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Autore Discussione: ROBERTO SAVIANO  (Letto 81714 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Dicembre 24, 2012, 06:58:44 pm »

Cultura
24/12/2012 - I Libri del 2013

Saviano e i suoi fratelli quando il gioco si fa duro

Roberto Saviano approda da Feltrinelli con “000” che racconta il traffico mondiale della cocaina

In primavera il nuovo romanzo-saggio sulla cocaina, sette anni dopo “Gomorra”.

I titoli più attesi in dodici mesi che si annunciano difficili anche per l’editoria

Mario Baudino

Potrebbe essere il libro dell’anno, certamente è uno dei più attesi: per OOO di Roberto Saviano è cominciato il conto alla rovescia in casa Feltrinelli. La data d’uscita è ancora incerta, ma dovrebbe essere in primavera, e come ci dice il direttore editoriale Gianluca Foglia si sta ormai lavorando su «una prima versione quasi completa». Com’è noto il libro (nella forma del saggio narrativo, la stessa di Gomorra) racconta lo smisurato affare del traffico internazionale della cocaina, le cui dimensioni sono ormai una vera minaccia per l’economia planetaria. A sette anni dall’opera che gli ha segnato la vita, gli ha dato il successo mondiale e lo ha costretto, dopo le minacce della camorra, a un’esistenza blindata, lo scrittore si confronta con un’opera di vasto respiro e di grande impegno, non legata a un’occasione specifica come è per i libri pubblicati successivamente.

 

Di 000 già si parlava quando ancora Saviano era un autore Mondadori. Ora tutto è cambiato: non solo l’editore, ma anche l’agente letterario, dato che lo scrittore napoletano ha lasciato Roberto Santachiara per Andrew Wylie, l’agente globale dei big del mercato di qualità. Sarà quest’ultimo a occuparsi del lancio all’estero - Saviano ha contratti com’è ovvio in tutti i Paesi e in tutte le lingue -, che non è tuttavia previsto troppo presto. Prima, assicurano alla Feltrinelli, uscirà la versione originale in italiano.

 

Nuovi nati 

Alle porte di un anno che si annuncia difficile per l’editoria, con previsioni molto pessimistiche per i primi mesi aggravate dalle elezioni politiche di febbraio (la chiamata alle urne svuota da sempre e irrimediabilmente le librerie), la parola d’ordine è selezione «dura» fra i titoli, e poche avventure. Anche se c’è chi rilancia: Feltrinelli ripropone in nuova veste la Universale economica, e comincia con Saviano (il libro di Vieni via con me). Rcs libri ha appena «resuscitato» il marchio Fabbri, che proporrà una collana sull’alpinismo e le imprese estreme. Ma il direttore libri Massimo Turchetta non si è fermato qui. Prima dell’estate, ci dice, nasce un nuovo marchio editoriale autonomo, «Rizzoli controtempo», con vocazione generalista e stile non paludato. Debutterà con un libro di Serena Dandini, tratto da un suo spettacolo.

 

Il libro del Mister 

Nell’ambito di questa filosofia editoriale due le sorprese più ghiotte, ameno per una certa fascia di pubblico: in primavera un libro di Andrea Pirlo (per Mondadori) e più in là, forse nella seconda metà dell’anno, un altro del suo allenatore, Antonio Conte (Rizzoli). I due campioni si raccontano un po’ sul modello del fortunato e lodatissimo Open di Andre Agassi. Le occasioni per uscire in tandem con qualche bel trionfo della Juventus non dovrebbero mancare.

 

Duello al pianoforte 

Né mancheranno i duelli: per esempio, a gennaio esce sempre per Rizzoli un’esordiente di cui già si parla molto bene, Emanuela Ersilia Abbadessa, con Capo scirocco, storia ambientata nella Sicilia del secondo Ottocento, fra amore, passione, musica e ombre. Soprattutto ombre: per esempio quella di un pianoforte, «la più grande cosa nera» che il protagonista, orfano un po’ dickensiano molto dotato per la musica, abbia mai visto in vista sua, quando la scopre nel porto di Catania. E dall’Inghilterra arriva (postumo) Madame Sousatzka, di Bernice Rubens, scomparsa nel 2004 e ricordata anche perché agli esordi vinse il Booker Prize e vendette pochissime copie. Questo romanzo (pubblicato da Astoria) divenne anche un film con Shirley MacLaine: è la storia di un piccolo genio del pianoforte, e della sua insegnante; cattivissimo, un po’ alla Muriel Spark, e commovente. 

 

Le sorprese 

I lettori di Don De Lillo sono abituati ai romanzi fiume. Ebbene, questa volta saranno forse un po’ spiazzati. Uscirà infatti per Einaudi L’Angelo Esmeralda, una raccolta di short story, anzi più precisamente tutti i racconti scritti negli ultimi trent’anni; mentre forse sulle orme di Saramago - o del Papa? - J. M. Coetzee si misura con L’infanzia di Gesù: un ragazzino alla ricerca della madre che finisce in un Paese molto simile al Messico. Uscita prevista dallo Struzzo, l’autunno. 

 

E i ritorni 

Da Vendetta e sangue di Wilbur Smith (Longanesi) a Pietro Citati che rilegge il Don Chisciotte (Mondadori), dal Nobel Kenzaburo Oe che torna con Il bambino scambiato (Garzanti) a Susanna Tamaro che inaugura l’anno alla maniera di Rilke con Ogni angelo è tremendo (Bompiani), senza dimenticare il ritorno al romanzo di Simonetta Agnello Hornby con Il veleno dell’oleandro (Feltrinelli), e quello alla guerra civile spagnola di Javier Cercas (titolo originale La leyes de la frontera, uscirà per Guanda), o ancora una nuova avventura di Andrea Camilleri per Sellerio: contro le caligini della crisi si mobilita l’usato sicuro. Ma non senza speranze di bestseller, magari propiziato da qualche esordiente. Le Edizioni Nord credono fermamente in Valentina Giambanco, italiana che vive a Londra, e nel suo thriller Il dono del buio. Longanesi si attende molto in L’amore è un difetto meraviglioso dell’australiano Graeme Simsion, libro contesissimo all’ultima Buchmesse. Il titolo c’è, per il resto, buon anno.

da - http://lastampa.it/2012/12/24/cultura/saviano-e-i-suoi-fratelli-quando-il-gioco-si-fa-duro-bxdxjardSXNewoRsAu9ELP/pagina.html
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« Risposta #106 inserito:: Gennaio 18, 2013, 11:36:20 pm »

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L'antitaliano

Perché inventai "salire in politica"

di Roberto Saviano

L'espressione 'scendere in politica' evoca la deresponsabilizzazione del berlusconismo.

Ora che il suo contrario è usato da Monti c'è da sperare che non sia solo un calco letterario (versione integrale)

(07 gennaio 2013)

Le ultime performance televisive di Silvio Berlusconi sono degne dei tempi andati. Eppure la nostra memoria fa scherzi e a volte cancella i momenti più bui. Negli anni del governo Berlusconi fare informazione in tv, parlare di 'ndrangheta al Nord, del terremoto dell'Aquila, di rifiuti in Campania, per una certa parte politica significava voler entrare sotto mentite spoglie in campagna elettorale. Chiunque facesse informazione, era visto come un candidato in cerca di consenso e voti. Tutti: direttori di giornali, reporter, scrittori. I soliti giornali di area berlusconiana annunciavano la mia candidatura. Poco importa che siano stati smentiti: questo tipo di stampa non cerca conferme, non chiede scusa. Ricordo che mi veniva sempre domandato se sarei "sceso in campo". Iniziai così a interrogarmi su quanto Silvio Berlusconi avesse condizionato anche nel linguaggio quotidiano l'approccio che noi italiani avevamo alla politica. Iniziai a pensare a quello "scendere in campo" che solo il presidente di una delle squadre di calcio più forti d'Italia poteva aver deciso di utilizzare come metafora politica. Quindi con "Forza Italia" - privandoci anche di una formula elementare che ciascun italiano utilizzava per la nazionale di calcio - il presidente del Milan aveva deciso di "scendere in campo" e di vincere in politica tutte le coppe esistenti, come facevano i suoi campioni rossoneri. Berlusconi ci avrebbe fatto sognare come Van Basten, Gullit, Maldini, Baresi.

BENIGNI RACCONTÒ a Enzo Biagi che nel linguaggio contadino "scendere in campo" era un modo per dire "vado al bagno"... in politica, pensai, non si scende, piuttosto si sale. La politica non è un gioco, non è uno sport. Ma a pensarci ora, magari lo fosse. Magari ci fosse in politica la lealtà richiesta a tutto lo sport, magari ci fosse l'affiatamento necessario per gli sport di squadra. La politica è il più alto degli impegni civili. O almeno dovrebbe esserlo. Che in politica non si scende, ma si entra, si sale, per la prima volta ricordo che lo dissi a Berlino, al Volksbühne, il teatro dove fu girato il film "Le vite degli altri" e dove, prima di raccontare quel che avevo preparato, fui costretto a fare una lunga premessa alla platea tedesca sulla situazione politica italiana. Salire in politica significa elevarsi a qualcosa di più alto. Scendere in politica, non è solo una metafora calcistica, ma anche un modo per deresponsabilizzarsi.

ORA CHE QUESTA ESPRESSIONE è stata usata dal professor Monti, mi aspetto che non sia solo un calco letterario. Molti mi chiamano illuso, ma se davvero in politica si sale, allora che non sia solo a parole, non sia solo una bella espressione letteraria sulla quale quotidiani e telegiornali hanno potuto sprecare fiumi di parole. E magari oltre a mutuare questa espressione, in campagna elettorale, sarebbe importante che Mario Monti si occupasse di giustizia ragionando su una riforma del sistema giudiziario allo sfascio, si occupasse di criminalità organizzata, di diritti civili. Soluzioni che già da un governo tecnico ci saremmo aspettati. La priorità delle riforme sociali è stata subordinata alla priorità delle scelte fiscali ed economiche. Che questo equilibrio possa capovolgersi. Leggendo l'Agenda Monti, l'argomento mafie è affrontato nelle righe finali. Si fa cenno alla possibilità di salvare le aziende sottratte alle mafie favorendo il loro reinserimento nell'economia legale. A velocizzare i tempi tra sequestro e confisca.
Ma manca la possibilità di monitorare e costruire nuove leggi per contrastare il riciclaggio nel sistema finanziario italiano. Le banche americane ed europee stanno attraversando una fase di analisi e approfondimento delle proprie attività perché è ormai chiaro che hanno avuto un ruolo attivo nel riciclaggio di danaro sporco. Ma davvero possiamo credere che le banche italiane facciano eccezione? Sarebbe cosa singolare se le organizzazioni criminali avessero scelto di non interfacciarsi con gli istituti italiani mentre lo facevano con le banche del resto del mondo... o manca piuttosto la volontà di scoprire i rapporti tra le banche italiane e le organizzazioni? Un'ultimissima cosa: scendere o salire in politica non dipende dal rango, come Berlusconi ora dice. Non si sale perché si è di rango inferiore e si scende perché si è di rango superiore. In politica "si serve" chi ti elegge, la politica non serve a salvare aziende, a evitare processi, ad accumulare beni.

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DA - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-inventai-salire-in-politica/2197518/18
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« Risposta #107 inserito:: Gennaio 18, 2013, 11:51:10 pm »

Se Berlusconi restasse senza platea


di ROBERTO SAVIANO

LA COSA sorprendente di questa campagna elettorale è che l'ex primo ministro, lo stesso che ha avuto a disposizione decenni di comunicazione televisiva e giornalistica, oggi torna a pretendere e ottenere un pulpito. E da esso conquisti anche larga audience. Accade poi che, grazie a quel pulpito, sembra guadagnare come decorazioni al merito, un'immagine nuova, diversa, svecchiata. Quella che doveva apparire come la più logora e stantia delle proposte politiche, d'improvviso sembra diventare, per un trucco mediatico, il nuovo che attrae. Lo si segue in televisione, si cliccano i video delle sue interviste, si resta lì, incollati allo schermo, ipnotizzati, invece di cambiare canale, per decenza.

Ci dovrebbe essere un unanime "ancora lui, basta" e invece no. E ciò che tutti un anno fa credevamo sarebbe stata l'unica reazione possibile alla incredibile ricomparsa sulla scena politica di Silvio Berlusconi non si sta verificando. Una certa indignazione  -  naturalmente  -  talvolta una presa di distanza, ma non rifiuto, non rigetto.

Quando Berlusconi va in tv sa esattamente cosa fare: la verità è l'ultimo dei suoi problemi, il giudizio sui suoi governi, il disastro economico, le leggi ad personam, i fatti  -  insomma  -  possono essere tranquillamente aggirati anche grazie all'inconsapevolezza dei suoi interlocutori. Il Cavaliere mette su sipari, sceneggiate, battutine. È smaliziato, non ha paura di dire fesserie,
non ha paura di essere insultato, di cadere in luoghi comuni, di ripetere storielle false sulle quali è già stato smascherato. Occupa la scena. E c'è chi cade nel tranello: questo trucco da prim'attore, incredibilmente, ancora una volta crea una sorta di strana empatia, di immedesimazione. C'è chi dice: sarà anche un buffone, ma meglio lui dei sedicenti buoni.

E allora sedie spolverate, segni delle manette, lavagnette in testa. Torna lui, lui che ci ha ridotti sul lastrico, lui che ha candidato chiunque, lui che ha detto tutto e il contrario di tutto ed è stato smentito mille volte. Eppure quei pulpiti diventano per lui nuove possibilità di partenza: chi vuole ostacolare questo processo già visto e già vissuto dovrebbe evitare di fare il suo gioco, di prestarsi al ruolo di spalla  -  come al teatro  -  dovrebbe impedirgli di montare e smontare sipari.
Più Berlusconi va in tv, più dileggia chi gli sta di fronte, più piace. Perché sa disinnescare chi lo intervista. Non ha paura, anzi sembra divertito dalla paura degli altri. Sente l'odore del sangue dei suoi avversari e attacca. In una competizione in genere vince chi non ha nulla da perdere e lui, screditato sul piano nazionale, internazionale, politico e personale; con processi pendenti che riguardano le sue aziende e le sue abitudini privatissime; con l'impero economico che cola a picco, è l'unico vero soggetto che da questa situazione non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare. E se la sta giocando fino in fondo. Appunto, giocando. È divertito, esaltato.

Berlusconi non può più essere considerato un interlocutore, chi lo fa gli dà la possibilità di mentire laddove i fatti lo hanno già condannato. Fatti politici, ancor prima che giudiziari. Più lo si fa parlare, più lo si aiuta, più si asseconda la sua pretesa alla presenza perenne, all'onnipresenza televisiva come fosse un diritto da garantire a un candidato, cosa che non è. E tutto come se prima di questo momento non avesse mai avuto la possibilità di farci conoscere le sue idee e i suoi programmi. Come se non avesse avuto modo di esprimersi, da primo ministro, sui temi che oggi sta affrontando spacciandosi da outsider, da nuovo che avanza, da nuovo che sgomita e lotta per riconquistare lo spazio che gli è dovuto. Ha avuto una maggioranza che gli avrebbe consentito di poter modificare le leve e cambiare tutto. E non lo ha fatto. Ha solo legittimato quel "liberi tutti" fatto di evasione e deresponsabilizzazione che ha reso il nostro paese un paese povero. Povero di infrastrutture, povero di risorse, povero di speranza e invivibile per la maggior parte degli italiani. Anche per chi Berlusconi lo ha votato, anche per chi in lui si è riconosciuto.

