità di richieste di protezione a giornalisti e attivisti, e tutto è sembrato normale, ordinario, scontato. La verità è che non avevo idea di ciò che mi aspettasse. Potevo immaginare una vendetta ma non le spire di un Paese talmente immerso in una cultura del ricatto che diventa consustanziale alla strategia dei clan.

Si dà per scontata la libertà d'espressione. In realtà è costantemente minacciata, ancor prima che dalle situazioni di minaccia militare, dall'isolamento, dalla diffamazione: chi è esposto pubblicamente, chi decide di affrontare questi temi sa che non avrà affatto una vita facile. Chi descrive le organizzazioni criminali, gli appalti, il riciclaggio sa che diventerà, in qualche modo, bersaglio. Perché non si discuterà solo del merito di ciò che scrive, ma si cercherà di distruggere la sua credibilità.

È come se chi scrive di mafia mettesse in difficoltà il lettore. È come se si innescasse un senso di colpa nel lettore che si chiede: e io dov'ero mentre accadeva questo? Io che faccio? Quasi un sentirsi complici. E quindi è più facile dire: l'hai scritto per interesse, è tutta una messinscena, è tutto esagerato. O l'altra accusa, la più comune di tutte: ma già si sapeva, già è stato detto, il tuo non è nient'altro che mettere insieme cose note. Ma a questo serve l'analisi: a mettere insieme le cose e dare loro un nuovo significato. È ciò che temono di più le organizzazioni.

Ma questi sono gli effetti collaterali della battaglia. Negli anni non ho dovuto subire solo la difficoltà di una vita sotto scorta, ma anche l'idiozia di chi parla senza conoscere nulla. La peggiore feccia politica ha sempre criticato la mia protezione come se fosse innanzitutto scelta da me (ribadisco ancora una volta che non ne ho mai fatto richiesta) e senza aver mai letto nessuna informazione al riguardo.

Sembrava che la mia vita dovesse spegnersi da un momento all'altro, nel modo più violento e bizzarro. E poi ci fu l'avvenimento più pesante di tutti: quando i boss Antonio Iovine e Francesco Bidognetti firmarono quella che l'Antimafia di Napoli ha considerato la minaccia più grave, fatta non solo a me ma ad altri che si erano esposti contro di loro. Si accordarono sull'utilizzo di un'istanza di rimessione per spostare il processo, che io avrei, secondo i boss e il loro avvocato, condizionato con i miei scritti.

Era il 13 marzo 2008 e si stava celebrando a Napoli il giudizio di appello del processo Spartacus. Bidognetti e Iovine (che al tempo era latitante), tramite il loro avvocato, Michele Santonastaso, tentarono un'ultima carta: la ricusazione del Collegio giudicante per legittima suspicione, come disciplinato dalla legge Cirami. Un'iniziativa legittima, ma che per le sue modalità suscitò sin da subito scalpore e preoccupazione.

Quell'istanza di diverse decine di pagine venne letta interamente in aula - un fatto senza precedenti sul piano processuale - fino a diventare un vero e proprio proclama, con il quale i capi del clan dei Casalesi, per bocca del loro avvocato di punta, "denunciavano " i condizionamenti che avrebbero influenzato la serenità di giudizio della Corte d'Assise d'Appello di Napoli e tutti i soggetti artefici degli stessi: scrittori, giornalisti e magistrati che a Napoli avrebbero lavorato in sintonia ai danni degli imputati. Mi si chiedeva di "fare bene" il mio lavoro, che dal punto di vista della criminalità significa smettere di farlo cercando di spiegare ciò che sta accadendo, raccontare con dovizia di particolari solo i fatti di cronaca evitando accuratamente analisi sistematiche di quanto succede sul territorio e la de- scrizione del contesto economico e politico nel quale i singoli eventi si inseriscono.


Già nell'immediatezza dei fatti la condanna dell'accaduto fu unanime: dall'allora procuratore generale della Repubblica Vincenzo Galgano fino all'ex procuratore nazionale antimafia Pier Luigi Vigna, chi conosceva le dinamiche del processo, e in particolare di quel tipo di processi, subito comprese le reali finalità di quella lettura coram populo. E fu unanime per un motivo preciso: non si parlava di stampa e magistratura in termini generali, no. Si facevano nomi e cognomi indicando agli affiliati possibili obiettivi.

Io all'epoca vivevo già da due anni sotto scorta e in quell'aula ero presente non da uomo libero, ma da scortato, da protetto da quelli che mi stavano di nuovo minacciando. Ero un topo in gabbia nonostante non avessi commesso alcun reato e quelle parole mettevano un carico da cento. La lettura dell'istanza di rimessione diede vita a un processo che si è concluso in primo grado nel novembre 2014: i boss sono stati assolti e a essere condannato, a un anno di reclusione per minaccia grave, è stato solo l'avvocato Santonastaso.
Le motivazioni della sentenza sono interessantissime.

L'assoluzione dei boss è conseguenza della difficoltà processuale di dimostrare il loro diretto coinvolgimento nella redazione dell'istanza, ma si stabilisce con nettezza che tra le finalità di Santonastaso vi era principalmente quella di agevolare il sodalizio guidato proprio dai due boss. Peraltro, successivamente, lo stesso Santonastaso è stato condannato dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere a 11 anni di reclusione per il reato di associazione per delinquere di stampo camorristico, favoreggiamento e falsa testimonianza aggravati, anche in quel caso, dall'aver agito per favorire un'associazione camorristica.

Ecco perché, come è scritto nella sentenza, "la prospettazione ( da parte di Santonastaso, ndr) di un male concretamente realizzabile per la profonda conoscenza del modo di pensare degli affiliati al clan dei Casalesi, in caso di mancato adeguamento del giornalista a un'idea di informazione più blanda e superficiale, costituisce una vera e propria minaccia". Santonastaso si è sempre difeso sostenendo che avrebbe agito all'insaputa dei suoi assistiti, nonostante in altri processi sia stato indicato come vero e proprio rappresentante all'esterno dei boss reclusi al 41bis.

Ecco di cosa stiamo parlando: avvocati, talvolta rappresentanti delle forze dell'ordine, faccendieri scaltri e arrivisti, che hanno talento e fame di potere. A loro il ruolo di difensori - fondamentali custodi del principio costituzionale di inviolabilità del diritto di difesa - sta stretto. È su queste persone che la camorra fa affidamento, sa che si possono comprare e che per questo potrà utilizzarle per qualunque scopo, anche per far sì che nei casi più delicati sia difficile ricondurre nei processi le responsabilità ai capi: se ci pensate è quello che a volte accade anche ai piani alti dell'economia capitalista.

"A mia insaputa" in Italia è ormai formula di rito. Ripetuta, calcolata, abusata. "A mia insaputa", così si difendono politici, imprenditori, faccendieri, chiunque non sappia giustificare una condotta sulla quale la magistratura sta indagando. "A mia insaputa" è anche la formula con cui i boss di camorra trovano il capro espiatorio che paghi sulla propria pelle la responsabilità di scelte odiose, con un'attenzione alla "rispettabilità" che solo in apparenza è valore di poco conto anche per un pluriergastolano. "Guappi di cartone" li ho definiti più volte. Codardi. Codardi che da dieci anni mi costringono a campare così.

Eppure, nonostante tutto, quello che oggi mi sentirei di gridare loro in faccia è: non ci siete riusciti! Non siete riusciti a ottenere quello che volevate. Non mi sono fermato, non mi sono piegato, anche se più volte mi sono spezzato. Ma se c'è una cosa che insegna questa lotta che ho intrapreso con l'arma più fragile e potente che esista, la parola, è che proprio quest'ultima può di volta in volta rimettere insieme ciò che è andato in frantumi. Esattamente come scrissi dieci anni fa in Gomorra: "Maledetti bastardi, sono ancora vivo!".

© Riproduzione riservata
17 ottobre 2016

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2016/10/17/news/roberto_saviano_dieci_anni_sotto_scorta-149940218/?ref=HREC1-7
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« Risposta #138 inserito:: Novembre 20, 2016, 11:56:00 am »

De Luca, le parole della violenza e la politica che perde il rispetto
Per me resta impresentabile, non alle elezioni ma davanti agli italiani, per la mancanza di consapevolezza del suo ruolo

Di ROBERTO SAVIANO
19 novembre 2016

COSA significa, in terra di camorra, in quella che era conosciuta come terra di lavoro e ora invece è terra di disoccupazione, la condanna a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa a Nicola Cosentino, ex sottosegretario all’economia e fedelissimo dell’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi? Significa sancire una sconfitta, non certo una vittoria. La sconfitta di chi in questi lunghi anni ha raccontato i rapporti tra criminalità e politica e con la sentenza ha avuto ragione. La sconfitta di chi credeva di poter immaginare un percorso diverso dove l’imprenditoria che va avanti, quella che crea ricchezza e che cresce, può essere imprenditoria legale, che vince onestamente. La sconfitta di chi nella politica — sono rimasti in pochi — vede ancora possibilità di cambiamento. Di chi ancora crede che la politica debba indicare una direzione, essere visionaria, dare l’esempio.

E nelle ore in cui si ragionava su cosa significasse quella condanna — una condanna in primo grado arrivata dopo 141 udienze e oltre 200 testimoni ascoltati — ad abbassare il livello, a svilire ulteriormente il tenore del dibattito politico in un Paese che già crede che chi fa politica sia un ladro o un buffone, arrivano le pietre (pietre e non parole) che il governatore della Campania Vincenzo De Luca lancia a Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia, colpevole, secondo De Luca, di averlo inserito nella lista degli impresentabili alla Regionali del 2015 per un procedimento penale legato alla vicenda del Sea Park mai realizzato a Salerno, processo all’esito del quale De Luca è stato, lo scorso settembre, assolto.

Per me De Luca impresentabile resta, non alle elezioni ma davanti ai suoi elettori, davanti agli italiani e ai cittadini campani, per la mancanza di consapevolezza del suo ruolo e l’incapacità di comprendere che il territorio su cui come governatore agisce, dà a termini come «infame» e a espressioni come «si dovrebbe ammazzare», significati precisi, che quotidianamente trovano una declinazione pratica.
E allora mi sono chiesto se Cosentino, condannato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, avrebbe mai potuto pronunciare le parole che De Luca si è fatto scappare a margine dell’intervista a “Matrix”. Me lo sono chiesto e mi sono riposto di no, perché Cosentino è nato e cresciuto in un territorio in guerra, quello dominato dal clan del casalesi; perché Cosentino sa e ha sempre saputo che dare dell’infame, esplicitare desideri di morte, hanno significati precisi.

Come lo sa chi vive in determinate realtà pur non essendo camorrista. Sono messaggi che le organizzazioni criminali mandano, ordini che comunicano. Sentenze che decretano. Da qui la consapevolezza di quanto De Luca, da governatore della Campania, sia in realtà completamente inconsapevole rispetto al suo ruolo e rispetto a cosa voglia dire essere Politica in Campania. Perché la Politica non deve solo fare, ma anche essere. Essere rispetto, essere esempio, essere visione.

Ma non voglio speculare sulle parole, perché in tutta onestà non credo che il governatore De Luca abbia mai avuto legami con la criminalità organizzata e spero di non essere mai smentito su questo, ma si è sempre presentato come un politico del fare e quindi mi sento legittimato nel domandargli dove sono le telecamere di videosorveglianza che dopo la morte di Gennaro Cesarano, avvenuta a settembre del 2015, aveva promesso come urgente priorità al Quartiere Sanità? Le telecamere sono state messe nelle zone turistiche, ma alla Sanità ha paura a camminarci chi ci vive, figuriamoci se ci vanno i turisti. È dal 6 settembre 2015 che gli abitanti della Sanità aspettano le 13 telecamere e i rilevatori di targa che ancora non ci sono e che avrebbero un effetto deterrente immediato. De Luca uomo del fare, De Luca fulmine di guerra, cosa sta aspettando?

E ancora più grave considero la vicenda che riguarda la chiusura dell’Ospedale San Gennaro di cui si sta meritoriamente occupando tra gli altri padre Alex Zanotelli. Alla Sanità un ospedale non è solo un luogo dove si va per farsi curare, ma un presidio di legalità. Il primo reparto a essere chiuso è stato il più importante di tutti, il reparto maternità. E il danno è stato enorme perché ostetrici e ginecologi sono medici particolari, entrano nelle famiglie e in quel quartiere prendevano in cura tutti, dando consigli sull’alimentazione, provando a far diminuire il consumo di sigarette, facendo prevenzione. Come è possibile non capire quali saranno le conseguenze del mancato rispetto degli accordi con il territorio? Come è possibile che anche chiudere l’ospedale San Gennaro alla Sanità avrà ripercussioni nefaste sul contrasto alla criminalità organizzata?

Ma poi mi domando quale sia la differenza tra il dare della cagna a una donna come ha fatto Trump e chiamare infame un’altra e dire «sarebbe da ammazzare». Nessuna: una violenza verbale premiata dall’elettorato che la ritiene garanzia di sincerità e quindi di onestà politica. Una violenza verbale calata in una realtà, quella che viviamo, in cui i ragazzini impugnano armi e altri si fanno saltare in aria. Quando capirà questa politica che le parole sono creazione di azioni? Che quando la politica parla male agisce male, quando parla violentemente agisce violentemente. Come dannazione non capirlo?