E allora smettiamola di prenderlo sul serio, smettiamola di ridere alle sue battute per tremare poi all'idea che possa riconquistare terreno. Trattiamolo piuttosto per quello che è: un bambino di settantasei anni. Quando i bambini esagerano con le parolacce, con i capricci, i genitori li ignorano, fingono di non aver sentito. È l'unico modo perché il bambino perda il gusto della provocazione. La stessa cosa dovremmo fare con lui: farlo parlare, ma senza prestargli attenzione. Evitiamo i sorrisi alle sue battute stantie, perché non possa più ostentare sicurezza davanti ai suoi, perché non possa più spacciare la falsa tesi secondo cui i politici sono tutti uguali. Non sarò mai per la censura: Berlusconi ovviamente deve parlare in tv  -  certo dovrebbe farlo nelle regole sempre infrante della par condicio  -  come tutti i leader delle coalizioni. Siamo noi che dobbiamo smetterla di giocare con lui. Lasciamolo senza platea.

(18 gennaio 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/politica/2013/01/18/news/berlusconi_platea-50775973/?ref=HREA-1
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« Risposta #108 inserito:: Febbraio 11, 2013, 11:48:49 pm »

Quel voto di scambio che uccide la democrazia

Riparte il mercato delle preferenze, ecco come si controlla. Schede ballerine e voti a 50 euro.

Così mafia e 'ndrangheta fanno eleggere i loro candidati

di ROBERTO SAVIANO

UNA parte consistente di Italia vota politici che poi disprezza. Una fetta consistente di voti viene direttamente controllata con un meccanismo scientifico e illegale. Il più importante e probabilmente il più difficile da analizzare, quello con cui i partiti evitano sistematicamente di fare i conti: il voto di scambio. A noi sembra di vivere in attesa di un perenne punto di svolta e in questo clima di incertezza siamo portati a pensare che il disagio creato dalla crisi economica, dalla corruzione politica, dalla cattiva gestione delle istituzioni, da venti anni di presenza di Berlusconi non potrà continuare ancora a lungo. Gli osservatori internazionali continuano ad augurarsi che gli italiani prenderanno finalmente coscienza di ciò che gli è accaduto, di tutto quello che hanno vissuto. E prenderanno le dovute misure. Che ne trarranno le giuste conseguenze. Che non cadranno negli stessi errori, nelle stesse semplificazioni. Ci si convince sempre di più di essere a un passo dal cambiamento perché le persone ovunque - in privato e negli spazi pubblici: dai bus ai treni, dai tram ai bar, dai ristoranti a chi viene intervistato in strada - appaiono stanche, disgustate. Vorrebbero fare piazza pulita, ma si trovano al cospetto di un sistema che ha tutti gli anticorpi per rimanere immutabile. Per restare sempre uguale a se stesso. Per autoconservarsi.

Esistono due tipi di voto di scambio. Un voto di scambio criminale ed un voto di scambio che definirei "acceleratore di diritti". In un paese dai meccanismi istituzionali
compromessi, la politica diventa una sorta di "acceleratore di diritti", un modo - a volte l'unico - per ottenere ciò che altrimenti sarebbe difficile, se non impossibile raggiungere. Per intenderci: ci si rivolge alla politica per chiedere, talvolta elemosinare favori. Per pietire ciò che bisognerebbe avere per diritto. Mentre altrove nel mondo si vota un politico piuttosto che il suo avversario per una visione, un progetto, perché si condividono i suoi orientamenti politici, perché si crede al suo piano di innovazione o conservazione, qui da noi - e questo è evidente soprattutto sul piano locale - non è così. In un contesto come il nostro, programmi e dibattiti, spesso servono a molto poco servono alle elite, alle avanguardie, ai militanti. A vincere, qui da noi, è piuttosto il voto utile a se stessi.

IL DISPREZZO PER LA POLITICA
In breve, una grossa fetta di Italia che nei sondaggi e nelle interviste si esprime contro vecchi e nuovi rappresentanti politici, spesso vota persone che disprezza, perché unici demiurghi tra loro e il diritto, tra loro e un favore. Li disprezza, ma alla fine li vota. Questo meccanismo falsa completamente la consultazione elettorale. Perché a causa della sfiducia nella politica, pur di ottenere almeno le briciole di un banchetto che si immagina lauto e al quale non si è invitati, si è pronti a dare il proprio voto a chi promette qualcosa o a chi ha già fatto a sé o alla propria famiglia un favore. I vecchi potentati politici anche se screditati oggi possono contare su centinaia di assunzioni pubbliche o private fatte grazie alla loro mediazione e da questi lavoratori avranno sempre un flusso di voti di scambio garantito. In questo senso è fondamentale votare politici di navigata presenza perché sono garanzia che quel diritto o quel favore promesso verrà dato. In questa campagna elettorale, come nelle scorse, non si è parlato davvero di come "funziona" il voto di scambio, di come l'Italia ne sia completamente permeata. La legge recentemente approvata in materia di contrasto alla corruzione, sul punto, è assolutamente insufficiente. L'elettore, promettendo il proprio voto, ha la sensazione di ricavare almeno qualcosa: cinquanta euro, cento euro, un cellulare. Poca roba, pochissima: in realtà perde tutto il resto. La politica dovrebbe garantire ben altro. La capacità effettiva di ripensare un territorio, non certo l'apertura di un circolo per anziani o un posto auto. In cambio di una sola cosa, il politico che voti ti toglie ciò che sarebbe tuo diritto avere.

Ma è ormai difficile far passare questo messaggio, anche tra gli elettori più giovani. Sembra tutto molto semplice, ma è difficile far comprendere a chi si sente depauperato e privato di ogni cosa che il modo migliore per recuperare brandelli di diritti non è svendere il proprio voto per un favore. È tanto più difficile perché spessissimo ciò che l'elettore si trova costretto a chiedere come fosse un favore, sarebbe invece un suo diritto, il cui adempimento non è impedito, ma è fortemente (e a volte artificiosamente) rallentato dal mal funzionamento delle Istituzioni. Qui non si sta parlando di persone che truffano o di comportamenti sleali, ma di chi ha difficoltà a vedersi riconosciuta una pensione di invalidità necessaria a sopravvivere, o l'assegnazione di un alloggio popolare piuttosto che un posto in ospedale cui avrebbe diritto. Il disincanto si impossessa delle vittime delle lentezze burocratiche, che presto comprendono che per velocizzare il riconoscimento di un diritto sacrosanto devono ricorrere al padrino politico, cui sottostare poi per un tempo lunghissimo, a volte per generazioni, come accadeva con i vecchi capi democristiani in Campania e nel Sud in generale. Lo stesso accade talvolta per l'ottenimento di una licenza commerciale o per poter ottenere i premessi necessari alla apertura di un cantiere. Diritti riconosciuti dalla legge il cui esercizio, da parte del cittadino, necessita di una previa mediazione politica. E la politica di questo si è nutrita. Di questo ricatto. Ribadisco: non sto parlando di chi non merita, di chi non ha i requisiti, di chi sta forzando il meccanismo legale per ottenere un vantaggio, ma di chi avrebbe un diritto e non è messo in condizione di goderne.

Questo muro di gomma ostacola qualunque volontà di rinnovamento, poiché a giovarne nell'urna sarà sempre e soltanto il vecchio politico e la vecchia politica, non il nuovo. Il vecchio che ha rapporti. Per comprendere i meccanismi di voto di scambio, la Campania è una regione fondamentale, insieme alla Sicilia e alla Calabria. Da sempre, dai tempi delle leggendarie campagne elettorali di Achille Lauro, che dava la scarpa sinistra prima del voto e quella destra dopo. Ma nel resto d'Italia non si può dire che le cose vadano diversamente. Insomma, il meccanismo è rodato, perfettamente rodato e si interrompe solo quando il proprio voto viene percepito come prezioso, come importante per il cambiamento, tanto che non te la senti di svenderlo anche per ottenere ciò che per diritto ti sarebbe dovuto. E ancora una volta, questa campagna elettorale, in pochissimi ambiti si sta declinando sulle idee, quanto piuttosto su un generico rinnovamento a cui il Paese non crede. Più spesso si risponde con rabbia: tutti a casa, siete tutti uguali. L'allarme consistente sul voto di scambio in queste ore è in Lombardia.

A SPESE DEGLI ELETTORI
Ma su chi accede alla politica distrattamente, fa leva il politico di vecchio corso, pronto a riceverti nella sua segreteria e a mantenere la promessa fatta a carica ottenuta. Il politico che non dimentica perché ha un apparato che vive a spese degli elettori, un apparato che è un orologio svizzero: unica cosa perfettamente funzionante in una democrazia claudicante. Ecco perché è sbagliato sottovalutare la capacità berlusconiana non di convincere, ma di riattivare e di rendere nuovamente legittima questa capacità clientelare. Berlusconi non va in tv convinto di poter di nuovo persuadere, ma ci va con la volontà di rinfrescare la memoria a quanti hanno dimenticato la sua capacità di ricatto. Ci va per procacciarsi i numeri sufficienti a garantire, ancora una volta, la totale ingovernabilità del Paese. Ci va perché sa che ingovernabilità significa poter di nuovo contrattare. Quindi ecco le solite promesse: elargirà pensioni, toglierà tasse e, se anche non ci riuscisse, chiuderà un occhio, strizzandolo, a chi non ne può più. Berlusconi va a ribadire che gli altri non promettono nulla di buono. A lui non serve convincere di essere la persona giusta. A lui basta convincere i telespettatori che gli altri sono l'eterno vecchio e lui l'eterno nuovo. Nel momento in cui, quindi, non esiste un'idea di voto che cambi il paese, riparte il meccanismo della clientela. Dall'altra parte, la sensazione è che si preferisca campare di rendita. I "buoni" votano a sinistra. E su questi buoni si sta facendo troppo affidamento. Della pazienza di questi buoni si sta forse abusando. Se, intercettando un diffuso malcontento, Berlusconi promette la restituzione dell'Imu e un condono tombale, dall'altra parte non si fanno i conti con una tassazione ai limiti della sopportazione. Da un lato menzogne, dall'altro nessuna speranza, silenzio. E i sondaggi rispecchiano questa situazione. Rispecchiano quella quantità abnorme di delusi che solo all'ultimo momento deciderà per chi votare e deciderà l'esito. E su molti delusi il voto di scambio inciderà negli ultimi giorni.

Ogni partito in queste elezioni, come nelle precedenti, ci ha tenuto a conservare i suoi rapporti clientelari. Ecco perché gli amministratori locali sono così importanti: sono loro quelli che possono distribuire immediatamente lavoro. È nel sottobosco che si decidono le partite vere, che si fanno largo i politici disinvolti, quelli che risolvono i problemi spinosi, permettendo a chi siede in Parlamento di evitare di sporcarsi. E qui si arriva al voto di scambio mafioso che segue però logiche diverse. Le organizzazioni, nel corso degli anni, hanno cambiato profondamente il meccanismo dello scambio elettorale. Il voto mafioso degli anni '70 e '80 era in chiave manifestamente anticomunista, tendeva a considerare il Pci come un rischio per l'attenzione che dava al contrasto alle mafie sul piano locale, ma soprattutto perché toglieva voti al partito di riferimento, che è a lungo stato la Dc. Lo scopo era cercare di convogliare la maggior parte dei voti sulla Democrazia cristiana, voti che il partito avrebbe ottenuto ugualmente - è importante sottolinearlo - ma il ruolo delle organizzazioni era fondamentale per il voto individuale. Diventavano dei mediatori imprescindibili. Carmine Alfieri e Pasquale Galasso, boss della Nuova Famiglia, raccontano di come negli anni '90 non c'era politico che non andasse da loro a chiedere sostegno perché quel determinato candidato potesse ottenere una quantità enorme di voti. La camorra anticipava i soldi della costosa campagna elettorale per manifesti, per acquistare elettori, soldi che il partito al candidato non dava. In cambio i clan sarebbero stato ripagati in appalti.

Mister 100 MILA VOTI
La storia di Alfredo Vito "Mister centomila voti", impiegato doroteo dell'Enel che prende negli anni '90 più voti di ministri come Cirino Pomicino e Scotti, applica una teoria che fa scuola al suo successo. "Do una mano a chi la chiede": ecco la sintesi della logica che condiziona la campagna elettorale. I veri mattatori delle elezioni non erano - e non sono - quasi mai nomi conosciuti sul piano nazionale, ma leader indiscussi sul piano locale. Questo dà esattamente la cifra di cosa poteva accadere, della capacità che le organizzazioni avevano di poter convogliare su un determinato candidato enormi quantità di voti. E non è la legge elettorale in sé a poter ostacolare gli esiti nefasti del voto di scambio, che è frutto evidentemente di arretratezza economica e quindi culturale. La dimostrazione di questa sostanziale ininfluenza è data dal fatto che, se da un lato la selezione operata dai partiti non consente al cittadino di poter scegliere i propri rappresentanti, favorendo viceversa il "riconoscimento di un premio" per chi si è sobbarcato il gioco sporco dello scambio elettorale a livello locale, dall'altro, la scelta diretta del candidato - in un sistema che rifugge la trasparenza quasi si trattasse di indiscrezione - trasforma la competizione elettorale in una mera questione di budget, nella quale la capacità di acquisto dei voti diviene determinante.

Oggi, la maggior parte delle organizzazioni criminali sostengono anche candidati non utili ai loro affari, semplici candidati che hanno difficoltà a essere eletti. Vendono un servizio. Vai da loro, paghi e mettono a tua disposizioni un certo numero di voti (emblematico il caso di Domenico Zambetti, che avrebbe pagato 200 mila euro per ottenere 4 mila voti alle elezioni del 2010). Questo significa che puoi anche non essere eletto le organizzazioni ti garantiscono solo un pacchetto di voti non tutto il loro impegno elettorale di cui sarebbero capaci. In alcuni casi candidano direttamente dei loro uomini in questo caso in cambio avranno accesso alle informazioni sugli appalti, avranno capacità di condizionare piani regolatori, spostare finanziamenti in settori a loro sensibili, far aprire cantieri, entrare nel circuito dei rifuti dalla raccolta alle bonifiche delle terre contaminate (da loro).

Con un pacco da cento di smartphone si ottengono 200 voti in genere. Quello della persona a cui va lo smartphone e quello di fidanzati o familiare.
Spese pagate ai supermercati per un due settimane/un mese. Sconti sulla benzina (fatti soprattutto dalle pompe di benzina bianche). Bollette luce, gas, telefono pagate. Ricariche telefonini. Migliaia di voti saranno raccolti con uno scambio di questo tipo.

Difficilissimo da dimostrare siccome chi promette è raramente in contatto con il politico. Quindi anche se il mediatore è scoperto questi dirà che era sua iniziativa personale per meglio comparire agli occhi del politico aiutato escludendolo quindi da ogni responsabilità nel voto di scambio. Nel periodo delle elezioni regionali 2010, la Direzione distrettuale antimafia di Napoli ha aperto un'indagine sulla compravendita di voti. In Campania i prezzi oscillerebbero da 20 a 50 euro, 25 subito e 25 al saldo, cioè dopo il voto. In alcuni casi i voti vengono venduti a pacchetti di mille. Praticamente c'è una specie di organizzatore che promette al politico 1000 voti in cambio di 20.000 o 50.000 euro. Questa persona poi ripartisce i soldi tra le persone che vanno a votare: pensionati, giovani disoccupati. In Campania un seggio in Regione può arrivare a costare fino a 60.000 euro. In Calabria te la cavi con 15.000. Con 1000 euro in genere un capo-palazzo campano procura 50 voti. Il capo-palazzo è un personaggio non criminale che riesce a convincere le persone che solitamente non vanno a votare a votare per un tal politico. E come prova del voto dato bisogna mostrare la foto della scheda fatta col telefonino. In Puglia un voto può arrivare a valere 50 euro, lo stesso prezzo a cui può arrivare anche in Sicilia. A Gela proposto pacchetti di 500 voti a 400 euro. 400 euro per 500 voti: 80 centesimi a voto!

IL MECCANISMO PRINCIPE
E poi c'è il il meccanismo principe con cui si controllano i voti e si paga ogni singolo voto lo si ottiene con il metodo della "scheda ballerina". L'elettore che vuole vendere il proprio voto va dal personaggio che paga i voti riceve la scheda elettorale già compilata (regolare fatta uscire dal seggio) se la mette in tasca poi va al seggio, presenta il proprio documento di riconoscimento e riceve la scheda regolare. In cabina sostituisce la scheda data già compilata con la scheda che ha ricevuto al seggio, che si mette in tasca. Esce dalla cabina elettorale e vota al seggio la scheda precompilata. Poi va via. Torna dà la scheda non votata e riceve i soldi. La scheda non votata e consegnata viene compilata, votata, e data all'elettore successivo, che la prende e torna con una pulita. E avrà il suo obolo. 50 euro, 100 euro, 150 o un cellulare. O una piccola assunzione se è fortunato. Così si controlla il voto. Nessuno ha parlato di questo meccanismo, la scheda ballerina non ha interessato il dibattito elettorale. Eppure è più determinante di una tassa, più incisiva di una riforma promessa, più necessaria di una manovra economica.
In questa campagna elettorale, come in tutte le precedenti, non si è fatto alcun riferimento al voto di scambio sia come "acceleratore di diritti" sia quello criminale. Avrebbero dovuto esserci spot continui, articoli diffusi, che sensibilizzassero gli elettori a non vendere il proprio voto, a non cedere alle promesse di scambio. Si sarebbero dovuti sensibilizzare gli elettori a non decidere gli ultimi giorni di voto in cambio di qualche favore. Ma se non lo si è fatto significa che in gioco ci sono interessi enormi che andrebbero analizzati caso per caso. Nel 2010 provocando da queste queste stesse pagine invocammo l'OSCE (l'organizzazione per la sicurezza in Europa, ndr) a controllo del voto regionale mostrando come il voto di scambio fosse tritolo sotto la democrazia. L'OSCE non recepì l'appello come una provocazione ma come un serio allarme e rispose di essere disponibile ad intervenire e controllare il voto. Ma doveva essere invitata a farlo dal governo. Cosa che non fu fatta.

Con queste premesse, chi può dire cosa accadrà tra qualche giorno? Il monitoraggio sarà come sempre blando, affidato a singole persone o a gruppi isolati che denunceranno irregolarità. Ma dove nessuno vorrà farsi garante di trasparenza, chi verrà a dirci come si saranno svolte le elezioni? E ad oggi nessuno schieramento ha affrontato il tema del voto di scambio. Terribile nemico o fenomenale alleato?

(11 febbraio 2013) © Riproduzione riservata

da - repubblica.it
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« Risposta #109 inserito:: Giugno 23, 2013, 10:56:50 am »

Roma e la tela di ragno della 'ndrangheta "Così la soubrette procurava gli appalti"

La racconta l'inchiesta Lybra della Dda di Catanzaro, portata avanti dal sostituto procuratore Pierpaolo Bruni e dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. È una sorta di manuale per identificare gli ingredienti per ottenere successo nel sistema "estrattivo", dove gli interessi politici si sposano a quelli affaristici e dove i mediatori più adatti sono quelli mafiosi.

E degli attori di una storia che - al di là degli appalti e degli affari effettivamente portati a termine - ci dice tutto del sottobosco che abita i palazzi del potere


di ROBERTO SAVIANO


RIUSCIRE a chiudere un importante affare a Roma, nel luogo da cui partono i grandi progetti e appalti, è la più sfiancante corsa a ostacoli che ci sia. Lo sa qualsiasi imprenditore. La burocrazia levantina, l'assenza di finanziamenti, gli appalti raggiungibili solo con linee d'accesso privilegiate rendono gli affari romani sempre più complicati e coperti da inquietanti ombre. Eppure qualcuno è ancora in grado di fare business: le imprese legate alle organizzazioni criminali. Chi vuol comprendere come si arriva a chiudere un importante affare a Roma e a vincere un milionario appalto legga questa storia.

La racconta l'inchiesta Lybra della Dda di Catanzaro, portata avanti dal sostituto procuratore Pierpaolo Bruni e dal procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. È una sorta di manuale per identificare gli ingredienti per ottenere successo nel sistema "estrattivo", dove gli interessi politici si sposano a quelli affaristici e dove i mediatori più adatti sono quelli mafiosi.

Basta compilare un semplice elenco dei comprimari (non indagati ma citati in questo incredibile puzzle di potere) per rendere subito tangibile questa dimensione esemplare. Ci sono l'ex assessore ai Lavori Pubblici della Regione Lazio, Vincenzo Maruccio (Idv), e Diego Zarneri, vicesegretario nazionale del Movimento per l'Italia di Daniela Santanché. Giulio Violati, manager nel settore cinematografico e marito di Maria Grazia Cucinotta, e una soubrette non molto nota ma ottimamente introdotta persino in ambienti vaticani, Michela Cerea. Non mancano nemmeno la proprietaria di un centro massaggi in zona Vaticano e un Gran Maestro di una loggia massonica. Politici, massoni, mafiosi, soubrette, imprenditori: attori di una storia che - al di là degli appalti e degli affari effettivamente portati a termine - ci dice tutto del sottobosco che abita i palazzi del potere.

Il mediatore delle cosche e i politici - Il protagonista principe è Francesco Comerci, titolare della ditta "Edil Sud", accusato dall'antimafia di essere al servizio dei Tripodi di Porto Salvo, cosca legata ai Mancuso di Limbadi, la più potente famiglia 'ndranghetista della provincia di Vibo Valentia e una delle più ricche d'Europa. Comerci ha fatto carriera gestendo la riscossione di danaro a usura per il clan Tripodi e nel 2008, assieme alla moglie, ha rilevato "La Dolce Vita", un bar-pasticceria in Viale Giulio Cesare a Roma a due passi dal Vaticano. A Roma diventa il principale mediatore, colui che deve procurare le giuste entrature alla cosca.

La prima mossa del mediatore di 'ndrangheta è tentare di agganciare l'assessore ai lavori pubblici, poi consigliere di minoranza con la giunta Polverini, Vincenzo Maruccio, lui stesso calabrese. A Roma, prima di tutto, contano i rapporti, le conoscenze. Per avvicinarlo, Comerci batte diverse strade, tra cui quelle di due figure femminili: la compagna di un avvocato impiegata alla Regione Lazio e una signora francese, Cecile Claire Toulet, che ha un centro massaggi in via Plauto e che conosce il politico. Comerci, intercettato al telefono, non esita a spiegare molto chiaramente alla francese quali sono le regole della sua terra: "lui (Maruccio, ndr) conosce lo ZIO e quindi deve scattare sugli attenti perché da loro in Calabria ci sono questi legami forti e dunque deve essere lui a chiamarlo e non io (Comerci, ndr) a cercarlo". L'indagine non è riuscita a dimostrare se c'è stato un incontro tra l'uomo di 'ndrangheta e il politico, ma il progetto era chiaro: voti in cambio di appalti.

Tramite la Edil Sud di Comerci, utilizzata anche per una vasta attività di riciclaggio, tentava di acquistare di immobili di prestigio. Ma il sistema poteva disporre anche di società in regola con tutte le certificazioni per partecipare a gare di appalto pubbliche (cosa di cui la Edil Sud non disponeva).

Alla ragnatela di Francesco Comerci e del suo commercialista, Nunziato Grasso, non poteva mancare la massoneria. Paolo Coraci non è un massone qualunque ma il Sovrano Gran Commendatore Gran Maestro della Massoneria Universale Grande Oriente Scozzese d'Italia Cavalieri di San Giorgio in Roma. A leggere la sua carica sembra un personaggio creato per un film di Fantozzi ma il suo potere non ha nulla di comico. La loggia, attraverso i convegni e gli incontri organizzati, mirava a guadagnare posizioni di vertice nei settori dell'alta amministrazione: tra i sogni di Coraci c'era quello di creare in Campania una "Cernobbio del Sud" entrando nell'agone politico con l'associazione "Liberi e Forti".

Il business immobiliare  - Ma che cosa lega il Gran Maestro Coraci, burattinaio delle alte sfere, con Francesco Comerci, testa di legno 'ndranghetista della cosca Tripodi? Affari. Coraci proponeva alla Edil Sud di acquistare immobili per svariati milioni di euro in contanti che in realtà erano forniti da persone che evidentemente non potevano figurare ufficialmente nell'acquisto; in cambio, Comerci e la cosca avrebbero ottenuto grossi guadagni più l'assegnazione dei lavori di ristrutturazione delle case e l'affidamento di altri lavori nel campo delle energie alternative. La Edil Sud stava per effettuare operazioni immobiliari fittizie di questo genere su un immobile del valore di 16 milioni di euro, in via Giulia 79, nel pieno centro di Roma, e un immobile in via Ostilia 15, alle spalle del Colosseo, del valore di 16 milioni e mezzo di euro.

L'inchiesta Lybra dimostra che la cosca Tripodi ha esteso i suoi affari ben oltre Porto Salvo, al Lazio, all'Emilia Romagna, al Veneto, alla Lombardia e ad altre regioni. Nel settore dell'edilizia e del movimento terra la famiglia Tripodi riesce a monopolizzare lavori pubblici e privati sul territorio attraverso una costellazione di imprese satellite nella maggior parte dei casi intestate a prestanome; e se non si aggiudica direttamente l'appalto, pretende dal vincitore una tangente pari al 5% dell'importo dell'appalto, come se esercitasse una specie di "diritto di servitù" sul territorio che considera appartenerle. Così la rimozione dei fanghi dopo l'alluvione di Bidona del 2006, i lavori sulla Strada del Mare Pizzo-Rosarno, la pulizia delle spiagge del litorale vibonese erano tutti appalti da controllare, se non direttamente, attraverso le estorsioni alle ditte che se li erano aggiudicati. "Devono lavorare i Tripodi!" era l'imperativo che tutti seguivano nella zona anche senza che ci fosse bisogno di sentirselo dire. Con il tipico metodo mafioso della minaccia e dell'intimidazione, il gruppo teneva sotto scacco anche un'azienda lombarda, la Medialink di Brescia, che si occupa di installazione di reti di telecomunicazione. Assunzioni vivamente "consigliate" di uomini legati alla 'ndrangheta e pagamento di fatture per prestazioni inesistenti erano solo alcuni dei soprusi che la società era costretta a subire per poter continuare a lavorare tranquillamente.

Il marito della Cucinotta -Quando l'associazione industriali di Roma pubblica una gara d'appalto per l'installazione di migliaia di telecamere a fibre ottiche, il responsabile della Medialink si sente in dovere di informare Comerci del bando. Comerci vuole che a vincere l'appalto sia la Medialink: si tratta di un lavoro da 600 milioni di euro, e una parte sarebbe senza dubbio finita nelle sue tasche. Per questo si attiva subito e organizza un incontro a Roma tra il responsabile di Medialink e un uomo che avrebbe potuto aiutarli a vincere l'appalto: Giulio Violati, manager nel settore cinematografico, noto soprattutto per il suo matrimonio con l'attrice Maria Grazia Cucinotta.

Violati è in ottimi rapporti con le alte sfere della politica, tanto che viene presentato agli uomini di 'ndrangheta come "onorevole", anche se in realtà non lo è. L'incontro avviene addirittura in un ufficio-articolazione della Camera dei Deputati a Palazzo Marini, in piazza San Silvestro.
Violati - secondo l'indagine - si rivela un contatto con ottime entrature: alza il telefono e fissa un appuntamento per il responsabile di Medialink con il Presidente di Unindustria Roma. Dopodiché si congeda elegantemente dal gruppo e invita tutti i presenti a continuare la conversazione nello studio di uno dei presenti, il loro comune amico Mario Festa, imprenditore di Rovigo ma residente a Gaeta. A quest'ultimo tocca il "lavoro sporco": è lui, infatti, a proporre al titolare di Medialink, come condizione per poter promuovere la sua azienda sul mercato degli appalti pubblici, di entrare a far parte di un club e di stipulare un contratto di consulenza per un importo iniziale di 50.000 euro a favore di una società non meglio precisata. Funzionava così il "sistema Festa": mazzette mascherate da un fittizio incarico di consulenza in cambio della promessa di appalti pubblici. Capendo subito che si trattava di corruzione, il responsabile di Medialink si defilò dalla proposta e l'incontro con il Presidente dell'Unione Industriali non avvenne mai.

Il segretario della Santanché -E qui entra in scena la soubrette: Michela Cerea, bergamasca con alle spalle un passato di tv minore. È lei che presenta Festa all'uomo della 'ndrangheta Comerci, ed è sempre lei che prospetta a Comerci la possibilità di ottenere ricchi appalti, in Italia e all'estero: opere per l'Expo 2015 di Milano, la costruzione di ospedali e case in Moldavia, Albania e Croazia, la ristrutturazione dello Stadio di Novara... Il tutto era possibile grazie al fornito giro di amicizie dell'ex soubrette, tra cui spiccava il vicesegretario nazionale del Movimento per l'Italia di Daniela Santanché.

È qui che emerge tutto il sistema-Italia. Leggere queste intercettazioni fa comprendere più di qualsiasi sentenza come funziona il meccanismo che lega gli affari, qualsiasi tipo di affari, alla politica.

Michela Cerea: "Perché adesso, tutti i giorni, sono entrata in contatto con il partito di Daniela Santanché... (...) e c'ho il suo vice, il segretario nazionale, tutti i giorni in ufficio perché è un ragazzo di 30 anni... (...) Che veramente... cioè è una cosa questa alla grande... neanche 10 giorni che lavoravo con lui ho beccato subito le pubbliche relazioni con tanto di contratto per il Palazzolo Calcio, che adesso è serie D però vogliono puntare a tornare in C. (...) poi è veramente una brava persona tutto, poi sai adesso fra l'altro Daniela entro la fine di settembre avrà anche un ministero".
E ancora.

Michela Cerea: "La prima volta che vieni a Milano tu dimmelo così ci vediamo...(...) Ti presento 'sta persona anche perché, tra l'altro, Daniela è la concessionaria di tutta la pubblicità di Libero, no? ... Quindi adesso, siccome tra l'altro lei c'ha un giro pazzesco, volevo entrare anche.... Tipo non so, là... a Buona Domenica nuova che la fa la sua amica lì, la Barbara D'Urso insomma..."