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19 novembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/11/19/news/de_luca_le_parole_della_violenza_e_la_politica_che_perde_il_rispetto-152309352/?ref=HRER1-1
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« Risposta #139 inserito:: Marzo 20, 2017, 10:33:56 am »

Decreto sicurezza, in nome del decoro non si può criminalizzare anche chi sta ai margini Decreto sicurezza, in nome del decoro non si può criminalizzare anche chi sta ai margini
Dare discrezionalità al potere significa generare ingiustizie.
Il rischio di creare centri storici ripuliti da indesiderati e periferie ghetto. Un regalo a chi vuole raccogliere consensi cavalcando la paura

Di ROBERTO SAVIANO
18 marzo 2017

MA DAVVERO il Pd ha permesso che un decreto del genere potesse essere realizzato? La risposta è una sola: sì, il Pd l'ha permesso e promosso. Il decreto Minniti sulla sicurezza urbana, considerato da questo governo cosa di "straordinaria necessità e urgenza", ha toni razzisti e classisti.

Per descriverlo in breve: i sindaci, per ripulire i centri storici delle città, avranno il potere di allontanare chiunque venga considerato "indecoroso", non occorrerà che sia indagato o che abbia commesso un reato. Il sindaco potrà così chiedere che venga applicato a queste persone un "mini Daspo urbano". Daspo, perché in Italia tutto è calcio e tifo, anche la politica. Si usa l'espressione Daspo perché il tifoso può essere allontanato dallo stadio o costretto alla firma in questura il giorno della partita, in base anche a una segnalazione, non necessariamente è una condanna.

Stiamo assistendo alla criminalizzazione dell'uomo anche quando per fame rovista in un cassonetto della spazzatura per prendere ciò che altri hanno buttato via. Potrà essere allontanato in linea di principio chi non veste, a insindacabile giudizio del sindaco e dei vigili urbani, "decorosamente"? Le creste punk sono decorose o indecorose? La moralità di un comportamento da cosa sarà valutato? Se urlo ubriaco per strada commetto reato, quindi abbiamo strumenti di intervento. Se spaccio verrò arrestato. Se mi denudo ci sono già strumenti per intervenire. Se vendo merce contraffatta, commetto reato. Se occupo suolo pubblico, sarò multato. E allora?

Questo decreto che parla esplicitamente di sindaci che possono allontanare in nome del decoro, quiete pubblica e moralità a cosa si riferisce? Mi rispondo da solo, come mi risponderebbero i sostenitori di questa aberrazione: ma non essere demagogo, sarà il buon senso a determinare il grado di "indecorosità" a cui il sindaco farà fronte.

Davvero? Se divenisse sindaco Salvini, ci troveremmo a veder allontanata ogni sorta di umanità che al nostro serve per sfogare il bugiardo "prima gli italiani" o qualsiasi altra propaganda razzista. Dare discrezionalità al potere significa generare ingiustizie. Arrivare a questa scorciatoia perché la legge è troppo lenta significa dire meglio un'ingiustizia veloce che una giustizia lenta. La ragione dovrebbe invece continuare a pretendere una giustizia veloce. Maroni da ministro degli Interni aveva spinto per far nascere sindaci-sceriffi, ora Minniti arma questa possibilità con questo decreto. Dietro le parole - che pronunciate nel contesto del decreto risuonano vetustissime e da catechesi - di decoro e moralità si nasconde ben altro. Spogliamole della veste tecnica e sapete cosa rimane? Rimane un sottotesto che risuonerebbe così: è dato al sindaco la possibilità di allontanare immigrati e disperati nell'immediato cosi che possano massimizzare il consenso dall'operazione. Domandiamoci ora quale sarà il risultato di questo decreto vergognoso: centri storici magari ripuliti velocemente dai clochard e dagli immigrati e periferie ghetto.

Il provvedimento prevede che il questore, su segnalazione anche del sindaco, potrà allontanare dal centro gli indesiderati per un massimo di sei mesi. È un regalo che viene fatto ai primi cittadini per raccogliere consenso sull'odio e la paura. Sindaci che non hanno più strumenti economici e sociali per portare avanti progetti, che non hanno altri strumenti.

Allontanare non significa risolvere ma nascondere. Contrastare questo decreto non significa vedere il centro storico colmo di accattoni, accettare il barbonismo, invitare a riunioni di lavoratori ubriachi della domenica che occupano gli spazi della bellezza, significa obbligare ad affrontare le ragioni del disagio non a perseguitare il disagio. Significa non ammettere scuse e scorciatoie.

Abbiamo già gli strumenti per contrastare i reati, questo decreto a cosa serve? Questo decreto è solo una grande scusa per ramazzare di volta in volta chi si vuole, autorizzare ad un ingiustizia enorme i sindaci e trascurare l'origine dei problemi. Il sindaco Nardella di Firenze dichiara alla radio che il decreto Minniti va bene. È consapevole il sindaco Nardella che la strategia dei parcheggiatori abusivi è tutta completamente gestita dai clan? Se per gioco si camuffasse e cercasse di fare il parcheggiatore non troverebbe come nemico il nuovo sindaco sceriffo ma le famiglie che controllano quegli spazi. I venditori abusivi hanno aggredito nell'indignazione della rete l'inviato di Striscia la notizia Luca Abete: la loro merce è tutta gestita dai clan, i loro stipendi miserabili vengono dai clan, della loro merce devono rispondere ai clan. E come si risponde? Allontaniamo quelli non graditi ai sindaci. Velocemente, per massimizzare il loro consenso. Lavoro, integrazione, sviluppo sono energie in un paese al collasso e allora si occhieggia alla disperazione del più cupo razzismo.

Il Movimento 5 stelle cosa fa? Si è astenuto. Astenuto perché il decreto sarebbe "una scatola vuota senza fondi né risorse, e molto probabilmente rimarrà lettera morta". E se non rimanesse lettera morta? Non sarebbe stato più dignitoso un minoritario (230 favorevoli e 56 contrari) ma umano No? L'astensione e il silenzio hanno tutto il sapore della complicità. Con questo decreto il Pd si mette fuori la storia che lo voleva figlio del riformismo italiano. Cosa aveva reso la sinistra italiana di Kuliscioff e Turati, di Rosselli e Calamandrei un punto di riferimento internazionale? La capacità di coniugare riforma sociale con libertà, senso del reale con l'aspirazione di cambiamento. Non il povero ma la povertà era il problema, non il criminale ma il crimine, non il ricco ma privilegio erano il problema. Non di disagio allontanato ma di disagio affrontato. Non città fatte di centro pulito e mondezza spazzata

in periferia. Ma il contrario, il centro cuore di una città la cui periferia diventa sua espansione, avanguardia. Idee che non ci sono più e senza idee non c'è più vita ma solo un investimento sul capitale in queste ore più facile da raccogliere: la paura.

© Riproduzione riservata 18 marzo 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/18/news/decreto_sicurezza_in_nome_del_decoro_non_si_puo_criminalizzare_anche_chi_sta_ai_margini-160816529/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2
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« Risposta #140 inserito:: Aprile 30, 2017, 12:40:32 pm »

Ileana, ostetrica di guerra per scelta: "Vi racconto il lavoro dei volontari “
Ha 28 anni e opera per Medici Senza Frontiere: "Se quelli che ci attaccano avessero visto come me mamme e bimbi in difficoltà non avrebbero più parole"

Di ROBERTO SAVIANO
29 aprile 2017

"Aiutiamoli a casa loro" è il mantra che viene ripetuto in questi anni, diventato una specie di scudo per chi vorrebbe impedire l'arrivo dei migranti. Come dire: "Io non voglio che arrivino nel mio Paese, ma non sono razzista eh, non dico di non aiutarli, ma di aiutarli a casa loro". È una frase che di per sé non sarebbe negativa, in fondo stiamo parlando di dare aiuto. Il problema è che nella stragrande maggioranza dei casi rimane una frase vuota, dietro a cui non c'è nulla. E si riduce solo a un "tenetemi lontano il problema". Aiutare significa collaborare, non allontanare; significa occuparsi della questione, non semplicemente non volerla sotto casa. Eppure le stesse persone che intonano il solito "aiutiamoli a casa loro" aggrediscono le Ong che, come Medici Senza Frontiere, nei territori di guerra sono unici luoghi di soccorso. Ho incontrato una persona che ha deciso concretamente di aiutare a casa loro. Si chiama Ileana Boneschi.

Perché una ragazza italiana, di 28 anni, con una formazione da ballerina decide di diventare ostetrica in zone di guerra? Slancio mistico? Voglia di farla finita con una vita ordinaria? Nulla di tutto questo, ma per saperlo ho dovuto incontrarla Ileana che ha un corpo da danzatrice e un viso rinascimentale, con spigolosità nobili del mento e degli zigomi. Ileana è un'ostetrica di Medici Senza Frontiere e fa nascere bambini in zone di guerra, dove esistono emergenze sanitarie che non riusciamo nemmeno a immaginare, dove ogni parto è un miracolo. "Non si parla mai delle donne incinte quando si pensa a una guerra", dice. Ed è proprio così. Ileana ha partecipato a due missioni in Sud Sudan dove è in atto una guerra etnica e ha assistito nel parto donne che quando non riescono a raggiungere gli ambulatori di Medici Senza Frontiere, partoriscono dove capita, in baracche, ma anche nelle paludi, se stanno scappando. "Ho visto clampare e tagliare i cordoni ombelicali con cose stranissime: fili di fieno, fili d'erba, piccoli pezzi di cotone per legarli; pezzi di vetro o di lamiera per tagliarlo, con il rischio consistente di infezione da tetano".

Come hai deciso di diventare un'ostetrica? Hai detto che studiavi danza... poi cos'è successo?
"Ho studiato danza da quando ero piccina, dai tempi dell'asilo. Ero uno scricciolo... Mi piaceva da morire, era bellissimo. Poi sono cresciuta e ho fatto il liceo artistico. Tra le cose più importanti che l'artistico mi ha dato c'è l'aver allenato la mia sensibilità a meravigliarsi del mondo. Ricordo che in quegli anni, che erano già gli anni Duemila, la mia attenzione cadeva su storie che arrivavano da mondi lontani. Storie di sofferenza e ingiustizia. Ed è lì che ho cominciato a percepire questo stato di debito che avevo nei confronti della vita: da una parte io, più che fortunata, dall'altra gente che non aveva niente, nemmeno mezza delle fortune che avevo io, ogni giorno. E quel debito lo soffrivo, come lo soffro ora e quindi l'unico modo che ho trovato per riuscire a gestirlo è stato chiedermi: cosa faccio per combatterlo?".

E cosa hai fatto?
"Sapevo che saldare quel debito era impossibile, però potevo fare qualcosa per bilanciare un po' la fortuna che mi accompagna da sempre".

La politica, l'impegno sociale...
"Grandi pensieri, massimi sistemi... fuffa ai miei occhi. Tutti possono avere idee ma poi ciò che cambia è l'azione. Io ero per l'azione, per fare una cosa pratica, che avesse un impatto immediato, tangibile".

E quindi...
"Pensai che diventare medico fosse il modo migliore per riuscire a fare questa cosa, e non un medico a caso, ma un chirurgo di guerra, proprio perché la chirurgia non è solo di testa ma è anche di mani, di pratica, e io sentivo il bisogno di fare qualcosa. Quando ho compiuto i 18 anni i miei genitori mi regalarono Pappagalli verdi di Gino Strada e nella dedica mi scrissero: 'Temiamo che ci stiamo facendo un autogol regalandoti questo libro'. Sapevano che mi avrebbe portato lontano da loro".

Autogol realizzato.
"Avevano capito esattamente verso cosa mi stavo muovendo ma non hanno contrastato la mia inclinazione, anzi hanno incoraggiato la mia formazione".

È l'unico modo per essere genitori liberi: non bloccare il talento dei figli ma impegnarsi per renderlo il più possibile consapevole. Ma non sei diventata chirurgo però.
"No! Feci il test per Medicina, ma non lo passai per un quarto di punto, un maledetto - o benedetto, chi lo sa? - quarto di punto. Però avevo provato anche l'ingresso al corso di laurea in Ostetricia, ed entrai. Avrei potuto ritentare il test per Medicina l'anno successivo, ma avevo troppa fretta di fare. Iniziai Ostetricia e presto mi appassionai perché è un lavoro meraviglioso. Durante il corso di studio avevo bisogno di dirmi: 'ho fatto questa scelta per poi lavorare là'".

Là dove?
"Là in Africa, dove c'è bisogno".

E sei andata in Africa.
"Alla fine del primo anno, d'estate, andai in Africa come volontaria. Facevo assistenza ad ex ragazzi di strada di Nairobi, una realtà molto pesante tuttora. Tornai dall'Africa ancora più carica. Quindi mi laureai in Ostetricia. Subito dopo la laurea partii per il Kenya come volontaria con altre due compagne di corso. Passammo 3-4 mesi in ospedali missionari".

Tutto lavoro volontario?
"Certo. Ai tempi nessuno ancora ci avrebbe pagato: eravamo alle prime armi".

Come andò?
"Non fu un'esperienza semplice, sia dal punto di vista professionale, perché eravamo appena laureate, sia dal punto di vista personale. Poi tornai in Italia, e per quanto volessi ripartire presto, sapevo che se avessi voluto fare l'ostetrica professionista in un mondo a basse risorse, avrei dovuto prima diventare un professionista e migliorare lavorando in Italia".

E quindi, lavorando in Italia, come ti sei formata sul campo? Quando trovavi il tempo?
"Durante le ferie".

Le ferie?
"Sì, proprio così. Quando avevo delle ferie cercavo di ripartire anche solo per qualche settimana, per dare una mano in piccoli ospedali perché il mio obiettivo era raggiungere i requisiti per fare l'application".

Per Medici senza frontiere?
"Sì! Era il Ferragosto del 2013. Scelsi Msf perché la sentivo assolutamente vicina alla mia idea di assistenza medica in certi contesti. Essendo un'associazione gigante non davo affatto per scontato che mi prendessero. Ma a ottobre 2013, mentre ero in reparto, mi arrivò una chiamata da Roma: ricordo la frase 'Benvenuta in Msf!', mi sciolsi".

Sai che alla tua età molte tue coetanee userebbero questa espressione "mi sciolsi" per descrivere altre situazioni? Magari un mutuo accettato, un lavoro a tempo indeterminato, tu ti sei sciolta appena hai saputo che saresti andata a lavorare in territori di guerra?
"Per me essere dentro Msf era la felicità massima. Ho frequentato un corso di preparazione pre-partenza che ti fa fare proprio Msf in cui ti danno delle nozioni su come gestire lo stress in missione, perché non siamo chiamati a fare solo lavoro di clinica, ma anche di selezione dello staff e di formazione. E nel frattempo da Roma cercano di matchare il tuo profilo con l'effettivo bisogno della missione".

Dove ti mandarono?
"Sarei dovuta partire per il Myanmar, principalmente per dare assistenza ai Rohingya ma poi per problemi di sicurezza la missione viene ridotta e non partii più". 

Prima missione subito fallita. Ci sei rimasta male?
"No, capisco subito che in Msf il primo requisito è la flessibilità perché come è naturale per territori dove c'è instabilità, i piani possono cambiare all'ultimo minuto. Poi però sono partita davvero".

Per dove?
"Per il Sud Sudan dove l'unico modo per spostarsi sono questi piccoli aerei caravan di Msf. Arrivo a Nasir, nell'Upper Nile State e inizio a capire come vanno le cose. Dopo quarantott'ore mi dicono che la linea del fronte si sta spostando verso l'ospedale - noi eravamo in zona ribelle - e quindi era il caso di ridurre il numero di espatriati (gli espatriati, nelle missioni, sono le persone dello staff internazionale ndr) del progetto. Ero l'ultima arrivata e mi chiedono se posso tornare a Juba. Rientro successivamente a Nasir e abbiamo informazioni che i soldati stanno avanzando molto velocemente verso la zona dove si trova l'ospedale, quindi tutto il nostro team deve mettere in pratica il piano di evacuazione attraverso il fiume Sobat, direzione Etiopia. È buio, prendiamo la barca e percorriamo per un pezzo il fiume. Sbarchiamo e dormiamo nel nulla; nella direzione opposta vediamo uomini e ragazzi ubriachissimi che sfrecciavano verso il fronte sparando a salve per gasarsi".

Che ne fu dell'ospedale a Nasir?
"Completamente distrutto. Le sacche di sangue strappate e il sangue versato ovunque. Un gesto barbaro per dire voglio ucciderti e voglio eliminare quei pochi strumenti che hai per curarti".

Hai avuto paura?
"Può sembrare strano, ma mai. Msf ha una gestione della sicurezza che secondo me è fenomenale ed è lo strumento essenziale per fare missioni in posti remoti mettendoti nelle condizioni di sentirti sicuro. Se non sei protetto, non hai la condizione fisica e mentale per poterti dedicare alle persone per cui sei lì. C'è gente che si occupa della tua sicurezza in modo che tu possa occuparti dei tuoi pazienti".

E qual è il tuo lavoro lì?
"Quando si fugge, quando la popolazione resta per settimane lontana dai villaggi la prima emergenza è la malnutrizione. Adulti e bambini sono tutti scheletri che camminano. In queste condizioni, per prima cosa bisogna farsi arrivare plumpynut, ovvero il cibo terapeutico che pesa moltissimo e per il quale servono molti voli, ma durante la stagione delle piogge le piste diventano un mare di fango e far arrivare ciò che serve è complicatissimo. Poi allestire una sala operatoria cosa fondamentale per salvare le donne, quando i tagli cesarei sono indispensabili. I trasferimenti all'ospedale di Bentiu a 130 km di distanza erano difficilissimi, questo vuol dire che le donne che non sono riuscita a trasferire le ho perse davanti ai miei occhi. E poi le trasfusioni: se c'è bisogno di una trasfusione trovare un donatore compatibile tra Hiv e malattie sessualmente trasmissibili è come vincere alla lotteria". 

Come non farsi dominare dallo sconforto?
"Imparo da loro. I sudsudanesi sono forti sin dalla nascita. Spesso arrivano bambini di uno o due giorni di vita con gravi infezioni in atto che con due dosi di antibiotico generico e un po' di ossigeno riescono a riprendersi. La notte la situazione sembrava persa, ma al mattino li trovavo attaccati al seno e dopo pochi giorni li dimettevamo. La loro forza è incredibile ai miei occhi".

Poi sei rientrata in Italia...
"Sì, ma poi di nuovo in Sud Sudan e questa volta a Bentiu dove c'è un campo rifugiati che ospita circa 110mila persone ed è sotto la protezione delle Nazioni Unite. Lì Msf ha un grande ospedale con una piccola sala operatoria".

Come gestite gli aiuti in situazioni di tale affollamento?
"Una cosa che ci tengo a dire è che lo staff di Msf si basa sugli espatriati internazionali, quindi su chi va e viene, ma lo staff è soprattutto locale, quindi persone che danno un contributo fondamentale, stanno vivendo sulla propria pelle le tragedie dei loro paesi, persone vulnerabili perché stanno soffrendo moltissimo. Eppure ogni mattina hanno la forza di presentarsi nel nostro ospedale e fare i loro turni. Questa cosa io la trovo eroica".
 
Come vedi la situazione in Sud Sudan?
"Drammatica. Se si pensa, ad esempio che la violenza sessuale è una realtà estremamente diffusa ed è usata come arma di guerra. Io avevo a che fare con vittime abusate da gruppi rivali ma il giorno dopo poteva accadere il contrario. Il Sud Sudan è un paese che vive di aiuti umanitari e la situazione non è in via di miglioramento quindi resterà dipendente dalle ong per molto tempo".
 
Qui non si fanno più figli, invece là se ne fanno moltissimi.
"La differenza credo risieda nella possibilità di poter fare delle scelte. Se non vedi alternative riproduci i modelli che hai. L'hai visto fare a tua nonna, a tua madre, a tua sorella... Non avere mezzi di comunicazione, l'essere nata e cresciuta nel bel mezzo del niente ti conduce a fare ciò che hai visto fare. Qui per quanto le donne spesso non siano libere di scegliere quello che vorrebbero fare in un determinato momento, almeno sono a conoscenza di come la questione di fare bambini si possa affrontare in modi diversi. Secondo me questa è la chiave. Se poi penso al Sud Sudan, in quel contesto le cose semplicemente succedono alle persone, soprattutto alle donne. A loro succede anche di partorire nelle paludi, un parto in acqua un po' diverso da come lo intendiamo noi".

Nelle paludi?
"Sì. Quando sono tornata in Sud Sudan, a Bentiu, ebbi modo di lavorare con lo stesso staff con cui avevo lavorato due anni prima, perché nel frattempo loro avevano dovuto lasciare Leer. Mi raccontarono quella che era stata la fuga della popolazione dai soldati. Per mesi uomini, donne, bambini e anziani si erano dovuti nascondere di notte nelle paludi. Le ostetriche mi raccontavano di parti che avevano assistito con grande ansia perché lì non avevano veramente nulla. Nulla con cui aiutare con le donne, non un paio di guanti, non un posto dove metterle al pulito, niente per scaldare il bambino dopo la nascita".

Ma la contraccezione?
"Anche chi conosce i metodi contraccettivi fa molti figli perché considerano i bambini sempre un dono e perché sanno che un'alta percentuale di loro non sopravvivrà. È difficile far passare il messaggio che se potessero distanziare un po' di più le gravidanze e investire più risorse sui piccoli che hanno potrebbero invece far sì che tutti i bimbi riescano ad arrivare all'età adulta".

Essere madre in Sudan, in Iraq, ed essere madre in Italia. Sembra che faccia più paura alle donne europee partorire che a quelle africane. 
"Noi in Italia, in linea di massima a 30 anni cominciamo a pensare di voler avere un bambino, e come esperienza, quando accade, ci si presenta come totalmente nuova, complicata, lontana persino estranea. Mentre se sei sudsudanese, un bambino che nasce e che cresce è così frequente nella tua vita che, nonostante le difficoltà, è molto più 'semplice' da affrontare. Per una madre italiana - lo vedo dalle donne che assisto - nonostante ci siano molti più mezzi per sostenere il figlio e proteggere il parto, tutto è molto più complicato. Le donne tutte le notti si nascondono nella palude, un parto in acqua un po' diverso. In Iraq i mariti noleggiano taxi per accompagnare le mogli in ospedale e la nostra difficoltà maggiore avviene quando, dopo il parto, non riusciamo a trattenere in ospedale sotto osservazione madre e figlio nemmeno per due ore, considerando che le linee guida impongono un'osservazione di almeno 24 ore. Vanno via, per ridurre i costi del noleggio delle auto e non c'è nulla che noi possiamo fare per impedirlo".

Qual è la differenza di mezzi disponibili tra una sala parto di un Paese a basse risorse e una sala parto di un Paese sviluppato?
"Msf è molto forte nel voler garantire degli standard alti, sopra la sufficienza: quando apre una maternità si assicura che tutti gli strumenti essenziali siano presenti. Ad esempio la sterilizzazione dei ferri, senza questo la maternità non apre. Ovviamente deve essere tutto manuale, nulla è elettrico, perché la nostra capacità elettrica nei vari progetti può essere molto varia, quindi dobbiamo essere sicuri del funzionamento dei macchinari anche in assenza di corrente".

Hai detto che, nonostante le difficoltà che queste mamme sono costrette a vivere in guerra, dopo il parto una volta superata la fatica fisica, la prima sensazione che senti in loro è la gioia.
"La prima espressione è sempre di stanchezza totale, il corpo ha sperimentato un dolore gigante. Però quando la mamma prende in braccio il bambino c'è tantissima gioia. Le donne sanno che il percorso di nascita presenta molti rischi quindi quando partoriscono e vedono che il bambino piange, è vivo e sta bene e che anche loro sono vive e stanno bene, sono meravigliate e felici".

Ileana in queste storie misura la resistenza delle donne.
"Ricordo il caso di una ragazza molto giovane in Sud Sudan, rimasta incinta dopo una violenza sessuale da parte di un soldato durante un attacco alla popolazione civile. Era al suo primo bambino, e venne al nostro presidio maternità accompagnata dal fratello (cosa strana perché di solito sono le donne a fare assistenza, gli uomini normalmente in sala parto non entrano): iniziò il suo travaglio, ma il bambino non aveva più battito, era morto in utero per una malformazione fetale. Tra l'altro il bambino era podalico, quindi un parto difficile... Lei è stata in travaglio tutta la notte senza emettere il minimo suono di lamento, con una forza incredibile, fino al momento del parto, senza nemmeno aver vicina una mamma o una sorella che le potesse dire una parola di conforto. È quella secondo me la forza, una forza che sembra dire: 'Nonostante ne abbia passate di tutti i colori adesso sono qui e lotto per liberarmi da questa situazione'".

Che ne pensi delle polemiche di questi giorni sulle ong? Ti sei fatta un'idea del perché siano partite e quale sia il loro scopo?
"Se tutti quelli che commentano e alimentano questa polemica avessero visto una mamma o un bambino in difficoltà, nessuno avrebbe più parole, ma tutti si metterebbero a fare".

Ileana è una delle moltissime anime di Msf che come altre Ong organizza la solidarietà non rendendola una parola vuota o sospetta. Ho voluto che si raccontasse perché il racconto è la migliore risposta, forse l'unica, alle insinuazioni di questi giorni. Persone come Ileana hanno trasformato l'aiutiamoli a casa loro nella più umana delle declinazioni: aiutiamoci.
 
© Riproduzione riservata 29 aprile 2017

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2017/04/29/news/ileana_ostetrica_di_guerra_per_scelta_vi_racconto_il_lavoro_dei_volontari_-164157486/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P6-S2.4-T1
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« Risposta #141 inserito:: Maggio 06, 2017, 05:34:02 pm »

Saviano: ”Così il Pd diventa la peggior destra che fa leva su istinto, ignoranza e luoghi comuni”
Lo scrittore su Facebook: la politica asseconda una percezione d’insicurezza generata dai media.
Quando il nuovo fascismo sarà alle porte ricordiamoci di chi gliele ha aperte

Pubblicato il 04/05/2017 - Ultima modifica il 04/05/2017 alle ore 16:19

«Non è consentendo alle persone di armarsi e di sparare che si tutela la sicurezza dei cittadini. È solo un’illusione e una mancia politica per ottenere consenso». È quanto scrive Roberto Saviano in un commento sulla sua pagina Facebook a proposito della proposta di legge sulla legittima difesa. 

«Con il decreto Minniti e la legge sulla legittima difesa, il Partito Democratico ha deciso definitivamente di essere un partito della peggior destra che fa leva su istinto, ignoranza e luoghi comuni. La politica decide di abbandonare la statistica (secondo cui per i reati predatori tra il 2015 e il 2016 c’è stato un calo del 16% e non un aumento) per assecondare la percezione del crimine e “invitare” i cittadini ad armarsi. La sicurezza si ottiene con politiche sociali, con l’aumento dei controlli, non delegando alla difesa personale, cosa che lascia una tale discrezionalità da rendere pericolosissima questa legge. Non è più ciò che realmente accade il criterio guida per stabilire come fare le leggi, ma la percezione che le persone hanno della realtà, una percezione indotta dai media che parlano di insicurezza con argomentazioni leghiste. Quando il nuovo fascismo sarà alle porte ricordiamoci di chi gliele avrà fatte trovare aperte».

Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2017/05/04/italia/politica/saviano-non-consentendo-alle-persone-di-armarsi-e-di-sparare-che-si-tutela-la-sicurezza-uAxQ4B5nPVRuBPIaLOgK7N/pagina.html
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« Risposta #142 inserito:: Maggio 09, 2017, 05:48:21 pm »

Quei sospetti che sabotano la missione di chi salva le vite

di ROBERTO SAVIANO
03 maggio 2017

POLITICANTI senza scrupoli hanno usato il paravento di ipotetici rapporti dei Servizi segreti per infangare le organizzazioni non governative che operano nel Mediterraneo. Oggi apprendiamo dagli stessi Servizi segreti che quei rapporti non esistono. Il Procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, chiarirà la sua posizione davanti alla commissione Difesa del Senato, mentre immagino che una forza politica che fa della trasparenza e della superiorità morale il proprio marchio di fabbrica non avrà problemi a fornire delucidazioni, con la massima urgenza, sulla natura delle fonti da cui i suoi esponenti più in vista - quelli che hanno trascorso gli ultimi giorni in tv a spargere fango e sospetti - hanno appreso dell'esistenza di rapporti dei Servizi italiani circa i fantomatici contatti tra Ong e scafisti. Non pensino di evadere la questione distogliendo l'attenzione dell'opinione pubblica con progetti di legge ad hoc, che hanno tutta l'aria di essere solo strategie di distrazione, tipiche della politica cialtrona che dicono di combattere.

Sulla pelle e sulla vita delle persone non si specula e se lo si è fatto - per una manciata di voti o per un po' di visibilità - se ne dovranno pagare le conseguenze, a tutti i livelli. Ma non dovremmo essere contenti se qualcuno vuol fare chiarezza sulle Ong? Quello che è accaduto non c'entra nulla con il fare chiarezza tutt'altro. È stato diffuso il sospetto, e anche in modo approssimativo, ribaltando qualsiasi metodo investigativo e di inchiesta. Eppure Medici senza frontiere ha salvato 60.390 persone sostenendo la propria azione esclusivamente attraverso donazioni private. Proprio l'audizione di Medici senza frontiere avvenuta ieri alla commissione Difesa del Senato ha riportato ragionevolezza in una polemica che l'aveva completamente persa. Lo ha fatto chiarendo una dinamica: "Ogni giorno migliaia di uomini, donne e bambini continuano a prendere il mare affidandosi a trafficanti senza scrupoli. Non lo fanno perché potrebbero esserci delle barche a salvarli al largo della Libia, ma perché non hanno altra scelta, e le politiche europee non offrono loro alcuna alternativa. Non sono le organizzazioni umanitarie, ma le politiche europee a favorire i trafficanti". Un discorso assolutamente logico, quello di Loris De Filippi, presidente di MSF Italia, ma che ha dovuto difendere dal discredito e dalle insinuazioni che negli ultimi giorni hanno infangato le Ong. Loris De Filippi ha anzi ribaltato con fermezza il punto di vista: "Non ci sentiamo affatto sul banco degli imputati, al contrario crediamo che a dover salire sul banco degli imputati siano innanzitutto le istituzioni e i governi europei che per troppo tempo hanno volutamente omesso di rispondere a questa chiamata d'aiuto, non fornendo un sistema europeo di soccorso, non offrendo nessuna alternativa a chi disperatamente chiedeva protezione nel continente europeo. La nostra presenza in mare come quella di altre Ong è il risultato del fallimento dell'Europa e dei suoi stati membri nel gestire in maniera umana ed efficace i flussi migratori".

Ma la cosa che più preoccupa, ha aggiunto il presidente di Msf, "non sono tanto le accuse alle Ong, ma il complessivo avvelenamento del clima in cui le stesse autorità italiane e le Ong lavorano. Oggi chi fa ricerca e soccorso in mare rischia di trovarsi circondato da un'ostilità che per il Paese rappresenta un enorme passo indietro(...) Continua una campagna di discredito che si basa su informazioni non suffragate per ora da chiare evidenze, anche da parte di soggetti che per ruolo istituzionale dovrebbero contribuire a fare chiarezza invece che cercare visibilità diffondendo a mezzo stampa insinuazioni e sospetti".

E allora tutte queste accuse che avrebbero dovuto essere pronunciate solo dopo raccolta di prove, e prove sufficienti non suggestioni, sapete a cosa ha portato? Ha portato come denuncia Sos Mediteranee Italia il vertiginoso diminuire delle donazioni alle Ong. Ecco cosa questi sospetti volevano generare, impedire alle Ong di salvare vite, null'altro. Danno ancor più grave se si pensa che la polemica di questi giorni avviene alla vigilia della dichiarazione dei redditi e quindi ostacola la raccolta del 5xmille che è una fonte di finanziamento fondamentale per chi salva le vite in mare.

© Riproduzione riservata 03 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2017/05/03/news/quei_sospetti_che_sabotano_la_missione_di_chi_salva_le_vite-164486699/?ref=search
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« Risposta #143 inserito:: Maggio 16, 2017, 01:45:03 pm »

Migranti e ladri in casa: se la politica offre solo il diritto alla vendetta
Alla paura delle rapine si risponde con una legge sulla legittima difesa.
Sull'immigrazione si assecondano i peggiori umori della piazza.
Caro Minniti, non c'è più un barlume di progressismo nel governo

Di ROBERTO SAVIANO
12 maggio 2017

Il Forum con il ministro dell'Interno Minniti nella redazione di Repubblica è un documento che offre spunti preziosi di riflessione oltre a sancire l'esaurirsi di ogni barlume progressista nella compagine di governo. "Il lavoro che ho cominciato quattro mesi fa al Viminale – dice Minniti – può piacere o meno. Ma è figlio di un metodo, di un disegno, e di una certezza. Che sulle questioni della nostra sicurezza, si chiamino emergenza migranti, terrorismo, reati predatori, incolumità e decoro urbano, legittima difesa, non si giocano le prossime elezioni politiche. Ma il futuro e la qualità della nostra democrazia".

Vero, è in gioco proprio questo: il futuro e la qualità della nostra democrazia, e l'impressione è che il metodo sia ormai non dire ciò che si vuol fare, per poi farlo davvero. Il linguaggio è la chiave di tutto e chi vuole oggi ridisegnare il mondo, deve iniziare a farlo modificando il significato delle parole.

E così le imbarcazioni delle ong che nel Mediterraneo portano in salvo vite (uomini, donne e bambini, perché "vite" è parola troppo generica) diventano "taxi" nelle parole del vicepresidente della Camera Luigi Di Maio, e così l'inchiesta della Procura di Trapani secondo cui "in qualche caso navi delle ong hanno effettuato operazioni di soccorso senza informare la centrale della Guardia costiera" e quindi "per la legislazione italiana si potrebbe dire che viene commesso il reato di favoreggiamento di immigrazione clandestina ma non è punibile perché commesso per salvare una vita umana", diventa: le ong hanno rapporti con gli scafisti.

I virgolettati appartengono al Procuratore della Repubblica di Trapani Ambrogio Cartosio, che quelle parole le ha pronunciate dinanzi alla commissione Difesa del Senato. Dunque personale delle ong è sotto inchiesta per un reato che non può essere punito e a dirlo è lo stesso titolare dell'indagine: non si capisce allora perché il suo Ufficio non abbia ancora chiesto l'archiviazione degli atti. Ma mettere in fila i fatti è inutile perché l'espressione "taxi del Mediterraneo" vi è rimasta dentro anche se è stata smentita in ogni luogo. Rimbomba nello stomaco e vi ricorda ogni volta che con la pensione che prendete non ce la fate a mantenere i due figli che ancora non hanno un lavoro dignitoso. E vi ricorda che è assurdo a 35 anni lavorare 12 ore al giorno, senza contratto, per portare a casa 700 euro al mese. E vi ricorda che avete dovuto lasciare l'Italia per andare a Londra, a Lipsia o in Australia, che soffrite come cani, perché avete un lavoro ma vi manca tutto il resto.

E allora i numeri, le statistiche, diventano offensive perché non tengono conto dei sacrifici, delle sofferenze, della lontananza, delle rinunce, dei sogni infranti. E allora se siamo 60 milioni e ogni anno arrivano in Italia 180mila migranti, che senso ha fare un calcolo, che senso ha dirci che la proporzione di 1 (migrante) a 333 (italiani) è gestibile e non rappresenterebbe un'emergenza? Nessun senso, perché io continuo a mantenere con una pensione di 1.800 euro al mese due figli che non trovano lavoro. E allora al diavolo i migranti e al diavolo anche le ong che ce li portano in Italia. E ancora, che senso ha citare le fonti del Viminale per dire che i reati predatori sono in diminuzione? Nessun senso se lo stesso ministro degli Interni racconta che nel 1999, parlando a Bologna con "un vecchio compagno", capì che "la sicurezza è un sentire", che "dove si ragiona con le statistiche non c'è sentimento". E fu a Bologna, nel 1999, che Minniti capì ciò che Steve Bannon, il consulente strategico di Trump, e Beppe Grillo, garante del M5S, avrebbero capito solo più tardi (molto più tardi) usando la massa di informazioni provenienti dai social e dal web: la statistica vera, quella dei tempi moderni, quella che serve alla politica, è la "scienza" che contempla solo lo stato d'animo delle persone, è quella che traccia gli umori dell'opinione pubblica, che come in un circolo vizioso può essere agevolmente creata diffondendo dati e notizie falsi o verosimili.

Quindi se l'opinione pubblica ti dice che si sente invasa, non puoi rispondere come sarebbe giusto, ovvio, razionale e persino conveniente: la soluzione è dare permessi di soggiorno e consentire che in Italia si arrivi legalmente, perché ampliare le fasce di illegalità è sempre una scelta criminogena. Non puoi farlo. La soluzione è dire -come fanno i 5 Stelle - che le ong vanno fermate, fa nulla che nel frattempo muoiano uomini, donne e bambini perché si è troppo distanti per prestare soccorso. La soluzione è promettere di intensificare e migliorare gli accordi con Turchia e Libia, perché pagare per risolvere problemi lontano dall'Italia è di gran lunga più conveniente (in termini elettorali, sia chiaro, non di salvaguardia della tenuta democratica dell'Italia) che gestire problemi "in casa". Che in Libia e Turchia i migranti siano stipati in lager, detenuti, torturati, violentati, sfruttati è abominevole, ma è un prezzo che siamo disposti a pagare, perché impedire i soccorsi in mare e bloccare i migranti a un passo dall'Europa è la risposta della politica agli umori della piazza. Su questo punto la posizione del centrosinistra non è per nulla cambiata rispetto ai tempi in cui – tolte poche eccezioni – assentì al trattato siglato da Berlusconi con Gheddafi.

Lo stesso vale per la legittima difesa: se l'opinione pubblica non si sente sicura, la soluzione è una legge ad hoc, che importa che sia chiaramente "inutile e confusa", che importa che "già esisteva un canone normativo e veniva interpretato in modo favorevole a chi vantava la difesa", serviva uno spot per questo governo che si è tradotto in un invito a prendere il porto d'armi e ad avere in casa una pistola. Ed è inutile che il segretario del Pd lamenti fantomatici errori: in questo agire c'è del metodo, poiché la matrice è lo stesso populismo penale che ha condotto all'introduzione dell'inutile reato di omicidio stradale. Si trova il tempo per discutere e votare leggi inutili (quando non dannose) e quelle di pubblica utilità, come l'introduzione del reato di tortura, restano ferme.

Sta accadendo questo: se ci si basa sui numeri per raccontare il mondo in cui viviamo si è accusati di fare propaganda e di farlo senza avere cuore, senza pensare che dietro i numeri ci siano persone. I numeri servono solo per avere misura delle dinamiche e non lasciarle all'istinto manipolatorio delle fazioni. Se ci si sforza di argomentare e utilizzare un metodo che abbia un minimo di attendibilità scientifica si rischia di fare la fine degli eretici bruciati sul fuoco dall'Inquisizione: sapere è una colpa e anche questo è un segno dei tempi. Dall'altra parte alla politica si chiede di limitarsi a raccontare ciò che sembra plausibile, anche se vero non è. Minniti potrà continuare a dire di non essere un esponente del populismo di destra, ma solo un vecchio compagno folgorato sulla via della voglia di sicurezza.

Oppure se ci piace possiamo chiamare le aspirazioni della piazza "oclocrazia", prendendo il termine in prestito da Polibio, ossia governo della plebe, una degenerazione della democrazia. Un termine che non sarà difficile far passare come una forma di governo tradizionale ma moderna: il governo delle masse. Ma "masse" suona parola antica, vecchia, consumata e allora meglio il governo dei cittadini, ecco, così suona meglio.

Eppure l'oclocrazia è una degenerazione e non perché da pochi si passi a molti, a tutti, ma perché – come riflette Marco Revelli - quando le persone sentono che si è smarrito il valore dell'uguaglianza, c'è solo una cosa a cui ambiscono più di ogni altra, e non è la trasformazione sociale, ma la vendetta. Il governo della vendetta: contro i politici, contro i ricchi, contro i famosi, contro i migranti, contro le ong, contro i ladri.

Dire che i dati non servono, dire che l'analisi non serve, dire "dove si ragiona con le statistiche non c'è sentimento" significa solo nutrire questa vendetta e rendere i cittadini consumatori di rabbia. Alla sfiducia dei cittadini, alla loro volontà di far saltare il banco, la politica in questo momento non sta dando alcuno strumento di trasformazione, ma il più atroce dei diritti (che si traduca in diritto a sparare o a sentirsi padrone della propria terra), un diritto che consuma chi ne fa uso, illudendolo di far qualcosa per lenire il malessere e lo smarrimento che prova: il diritto alla vendetta.