Michela Cerea e il segretario della Santanché, Diego Zarneri, portano avanti l'idea di una relazione con il premier moldavo per ottenere la ristrutturazione di alcuni ospedali in Moldavia ("non uno, addirittura 19", dice lei). L'ex soubrette dice che andranno in ambasciata a incontrare il portavoce del premier. La ditta di Comerci, promette la Cerea, verrà inserita nella lista di imprese per i lavori in Moldavia e - sempre assicura - di inserirla nel progetto di ristrutturazione dello Stadio di Novara. Le indagini che stanno procedendo scandagliano se è riuscita la Cerea nel suo intento e con quali imprese avrebbe fatto svolgere i lavori al suo amico accusato d'esser uomo di 'ndrangheta Francesco Comerci (che lei chiama affettuosamente "Pipicchio").

Michela Cerea: "Allora io, così ragionando con Diego, gli ho detto: "Allora scusami, se conosciamo il premier della Moldavia, ci sarà un cazzo di ospedale che deve essere rifatto, una cosa là in Moldavia, no?" (...) Visto che non conosciamo uno stronzo qualsiasi! E allora ha iniziato, gli ha buttato lì l'idea e adesso abbiamo un appuntamento mercoledì... quello che viene adesso... quello dopo ancora con il portavoce che torna dalla Moldavia e poi... logicamente bisognerà andar là no?"(...) dai Pipicchio che andiamo in Moldavia!!".

Il telefono intestato alla Selex -Come possa una ex soubrette poco nota ma ben inserita entrare in contatto con il governo moldavo e mediare per appalti milionari è uno di quei misteriosi miracoli romani che quest'inchiesta racconta. I pm non sanno se l'incontro tra Comerci e Zarneri sia effettivamente avvenuto: hanno svelato però fin dove si possono spingere le cosche. Chi teme che l'Expo 2015 diventi una miniera per chiunque voglia fare affari veloci e milionari trova qui una conferma. Forse è solo un caso, ma la Cerea ha un telefono intestato alla Selex (partecipata Finmeccanica), che è uno dei partner della Expo 2015 Spa, e Zarneri, a cui lei si rivolge, lavora anche nello staff dell'assessore alla provincia di Milano con delega all'Expo Silvia Garnero (nipote della Santanché). La provincia di Milano fa parte degli azionisti di Expo 2015. Al di là delle responsabilità penali, che solo i tribunali potranno accertare, conoscere i meccanismi con cui si fanno affari in Italia diventa prioritario. Ignorarli rende ogni ragionamento politico vano. Una democrazia così infettata difficilmente potrà riprendersi se non decide di partire tagliando il nodo inestricabile che lega tangenti, organizzazioni criminali, imprese, politica, immobili.

(23 giugno 2013) © Riproduzione riservata


da - http://www.repubblica.it/cronaca/2013/06/23/news/roma_e_la_tela_di_ragno_della_ndrangheta_cos_la_soubrette_procurava_gli_appalti-61676020/?ref=HRER1-1
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« Risposta #110 inserito:: Luglio 05, 2013, 04:43:11 pm »

L'antitaliano

Anche il Brasile è in ostaggio delle mafie

di Roberto Saviano

Nel Paese sudamericano c'è una classe politica corrotta, un malavita organizzata ricchissima e potente, una nuova generazione che non ne può più: non vi ricorda qualcosa?

(27 giugno 2013)

Brasile-Italia non è solo una partita di calcio. Il Brasile, nei miei pensieri di bambino, di un bambino cresciuto nel sud Italia, nel territorio con più morti ammazzati d'Europa, ha a lungo significato calcio: Pelè, Falcao, Zico, Dunga e soprattutto Antonio Careca. Ma ha significato anche altro, ovvero Antonio Bardellino, il capo del clan dei casalesi, il capo dell'organizzazione criminale "padrona" del territorio dove sono nato e cresciuto. Bardellino faceva affari in Brasile, affari per il clan e lì è morto nel 1988 (anche se il corpo non è stato mai trovato e per tutti in paese lui è scappato rifacendosi un'altra vita).

Negli anni l'abitudine di mappare il mondo attraverso gli affari dei clan non l'ho persa, anzi forse è diventata un'ossessione ancora più forte, ma spesso a essere cambiati sono proprio i luoghi che permettono di sovrapporre ricordi a ricordi, vittorie a tragedie. Il Brasile negli ultimi anni ha vissuto una stagione straordinaria. Da ex colonia è diventata speranza per i paesi colonizzatori e per quelli colonizzati. Portogallo, Angola e Mozambico, tutto il mondo lusitano ha visto nel Brasile il nuovo investitore in grado di rilanciare risorse e lavoro. Ma l'accelerazione nello sviluppo economico non è andata di pari passo con il rispetto dei diritti dei brasiliani e con la lotta senza quartiere alla criminalità organizzata, che è ancora un freno e il Brasile - come l'Italia - paga un prezzo gigantesco al narcotraffico. Le grandi navi cariche di coca partono dal Brasile e questo equivale a dire che la borsa della coca è in Brasile, cioè il prezzo viene deciso spesso lì perché da lì partono le spedizioni. Ma una classe politica autoreferenziale e corrotta che ha a lungo creduto di non dover rendere conto del proprio lavoro, è inciampata sull'aumento del biglietto dei trasporti pubblici.

In questo modo è saltato un tappo e da quel momento il Brasile non è più lo stesso. Le foto dall'alto tolgono il fiato. Un milione di persone in piazza e in maggioranza giovanissimi. Una nuova generazione che non manifesta per sostituire la precedente, che non ha leader, non riferimenti politici univoci, né ideologici. Una nuova generazione, quella brasiliana che, come i coetanei turchi, non può più spostare in avanti l'asticella della sopportazione. E allora l'aumento dei biglietti del trasporto pubblico diventa il detonatore di una situazione che il potere ha spinto troppo oltre. Diventa occasione per mostrare la propria indignazione, tutta la sofferenza, la fisiologica incapacità di tollerare una classe politica corrotta e inefficiente che usa ogni pretesto per lucrare, per mentire, per sottrarre denaro pubblico. Erodendo ogni anno, mese, settimana, giorno, gli ultimi diritti - ormai ridotti a brandelli - rimasti ai cittadini. Così nel mirino ben presto ci sono anche le spese relative ai Mondiali che in Brasile si giocheranno nel 2014. Le menzogne raccontate sui costi, sui fondi per la ristrutturazione degli stadi, che dovevano provenire da investitori privati ma che hanno finito per gravare sulle casse pubbliche. Sulle infrastrutture che si sarebbero dovute costruire e che invece resteranno sulla carta. I Mondiali in Brasile costeranno ai cittadini quanto la somma dei tre Mondiali precedenti. Una cifra spaventosa, destinata a crescere.

Un colpo allo stomaco per un Paese che fa i conti con la scarsa qualità dei servizi pubblici, dei trasporti, con la sanità pubblica e l'istruzione che stanno subendo continui tagli, con una classe politica spaventosamente corrotta. "Brasile svegliati" e "Protestiamo perché il denaro investito negli stadi dovrebbe esserlo nell'educazione e nella sanità" sono le parole d'ordine di un movimento estremamente eterogeneo, che però sembra esprimere rivendicazioni condivise. La sensazione, qui come altrove, è che il vuoto della politica, un vuoto carico di tracotanza e cecità, sarà progressivamente colmato dal pieno dei movimenti. Mi hanno colpito le parole di Gilberto Carvalho, segretario generale di Dilma Rousseff: «Sarebbe falso affermare che abbiamo capito quello che sta succedendo. Ma se non ascoltiamo, finiremo per stare dalla parte sbagliata della storia». Ecco cosa accade quando una democrazia diventa strumento in mano ai potenti, inizia a stare dalla parte sbagliata della storia.

 
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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/anche-il-brasile-e-in-ostaggio-delle-mafie/2210015/18
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« Risposta #111 inserito:: Luglio 24, 2013, 11:24:44 am »


Una riforma che solleva molti dubbi e potrebbe pure salvare Cosentino

La necessità di provare il procacciamento dei voti rende difficile incastrare i boss.

I clan allargano il loro potere con i favori, non con i soldi. E qui la norma non colpisce

di ROBERTO SAVIANO


Queste parole le scrivo per lanciare un allarme. La riforma della legge sul voto di scambio così com'è stata approvata alla Camera dei deputati non sembra affatto utile a disarticolare i rapporti tra mafia e politica: anzi rischia di essere solo poco più di una messa in scena. Bisogna andar per gradi e capire i motivi di questo allarme.

Nel 1992 -  sull'onda dell'indignazione per due stragi, quella di Capaci e via D'Amelio  -  venne introdotto nel codice penale l'articolo 416-ter che punisce chi ottiene la promessa di voti dalle associazioni mafiose in cambio di denaro. È la norma tuttora vigente in materia di scambio elettorale politico-mafioso, una norma che al suo interno conserva un gravissimo limite. Per essere punibile, infatti, il candidato che riceve la promessa di voti da parte dell'associazione mafiosa deve aver erogato in cambio del denaro, che è considerato il solo possibile oggetto di scambio. Ma questa è una situazione difficilmente riscontrabile; alle organizzazioni criminali non interessano i soldi dei politici, ma i soldi che i politici possono far guadagnare loro. La politica è soltanto un mezzo per velocizzare il profitto. Appalti, posti di lavoro, licenze, concessioni: è così che i clan guadagnano.

Le organizzazioni non si fanno pagare per ogni voto, sono lungimiranti: sanno che informazioni per una gara d'appalto possono essere molto più utili per far lavorare decine delle loro ditte per anni; un'agevolazione sul piano regolatore può trasformare terreni agricoli in migliaia di metri cubi di cemento; una firma su una licenza può far aprire ristoranti che altrimenti non esisterebbero. Favori, non soldi: è così che i clan organizzano il loro sviluppo. Da anni si attendeva che questa norma venisse resa davvero efficace, con le modifiche necessarie; per i governi di centrodestra e di centrosinistra, però, questo obiettivo non è mai stato una priorità.

Ora invece sembrava che fosse giunto il tempo di una reale riforma; la Camera dei deputati si è decisa a lavorarci ed ha approvato un testo con la quasi unanimità; esso è stato così riformulato: "Chiunque accetta consapevolmente il procacciamento di voti con le modalità previste dal terzo comma dell'articolo 416-bis in cambio dell'erogazione di denaro o di altra utilità è punito con la reclusione da quattro a dieci anni. La stessa pena si applica a chi procaccia voti con le modalità indicate al primo comma". All'apparenza potrebbe sembrare che i problemi sono risolti; non è più solo l'erogazione di denaro punibile come possibile oggetto di scambio, ma anche "altre utilità". Nella norma, però, si è cambiato anche molto altro; se prima bastava la mera promessa di voti da parte dell'organizzazione mafiosa perché il candidato fosse punibile, ora è necessario provare il procacciamento, cioè un'attività concreta di ricerca e raccolta voti per quel determinato candidato da parte dell'organizzazione criminale, utilizzando la sopraffazione tipica delle organizzazioni mafiose.

E questo punto della norma è quello che preoccupa di più. Le mafie sono avanguardia economica e hanno meccanismi d'operatività ben più complessi che la semplice intimidazione.

Il procacciamento di voti, del resto, è molto difficile da individuare, perché implica la necessità di cogliere il boss e i suoi affiliati mentre fanno "campagna elettorale" per il politico in questione, convincendo - con i loro mezzi tipici - i cittadini a vendere il loro voto. I loro mezzi tipici in campagna elettorale raramente sono violenti: sono piuttosto promesse di lavoro, di favori, appelli a rapporti familiari, insomma le dinamiche utilizzate anche dai partiti. La riforma della norma invece fa riferimento al "metodo mafioso" con cui procacciarsi voti.

I boss non fanno mai (tranne in rarissimi casi) campagna elettorale in prima persona, ed è quasi impossibile dimostrare che un elettore si è venduto il voto o ha votato sotto pressione. I clan sanno benissimo che dimostrare un voto comprato, condizionato, scambiato è impresa quasi impossibile per gli inquirenti, i quali invece, grazie alle intercettazioni e alle dichiarazioni dei pentiti, spesso riescono a provare che un patto è stato realmente stipulato tra boss e politico. E questo è il punto attorno a cui deve fondarsi una norma antimafia sullo scambio dei voti.

Ed è per questa ragione che la norma diventa solo un mero feticcio, un atto mediatico. O peggio. Viene infatti il dubbio che attraverso questa norma si possano mettere in forse alcuni importanti processi in corso sui rapporti mafia-politica; penso, ad esempio, al processo contro l'onorevole Cosentino. Se venisse approvata una riforma che regola in maniera complessiva il rapporto mafia politica, essa non rischierebbe forse di essere l'unico riferimento per sanzionare i comportamenti illeciti dei politici, anche quando sia stato contestato il concorso esterno in associazione mafiosa? Nell'inchiesta Cosentino, infatti, mentre è chiaramente raccontata la promessa-patto tra politica e camorra non v'è alcuna possibilità di dimostrare che il clan abbia effettivamente "procacciato" i voti. La riforma nasconde allora una trappola salva-Cosentino?

In questi giorni sono in molti che sollevano dubbi su questa disposizione e questi dubbi meritano di essere rilanciati e presi in considerazione dalla politica. Il testo del nuovo articolo 416-ter deve essere ancora votato dal Senato. Siamo ancora in tempo, quindi, per migliorarlo com'è necessario.

Il presidente Grasso ne auspica l'approvazione entro la pausa estiva. È un intento meritorio, ma deve sapere che questa riforma così com'è non realizza nessun reale obiettivo di contrasto. Tutt'altro. Rischia di essere un regalo ai clan magari fatto in maniera distratta, una riforma votata in alcuni casi perché non si conosce abbastanza il tema o per alcuni è stata votata senza leggerla.

Il voto di scambio è un sistema criminale che uccide la democrazia al suo più importante livello, nel suo luogo più importante: e cioè nella libertà del seggio elettorale. Abbiamo aspettato 20 anni per una legge efficace. Facciamo in modo di non sprecare questa occasione. In questi giorni, in occasione del triste anniversario della strage di via D'Amelio, è stata ricordata sui giornali una frase di Paolo Borsellino: "Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo". Evitiamo che sia la legge ad aiutare a metterle d'accordo.

(24 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/24/news/proteggere_la_democrazia-63577458/?ref=HREA-1
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« Risposta #112 inserito:: Luglio 28, 2013, 10:34:15 am »

Provocazione

Perché l'Italia non va in piazza?

di Roberto Saviano

In tutto il mondo milioni di persone protestano per i propri diritti e contro la corruzione: da Rio de Janeiro a Istanbul, dal Cairo a Sofia. Ma nel nostro Paese, nonostante le ragioni non manchino, non succede nulla. Dite la vostra

(15 luglio 2013)

Volti, scritte, colori. Bocche aperte per le urla o chiuse, serrate, per evitare i gas. Braccia in alto in segno di pace, braccia in basso, sulla nuca, per difendersi dai calci e dalle manganellate. Dita che puntano il cielo, dita che puntano gli scudi dei poliziotti. Occhi, scuri, azzurri, verdi. Nerissimi. Teste rasate, totalmente, parzialmente, orecchini, tatuaggi, cravatte. Giacche, magliette, torsi nudi. Seni nudi o corpi totalmente coperti. Gonne e pantaloni. Lacrimogeni, getti d'acqua. Bolle sulla pelle, escoriazioni. Lacrime. Risate. Danze e rabbia. Corpi immobili o fermati in movimento.