© Riproduzione riservata 12 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/12/news/migranti_e_ladri_in_casa_se_la_politica_offre_solo_il_diritto_alla_vendetta-165222592/?ref=RHPPBT-BH-I0-C8-P1-S2.5-T1
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« Risposta #144 inserito:: Maggio 26, 2017, 05:22:38 pm »

Falcone voleva vivere e i suoi nemici non erano solo i mafiosi
Uno dei principali motori dell'ostilità contro il magistrato, che nella vita collezionò tante sconfitte, fu l'invidia. Contro di lui giochi di potere e strumentalizzazioni

Di ROBERTO SAVIANO
23 maggio 2017
 
«Per essere credibili bisogna essere ammazzati in questo Paese». Così Giovanni Falcone rispose in tv a una ragazza che gli chiedeva: «In Sicilia si muore perché si è lasciati soli. Giacché lei fortunatamente è ancora tra noi, chi la protegge?». Erano i giorni in cui girava voce che l’attentato all’Addaura (fu trovata una borsa di tritolo sulla scogliera davanti alla sua casa al mare) lo avesse organizzato da solo per fare carriera, perché la mafia non sbaglia, se vuole uccidere uccide.

A ogni commemorazione della strage di Capaci, non posso fare a meno di ricordare che allora come oggi la grammatica comunicativa è la stessa, se non peggiore: solo sui cadaveri gli italiani riescono a esprimere una solidarietà e un’empatia disinteressate. A chi si preoccupava perché fumasse troppo, Falcone rispondeva: «Non mi uccideranno le sigarette». Sembra un dettaglio futile, ma la storia di Giovanni Falcone dobbiamo raccontarla, per conoscerla davvero, seguendo percorsi laterali, unendo i puntini dei dettagli futili. E dettagli futili sono il veleno quotidiano e le accuse che a Falcone venivano rivolte da colleghi magistrati e da giornalisti per come lavorava e comunicava. Falcone innovatore del diritto, Falcone magistrato che dava una solidità tale alle sue inchieste da superare la più difficile delle prove, la verifica dibattimentale, possedeva doti preziose ma solo in astratto. Per queste doti — innovazione e rigore — Falcone in vita fu considerato magistrato poco ortodosso e insabbiatore. Odiato, ostacolato, disprezzato, esposto alla pubblica disapprovazione e isolato e non, come la storiografia ufficiale ci tramanda, apprezzato, rispettato, appoggiato. Questo è il torto più imperdonabile che si possa fare alla memoria di Falcone, perpetrare la menzogna di un talento riconosciuto, di un magistrato che ha lavorato con il sostegno dei colleghi e dell’opinione pubblica. Queste mie parole suoneranno odiose e vogliono esserlo perché per capire il Paese che siamo, dobbiamo sapere che Paese eravamo. E per capire che Paese eravamo dobbiamo studiare ciò che è stato fatto a Falcone in vita.

Potrebbe sembrare, a un giovane lettore, che Falcone sia stato l’uomo giusto, rappresentante dell’Italia perbene, ucciso dagli uomini ingiusti, rappresentanti dell’Italia corrotta. Non è così. La sintesi di ciò che Falcone ha dovuto subire l’ha fatta, a dieci anni da Capaci, Ilda Boccassini, il magistrato che forse più di tutti ha ereditato il suo metodo investigativo: «Non c’è stato uomo in Italia che abbia accumulato nella sua vita più sconfitte di Falcone. Non c’è stato uomo la cui fiducia e amicizia sia stata tradita con più determinazione e malignità». Bocciato come consigliere istruttore, come procuratore di Palermo, come candidato al Csm, e — continua Boccassini — sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale antimafia, se non fosse stato ucciso.

Uno dei motori principali dell’ostilità continua verso Falcone è stato il meno citato in questi anni ed è il più abietto dei sentimenti: l’invidia. Non sembri un’esagerazione, non è una mia idea, perché questa parola — invidia — è nero su bianco in una sentenza della Corte di Cassazione nell’ambito del processo per l’attentato dell’Addaura: “Non vi è alcun dubbio che Giovanni Falcone fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazioni a opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e gelosia”. Ma come si poteva invidiare un uomo che era un obiettivo tanto esposto? Si poteva eccome, non riuscendo a eguagliare il suo rigore e il suo talento, si arrivava a detestarlo, a cercare di ostacolarlo. E soprattutto risultava insopportabile a una parte importante del giornalismo e della magistratura che lui avesse l’ambizione di raggiungere ruoli di vertice per trasformare la realtà. Meglio farlo passare per un ambizioso affamato di potere e di pubblicità. Sapete come lo attaccavano? Esattamente con le stesse parole con cui oggi gli haters riempirebbero i social. Falcon Crest, il giudice abbronzato, il guitto televisivo, l’amico dei socialisti, l’uomo che usa la mafia a favore delle telecamere. Sino alle insinuazioni “se è in vita è perché lo ha permesso Cosa Nostra” ai cui affiliati viene così attribuito potere assoluto di vita e di morte. Una sorta di omaggio, più o meno inconsapevole, alla mafia da chi credeva, diceva o fingeva di volerla combattere. E Falcone, che abbiamo visto rispondere in televisione, non riusciva fino in fondo a credere possibile di doversi scusare per essere ancora in vita.

Giovanni Bianconi, nel suo libro L’assedio, mette in fila tutte le vili accuse e le diffamazioni possibili di cui Falcone fu oggetto e parla di una vita passata a combattere la mafia e a difendersi da tutto il resto. Falcone aveva contro i mafiosi, chi non riusciva come lui a combattere i mafiosi, e chi stava a guardare come una corrida chi vincesse tra lui e la mafia. E Cosa Nostra era lì a osservare il progressivo isolamento, ad aspettare il momento giusto per colpire. Falcone viene ucciso da direttore degli Affari Penali, mentre lavora a Roma alla costruzione della Superprocura voluta da Martelli. Quando Cosa Nostra decide di eliminarlo, manda un commando nella Capitale che sarà definito simbolicamente la Supercosa, nata per contrastare la Superprocura. Ma Bianconi scrive che Falcone a Roma è tranquillo e all’inquietudine di un amico che si preoccupa per lui risponde: «Qui sono libero di fare quasi la vita che voglio, non rischio nulla. È in Sicilia che sono un morto che cammina».

Falcone prima e Borsellino poi sapevano di avere il destino segnato, eppure non si sottrassero alla morte. Ma dobbiamo leggere e interpretare il loro martirio sapendo che non era possibile fare marcia indietro dopo tutto il sangue versato. Erano morti colleghi magistrati, poliziotti, nascondersi non si poteva, cambiare vita era troppo tardi. E allo stesso tempo, pensare a Falcone e Borsellino come due uomini rassegnati alla morte significa non comprendere fino in fondo il valore del loro sacrificio. Giovanni Falcone voleva vivere. Paolo Borsellino voleva vivere. Nessuna vocazione da parte loro al martirio, tutt’altro.

Mi capita di paragonarli a Giordano Bruno perché anche Bruno voleva vivere e quindi credendo di potersi salvare decise di abiurare. Bruno abiura più d’una volta, ma all’inquisizione non basta che taccia, che ometta, che ragioni da filosofo. L’inquisizione vuole delegittimare quello che ha scritto, verità etiche che l’uomo non può negare perché se le negasse smetterebbero di esistere. Non si tratta di negare il moto della Terra che è un dato fisico e, per quanto lo si neghi, vero. Negare verità etiche significa cancellarle. Nel teatro dell’inquisizione Bruno ha creduto di poter recitare la parte di colui che si pente, fino a quando non capisce che la posta in gioco è troppo alta, molto più alta della sua stessa vita. Anche Falcone e Borsellino sono stati costretti a difendere la verità del loro lavoro con il sacrificio, un sacrificio che non poteva essere pubblicamente rivendicato perché adesso come venticinque anni fa la delegittimazione è percepita come autentica, più autentica di ogni legittima difesa. Buonisti li chiamerebbero oggi, di quelli che senza prove certe non lanciano dardi, nemmeno contro un nemico infame come la mafia.

Falcone e Borsellino insieme a pochi, pochissimi altri, hanno combattuto contro il può feroce dei nemici sapendo che a loro non era concessa alcuna scorciatoia; sapendo che per quanto il loro nemico fosse disonesto, scorretto e potente potevano contrastarlo con una sola arma: il diritto. Solo il diritto era garanzia, solo attraverso quello si sarebbe evitato di ledere i diritti di tutti. Una grande lezione per noi oggi, che vediamo quotidianamente farne strame da chi considera il fine superiore a qualunque mezzo e il diritto un ostacolo da spazzare via.

© Riproduzione riservata 23 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2017/05/23/news/falcone_voleva_vivere_e_i_suoi_nemici_non_erano_solo_i_mafiosi-166149153/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S2.4-T1
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« Risposta #145 inserito:: Agosto 16, 2017, 08:48:52 am »

MIGRANTI

Il j'accuse di Saviano: "La Sinistra che non difende i più deboli smarrisce se stessa"
Quello su immigrati e Ong è un dibattito assurdo che ignora dati, analisi e non vuole vedere la realtà per come è veramente. Un medico di MsF racconta: «In quegli occhi ho visto il terrore. Tutti dovremmo ascoltare le loro storie»

DI ROBERTO SAVIANO
14 agosto 2017

La disoccupazione devasta il sud Italia: chi sono i responsabili? Gli immigrati. La corruzione infiltra ogni appalto: di chi è la colpa? Immigrati. L’insicurezza in strada, la sporcizia cronica delle vie: certo, ci sono gli immigrati. Lo spaccio d’erba, di coca, di crack chi lo realizza? Gli immigrati. Stupri e furti in casa: sono sempre loro, gli immigrati. Nessuna di queste affermazioni è vera. E non esiste numero, statistica, analisi che la confermi. Solo un esempio: 27mila sono gli spacciatori italiani, poco più di duemila gli stranieri.

Eppure queste falsità sono diventate verità accettate. Come è possibile che d’improvviso i responsabili del disastro diventino i migranti, il male assoluto, il problema numero uno, su cui sfogare qualsiasi disagio, qualsiasi frustrazione, ogni tipo di abuso linguistico, balla informativa, aggressione verbale? Come è possibile che la campagna elettorale di partiti e movimenti diventi solo il tentativo di accaparrarsi il palio del contrasto ai migranti? Il linguaggio diventa la prova capitale di come si stia cercando di banalizzare il problema. Che nella declinazione più barbara di Salvini è “l’invasione”, in quella, più crudele di Di Maio “taxi del mare”, e nel gergo più tecnico del governo “ridurre gli sbarchi”. Ma soprattutto, come è possibile che dinanzi a migliaia di persone che scappano dalla guerra o dalla miseria i colpevoli diventino chi li salva in mare?

Tutto questo si è realizzato quando chi per cultura e tradizione storica (la sinistra) dovrebbe stare dalla parte dei più deboli, ha abdicato ai suoi valori. E rinunciato a mostrare le reali dinamiche, analizzare i numeri, raccontare cosa davvero accade in Africa e nel Mediterraneo preferendo focalizzarsi sul piccolo, microscopico segmento dei nostri confini.

Il soccorritore opera negli interstizi della legge, ispirandosi ai valori più alti. Regolare le organizzazioni non governative significa far svanire l'umanitarismo che le ispira

Ma noi siamo italiani, si dice, è dell’Italia che deve interessarci no? Proprio perché siamo italiani e proprio perché dovremmo interessarci dell’Italia le forze politiche dovrebbero guardare negli occhi la realtà e spiegare come stanno le cose ai loro elettori, a quel complesso congegno che è l’opinione pubblica.

La sinistra, in qualunque sua declinazione (con rarissime eccezioni) non ha battuto ciglio dinanzi al codice Minniti. Dove l’unica priorità è quella di impedire gli sbarchi: nessuna attenzione alla vita dei migranti, disinteresse per cosa farà di loro la guardia costiera libica (da sempre, ci sono le prove, in rapporti con la milizia Anas Dabbashi che monopolizza il traffico di esseri umani). Ma forse questo codice che impone la presenza di ufficiali di polizia armati sulle navi e rende impossibile il trasbordo ha una contropartita in un altro contesto? Cè un impegno italiano a non vendere armi nei territori di guerra? Ad aumentare la percentuale di Pil da dedicare ai paesi in via di sviluppo? Si vuole negoziare con la Libia sulla sorte dei migranti fermati? Si chiedono garanzie perché possano avere assistenza dignitosa e non essere arrestati e abbandonati in prigioni nel deserto? No, nulla di tutto questo.

La polemica sulle Ong, le critiche a Minniti. Il Pd cade nella trappola della destra che vuole trattare i profughi come un'emergenza. Mentre è il fenomeno globale su cui si gioca la sopravvivenza dei progressisti

Invece di accettarlo in silenzio dovremmo trovarci davanti alle ambasciate di ogni stato europeo a scandire: «Non ci costringerete a farli annegare». Dovremmo solidarizzare con chi salva le vite in mare. Al contrario, ci troviamo a mettere tutte le Ong sul banco degli imputati, strumentalizzando qualche errore o disinvoltura di troppo, che magari si sono anche commessi.

Non esistono risposte semplici ai flussi migratori, non c’è una soluzione immediata, forse è solo possibile di volta in volta di far fronte all’ emergenza. Proprio questo è quello che fa una Ong come Medici senza frontiere. Lavora su entrambi i fronti: nei luoghi da dove i migranti scappano, e in mare dove muoiono.

L’Europa crede di essere di fronte a un’invasione ma non conosce nulla di quello che sta accadendo in Africa, le grandi migrazioni avvengono lì, al suo interno, e sono cento volte più grandi delle centomila persone all’anno che sbarcano in Italia. Due milioni e settecentomila persone sono scappate dalla Nigeria per sfuggire a Boko Haram. In Uganda (34 milioni di abitanti) troviamo quasi un milione di rifugiati.

Medici senza frontiere si trova ad essere accusata per non aver firmato il codice Minniti. L’argomento è: «da che parte stai, con lo Stato o con i trafficanti?». È una falsificazione in cui si vuole incastrare Msf. Gabriele Eminente, che di Medici Senza Frontiere è il presidente, spiega: «Ong significa Organizzazione non governativa. Per definizione non può appartenere a nessuno, tantomeno a uno Stato. Non è corretto nemmeno attribuirle un’origine “geografica”. È una furbizia mediatica dire Ong spagnola, tedesca. È un modo per suggerire l’esistenza di una “cospirazione” straniera ai danni dell’Italia. Ci vogliono collegare - dice Eminente - a mondi che non ci appartengono. Ci descrivono come complici dei trafficanti, oppure pretendono che diventiamo collaboratori di indagini che non possiamo essere. Il nostro compito è invece essere laddove ci sono persone che muoiono e abbisognano di aiuto». Msf collabora rispettando le leggi internazionali e le leggi del mare, e poliziotti disarmati possono salire sulle navi in qualunque momento, perché non c’è niente da nascondere.

Il ragionamento di Eminente fa emergere chiaramente il tema. Fin quando in Italia non sarà possibile entrare in modo legale, non ci saranno visti per chi vuol venire a lavorare, non saranno gestiti i flussi, allora barconi e trafficanti resteranno l’unico canale di approdo. È la logica della chiusura, sono l’Italia e l’Europa, ad aver incentivato gli sbarchi.

Una proposta concreta per affrontare il problema esiste. Il 12 aprile è stata lanciata una campagna, “Ero Straniero” da Emma Bonino e i Radicali Italiani, e invito tutti i lettori a firmare. Chiamata diretta degli sponsor, permessi di lavoro, integrazione, regolarizzazione dei clandestini. E creazione di corridoi umanitari. Queste sono le proposte. Anche in questo caso la sinistra (con rare eccezioni) non ha colto la crucialità di questa campagna. Invoca il “principio di realtà” contro il “principio di umanità”. Chiaramente, la campagna elettorale permanente avvelena qualsiasi tipo di analisi e riflessione seria sulla questione.

Si ricorre all’argomento “principe”: se la maggioranza lo vuole, la maggioranza decide. Non è così. Alessandro Galante Garrone (quanto ci mancano oggi intellettuali come lui) citava Roger Williams, teologo padre della laicità dello Stato: il volere della maggioranza poteva valere only in civil things, solamente nelle cose civili. La regola democratica della maggioranza non poteva convertirsi in una sopraffazione dei diritti individuali e universali di libertà. Ignorare quello che accade in Africa, o semplicemente rispondere con i respingimenti, se è un volere della maggioranza, è un volere orrido e incivile. Bisogna avere il coraggio di opporsi, di restare minoranza, di apparire marginali per poter salvare se stessi e la giustizia.

Quello che sta accadendo in Africa e nel Mediterraneo è sconosciuto a gran parte dell’opinione pubblica italiana, e ci limitiamo a dire: non possiamo da soli risolvere problemi secolari.

Allora, la voce di chi ha visto in faccia quello di cui parliamo nelle sedi politiche, al bar o sui social, forse ci può aiutare a prestare attenzione almeno a un’eco della parola Umanità. Roberto Scaini, di Misano Adriatico, è uno dei molti medici che hanno lavorato da volontari sulle navi nel Mediterraneo, o nei luoghi di origine delle migrazioni.

«Quello che ho visto sulle navi va al di là di quanto immaginavo», racconta, «vedevo il terrore nei loro occhi, gli davo una pacca e dicevo “welcome on board”. Molti, anche solo sentendosi sfiorati si difendevano, altri non credevano fosse possibile avere un gesto amico. Venivano dall’inferno. Il barcone è solo l’ultimo dei rischi di una lunghissima catena. Paura di morire in mare? Certo che ce l’hanno; come ne hanno del deserto, degli stupri, di essere frustati, picchiati a sangue, lasciati senza acqua. Quella di morire in mare è quasi la morte meno violenta che si aspettano». Ecco una cosa che dovrebbe fare la sinistra: farli raccontare, ascoltare».

Non è quello che uno si aspetta. Nemmeno un medico come Scaini, che pure è stato in Siria, in Iraq, in Liberia e Sierra Leone colpite dall’epidemia di Ebola. «Per un medico che possano esserci morti per un’epidemia o guerre è terribile, ma razionalmente spiegabile. Quando vedi morti per malattie curabili, per denutrizione, per ingiustizia questo no. Non riesci a razionalizzarlo». «Bisogna sfatare un’altra bugia», prosegue Scaini, «pensare che la maggior parte viene in Europa perché si sta meglio è falso. Vengono in Europa perché dove sono non c’è la possibilità di vivere».

E inseguire una possibilità di vivere significa spesso morire. Gettati come una cosa, un rifiuto. «Un bambino, guardandomi negli occhi, mi ha raccontato di come sui camion per la Libia, quando un ragazzino o una ragazzina stavano male con febbre o dissenteria, li buttavano nel deserto lasciandoli alla morte». Il medico di Misano Adriatico, racconta con la voce rotta, quasi imbarazzato: «un medico non dovrebbe commuoversi... ma forse è importante, invece».

Roberto Scaini è uno dei moltissimi medici e operatori italiani - oltre 400 - che operano per Msf. Una comunità importante che sopperisce alle mancanze degli Stati, che dà lavoro. Pochi numeri, per dirlo: Medici senza frontiere conta oltre 34 mila operatori umanitari, dei quali 3 mila internazionali. Gli altri sono personale locale, tanto che in alcuni Paesi la Ong è il principale datore di lavoro. Nel 2016 le equipe di Msf sono state impegnate nei soccorsi in 67 Paesi, con il coinvolgimento di 402 operatori italiani.

E proprio in Italia Msf sta crescendo: lo scorso anno ha raccolto quasi 57 milioni di euro, con un aumento dell’8,5% rispetto all’anno precedente. La maggior parte dei fondi (94%) viene da privati, mentre il rimanente 6% da aziende e fondazioni.

Si è favoleggiato sui soldi alle Ong. Perché dovrebbero essere senza soldi? Perché si preferisce che i soldi siano nel calcio, nell’intrattenimento, nella moda, tutti mondi che riciclano sistematicamente o evadono, piuttosto che nell’impegno umanitario?

E i medici privilegiati? Un’altra grande menzogna. Il primo stipendio di un medico Msf è di 1.500 euro (a volte anche meno). Poi aumenta, ma rimanendo sempre inferiore allo stipendio di un ospedaliero. Mentire, mentire, mentire: è stato questo l’ordine sui social, nel dibattito politico.

«Ovvio che non si può pensare di salvare l’Africa trasferendola in Europa», conclude Scaini, «sarebbe stato come dire svuotare di persone il West Africa per guarire l’ebola. Ma si possono gradualmente portare avanti politiche di soccorso e politiche di riforma».

Nel 1893 ad Aigues Mortes, In Provenza, Francia meridionale ci fu un massacro di italiani compiuto da un gruppo di disoccupati francesi, caricati dall’odio verso quegli immigrati che rubavano il lavoro perché si accontentavano di salari da fame. A fermare la rabbia degli italiani contro francesi assassini di innocenti e dei francesi che consideravano gli italiani saccheggiatori di lavoro e che varcavano il confine per sporcare le loro strade e insidiare le loro donne, fu un socialista italiano, che mai come in questi anni risulta attuale piu che mai: Filippo Turati. Intervenne e mostrò che la soluzione cominciava con lo specchiarsi nelle miserie condivise. Invitò tutti i disperati in cerca di una nuova vita a provare ad avere «una sola testa e un solo cuore, una testa che conosca le cause della propria miseria e delle proprie divisioni e un cuore che lo spinga contro di esse. Allora finirà la baldoria dei patriottardi e le stragi fraterne fra lavoratori diverranno impossibili».

Tutto ciò che siamo, le nostre fragili democrazie, il diritto al voto, la libertà d’espressione, la libertà religiosa, la possibilità di leggere, ascoltare, manifestare, amare, tutto questo esiste perché i nostri diritti si fondando sulla libertà, sul rifiuto della guerra, sulle leggi. La storia della sinistra democratica nasce con il sogno concreto di liberare l’umanità dalla miseria e dall’ignoranza. Non può, in nome di una “concretezza”, tradire tutto ciò che è stata. Il silenzio della sinistra italiana è il suo requiem.

© Riproduzione riservata 14 agosto 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/08/10/news/j-accuse-roberto-saviano-1.307832?ref=HEF_RULLO
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« Risposta #146 inserito:: Agosto 16, 2017, 08:50:14 am »

Saviano: “L’Europa ha chiuso le frontiere e ci ha lasciato soli”
«Campagna di fango sulle Ong. Il codice del governo avrà drammatici costi umani»

Pubblicato il 15/08/2017 - Ultima modifica il 15/08/2017 alle ore 15:10

MASSIMO VINCENZI
Roberto Saviano, togliamo l’odiosa propaganda politica, ma facciamo chiarezza su un punto chiave: esistono Ong colluse con gli scafisti? 

«La risposta è categorica: no, contro di loro c’è una plateale caccia alle streghe. Non c’è nessuna sentenza definitiva e neanche di primo grado. Se parliamo poi del caso della Iuventa, bene, vediamo che cosa la magistratura dimostrerà, lasciamo fare il suo corso. Se dovesse riscontrare delle irregolarità sarà giusto andare a fondo, accertarne i motivi, ma va detto che la parola collusione significa interessi comuni, significa profittarne e nelle inchieste e nelle accuse di Trapani non c’è questo, non c’è l’accusa di aver preso soldi o di aver fatto attività a favore dei trafficanti, cioè per arrecarne un vantaggio. Le accuse sono tutte legate a sconfinamenti, disinvolture nell’opera comunque umanitaria. Se si guarda al mare emerge in modo sempre più inequivocabile, anche da rapporti indipendenti e dalla Corte penale internazionale, che ad essere collusa con i trafficanti, quindi un rapporto diretto, sarebbe piuttosto la guardia costiera libica, la stessa che l’Italia sta aiutando e supportando. Molte imbarcazioni partono dalla città libica di Zawiya a poco più di 40 km da Tripoli, lì è notizia pubblica e comune, il capo dei trafficanti è un ragazzotto, Abdurahman Al Milad Aka Bija, che tutti conoscono come Al Bija, nemmeno trentenne, spietato, ricchissimo, ebbene sapete cosa è diventato oggi? E’ il nuovo comandante della Guardia costiera della città. I giornali italiani raccontano poco la Libia, ma basta leggere i reportage della giornalista freelance, Nancy Porsia, per capire chi sia davvero alleato ai trafficanti, le Ong o la Guardia Costiera libica, che coincide con i trafficanti in molti casi. Ci siamo affidati ai trafficanti stessi, cosa l’Italia ha offerto ai trafficanti per non buttare più uomini in mare? Soldi, protezione, cosa? Questa caccia alle streghe è servita a questo, distrarre l’opinione pubblica, dando la colpa alle Ong che salvavano vite mentre la diplomazia italiana si accordava con trafficanti con la divisa della marina. A monte di tutto questo i veri alleati dei trafficanti sono le politiche europee. L’Europa ha chiuso tutte le frontiere e non ha lasciato un solo modo legale per trovare protezione». 
 
Ci sono buoni e cattivi tra i volontari? 
«Se sarà il caso sarà appunto la magistratura a fare questa mappa. In mare ci sono grandi Ong internazionali, con progetti in tutto il mondo, come piccole organizzazioni nate apposta appunto per salvare vite nel Mediterraneo. Tutte hanno operato sotto il coordinamento della Guardia costiera italiana, con l’obiettivo di salvare legalmente vite in mare. E tutte sono finite in qualche modo, a diverso titolo, sotto una grandinata di accuse, individuali o collettive, dai dibattiti politici ai bar, dai titoli dei giornali ovviamente ai social network, una girandola di fango chiaramente strumentale. Non c’è a oggi nessuna condanna su questo. Invece a oggi ci sono, come nel caso Msf, centinaia di prove giornaliere della loro attività in tutti i Paesi in difficoltà, in guerra. Spesso sono uniche presenze di assistenza. Su quello abbiamo la prova invece, sul resto ci sono solo ipotesi, spesso fumosissime». 
 
Qual è il criterio per giudicare il loro lavoro? 
«Le vite salvate. Molte hanno decine di anni di storia di presenze in territori in guerra, di rintracciabilità dei loro finanziamenti privati, non pubblici, quindi nessuna speculazione. Dei loro guadagni su cui si è favoleggiato: tutte balle. Ad esempio gli stipendi sono bassi: quelli di Medici senza frontiere guadagnerebbero molto di più lavorando in cliniche o anche in ospedali statali. Noi stiamo parlando di Ong che in questi anni hanno lavorato con la Guardia costiera italiana. Fondamentale ancor di più perché c’era completamente un’assenza degli assetti europei. Quindi noi abbiamo infangato Ong che lavoravano fino a ieri con lo Stato, in appoggio. In realtà queste carte girano da mesi, con stralci pubblicati, allusioni non confermate che hanno avuto l’unico obiettivo di scatenare un accanimento mediatico e popolare».
 
Perché alcune Ong aderiscono alle nuove regole del Viminale e altre no? 
«Il codice Minniti non è una legge per migliorare i soccorsi. C’erano già norme nazionali e internazionali che governavano il soccorso in mare sotto il coordinamento della Guardia costiera. E ribadisco: hanno consentito di salvare nella piena legalità migliaia di persone. Quindi non facciamo passare come stanno cercando di far passare tutti dalla Lega ai 5 Stelle al Pd, tutti, tranne rare eccezioni, che sino ad ora si è agito illegalmente. Sinora si è agito nel rispetto della legalità con la Guardia costiera italiana che si è avvalsa dell’aiuto delle navi delle Ong. Per cui le Ong hanno scelto nel nome della propria indipendenza di non voler diventare parte integrante di un sistema governativo. Anche perché, insomma, il codice non ha finalità puramente umanitarie. Rientra in un sistema più ampio che mira al controllo delle frontiere, contenimento delle persone in Libia. Quindi è un obiettivo politico-militare che, secondo le Ong, avrà drammatici costi umani».
 