E poi un viso che spunta ovunque, dall'America all'India. La maschera di Guy Fawkes indossata in V per Vendetta, il simbolo sorridente della rivolta al potere, sorpreso nel suo aspetto più dispotico e descritto nell'urgenza vitale di sovvertirlo. Milioni di persone stanno ribellandosi tornando a occupare strade e piazze. Dall'India al Cile, dall'Egitto al Brasile, alla Bulgaria. Milioni di persone manifestano mettendo in gioco la loro stessa vita. Milioni di persone chiedono, vogliono, pretendono una vita diversa.

Le piazze di Rio, di Istanbul, di Sofia, sono piazze in rivolta. Una rivolta non conclusa in un preciso programma di riscatto, assai meno decodificabile delle istanze degli Anni Settanta. E' questa la reale novità sancita definitivamente con Occupy Wall Street. Per tutti gli anni '80 e '90 era sembrato che ogni focolaio di rivolta, manifestazione, occupazione, dovesse utilizzare sintassi e grammatiche degli anni '60 e '70. Una musealizzazione di quegli anni e di quei concetti. Una sorta di riproposizione con partiture ed esecuzioni diverse degli spartiti scritti in quegli anni.

La singolarità di queste piazze è che non hanno un unico vettore, nella maggior parte dei casi non hanno leader e non hanno partiti di riferimento. Qualcuno continua a vederci le istanze della classe operaia pronta all'assalto al cielo. Altri vedono solo giovani, giovani che cercano spazi. Gezi park per la Turchia e i mondiali per il Brasile sono fatti contingenti e aggreganti: queste piazze in rivolta non sono la talpa che scava ed emerge quando le contraddizioni maturano per costruire la fine del capitale. Queste piazze costruiscono qualcosa di diverso rispetto alle rivolte degli anni Settanta perché aggregano diversi mondi, diversi modi di sentire, diverse generazioni e, soprattutto, intendono codificare e forgiare diritti.

Roberto Saviano Roberto Saviano Le manifestazioni in India contro le violenze sulle donne; quelle degli studenti in Cile che dal 2006 chiedono un'educazione gratuita, pubblica, laica e accessibile a tutti e una Costituzione nuova, senza l'ombra di Pinochet; quelle in Bulgaria contro la corruzione, che ha preso di mira il governo neo-eletto, contestando la nomina di una figura vicina ad ambienti criminali al vertice dei servizi segreti, tutte, hanno un denominatore comune: costruire diritti e combattere la corruzione. Non possono esserci diritti se c'è corruzione. Ogni diritto conquistato con il sangue o con il consenso, scritto nelle carte costituenti o nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo è immediatamente annullato e reso solo formale dalla corruzione. Un diritto può esser lì, chiaro, apparentemente pronto, utile ai governi per definirsi democrazie, ma è svuotato e castrato dalla corruzione.

Queste piazze, infuocatesi per motivi e in contesti diversi, coltivano la stessa certezza. Un capitalismo criminale e una democrazia corrotta sono la distruzione di ogni diritto di fatto. Di ogni possibile realizzazione della felicità. Nelle foto che ci arrivano dal Brasile, dal Cile, dalla Turchia, dalla Bulgaria, dall'Egitto e dall'India è difficile trovare bandiere dello stesso colore. Spesso non ci sono affatto bandiere, ma striscioni colorati, striscioni sui cui è scritto quel che manca alla società perché sia rispettato chi ne fa parte, chi paga le tasse e non si sente compreso, rappresentato e ascoltato dalla politica. La politica è disprezzata in queste rivolte a ogni meridiano, perché divenuta scorciatoia per migliorare le vite di chi ha saputo farsi eleggere o magazzino che stipa interessi aziendali.  Non ci sono bandiere non perché si è dinanzi a orde di ignavi che corrono anonimi dietro a stracci amorfi. No. Non ci sono bandiere perché queste proteste hanno letteralmente cambiato la logica dello scendere in piazza.

Quello che i manifestanti vogliono non è solo un mondo definito, chiaro, che conoscono o che qualcuno ha loro figurato. Non è un unico mondo che hanno disegnato e vogliono realizzare, non c'è socialismo da edificare, lotta di classe da realizzare, proprietà da bruciare e assaltare. O meglio, ci sono anche istanze di questo tipo, ma non sono queste a guidare le rivolte. A guidarle non c'è una sola idea. Sono manifestazioni che vogliono ottenere la possibilità che il proprio mondo sperato e immaginato ne contenga tanti. Si vogliono ottenere maggiori diritti e quindi l'idea di ciò che è già noto non è sufficiente. Nessuno scenario ideale, ma più scenari, tutti terreni, tutti da sperimentare ancor prima che edificare.

E poi la protesta in Brasile, in India, in Turchia, in Egitto è donna, non per una volontà programmatica di ottenere parità tra i sessi, ma per una naturale presenza di donne in piazza che si sono rese protagoniste assolute di questi nuovi percorsi. Le piazze bulgare e turche chiedono una società non corrotta, una società che premi il talento e la bravura. Le donne da sempre sopportano la negazione del proprio talento e la costrizione della propria bravura. Non può esistere una società che lotta perché ci sia possibilità di concorrenza, che pretende che il talento sia premiato e, nello stesso tempo, vincoli la donna. Le militanti del movimento "Femen" hanno trovato il canale adatto a questi tempi per attirare attenzione contro la violenza sulle donne, il sessismo e le discriminazioni. Si mostrano a seno nudo: il loro corpo diventa terreno di battaglia. Sanno che il corpo nudo fa notizia, quindi ne capovolgono il senso: il messaggio da pruriginoso e scandalistico finisce per essere completamente diverso, opposto nel senso. Trucco semplice quanto efficace.

Piazza Tahrir, Il Cairo Piazza Tahrir, Il Cairo Ma l'immagine che non dimenticherò è quella del cordone di protezione attorno alle donne in piazza Tahrir. Protezione necessaria perché in Egitto, come era accaduto in Iran, esiste una precisa strategia, quella di stuprare donne e poi lasciarle andare perché raccontino alle altre, perché siano monito per chi, tra loro, ha intenzione di scendere in piazza. Prese a caso con la forza, quando sono isolate o addirittura strappate al gruppo con cui sono in piazza a manifestare. Ecco, quell'immagine dello spazio tra i manifestanti e le donne non è segregazione - per la prima volta non lo è - ma protezione. In quel modo nessuna donna poteva essere sottratta al gruppo. Su nessuna poteva essere usata violenza.

Ovunque, oltre che per chiedere diritti, si scende in piazza contro corruzione e autoritarismo e non si toglie fiducia alla legge, ma si dà piuttosto fiducia alla democrazia, entrambe divelte e modificate proprio da tangenti, familismo, mafie. Questo accade in territori ricchi di risorse e di energie. In Turchia, in Brasile, in India la corruzione diventa un vincolo alla felicità. Se c'è corruzione c'è meno lavoro, se c'è corruzione non ci sono idee migliori che vincono, ma solo idee protette che si impongono, e non c'è mercato vero. In Brasile si è manifestato non semplicemente perché è stato speso del denaro per i mondiali di calcio, ma perché si sono sprecate in maniera affatto trasparente risorse che potevano essere utilizzate altrove. Si è manifestato per spese fatte senza lungimiranza. Queste sono proteste di territori potenzialmente ricchissimi, dove esistono risorse che vengono dilapidate dalla cattiva gestione. La Bulgaria, tra i paesi balcanici, è quello che si trova in una fase di rinascimento economico potenziale, ed è saccheggiato dalle famiglie mafiose. Eppure in questi luoghi, nei luoghi delle manifestazioni, la corruzione è completamente diversa dalla corruzione in Europa e in Italia. Da noi è un vincolo di accesso: corrompi, puoi lavorare. Corrompi, ottieni un diritto per te. Un diritto che spetterebbe a tutti, lo ottieni solo corrompendo.

Nei paesi in cui si manifesta, eliminata la corruzione - posto che si riesca a farlo - c'è un'infinita ricchezza da gestire. Nel nostro paese, tolta la corruzione, il rischio è che non ci sia niente che possa sostituire quel sistema di mediazione. La corruzione qui da noi è avvertita, incredibilmente, come necessaria. Mentre altrove la lotta alla corruzione è una possibilità di trasformazione, in Italia si teme che debellando quella non resterà nessuna altra risorsa. Apparentemente tutti la detestano, ma in realtà diventa una sorta di scorciatoia per l'accesso al lavoro e al diritto negato. La corruzione mafiosa, per esempio, è ormai l'unica premessa per un'economia florida: con mazzette e percentuali si aprono cantieri, si avviano lavori, si assume. Senza questo, in molti casi, tutto sarebbe fermo. Ecco perché talvolta la domanda "ma se le cose vanno così male perché non scendiamo in piazza anche noi?" sembra più che altro un artificio retorico. Certo i sindacati, i lavoratori, gli studenti manifestano, ma lo fanno con linguaggi assai diversi dalle rivolte che qui stiamo raccontando e il messaggio che passa è che manifestino per sé, che manifestino escludendo, per difendere categorie, in alcuni casi rendite di posizione. Ecco perché guardiamo a queste piazze in rivolta con un senso di nostalgia, come fossero rappresentazione di qualcosa che qui da noi non potrà più accadere. Perché in fondo, questo è il sottinteso, "in Italia la ricchezza privata si mantiene sopra la soglia minima sopportabile, il welfare è ancora sostenibile, quindi di cosa ci lamentiamo".

A falsare tutto si aggiunge questo clima di apparente pacificazione, finalizzato unicamente alla conservazione dell'esistente. Non ci sono prospettive. Crediamo di vivere in uno Stato di Diritto ma a ben guardare questo Stato agisce con comportamenti criminali verso gli immigrati e verso le minoranze. Basta osservare giustizia e carceri per renderci conto che la nostra non può essere considerata una democrazia. Non si trova unione nemmeno nella protesta perché abbiamo gli animi avvelenati dal livore, dalla mancanza di prospettive. Chi ce la fa è corrotto, chi non ce la fa è puro. Il mercato è considerato male, il denaro è considerato male, il potere è male. Governare è male, meglio essere eternamente opposizione.

A tutto viene attribuita una categoria morale: fino che si ragionerà così, non ci saranno istanze di cambiamento perché non cambiare, in fondo, è bene. Gli italiani sono come gli anziani, preferiscono riflettere, pensare, interpretare il passato, rinchiudersi in un passato di glorie, perché temono che il loro futuro sia solo morte. Questa è la più grande delle disperazioni: vivere in un meccanismo che si regge sulla corruzione piuttosto che esserne ammorbato. Vedere la corruzione come un male contro cui urlare, ma da non risolvere e a cui piegarsi, quando necessità impone. Le piazze turche, bulgare, brasiliane, egiziane, nella loro diversità, mostrano la speranza del diritto e la convenienza dell'onestà. Da queste piazze - se riusciamo a scorgerla - la speranza.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/perche-litalia-non-va-in-piazza/2211174//2
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« Risposta #113 inserito:: Novembre 23, 2013, 04:06:16 pm »

Roberto Saviano
L'antitaliano

Se scompaiono i fatti e le notizie

Non c’è più la responsabilità della parola. Vincono il gossip volgare e i falsi retroscena che non verificano nulla. Ne risulta un racconto esposto agli inquinatori di pozzi di professione. Che genera nei lettori la perdita di punti fermi

Scrivere significa assumersi responsabilità. Scrivere è responsabilità. Ormai questo lo sperimenta anche chi non scrive per professione. Prima di scrivere un post su Facebook, ad esempio, che si tratti di un commento a un avvenimento politico o più banalmente all’ultima partita di calcio, si riflette quel tanto che basta per comprendere se il nostro commento sia davvero necessario. Necessario per chi lo leggerà e per noi stessi. Per la nostra storia sul Web, per quello che in quei luoghi virtuali sempre più tangibili rimane di noi. Per quello che, giorno dopo giorno, post dopo post, finisce per costruire una’identità parallela. Ho fatto questa premessa perché talvolta chi scrive per professione sembra dimenticare quanto fondamentale sia comprendere perché si sta scrivendo. E a chi è rivolta la scrittura.

Scrivere per me ha significato soprattutto misurarsi, condividere, conoscere. Strumento di mediazione tra me e il circostante. Se scrivo di Primo Levi o di Anna Politkovskaya, se parlo di Šalamov o di “No, i giorni dell’arcobaleno” in televisione, lo faccio perché questi argomenti sono me. Hanno contribuito e contribuiscono ad alimentare la mia vita e mi aiutano a comprendere ciò che vivo, che vedo, ciò che mi piace e ciò che mi disgusta.

In questo non credo di essere diverso dalla maggior parte delle persone. Quel che senza dubbio mi differenzia, è il privilegio di poter scrivere anche fuori dall’infinito spazio virtuale. Ed è proprio lo spazio che occupano e la diffusione che hanno a rendere pericolose, rischiose, le parole, anche se sono semplicemente recensioni di libri. Rischiose nella misura in cui verranno lette, commentate, riportate. Amate, odiate, condivise, criticate. Le mie parole, le parole di chiunque scriva oggi, devono fare i conti con un tempo in cui la scrittura - giornalistica e letteraria - godeva di una credibilità per noi invidiabile. I “canali di approvvigionamento” erano esigui, e quella esiguità rendeva tutto più autorevole. Negli spazi assai limitati di quotidiani e riviste, trovava posto quello che veniva percepito come necessario e pressoché immutabile. Oggi, invece, l’informazione è continuamente aggiornata e tutto perde il carattere dell’essenzialità, tutto può essere sostituito, contraddetto, smentito dopo poco.

La verifica delle fonti può essere omessa, perché in caso di errore la notizia viene immediatamente modificata, cancellata o ribaltata. Accade così che tra notizia e gossip delle indiscrezioni, del sentito dire, progressivamente finisce per non esserci più differenza. Vincono i retroscena - che spesso non sono altro che la feccia estorsiva del Web - che non devono verificare nulla, ma generare confusione. Il risultato di questo racconto della realtà esposto agli inquinatori di pozzi di professione, genera in chi legge la totale perdita di punti fermi. E su chi scrive? Se ciò che scriviamo sappiamo perdersi nel mare magnum degli scritti sfornati senza soluzione di continuità? Di certo ci convinceremo che le nostre parole non sono necessarie e che possiamo tutto sommato sollevarci da ogni responsabilità.

Si inizia, così, a non scrivere più per un pubblico di lettori eterogeneo e si spera il più vasto possibile, ma per parlare a una sola persona. Il giornalista che ci ha criticato la settimana scorsa, il giudice che ci ha condannato l’altro ieri. Ma queste sono pessime giustificazioni per metter mano alla penna o - più verosimilmente - alla tastiera. È importante che i nostri scritti non rispondano a necessità di vendetta, di rivalsa personale, che non siano grancassa di acidità, punture, ghigni e sfottò. Incapaci di argomentare o di ragionare si preferisce vomitare, sfottere, motteggiare, guardare le unghie sporche e tralasciare il corpo, sentire un accento e ignorare il discorso, far sentire il lettore parte di una società dove tutti sono in fondo schifosi narcisi. Chi ha ridotto a questo la sua scrittura, sottilmente si compiace di schizzare sterco sul mondo ma ignora che di quello sterco, inevitabilmente, finirà per far parte.

La responsabilità della parola, mai come in questa fase, sembra essere svanita perché tutto può essere modificato, persino graficamente, un attimo dopo essere divenuto di dominio pubblico. La sensazione è che anche le responsabilità - come le parole - siano perennemente modificabili, a seconda di chi governa, di chi decide, di chi comanda.
18 novembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/l-antitaliano/2013/11/14/news/se-scompaiono-i-fatti-e-le-notizie-1.141111
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« Risposta #114 inserito:: Gennaio 11, 2014, 04:13:24 pm »

Il Padrino proibizionista

di ROBERTO SAVIANO
09 gennaio 2014
   
Ho sempre detestato droghe leggere e pesanti. Sono quasi astemio, un occasionale bevitore di alcolici. Ma sono, invece, profondamente antiproibizionista. Indipendentemente dal mio rapporto con qualunque tipo di sostanza, dal mio stile di vita, dalle mie passioni e dalle mie repulsioni. Si ritiene, sbagliando, che essere antiproibizionisti significhi tifare per le droghe. Sottovalutarne gli effetti, incentivarne il consumo. Niente di più falso. Spesso, in Italia, le discussioni sui temi più delicati sono travolte da un furore ideologico che oscura i fatti e impedisce un dibattito sereno. È successo con l'aborto, con l'eutanasia, succede con le droghe. E non è possibile che una parte dei cittadini, che la parte maggiore delle istituzioni religiose - con il peso che la Chiesa Cattolica ha in Italia - e che la politica tutta, tranne pochissime eccezioni, si rifiutino di affrontare seriamente e con responsabilità questo tema. Non è possibile che la risposta alla tossicodipendenza sia nella maggior parte dei casi il carcere, che tracima di spacciatori e consumatori, ultimi ingranaggi di un meccanismo che irrora di danaro l'intero nostro Paese.

Proprio dalle pagine di Repubblica un grande giornalista scomparso prematuramente, Carlo Rivolta, raccontava di come la prima generazione di tossicodipendenti veri in Italia, quella degli anni Ottanta, fosse stata abbandonata a se stessa da uno Stato patrigno e non padre. Da uno Stato che preferiva considerare quei ragazzi zombie, morti viventi, tossici colpevoli. Ai quali nessuna mano andava tesa, e dei quali si aspettava solo la morte. Erano causa del loro male. Ci si domanda cosa sia cambiato a distanza di trent'anni, se nemmeno nel dibattito pubblico questi temi hanno trovato posto.

So che la legalizzazione delle droghe è un tema complicato, difficile da proporre e da affrontare. So che pone molti problemi soprattutto di carattere morale, ma un Paese come il nostro, che ha le mafie più potenti del mondo, non può eluderlo. Con tutti i problemi che ha il paese dobbiamo pensare alle canne, ai tossici e ai fattoni? Nulla di più superficiale che questo commento.

Bisognerebbe partire da una semplice, elementare constatazione: tre sono le forze proibizioniste più forti, e sono camorra, 'ndrangheta e Cosa nostra. Del resto Maurizio Prestieri, boss di Secondigliano (rione Monterosa per la precisione) ora collaboratore di giustizia, mi disse una volta durante un'intervista: con tutto il fumo che i ragazzi "alternativi"  napoletani compravano da noi, sostenevamo le campagne elettorali di politici di centrodestra in provincia.

Il proibizionismo (degli alcolici) ha già condotto l'uomo e lo Stato nell'abisso cento anni fa: non ha senso ripetere errori già commessi. La legalizzazione non è un inno al consumo, anzi, è l'unico modo per sottrarre mercato ai narcotrafficanti che, da sempre, sostengono il proibizionismo. D'altronde, è grazie ai divieti che guidano l'azienda più florida al mondo con oltre 400 miliardi di dollari di fatturato annuo. Più della Shell, più della Samsung. Se esiste una merce che non resta invenduta è proprio la droga. L'unica che non conosce crisi, che nonostante sia illegale ha punti vendita ovunque. È la merce più reperibile del mondo disponibile a qualsiasi ora del giorno e della notte.

Nonostante questo, quando in Italia si arriva finalmente a discutere di antiproibizionismo, mancando la consuetudine, mancano finanche le informazioni basilari. I nostri ministri, sul narcotraffico, si limitano a fare encomi quando ci sono sequestri di droga, a elencare latitanti finiti in manette o ancora da arrestare. Eppure l'economia della droga è la prima economia: cemento, trasporti, negozi di ogni genere, grande distribuzione, appalti, camion, banche, compro oro, campagne elettorali - e l'elenco sarebbe interminabile - vengono alimentati dalle arterie del narcotraffico.

Gran parte della politica italiana (con poche eccezioni tra cui i Radicali da decenni impegnati nella lotta al proibizionismo) ritiene la questione legata esclusivamente alla repressione o alle dipendenze. Il dibattito si riduce a un problema di "drogati" o di "mafiosi" e in definitiva - questo è lo sbaglio maggiore - non si vede in che modo possa incidere nella vita quotidiana delle persone. Nulla di più falso.

La verità è che non abbiamo scelta: la situazione attuale impone un'analisi accurata del mercato delle droghe e l'attuazione di un programma che non sarà la soluzione definitiva e immediata, e che forse sarà un male minore, ma necessario. Lasciare il mercato delle droghe nelle mani delle organizzazioni criminali non renderà immacolate le coscienze di quanti ritengono che lo Stato non possa farsi carico di produrre e distribuire sostanze stupefacenti. È proprio questo il punto da affrontare e l'inganno da sfatare. Ad avere occhi per vedere.

Umberto Veronesi da anni si dichiara favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere, pur nella consapevolezza di quanto queste possano essere dannose per gli organismi. Ma adduce ragioni di buon senso che condivido. La proibizione di qualsiasi sostanza crea mercato nero, quindi guadagni esponenziali per le mafie. Fa aumentare il costo delle sostanze stupefacenti, quindi chi ha dipendenza ma non i mezzi economici, finisce per rubare, prostituirsi o spacciare a sua volta. In ultimo le sostanze provenienti dal mercato nero non hanno alcun tipo di controllo e le morti spesso sono causate non da dosi eccessive, ma da sostanze letali usate per i tagli. All'altro capo del mondo, il magistrato brasiliano Maria Lucia Karam, membro del Leap (Law enforcement against prohibition), esprime, a favore della legalizzazione, le stesse motivazioni. Del resto, non dimenticherò mai quanto mi disse una assistente sociale del Nucleo Operativo Tossicodipendenze di Napoli riguardo ai danni che anche semplicemente l'assunzione prolungata di hashish e marijuana possono avere su individui sani. Mi disse che non si trattava semplicemente di capire che effetti avessero hashish e marijuana, ma un cocktail di sostanze incredibilmente varie spesso utilizzate per pompare i panetti di fumo o per rendere gli effetti dell'erba più pesanti. Plastica, cera per scarpe, grassi animali, pezzetti di vetro, ammoniaca. Esistono studi sugli effetti che le sostanze stupefacenti - allo stato puro - hanno sugli organismi; non esistono ovviamente studi per capire che effetti hanno sugli organismi la cera per scarpe o l'ammoniaca, se assunte regolarmente seppure in piccole dosi, ma per anni. E la risposta non può essere "che smettano di farsi se non vogliono essere avvelenati, se non vogliono morire".

Ad aprile del 2012 a Cartagena, in Colombia, si è tenuta la sesta "Cumbre de las Americas" (Vertice delle Americhe) e si è discusso anche di legalizzazione delle droghe. Gli Usa, al tavolo del confronto - come Onu e Ue -, si sono dichiarati contrari alla legalizzazione. Ma hanno però preso atto che le "wars on drugs" sono destinate a fallire. Del resto in alcuni stati federali, la distribuzione di marijuana a scopi terapeutici è stata legalizzata, e a Denver la vendita è stata permessa tout court.

Secondo molti paesi latinoamericani, direttamente interessati dal fenomeno, la strada del proibizionismo non è quella giusta: per comprendere le loro posizioni bisognerebbe studiare a fondo le loro economie e mappare il peso che produzione e distribuzione di sostanze stupefacenti hanno al loro interno.

La Colombia vive una fase di crescita economica inaspettata. Se da un lato ha certamente contato la diminuzione della corruzione delle istituzioni, dall'altro la pressione dei cartelli e della guerriglia è diminuita non per gli interventi del governo americano, ma dei cartelli messicani che oggi sono i padroni delle piantagioni in Colombia distruggendo di fatto i più potenti narcos colombiani. Il presidente uruguayano José Mujica è arrivato alla legalizzazione perché si è reso conto che l'invasione dei cartelli messicani già avvenuta in Colombia, Cile e in Argentina avrebbe compromesso la vita sociale in Uruguay, come sta accadendo al Guatemala, al Belize, all'Honduras, al Salvador, al Perù, dove le fragili democrazie sono totalmente compromesse dal potere dei narcos. La legalizzazione è stato il gesto del governo uruguayano più determinante nel senso della salvaguardia dei propri mercati.

Io credo che la legalizzazione, e non la liberalizzazione, sia l'unica strada. Due termini simili che spesso vengono confusi, ma che indicano due visioni completamente diverse. Legalizzare significa spostare tutto quanto riguarda la produzione, la distribuzione e la vendita di stupefacenti sotto il controllo dello Stato. Significa creare un tessuto di regole, diritti e doveri. Liberalizzazione è tutt'altro. È privare il commercio e l'uso di ogni significatività giuridica, lasciarlo senza vincoli, disinteressarsi del problema, zona franca. Invece legalizzare è l'unico modo per fermare quel silenzioso, smisurato, violento potere che oggi condiziona tutto il mondo: il narco-capitalismo.

© Riproduzione riservata 09 gennaio 201

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/01/09/news/padrino_proibizionista-75455346/?ref=HREC1-5
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« Risposta #115 inserito:: Gennaio 26, 2014, 11:47:32 pm »

Il gran menu della camorra e gli occhi chiusi dello Stato

Locali nel centro di Roma, in Toscana, in Campania. Bar, gelaterie, ristoranti: un elenco sterminato. I clan approfittano della crisi che costringe gli imprenditori a cedere il passo. E investono. Ma attenzione: qui non è semplice riciclaggio, è un vero sistema che assiste l'economia legale. Nascono catene di franchising dove i camerieri lavorano non conoscendo il loro vero padrone. La clientela mangia felice - spesso anche bene - ignara di quale business sta alimentando

di ROBERTO SAVIANO
   
IMMAGINATE di essere turisti a Roma, di andare in un bel ristorante, magari da "Zio Ciro", vicino piazza Navona. Un ristorante che ha una buona presentazione sul web e una buona reputazione culinaria. E poi immaginate nel pomeriggio di entrare in una gelateria, magari proprio da "Ciucculà", vicino al Pantheon. E infine, di andare a riposare prendendo in affitto una camera a Piazza di Spagna, nel cuore più prestigioso della capitale. Immaginate di andare proprio lì, al numero 33, e di usufruire dei servizi dalla società "Spagna Suite" (poi ceduta). Ecco, in ogni vostro singolo passaggio, avreste avuto a che fare con capitali di camorra. Non ve ne sareste accorti, perché le persone che avrete incontrato in tutte queste attività sono lavoratori perbene, e loro stessi (in molti casi) non immaginano chi siano i loro superiori.

Oppure il vostro percorso avrebbe potuto essere diverso. Potreste aver scelto una pizzeria, sempre della catena Zio Ciro, ma questa volta a Sant'Apollinare, magari proprio dopo aver visitato la chiesa. Oppure una vecchia osteria, "L'Osteria della vite" o il ristorante "Il pizzicotto" in via Gioacchino Belli. E dopo, un caffè al bar "Sweet" di piazza della Cancelleria. Anche questo secondo itinerario vi avrebbe portato, involontariamente, a entrare nell'economia del sistema camorra.

Ma l'elenco è sterminato e sterminate sono le combinazioni che testimoniano quanto la camorra sia entrata a far parte della nostra vita quotidiana, una vita fatta di gesti usuali (mangiare una pizza, bere un caffè, prendere in affitto una stanza) ai quali non prestiamo più attenzione. Gesti che consideri sicuri, che credi non potrebbero metterti in connessione con i più potenti poteri criminali. Locali in via Giulio Cesare, in via Fabio Massimo, in via Mameli, e poi in via Rasella, in via delle Quattro Fontane, in via della Pace, in via di Propaganda, in via del Boschetto. Pizzerie, bar, ristoranti, camere in affitto, e poi società sportive. È l'impero dei clan a Roma. O meglio, è la parte dell'impero dei clan che ora conosciamo. Ed è solo una piccola parte.

E Roma non è un punto d'arrivo: i recenti sequestri hanno interessato anche Viareggio  -  dove i clan avevano messo le mani su uno dei luoghi più noti della città, l'ex bar-pasticceria "Fappani"  -  e poi a Pisa, su "L'arciere" e "l'Antico Vicoletto". E poi ancora sul ristorante "Salustri" di San Giuliano Terme e "L'imbarcadero" di Marina di Pisa. E poi nelle Marche, a Gabicce Mare, il caffè "Vittoria". Tutti questi sono locali considerati dalle Dda di Roma e di Napoli, coordinate dalla Dna, "lavanderie" della camorra, frutto del riciclaggio. Ricchezza che proviene dalla cocaina, dall'hashish, dalle estorsioni, dalla contraffazione di capi d'abbigliamento griffati.

Non è semplice riciclaggio. Non è semplice lavanderia. Questo è un vero e proprio sistema che assiste l'economia legale. Il riciclaggio classico, quello che conosciamo, usa le attività commerciali più disparate, spesso sofferenti, per pulire danaro. Qui, invece, si tratta di marchi, di vero e proprio franchising. "Zio Ciro" e "Sugo", per esempio, secondo la Dna vengono assistiti dal capitale criminale. Laddove ci sono vuoti dovuti alla crisi o a insuccessi imprenditoriali, arrivano i capitali sporchi a sostenere le attività. È una nuova forma di investimento mafioso, una declinazione specifica del riciclaggio. È come se una società potesse godere di un livello "pulito", che si relaziona alla clientela e al mercato seguendo le leggi dello Stato in cui opera, e di un livello "ombra", che arriva in soccorso del primo quando bisogna rilanciare un prodotto, quando bisogna espandersi sul mercato o battere la concorrenza.

Quindi non solo più ripulitura, fatture false, scontrini fittizi. No. Investimenti veri e propri che rendono i clan le stampelle delle economie sofferenti, delle economie piegate dalla crisi. A questo nuovo tipo di riciclaggio non si è ancora pronti. L'Europa non è pronta. Sono moltissime le catene di ristorazione e di distribuzione che d'improvviso aprono filiali in decine di paesi nel mondo. Aprono senza che sia razionalmente possibile giustificare tali exploit, tanto è difficile cogliere e tracciare i loro movimenti sul mercato. E non ci sono leggi e regole che permettono di scoprire l'origine del danaro di questi grandi gruppi. Le loro società si perdono tra Andorra e Lussemburgo, tra Lichtenstein e le Cayman, ma anche a Londra e Berlino. I paesi dove aprono società le organizzazioni e versano i loro capitali sono sempre di più nel nord Europa. Scoprirle è divenuto quasi impossibile.

In questo caso specifico gli inquirenti sono riusciti a scoprire la borghesia criminale camorrista. Il ruolo del clan Contini, la base a Napoli, a San Carlo all'Arena un'organizzazione potente guidata dal boss Eduardo Contini "ò romano", ossessionato dall'eleganza ma anche da una gestione diplomatica degli affari. Interessato a un narcotraffico che non inficiasse troppo il territorio (nota la sua opposizione al kobret e la sua volontà di spostare tutta la vendita di droghe su Roma e nel Lazio) sopravvissuto a tutte le faide di camorra, era entrato nella dirigenza del cartello di Secondigliano per via matrimoniale. Le sorelle Aieta sposarono tre camorristi che divennero poi dirigenti dei cartelli dell'area Nord. Maria sposò Contini, Rita sposò Patrizio Bosti e Anna sposò Francesco Mallardo. Tre capi storici. Tre uomini di camorra interessati a Roma.