Da attento studioso di organizzazioni mafiose: ci sono loro dietro questa nuova tratta degli schiavi? 
«Non abbiamo prove di un investimento delle mafie italiane in questo traffico. E’ ovvio che le organizzazioni criminali libiche sono ai vertici del traffico di esseri umani. Ricordo che la stessa veemenza che abbiamo sui migranti, non l’abbiamo sulla cocaina che arriva tutta dall’Africa a tonnellate a settimana. Quindi in realtà l’Europa non si blinda, non si chiude sul narcotraffico, si chiude su esseri umani. Le mafie non sfruttano le Ong, non hanno alcun interesse. Il trafficante libico mette sui gommoni questi disperati, fregandosene sia che questi vengano salvati o annegati, non gli importa nulla. E’ vero che invece le mafie guadagnano dai centri di accoglienza».
 
Cosa dovrebbe fare l’Italia? 
«Innanzitutto smetterla di attaccare le Ong che sono gli unici attori ad aver supportato il nostro Paese in un obbligo: l’obbligo di salvare vite. L’Europa ha lasciato tutto sulle nostre spalle, non istituendo un sistema di ricerca e soccorsi in mare, chiudendo tutte le frontiere, non condividendo le responsabilità dell’accoglienza. L’Unione è grande, i flussi sono stati ad ora gestibili: 362 mila arrivi nel continente nel 2016, 181 mila in Italia. Il problema vero è che non stiamo affrontando la questione in modo unitario. Per esempio, il regolamento di Dublino costringe l’Italia a doversi sobbarcare tutto da sola, portandoci a voler respingere i migranti a tutti i costi. In tutto questo il risultato? Che abbiamo trovato come unico interlocutore possibile la Libia». 
 
L’immigrazione è diventata un problema quasi esclusivamente di sicurezza, non servirebbe una politica culturale? 
«Per riparare a questi sei mesi di polemiche, haters e menzogne anti migranti ci vorranno purtroppo 10 anni di rieducazione. Dieci anni che dovranno essere accompagnati da azioni culturali importanti, per esempio raccontare nelle scuole fin dalle elementari che cosa è stato fatto all’Africa, cosa è oggi l’Africa, il Medio Oriente. Le classi italiane sono sempre più piene di figli di migranti: bambini italiani nati da genitori stranieri. Da lì partirà tutto questo: il cantante che quest’estate è stato più ascoltato in Italia è Gali figlio di madre e padre tunisini, nato a Baggio. Quasi tutti sentono che la pancia del Paese è contro i profughi e quindi si cavalca la paura, se prendi una posizione più complessa hai una risposta fredda e di diffidenza». 
 
C’è il rischio di infiltrazioni Isis sui barconi? 
«Questo è l’ennesimo spauracchio di questa manipolazione che stanno facendo, parlando di armi e droghe sulle navi dell’Ong: bugie. Non si può pensare che i miliziani dell’Isis vadano in battaglia rischiando la vita su un barcone. Anche solo a guardare le statistiche, che vedono migliaia di persone arrivate dal mare negli ultimi anni, si dovrebbe porre fine all’equazione che siano proprio loro a compiere operazioni terroriste anche semplicemente ideologiche, non solo militari».
 
Altro tema come già accennato è l’integrazione sul territorio. I Cie e simili sono un fallimento, perché? 
«Sono un limbo, lontani dai centri abitati, da qualunque contatto normale con la società: in questo modo è chiaro che crei la divisione e impedisci alle persone di integrarsi, lavorare iniziare, fare una vita normale. La costringi ad un isolamento alienante. Tra l’altro i posti dell’accoglienza ordinaria non bastano e quindi ci si aiuta o meglio ci si affida alla accoglienza straordinaria, bisognerebbe prendere professori che possano insegnare l’italiano, psicologi che possano sostenere i migranti: sono operazioni molto semplici da poter fare, che aiuterebbero moltissimo». 
 
Cosa accadrà adesso con il ritiro di alcune Ong dal Mediterraneo? 
«Senza navi di soccorso ci saranno più morti e soprattutto non ci saranno più testimoni indipendenti. L’obiettivo primo dell’attacco all’Ong è non avere testimoni lì. I testimoni sono scomodi. Certo se nel frattempo la disumana strategia di contenimento funzionerà, ci saranno anche meno persone da soccorrere in mare, perché saranno intrappolate nell’inferno dei centri di detenzione in Libia».
 
Per chiudere, una frase di speranza, è possibile arrivare ad essere una società multietnica? 
«Basta smetterla con le bugie. È necessario che tutte le persone imparino a rifiutare l’aggressività, che siano pronte a cambiare idea, che decidano di approfondire e che se non condividano non diffamino, non insultino o non usino toni di condanna di ciò che non sanno, ecco la speranza risiede in queste persone. Se esistono persone ancora disposte a non scegliere la soluzione più semplice o più brutale, se riusciremo a far rivivere questo spirito allora significa che non tutto è perduto».

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« Risposta #147 inserito:: Febbraio 08, 2018, 06:22:09 pm »

Roberto Saviano
L'antitaliano

Il paese salvato dagli immigrati

Petruro Irpino, duecento abitanti, decide di accogliere venti rifugiati. Per fermare il calo demografico. L’esperimento riesce
Diego Bianchi e Pierfrancesco Citriniti sono andati a Petruro Irpino, uno dei paesi più piccoli d’Italia, con una semplice telecamera e armati di curiosità umana per raccontarci una storia di inclusione. Oserei quasi dire per raccontarci una storia normale, se non fosse che storie come questa in genere non trovano facilmente spazio in televisione.

Un servizio andato in onda due venerdì fa su La7 a Propaganda Live, reperibile facilmente su YouTube e che vi consiglio di vedere. Un servizio il cui costo complessivo credo sia quantificabile in benzina e autostrada Roma-Petruro Irpino perché vitto e alloggio, a Diego e Pierfrancesco, sono stati offerti dagli abitanti del paese, 200 autoctoni e 20 immigrati. Ed è proprio questa la storia che ci raccontano, quella di 220 persone che vivono in un paesino da sempre demitiano, nel quale il sindaco, visto il drammatico calo demografico, decide di avviare un programma di accoglienza per provare a salvare la sua terra da morte certa. Eh sì, perché anche un luogo può morire, e precisamente muore quando non c’è più nessuno che crede nelle sue potenzialità, quando i giovani vanno a dormire pensando di stare sprecando gli anni migliori della loro vita e si alzano ogni mattina con la stessa domanda nella testa: «Ma che cosa ci faccio ancora qua?».

Quindi il sindaco, senza indire alcuna assemblea cittadina perché si sa, nel mucchio vincono le paure e perde il ragionamento, parla con gli abitanti del suo paese, uno a uno, e li convince che non c’è nulla da temere, ché gli immigrati non sono un pericolo per loro, ma una risorsa. Quanto è usurata - starete pensando - questa espressione: gli immigrati non sono un pericolo ma una risorsa, e quanta poca fiducia vi è rimasta ormai nella capacità di accogliere gli stranieri che ha l’Italia senza lucrare, senza sperperare, senza togliere a chi già ha poco. Ma se vi manca la fiducia non è colpa vostra; se vi manca la fiducia è solo perché a mancare è quel segmento di informazione necessario, direi anzi fondamentale, per completare un quadro meno cupo di quanto non si creda. Non concordo con chi dice: colpa vostra che non sapete, le informazioni esistono, dovete solo cercarle. Le informazioni esistono, certo, ma la funzione di chi le produce e di chi può raccontarle è renderle chiare anche a chi non ha dimestichezza, per esempio, con i new media. Saper fare un post su Facebook o su Instagram non significa saper valutare la veridicità di una notizia, e scorgo un certo malcelato classismo in chi dice: se stai sul web devi anche essere capace di orientarti.

Diego Bianchi e Pierfrancesco Citriniti (Zoro non ha bisogno di presentazioni, ma se non conoscete Pierfrancesco, vi perdete ragazzo corpulento e simpatico, un molisano giovane ma antico, che qualche mese fa durante un servizio a Grisciano, comune totalmente raso al suolo dal terremoto, si mise ad aggiustare caldaie in tutto il paese) ci danno quel segmento di informazione che mancava, quasi un frammento, ma fondamentale per capire noi italiani chi siamo. E che non lo sappiamo chi siamo? Certo che sì, ma non capita anche a voi di sentirvi descrivere come mai avreste immaginato? Timorosi, chiusi, sospettosi, razzisti. Ecco, razzisti. Ma voi davvero ce la fate a sentirvi descrivere come un popolo di razzisti? E allora, se non siamo razzisti, cosa siamo? Siamo i figli, i nipoti o i pronipoti di uomini e donne che hanno sofferto gli stenti delle guerre. Di uomini e donne che hanno perso genitori, fratelli e sorelle, che hanno perso le case, che si sono dovuti rifugiare in gallerie o sulle montagne, in ricoveri di fortuna per scampare ai bombardamenti. Noi questo siamo e non ce lo possiamo dimenticare: siamo eredi di questa sofferenza e quindi anche eredi di chi non può immaginare di abbandonare al proprio destino chi soffre ora, anche se questo dovesse significare condividere le nostre risorse. I 200 abitanti di Petruro Irpino, dal 2016, ospitano un progetto Sprar destinato a 20 richiedenti asilo, di cui 14 posti per nuclei familiari e 6 per nuclei familiari monoparentali. La vita del paese e dei suoi abitanti è cambiata in meglio. Ecco, è questo il segmento che solitamente manca e cioè la seconda parte della narrazione: come stai dopo che hai accolto? Come cambia la vita della tua comunità? La risposta è sempre la stessa: meglio.

05 febbraio 2018© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/l-antitaliano/2018/02/01/news/il-paese-salvato-dagli-immigrati-1.317818?ref=RHRR-BE
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« Risposta #148 inserito:: Marzo 09, 2018, 06:23:55 pm »

Il Sud abbandonato e la scelta di abbracciare i partiti della rabbia

Oltre alle promesse di politiche assistenziali, sul voto meridionale ha pesato la sfiducia (giustificata) verso i potentati politici tradizionali

Di ROBERTO SAVIANO
08 marzo 2018

Chi ha vinto e chi ha perso le elezioni politiche in Italia? È fin troppo chiaro e le percentuali sono sotto gli occhi di tutti, quindi non partirei dai numeri per raccontare cosa questo voto significhi. Preferisco partire da quella parte di Italia dove spesso le cose si riescono a leggere in maniera più chiara, quella parte di Italia che meno è entrata in questa campagna elettorale e che meno entra in tutte le campagne elettorali ormai da moltissimo tempo. Quella parte di Italia dove le forze politiche amano dragare voti, ma che, finché possono, evitano come la peste. Partiamo dal Sud Italia che ci siamo abituati a considerare feudo di Berlusconi e, allo stesso tempo, sede di un forte consenso al Partito democratico retto da ras locali che per decenni hanno assicurato valanghe di voti.

E proprio Forza Italia e Pd, in queste politiche, hanno vissuto un'emorragia di elettori confluiti in Lega e M5S. Quest'ultimo, con la promessa del reddito di cittadinanza, ha avuto un consenso quasi plebiscitario proprio nelle regioni in cui, non esistendo un'economia competitiva, l'unica speranza è la politica dei sussidi.

E anche in questo caso - sono anni che ne scrivo! - il Sud Italia è una ferita attraverso cui si può guardare lontano. Accade che siano proprio le regioni del Sud, abbandonate dalla politica nazionale e tenute fuori dal dibattito pubblico, a condizionare la direzione che il Paese intero è destinato a prendere.

Ma oltre alle promesse di politiche assistenziali, sul voto al Sud, soprattutto in Campania, ha pesato la sfiducia (più che giustificata) verso i potentati politici tradizionali. Dal caso mediatico-giudiziario seguito all'inchiesta di Fanpage.it è emerso un quadro sconfortante di corruzione, malcostume, familismo e conflitto di interessi; è stata la conferma, per molti italiani, che i partiti che fino a questo momento hanno avuto in carico la gestione della cosa pubblica non sono altro che centri di potere marci e che da loro nulla di buono ci si può aspettare.

Naturalmente non concordo con questa generalizzazione; i partiti sono composti da persone e ciascuno risponde della propria onestà, del proprio lavoro e del proprio impegno, ma qui non si tratta di ciò che penso io, quanto piuttosto del sentimento che hanno provato gli italiani di fronte all'ennesima conferma dell'inadeguatezza dei partiti tradizionali. Le inchieste, gli scandali, le prassi disinvolte e spregiudicate hanno spinto molti elettori del Sud ad accorciare il proprio sguardo, a smetterla di puntare all'Europa per iniziare invece a occuparsi e preoccuparsi solo di ciò che accade a un metro da sé. Come si può pensare all'Europa se le cose qui non vanno bene? Lo scetticismo diffuso è stato una chiamata alle armi e il partito che più di tutti ha risposto al bisogno di essere coinvolti in prima persona è il M5S.

È evidente che la promessa di rottamazione di Matteo Renzi è stata rottamata da Renzi stesso e dall'unico modo che ha trovato in questi anni per occuparsi di Sud: la plateale promessa della costruzione del ponte sullo Stretto di Messina (cavallo di battaglia del più becero berlusconismo) e la Apple Developer Academy di Napoli, spacciata come il primo segnale di una ripresa economica sul territorio. Un corso per sviluppatori Apple, un unico corso e per giunta calato in un contesto economicamente depresso, avrebbe dovuto fruttare a Renzi il titolo di "amico del Sud". Una presa per i fondelli.