La famiglia che su Roma diventa interfaccia dei clan sono i Righi. Proprio monitorando le attività dei fratelli Righi  -  Salvatore, Luigi e Antonio, veri e propri sovrani della ristorazione  -  gli inquirenti sono riusciti nella difficilissima individuazione dei percorsi di riciclaggio. I fratelli Righi  -  secondo le accuse delle Procure Antimafia di Roma e Napoli  -  diventerebbero riferimento dei capitali del clan Contini, ma anche del clan Mazzarella e Amato-Pagano. Non avrebbero agito garantendo l'esclusiva a un unico "committente". I clan davano il danaro, e loro sapevano come farlo fruttare. E bene.

Quando i Righi rivogliono dal broker Luca Sprovieri i soldi liquidi che questi aveva ricevuto per investire nella finanza in Svizzera (e del quale, secondo gli stessi Righi, si era impossessato), si rivolgono a Oreste Fido. Un camorrista che  -  secondo le accuse  -  gli risolve tutti i problemi di questo genere. In cambio, i Righi assumono suo nipote in un ristorante, prendono parte a sue società. Grazie a questa alleanza con gli imprenditori principi di Roma, Fido vuole fare concorrenza al potere degli Scissionisti. I Righi garantiscono con le banche, gli fanno avere fideiussioni per consentirgli di ottenere finanziamenti volti ad avviare alcune attività commerciali nel settore delle calzature (dove a fianco a prodotti veri ci sono prodotti falsi, così da poter vendere scarpe note a prezzi bassissimi) e nel settore delle polizze assicurative Rc-auto. I Righi  -  esponendosi moltissimo  -  si legano ad un camorrista per avere vantaggi sul ritorno crediti e entrature dirette nei clan. Il loro errore è stato aver mischiato i livelli.

I cartelli criminali lo sanno. Chi crea danaro deve sporcarsi con la droga e fare morti. Vivere in latitanza e in carcere. Ma poi c'è il livello economico, ossia gli investitori che non c'entrano né con il sangue né con il narcotraffico. E poi c'è il livello politico, che più è lontano dal segmento militare più avrà garanzie. Ad ogni livello il suo compito. Ecco la difficoltà di ricostruire la filiera. Negli anni passati non era così. La vicinanza e promiscuità tra mafioso e commerciante erano assai più contorte.

Comunque, quando il broker Sprovieri deve spiegare a Luigi Severgnini chi sono i Righi, consigliandogli di non mettersi in affari con loro, ecco cosa dice:

"SPROVIERI Luca: io spero. .... spero anche che mi dia i documenti perché lui ha promesso di darmi..... di restituirmi i documenti.....

SEVERGNINI Luigi: no ascolta.... Luca ti posso dire una cosa..... non fanno i ladri di lavoro

SPROVIERI Luca: no, fanno peggio

SEVERGNINI Luigi: no, non fanno neanche peggio

SPROVIERI Luca: si fanno peggio

SEVERGNINI Luigi: è il finale, hai capito? È proprio il finale, cioè è il finale, di tutto! questo non me lo ha detto..... come si chiama.....

SPROVIERI Luca: no, no, fanno anche peggio

SEVERGNINI Luigi: Antonio Righi

SPROVIERI Luca: fanno anche peggio, fanno anche peggio

SEVERGNINI Luigi: questo non lo so, però mi han detto senti Luigi, questi non è che fanno i mariuoli, questi che sono qua a Napoli, questi sono il finale, raccolgono tutto ciò che fanno gli altri...... eh! Luca per favore....... ".

Non "mariuoli", ma sono "il finale". Ecco una nuova categoria che assumerà nel tempo un vero e proprio ruolo scientifico nell'analisi del riciclaggio. "Il finale". I Righi sono il finale.

Immaginate cosa può accadere, immaginate cosa di fatto accade nell'Italia della crisi. Si presentano broker, commercialisti, avvocati, offrono di diventare partner, offrono di diventare soci, portano soldi, enormi liquidità che significano sicurezza. E lentamente entrano, si insinuano, fino a impadronirsi di intere società. Le utilizzano per riciclare, ma poi sono abili ed economicamente forti e quindi sono anche buoni investimenti che nel tempo produrranno degli utili.

Così come è avvenuto in Veneto e in Lombardia, e come hanno dimostrato le inchieste Aspide e Crimine, sfruttano la disperazione di chi vede fallire il lavoro di una vita. Di chi immagina sul lastrico decine e decine di famiglie, quelle dei dipendenti che, se l'azienda fallisce, non avranno più di che vivere. Non è un'imposizione militare o un saccheggio estorsivo. Le porte le aprono  -  anzi, le spalancano  -  gli imprenditori che sperano di poter migliorare la loro condizione. Questo meccanismo è divenuto prassi.

La cosa più allarmante è che le nuove generazioni non negano l'esistenza della camorra, della 'ndrangheta, di Cosa Nostra. Non dicono più, fatti salvi alcuni casi rari e patetici, che è tutta un'invenzione dei giornali o della televisione. La nuova omertà è rispondere, a chi dice che la nostra quotidianità è ormai nelle mani dei clan: "E allora? Sappiamo che esistono, lo sanno tutti". La nuova omertà è considerare fisiologica l'esistenza del potere criminale, percepirla come elemento scontato. Ecco, questa è la nuova omertà.

E persino la linea delle nuove generazioni di affiliati si accorda al sentire comune: "Se vuoi fare business, devi necessariamente non seguire le regole". Regole che sono percepite come ingiuste, inique, una rete dalle cui maglie si prova costantemente a sfuggire: non si può essere ricchi e potenti senza fare scorrettezze, questo è quanto si vuole costantemente suggerire. Questo è il veleno che, a piccole gocce, è stato versato nelle orecchie degli italiani. E certo non ci si augura di essere miserabili e sconfitti. Questo l'adagio che si ascolta sempre più spesso. La confusione di considerare tutti corrotti e tutti ugualmente schifosi, genera una sorta di territorio franco per le attività criminali.

L'analisi del potere criminale è opera certosina e attenta: quel che risulta evidente è che loro stessi vogliono essere confusi con quei "tutti" corrotti e schifosi, che nel peggiore dei casi, sono meno corrotti, criminali e schifosi di loro. La nuova omertà è il "si sa", è il "tutto è stato detto, scritto, indagato". È la banalizzazione di questa che è la nostra tragedia. Una tragedia che ci sta uccidendo giorno dopo giorno e di cui non ci rendiamo più conto. Di cui non ci accorgiamo più.

Prima regola, dunque, è non considerare fisiologico tutto questo. E la politica del contrasto alle mafie, sul piano economico, non sta facendo nulla. Nulla di nulla. E poco, pochissimo, sta facendo rispetto all'emergenza economica vera e propria. La politica deve intervenire e non fare più una generica assistenza. Non può permettersi più di attaccare solo "moralmente" le organizzazioni e di esprimere solidarietà a chi è a rischio. Tutto questo è corretto, ma non è sufficiente. Nel dibattito politico è scomparso il contrasto all'economia criminale.

Adesso questi locali che fine faranno? Tempo fa parlammo con don Luigi Ciotti del progetto di sottoporre all'opinione pubblica la scelta di far vendere le aziende controllate dalla criminalità organizzata e sottoposte a sequestro. Le aziende non devono morire quando vengono commissariate. Devono tornare alla legalità. Lo Stato deve essere più forte, deve essere attento, deve monitorare affinché non le ricomprino le stesse organizzazioni criminali. I beni immobili devono essere dati alle associazioni, come in effetti avviene. Ma le aziende, i negozi, devono ritornare nel mercato e nella legalità. Non solo. Bisogna comprendere che in questo momento, sia in Italia che in Europa, la politica sta facendo troppo poco per evitare l'infiltrazione dei capitali criminali nell'economia reale. Per ogni imprenditore in crisi c'è un cartello pronto a rilevare la sua azienda. Per ogni evasore c'è un broker pronto a dargli possibilità di rivestimento di quel danaro. Per ogni azienda legale che assume regolarmente c'è una concorrente che vince utilizzando capitale narcotrafficante. E in tutto questo le banche (basta vedere i conti correnti dei Righi per averne conferma) sono spesso silenziose conniventi.

O la legalità diventa conveniente o assisteremo sempre più spesso al dramma di tanti imprenditori che, per continuare ad essere "sani", finiranno sconfitti. Questo è il macro-tema del momento. Chiediamo a questo governo e alle opposizioni di affrontarlo immediatamente. Non c'è più tempo. Non bastano più solidarietà e antimafia morale. Fatti, regole, leggi: c'è bisogno di mettere mano a tutto questo. Subito. O sarà tardi. Troppo tardi.

© Riproduzione riservata 24 gennaio 2014

Da - http://www.repubblica.it/cronaca/2014/01/24/news/il_gran_menu_della_camorra_e_gli_occhi_chiusi_dello_stato-76786763/?ref=HRER1-1
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« Risposta #116 inserito:: Marzo 04, 2014, 07:28:16 pm »

Saviano a Renzi: "Prendo sul serio l'impegno anti-cosche".
Da Civati piano sull'autoriciclaggio

L'autore di 'Gomorra' risponde su Facebook alla lettera del premier. Ma l'appello lanciato contro l'economia criminale imprime un'accelerata al dibattito: la Bindi sollecita il governo sui reati-spia mentre il deputato Pd porta in commissione un emendamento per contrastare il movimento di capitali illeciti

03 marzo 2014
ROMA - Una proposta sull'autoriciclaggio che Pippo Civati lancia all'indomani del dibattito sollevato dall'appello dello scrittore Roberto Saviano contro l'economia criminale. Un dibattito che ha subìto una imprevista accelerazione nel momento in cui il premier Matteo Renzi ha deciso di rispondere all'autore di Gomorra con una lettera pubblicata su Repubblica: vi si annunciano cinque mosse per sconfiggere la mafia e l'istituzione del commissario anti-corrotti. Alla lettera del capo del governo, Saviano risponde con un post su Facebook in cui gli dice che intende prendere sul serio l'impegno anti-cosche annunciato dal presidente del Consiglio.

A intervenire sulla questione è, poi, Rosy Bindi, che in qualità di presidente della commissione Antimafia sprona il governo a intervenire alla svelta per un decreto sui reati-spia.

Ma sempre in casa Pd è il deputato Civati, esponente della minoranza interna al partito, a presentare un emendamento pronto ad approdare in commissione Finanze della Camera. Si tratta di una proposta che il governo Letta aveva già approvato in consiglio dei ministri salvo poi stralciarla dal decreto legge sulla 'Voluntary disclosure' e inserirla nel pacchetto sicurezza che non ha mai visto la luce. Nelle intenzioni, la norma proposta intende contrastare il movimento di capitali illeciti.

© Riproduzione riservata 03 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/02/news/saviano_renzi-80039078/?ref=HREC1-14
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« Risposta #117 inserito:: Marzo 15, 2014, 08:42:51 am »

Pugno duro sul voto di scambio e autoriciclaggio
Ecco un decalogo per combattere la corruzione
L’appello di Saviano per l’authority che verrà guidata da Raffaele Cantone

di ROBERTO SAVIANO
   
Pugno duro sul voto di scambio e autoriciclaggio Ecco un decalogo per combattere la corruzioneRaffaele Cantone (ansa)

NEGARLO sarebbe colpevolmente ingenuo: ciò che rende l’Italia un Paese in cui sembra non valere più la pena investire e da cui sembra sempre più necessario emigrare è soprattutto la corruzione. Una corruzione che non è il banale istinto a rubare, che razzismi minori imputano alla cultura di un Paese. Non si tratta di episodico malcostume, ma di meccanismi reali, fin troppo tangibili, concreti e diffusi ovunque: una macchina sommersa e infame che garantisce i complici del sistema e esclude gli onesti.

E spesso trasforma in complici gli onesti: costretti a piegarsi per vedere riconosciuti i loro diritti. Perché chi ne sta lontano vede chiudersi troppe porte. Chi la vuole evitare, vede ridursi la possibilità di accedere ad appalti, cariche, ruoli, affari. La corruzione sembra divenuta il metodo di selezione principale in un paese che non sa più premiare merito e concorrenza. Se non sai chi pagare e quanto pagare, spesso non avrai le autorizzazioni giuste, il documento che ti occorre, l’accesso a una informazione. Chi non paga non verrà eletto. Chi non sa innescare scambi di favori non riceverà scatti di carriera. Chi non entra in questi meccanismi e vuole fare impresa o politica — troppo spesso — si trova davanti muri insormontabili.

Non tutto il paese è così, naturalmente, ma l’Italia, agli occhi di chi ci osserva, è una Repubblica fondata sullo scambio di favori. Il resto del mondo non è certo il paradiso in terra, ma semplicemente molto spesso certe scelte altrove risultano più chiare e soprattutto trasparenti. Magari si conoscono i legami tra finanziatori e finanziati e questo rende più facile potersi orientare nella lettura delle scelte che vengono fatte. Ciò che spesso tendiamo a sottovalutare è che vivere in un paese in cui la corruzione è necessaria per qualunque cosa, anche per ottenere ciò che sarebbe dovuto significa vivere solo nominalmente in una democrazia.

Una democrazia corrotta non è democrazia, perché calpesta il primo diritto: quello dell’uguaglianza.

La scelta di un magistrato da sempre impegnato in prima linea come Raffaele Cantone alla guida dell’Autorità anticorruzione è una nomina importante, potrebbe fare la differenza ma alla sola condizione che anche l’Anticorruzione cambi. Raffaele Cantone deve essere messo nella condizione di poter lavorare, di poter lavorare serenamente, di poter lavorare davvero. Perché il compito è tremendo, l’impresa è difficile, e richiede un lavoro da certosino: costruire una squadra di persone competenti, e poi studiare, monitorare, e provare che ciò che si è ipotizzato corrisponda a realtà. Trovare soluzioni, proporle e fare in modo che vengano accettate da un governo che potrebbe mostrare contraddizioni, attriti e divisioni interne. Le cose da fare sono molte, moltissime, prioritarie e vitali. Ho provato a stilare un elenco di dieci punti, quelli che a me paiono più urgenti, sperando che su questo tema l’attenzione resti costante.

1) Oltre a Raffaele Cantone ci saranno altri quattro membri: è necessario che siano di alto profilo, perché il lavoro da fare dovrà essere senza attriti e contrasti superflui. Non dovranno essere scelti in quota politica, ma per le loro reali competenze e qualità. Questo punto è fondamentale, da qui parte tutto il lavoro.

2) Bisogna rivedere in via normativa i poteri del Commissariato per consentire di fare un controllo completo ed efficiente. Ad oggi il Commissariato non ha poteri di intervento immediato reali.

3) Il governo deve dare poteri sanzionatori per colpire quelle parti delle amministrazioni che non collaborano dando informazioni. I responsabili delle amministrazioni che non consentano i controlli dell'agenzia o che non adempiano agli obblighi previsti dalla legge devono essere sanzionati direttamente dall'agenzia a cui va riconosciuto un potere sanzionatorio analogo altre authority.

4) Devono essere ampliati i momenti di trasparenza in particolar modo per tutte le attività in cui girano soldi. Gare d’appalto, finanziamenti, grandi eventi, cantieri.