L'abbandono del Sud da parte dei partiti tradizionali ha portato a una necessità di partecipazione, talvolta spinta fino alle estreme conseguenze e incline a stravolgere prassi politiche e regole, pur di sentire che il proprio voto, che la propria preferenza ha avuto un effetto reale. Gli italiani, oggi, soprattutto gli italiani del Sud, vogliono sapere esattamente come il loro voto cambierà la loro quotidianità; e se le aziende continueranno a delocalizzare il lavoro, se il lavoro nel Sud Italia resterà una speranza frustrata, almeno vogliono la certezza che chi governerà si occuperà di loro, solo di loro, prima di loro.

E molti diranno: ecco che nasce il partito della rabbia, ma di che rabbia stiamo parlando? Ancora di una rabbia cieca? Ancora di un voto di ribellione? No. Il voto al M5S e alla Lega (ormai partito nazionale che aspira a rappresentare tutti) non è un voto esclusivamente di ribellione, ma è un voto ormai ragionato che, tra le altre cose, avrebbe il merito di aver asciugato (e molto) il voto di scambio. Questa volta l'elettorato è stato coeso nel dare consenso a due partiti che sono specchio fedele dei loro elettori. Il voto non è stato semplicemente un voto di protesta o di opinione, ma un voto di identità.

Lo storytelling renziano ha prodotto malanimo che a sua volta ha innescato una sorta di egoismo sociale. Ormai quello che mi interessa è che a stare bene sia io, quindi quella forza politica che promette attenzione a me che sono italiano è l'unica che posso ascoltare. Quella che mi promette il reddito di cittadinanza in un Sud dove non solo manca il lavoro, ma anche la speranza di lavoro, sta parlando proprio a me.

In Campania il M5S ha stravinto, e la sua vittoria si configura come un voto di liberazione dal presidente della Regione Vincenzo De Luca, che è espressione di quella politica che Renzi aveva promesso di rottamare. A Sud Renzi aveva due possibilità: un percorso lungo di riforma, che significava scelta di candidati nuovi, oppure affidarsi ai feudi elettorali - un voto un lavoro, un voto un favore - e ottenere velocemente vittoria sperando dall'alto di far cambiare rotta al Sud una volta preso il potere. Ha scelto la strada più semplice e, sul tema politico più importante, non è riuscito a impegnarsi su una strada di trasformazione.

Il ragionamento avvenuto al Sud è questo: se il Pd mi ha sempre proposto belle idee, apertura, giustizia, ma poi non è mai riuscito a darmi nulla di tutto questo o ad avvicinarsi, allora preferisco l'assenza di progetto morale, preferisco ragionare rispetto a ciò che mi conviene adesso e che può non convenirmi domani, preferisco un movimento che non è né di destra né di sinistra, che si definisce post-ideologico, che non si pone questioni morali, che rivendica con orgoglio la propria incoerenza: un giorno europeisti e un giorno antieuropeisti; un giorno provax e un giorno antivax. M5S e Lega non hanno preso in giro gli elettori, tutto era palese, tutto cambiava di giorno in giorno - un flusso continuo di notizie orecchiate, story di Instagram, post su Facebook e qualche Tweet - a seconda dei sondaggi.

Finanche i casi di cronaca nera (Macerata docet) sono stati utilizzati per fare comunicazione politica. E paradossalmente questo agli italiani è piaciuto, la possibilità di non avere obblighi morali, di poter essere liberamente incoerenti a seconda delle esigenze del momento.

Essere elettore di un partito progressista presuppone portare sulle proprie spalle valori che nemmeno il partito per cui voti segue più. E allora che senso ha? Perché vivere il dissidio tra una coerenza autoimposta, e per cui bisogna quotidianamente lottare, e la possibilità di essere egoisticamente liberi?

Il M5S agli elettori del Sud non ha dato alcuna soluzione su come far partire davvero l'economia, se non banali ricette di razionalizzazione delle spese e generiche promesse di lotta alla corruzione. Ha dato però una cosa ben più grande: bersagli da colpire. Ha capitalizzato la frustrazione, non chiedendo in cambio condotte di comportamento diverse, anzi, supportando sintassi da haters e impiantando una politica basata sulla percezione della realtà e non sulla realtà.

Ma alla rivendicazione della mancanza di coerenza, la Lega aggiunge un dettaglio che faremmo bene a non trascurare, ovvero la libertà di essere anche cattivi. Salvini, che senza distinzione di età, sesso e provenienza manderebbe via tutti gli immigrati, che ha sempre disprezzato il Meridione e che ora si presenta come leader di tutto il Paese, giurando sul Vangelo sembra aver detto: essere contrari all'accoglienza, utilizzare un eloquio violento e apertamente razzista non è in contraddizione con le radici cattoliche. La devozione di Salvini per il Vangelo è identica a quella che hanno i boss della mafia per la Madonna: si può essere cristiani parlando in quel modo di chi scappa dalla miseria e dalla guerra? No. Si può credere nel Vangelo e impedire a migliaia di bambini nati in Italia di avere la cittadinanza? No.

In Italia il 4 marzo ha vinto il malessere, non ha vinto la speranza e non ha vinto la voglia di un futuro migliore. Il 4 marzo ha vinto l'idea di Stato chiuso, di nazione con confini alti e invalicabili, invalicabili per gli esseri umani ma non per i capitali criminali (per loro le frontiere sono sempre aperte). Il 4 marzo ha vinto l'euroscetticismo, trainato dell'America di Trump e dalla Brexit, e ha perso l'idea di un'Europa unita e fiera dei suoi diritti, che l'avevano resa il posto migliore in cui vivere. Il 4 marzo ha vinto una strana forma di nichilismo che, proclamando la propria libertà da ogni coerenza, diventa libertà di essere cattivi.
Ma qual era l'alternativa? Questa volta non c'era. Lega e M5S hanno vinto perché dall'altra parte non c'era niente. Più niente.

© Riproduzione riservata 08 marzo 2018

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni2018/2018/03/08/news/il_sud_abbandonato_e_la_scelta_di_abbracciare_i_partiti_della_rabbia-190731672/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1
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« Risposta #149 inserito:: Aprile 17, 2018, 08:57:09 pm »

Il carcere che dimentica l'uomo e la politica senza coraggio
La riforma dell’ordinamento penitenziario, maltrattata dal pavido governo uscente e che con ogni probabilità verrà bloccata dal governo che verrà, era stata concepita proprio per ottenere una diminuzione della recidiva, un carcere più umano e una società più sicura

Di ROBERTO SAVIANO
13 aprile 2018

Vorrei fare un esperimento. Se vi dicessi che i detenuti che, dopo attenta osservazione e parere positivo dei magistrati di sorveglianza, quindi non scelti in maniera arbitraria, hanno accesso a misure alternative al carcere, che possono uscire per lavorare, che possono avere contatti con l’esterno, tornano a delinquere in percentuali molto al di sotto del 30%, cosa rispondereste? E se poi vi dicessi che, al contrario, chi sconta l’intera pena in carcere, senza la possibilità di accedere a pene alternative, torna a delinquere nel 70% dei casi?

Immagino pensereste che per il bene di chi sta dentro e anche di chi sta fuori sarebbe preferibile che il carcere fosse luogo di rieducazione e reinserimento e non un parcheggio o, peggio, una discarica sociale. E se vi dicessi che invece in Italia, tranne rarissime e sporadiche eccezioni, il carcere è proprio una discarica sociale? Se vi dicessi anche che il malfunzionamento delle strutture penitenziarie non è da addebitare a direttori e guardie carcerarie, ma a strategie politiche fallimentari, cosa rispondereste?

Chiunque, a vario titolo, abbia a che fare con il carcere, detenuti e loro familiari, giuristi, avvocati, associazioni che si occupano di diritti dei detenuti, educatori, direttori e personale che lavora nei luoghi di detenzione, tutti loro e anche noi, abbiamo oggi come unico avversario comune una politica priva di coraggio e spesso anche di competenze, sorda e cieca a ogni sollecitazione, a ogni richiamo e, finanche, a ogni richiesta d’aiuto. Oltre 10 mila detenuti hanno aderito nei mesi scorsi a un grande sciopero della fame, mettendo in atto una protesta nonviolenta insieme a Rita Bernardini, perché il governo uscente approvasse definitivamente i decreti attuativi della riforma dell’ordinamento penitenziario. Ma non è servito a nulla, come a nulla è servita la condanna dello Stato italiano da parte della Corte europea dei Diritti dell’Uomo per sistematici trattamenti inumani e degradanti nelle carceri del nostro Paese.

E se vi dicessi che la riforma dell’ordinamento penitenziario, maltrattata dal pavido governo uscente e che con ogni probabilità sarà bloccata dal governo che verrà, è stata concepita proprio per ottenere una diminuzione della recidiva, un carcere più umano e una società più sicura, cosa mi rispondereste? Sareste forse d’accordo con me nel considerare fondamentale una riforma delle carceri in tal senso. Ma se è così, perché la politica pensa che voi non siate d’accordo?

La politica rincorre il consenso e spesso lo ottiene, ma è un consenso effimero, destinato a crescere o a diminuire a seconda di avvenimenti che poco o nulla hanno a che fare con la reale capacità di amministrare o governare. Ormai si dà per scontato che dopo i fatti di Macerata la Lega abbia aumentato il suo consenso elettorale perché all’omicidio di Pamela Mastropietro ha risposto con una propaganda che al primo posto poneva la tolleranza zero verso tutti gli immigrati. Parole, e non fatti, che sono seguite a una tragedia utilizzata per fare campagna elettorale. Nessun merito politico: è ormai così che sempre più spesso i partiti guadagnano consenso, approfittando di eventi che esulano dal proprio lavoro e da effettive capacità.

E quindi anche una riforma che aggiunge civiltà viene comunicata come un «regalo ai mafiosi» e utilizzata come ulteriore terreno di scontro. Quello che è accaduto, in breve, è questo: il governo uscente, impegnato in questa riforma per anni, per paura del vostro parere contrario in vista delle elezioni, un parere emotivo e non basato sulla conoscenza, non ha avuto il coraggio di farla passare quando avrebbe potuto, tirando tutto per le lunghe e arrivando così a ridosso del 4 marzo. Ma perché, vi starete domandando, il governo uscente ha avuto paura del vostro giudizio? Perché vi immaginava sobillati da chi, ancora oggi, spaccia questa riforma di civiltà per un regalo ai criminali. E così agendo, ha abdicato al proprio compito provando solo e inutilmente ad arginare l’emorragia di voti dal Pd.

E ora M5S, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, nella riunione dei capigruppo alla Camera tenutasi martedì scorso, hanno negato l’accesso di questa riforma all’esame della Commissione speciale della Camera, facendo in modo che venga discussa non si sa quando dalle commissioni ordinarie. Ovviamente questa decisione è l’anticamera della disfatta totale, poco o nulla importa che in gioco ci siano le vite dei detenuti e che da questo fallimento non ci guadagnerà nessuno, anzi perderemo tutti.

Nel frattempo, dall’inizio dell’anno, ci sono già stati dieci casi accertati di suicidio nelle carceri italiane, 8 mila sono i detenuti di troppo e 70 i minori che scontano la detenzione insieme alle loro mamme. E il carcere continua a essere una scuola di crimine che nulla insegna, che non riabilita, ma finisce di rovinare chiunque ci entri.

Un mese fa sono stato in visita a Poggioreale insieme a Rita Bernardini e a Radio Radicale, una educatrice ci ha detto senza troppi giri di parole che il carcere ora è un luogo di radicalizzazione: si entra criminali alle prime armi, criminali per caso o anche per necessità e si esce criminali veri, con contatti seri, perché, non potendo fare altro, durante la detenzione si cerca di pianificare la propria vita fuori. Inoltre chi oggi entra in carcere in Italia uscirà marchiato a fuoco e nella vita non potrà fare altro che delinquere, perché nessuno sarà disposto a dargli una seconda possibilità.
E intanto la criminalità organizzata ringrazia la politica italiana che ancora una volta le ha fatto un dono prezioso: manovalanza e affiliati che noi trattiamo come feccia, ma che per le mafie sono “forza lavoro” indispensabile.

E io ringrazio il Pd per la sua mancanza di coraggio e M5S, Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia per l’incoscienza e il cinismo. Ma resta forse una flebile speranza a cui di nuovo ci aggrappiamo per vedere rispettati i diritti fondamentali di tutti gli individui; resta infatti, come ultima spiaggia, appellarsi ai presidenti di Camera e Senato perché riconsiderino la decisione della conferenza dei capigruppo di non assegnare il decreto legislativo di riforma del sistema penitenziario alla Commissione speciale.

Presidente Fico, mi rivolgo a lei: si dice che sia di sinistra, che abbia a cuore gli ultimi. Ebbene, in carcere ci sono gli ultimi tra gli ultimi. Onori, dunque, il Parlamento e la sua funzione e non consenta che un provvedimento necessario e già approvato non trovi attuazione. Presidente Casellati, non so come la pensi lei sugli ultimi, ma dimostri che non è vero che per Forza Italia i diritti dei detenuti sono importanti solo se si tratta di potenti caduti in disgrazia.

E un favore ho da chiederlo anche a voi che leggete: visitate un carcere qualsiasi, cogliete ogni occasione possibile di contatto con il mondo della detenzione, fatelo per voi stessi, fatelo per i vostri figli, fatelo perché per deliberare (ma anche più banalmente per scrivere un post) è fondamentale conoscere.

© Riproduzione riservata 13 aprile 2018

Da - http://www.repubblica.it/politica/2018/04/13/news/il_carcere_che_dimentica_l_uomo_e_la_politica_senza_coraggio-193801164/?ref=RHRS-BH-I0-C6-P2-S1.6-T1
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