5) Bisogna allontanare dalle amministrazioni i dipendenti condannati.

6) È fondamentale prevedere incompatibilità fra cariche politiche e amministrative o di gestione.

7) Non bisogna attenuare le cause di incandidabilità.

Fico Bisogna modificare i termini della prescrizione per i reati in materia di corruzione.

9) Introdurre il reato di autoriciclaggio e rendere più severe le pene per il falso in bilancio. Questo reato, infatti, è punito in modo ridotto e solo a certe condizioni. Vengono perseguiti solo enormi falsi molto difficili da individuare.

10) Modificare la legge contro il voto di scambio.

Tutto questo partendo da un assunto fondamentale: dal 2003, ovvero da quando “l’Alto commissario per la prevenzione e il contrasto della corruzione e delle altre forme di illecito all'interno della pubblica amministrazione” è nato, non è riuscito mai ad avere un vero ruolo. Il primo a ricoprire questo incarico fu il magistrato Gianfranco Tatozzi che lasciò la carica dopo poco, per la «scarsa sensibilità» dimostrata rispetto ai temi della corruzione dal governo Berlusconi. Poi arrivarono Bruno Ferrante, Achille Serra e Vincenzo Grimaldi, ma nessuno di loro è riuscito a dare un ruolo incisivo all’azione del Commissario, a monitorare ciò che accade in un paese dove le crisi di governo sono la priorità. Prioritarie anche e soprattutto rispetto alla credibilità del tessuto economico, che in questi anni è stato letteralmente distrutto dalle organizzazioni criminali.

Con Giulio Tremonti l’Alto commissario fu sospeso, per rinascere poi con un nuovo nome “Autorità nazionale anticorruzione e per la valutazione e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche”.

Ma il nuovo nome dato non è servito a granché: la verità è che in poco più di 10 anni di vita l’istituzione non ha mai funzionato veramente. Il nuovo governo riuscirà a renderla efficiente? Una struttura del genere, questo deve essere chiaro, non solo all’esecutivo appena insediato ma a chiunque abbia a cuore il futuro dell’Italia, può risultare fondamentale per la capacità immediata di disarticolare i meccanismi corruttivi che regolano segretamente tanta parte della nostra economia. La scelta di Cantone è un gesto di buona volontà ma è solo il primo passo. Raffaele Cantone deve essere messo nelle condizioni di lavorare e con il potere necessario per non trovarsi in un guscio vuoto, alla guida dell’ennesimo ente inutile. Con le sue capacità e la sua storia professionale può davvero essere un valore aggiunto. C’è molto da fare: su questo si misurerà l’operato del governo e dello Stato. Attendiamo.

© Riproduzione riservata 12 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/12/news/pugno_duro_sul_voto_di_scambio_e_autoriciclaggio_ecco_un_decalogo_per_combattere_la_corruzione-80786708/?ref=HRER2-1
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« Risposta #118 inserito:: Giugno 22, 2014, 05:55:35 pm »

I boss e il crocifisso: il Papa smaschera la grande menzogna sugli uomini d’onore
Da sempre i mafiosi hanno cercato di apparire devotissimi e cattolicissimi.
Dopo il gesto di ieri si potrà recidere ogni legame tra i clan e le parrocchie


Di ROBERTO SAVIANO
22 giugno 2014
   
 “GLI uomini della ‘ndrangheta non sono in comunione con Dio, sono scomunicati”. Le parole di papa Francesco fanno entrare la Chiesa in una nuova era.

Le ha pronunciato in Calabria non a Roma. Le ha pronunciate sapendo che sarebbero arrivate forti e chiare. È andato a confortare i parenti di Cocò il bambino di tre anni ucciso con un colpo in testa e bruciato a Cassano allo Ionio. Un bambino ucciso è la prova oggettiva e definitiva della menzogna “d’onore” dei mafiosi. Bergoglio, ricordando questo bambino massacrato, non ha avuto bisogno di dimostrare con altre parole la barbarie del potere criminale. Ha annullato con un gesto la menzogna con cui la ‘ndrangheta si autocelebra come società d’onore e di difesa di deboli, poveri, e come distributrice di giustizia, lavoro e pace sociale.

Qualcuno potrebbe credere che sia naturale e scontato per la Chiesa ricordare un bambino ammazzato e bruciato, e denunciare i colpevoli. Ma purtroppo non è così. Ecco cosa disse il parroco di Cassano, don Silvio Renne, qualche tempo fa in un’intervista a Niccolò Zancan: «Ancora Cocò? È una storia chiusa. Abbiamo fatto il funerale. Io non sono un investigatore. Non spetta a me dire chi è stato. E poi è ancora tutto da dimostrare se c’entra la droga o la ‘ndrangheta...».

Per Papa Francesco non è storia chiusa e non teme di dire che i colpevoli sono i mafiosi. Tenere fuori dalla cristianità gli affiliati, dichiararlo in Calabria è atto di coraggio, non è scelta retorica, non è disquisizione teologica. La scomunica è parola smarrita nel tempo, pena del diritto canonico che ha perduto il senso drammatico e spesso persecutorio che ha avuto dal IV secolo sino alla fine dello Stato della Chiesa. Ma oggi diventa invece il gesto più fortemente simbolico possibile per estromettere dalla cristianità le organizzazioni mafiose, per tagliare i legami che tante volte hanno stretto con le parrocchie locali. Le parole del Papa tuonano come dichiarazione finale, e denunciano senza scampo la menzogna dei mafiosi che si autoproclamano cattolici e fedelissimi alla Chiesa di Roma. Anche Giovanni Paolo II aveva pronunciato — il 9 maggio del 1993 ad Agrigento — un attacco durissimo alla mafia: «Convertitevi, verrà il giudizio di Dio». Due mesi dopo i corleonesi misero una bomba a San Giovanni in Laterano.

Ma poi l’impegno antimafia dei vertici ecclesiastici sembrò affievolirsi delegando tutto ai preti definiti di “frontiera” o di “strada” a seconda della moda giornalistica.

Ora, invece, se la Chiesa vuole essere conseguente e non ripetere gli errori del passato, deve far seguire a questa scomunica una serie di comportamenti fondamentali, come il rifiuto delle donazioni dei mafiosi; l’allontanamento dopo accertamenti e condanne dei preti considerati conniventi; la creazione di una commissione antimafia in seno alla Chiesa che possa vagliare indipendentemente dalle autorità di polizia il rapporto, l’estensione della scomunica ai politici, imprenditori che si considerano cattolici e che hanno relazioni con le organizzazioni criminali.

La scomunica è un’arma potente perché nella logica abnorme della narrazione mafiosa il legame con la religione è fondante: c’è tutta una ritualità distorta che regola la cultura delle cosche. L’affiliazione alla ‘ndrangheta avviene attraverso la «santina», l’effigie di un santo su carta, con una preghiera. San Michele Arcangelo è il santo che protegge le ‘ndrine: sulla sua figura si fa colare il sangue dell’affiliato nel rito dell’iniziazione. La dirigenza gerarchica massima della ndrangheta è definita “santa” al cui interno un grado superiore si chiama “vangelo”.

Il potere è considerato un ordine provvidenziale: anche uccidere diventa un atto giusto e necessario, che Dio perdonerà, se la vittima mette a rischio la tranquillità, la pace, la sicurezza della “famiglia”. La Madonna viene vista come la mediatrice tra l’uomo costretto al peccato e suo figlio Gesù che attraverso di lei comprende che quell’effrazione è stata fatta a fin di bene, in una mondo di peccati ed ingiustizie. I sacramenti stessi sono usati per consolidare i legami mafiosi. In passato, quando nasceva un maschio, il giorno del battesimo gli veniva messo accanto un coltello e una chiave: se il bambino toccava il coltello era destinato all’ “onore” se toccava la chiave a diventare sbirro. Ovviamente la chiave veniva sempre messa distante.

Tra i motivi che portarono alla morte di don Peppino Diana ci fu la sua acerrima lotta ai clan che volevano sfruttare i sacramenti come viatici alla cultura camorrista. La ‘ndrangheta è struttura completamente permeata dalla cultura cattolica. A Polsi il 2 settembre al santuario della Madonna in Aspromonte i capi si riunivano mischiandosi ai fedeli per dare nuove investiture e costruire alleanze, siglare patti. Non a caso l’” albero della scienza” metafora della struttura ndranghetista si trova proprio vicino al santuario.
Le storie di intreccio tra chiesa e ‘ndrangheta sono moltissime. Le chiese sono state usate come territorio di negoziato fra i clan: durante una messa nel 1987 la vedova del capo assoluto degli “arcoti” Paolo De Stefano, ammazzato dal “nano feroce” Antonino Imerti, chiese la fine di una delle faide più cruenti della storia criminale internazionale. Ci sono stati sacerdoti accusati di complicità: come Don Nuccio Cannizzaro, parroco di Condera accusato dall’antimafia di falsa testimonianza a difesa del sistema ndranghetista dei Crucitti e Lo Giudice. O don Salvatore Santaguida prete di Vibo Valentina accusato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Nel 2009 la famiglia Condello è persino riuscita ad ottenere la lettura delle parole di felicitazione di Benedetto XVI trasmesse nella cattedrale di Reggio Calabria da don Roberto Lodetti, parroco di Archi, agli sposi Caterina Condello e Daniele Ionetti: la prima, figlia di Pasquale; il secondo, il figlio di Alfredo Ionetti, ritenuto il tesoriere della cosca. La prassi vuole che quando gli sposi desiderano ricevere un telegramma o una pergamena del Papa, ne facciano richiesta al parroco o ad un prete di loro conoscenza, il quale trasmette la richiesta all’ufficio matrimoni della Curia. Desta scandalo il via libera dato dalla Curia reggina per le nozze in cattedrale di due rampolli di una potentissima ‘ndrina calabrese. Difficile credere che non si sia prestata attenzione ai cognomi dei due sposi. Anche perché Caterina Condello e Daniele Ionetti sono cugini di primo grado e il diritto canonico (art. 1091) consente un matrimonio tra consanguinei solo con motivata dispensa richiesta dal parroco e sottoscritta dal vescovo.

La chiesa che ha portato il Papa a pronunciare queste parole non è solo la chiesa dei martiri, ma la chiesa di tutti quei preti che in territori difficilissimi e tormentati rappresentano l’unica via possibile al diritto, l’unica strada alla dignità laddove lo stato spesso è solo manette e sequestri di beni, dove non c’è alternativa tra emigrare o vivere nella totale disoccupazione. In Calabria don Giovanni Ladiana e don Giacomo Panizza sono tra gli esempi di chiesa che si fa prassi di resistenza, non semplice simbolo antimafia, ma creazione di una via possibile al diritto al conforto, alla condivisione, al futuro.

Questa scomunica è solo l’inizio di un percorso che potrà risultare epocale.

© Riproduzione riservata 22 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/22/news/la_grande_menzogna_dei_boss-89682918/?ref=HRER1-1
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« Risposta #119 inserito:: Luglio 26, 2014, 11:05:19 am »

Saviano: Ruby, un'inchiesta, due sentenze
Di ROBERTO SAVIANO
22 luglio 2014
   
Non è questione solo italiana quella di una sovrapposizione tra politica e giustizia. Ma è fuori discussione che il grado di maturità democratica può essere misurato tenendo conto di quante volte e quanto indebitamente i due piani si mischiano. Processare il primo ministro in carica per fatti gravi è possibile e una democrazia matura deve potersi permettere i contraccolpi che ne derivano. Senza berciare al colpo di Stato o senza richiedere l'istituzione di fantomatiche commissioni d'inchiesta, finalizzate non certo a comprendere quanto sotto gli occhi di tutti, ma evidentemente a riscrivere la storia.

Dopo la sentenza di assoluzione in appello per Silvio Berlusconi è partito un coro meschino di accuse a Ilda Boccassini, il magistrato che ha condotto l'inchiesta che ha dato origine al processo.

Le sentenze vanno accettate ma allo stesso tempo non si può cedere alla logica poco democratica, secondo la quale non potrebbero essere commentate. Come ogni azione umana, come ogni azione pubblica che produce effetti sulla vita di ciascuno, anche le sentenze possono essere commentate.

La magistratura è un ambito ben più complesso di ciò che si vede, di ciò che si vorrebbe mostrare e il berlusconismo, nei suoi effetti più nefasti, ha reso poco credibile ogni critica al suo operato, poiché ne ha cristallizzato l'idea su un piano di opposizione politica oggi ancor più insostenibile.

Ilda Boccassini ha gestito con rigore il suo lavoro, mentre il modus operandi di molti era quello di condividere atti di indagine, con l'obiettivo di ottenere in questo modo protezione mediatica. Non è mai stato il suo caso. In una democrazia sempre più marcia, Ilda Boccassini non ha mai occhieggiato alle facili praterie infuocate dell'antipolitica, nelle quali tutte le istituzioni sono schifose e solo la magistratura è sana. Non è necessario ricordare semplicemente la sua presenza a Palermo, la sua vicinanza a Falcone e l'infuocato j'accuse formulato all'indirizzo di colleghi imbelli e poco degni del proprio ruolo, poiché è nella storia recentissima il segno del suo operato, con i fondamentali risultati giudiziari di quella inchiesta "Infinito", che ha mostrato quanto capillare sia il potere della 'ndrangheta in Lombardia.

È per questa ragione che oggi non mi interessa aggiungere la mia voce a quella di chi ha voluto commentare gli esiti del processo Ruby, tra primo e secondo grado. Mi interessa piuttosto difendere un metodo investigativo che non ha mai cercato le luci della ribalta e che ha portato a quella sentenza di primo grado emessa da un Tribunale, da un collegio di magistrati e non certo dalla Procura della Repubblica. In questi anni ho letto atti relativi a decine, forse centinaia di inchieste, talvolta mediocri, talvolta superficiali, talvolta costruite sin dal principio contando sull'appoggio della stampa. Ilda Boccassini non è questo, poiché non è mai stata questa la tradizione cui si rifà.

L'interpretazione del diritto non è univoca, altrimenti non sarebbe interpretazione, e dunque il dibattito sul sovvertimento della decisione in secondo grado è legittimo e visto il soggetto coinvolto anche necessario. Detto ciò, voler leggere e contestualizzare politicamente questa sentenza, o peggio, voler giocare, come è sempre accaduto in questi anni, alla sfida tra giustizialisti e garantisti - laddove in Italia questi ultimi, quasi sempre, non sono altro che soggetti diversamente giustizialisti - oltre che inutile è dannoso. Poiché questa incultura allontana ancora di più una seria riforma della giustizia che tenga conto delle difficoltà del sistema, ma che non umili il patrimonio di conoscenza e metodo della magistratura.

E da questo punto di vista il metodo di lavoro di Ilda Boccassini, la sua capacità di stare alla larga da un rapporto anomalo con i media, tratto distintivo vero della incultura di questo Paese, è un punto di partenza. Un punto di partenza e si spera, nella sua sistematizzazione, un punto d'arrivo. Perché bisogna sempre partire dalle persone serie. Lasciando alla dimensione cabarettistica quei pagliacci, solerti servitori di un padrone ormai alla deriva, che a volte sembrano avere la testa solo per poter indossare parrucche dal colore sgargiante in quel momento di moda.

© Riproduzione riservata 22 luglio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/07/22/news/saviano_ruby_un_inchiesta_due_sentenze-92107080/?ref=HRER2-1
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