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Autore Discussione: Stefano FOLLI. -  (Letto 108119 volte)
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« inserito:: Aprile 14, 2008, 04:55:26 pm »

di Stefano Folli
 
Al voto un Paese che cerca stabilità e futuro
13 aprile 2008
 

Fra i numerosi e spesso disincantati giudizi della stampa straniera sulle nostre elezioni, spicca quello del «Pais». Da martedì l'Italia, scrive il quotidiano spagnolo, avrà bisogno di «un governo forte». Semplice ma chiaro. Equivale a dire che la nuova stagione, di cui tanto si parla, sarà messa presto alla prova. Non basta invocare il bipolarismo e nemmeno è sufficiente crearne i presupposti, come pure è avvenuto in questa lunga campagna a opera di Veltroni, prima, e di Berlusconi, poi. È necessario che il bipolarismo, una volta consacrato nelle urne, dimostri di saper fornire al Paese le risposte attese. E la prima di queste risposte è un governo solido, coeso e determinato. Capace di trasmettere serenità, senza inutili tensioni istituzionali.

Su questo punto è bene essere chiari. Né Berlusconi né Veltroni hanno saputo offrire fin qui un progetto davvero coerente, un'idea generale dello sviluppo, quella che si può definire una visione convincente del destino nazionale. Ognuno ha proposto le sue ricette acchiappa-voti, più o meno suggestive e tutte molto onerose. Tuttavia, essere leader all'interno di una condizione drammatica sul terreno economico e sociale imporrà a entrambi una prova di maturità assai dolorosa.

È possibile, ma non sicuro, che da martedì chi prevarrà cominci a rivolgersi agli italiani con un linguaggio diverso, fatto di crude verità piuttosto che di rassicuranti promesse. Ma in quel caso sarà opportuno che non sia solo il vincitore (ammesso che domani sera ce ne sia uno) a mostrare un volto responsabile. Anche lo sconfitto dovrà compiere in fretta lo stesso percorso. Quello spirito di solidarietà nazionale da varie parti invocato dovrà manifestarsi in primo luogo su questo terreno. Anziché assistere alla solita corsa per accaparrarsi le cariche istituzionali e i posti di governo, ci piacerebbe che prendesse forma un nuovo stile, più austero e asciutto. Adatto agli anni incerti in cui viviamo e idoneo a descrivere le virtù del «nuovo» bipolarismo che nelle ultime settimane è stato issato sulle bandiere e annunciato nelle piazze.

È assurdo immaginare un vincitore, magari di stretta misura, che si carica sulle spalle l'intero onere del governo e un perdente che si dedica a un'opposizione distruttiva, nel segno della peggiore demagogia parlamentare. Meglio sperare che il populismo morbido, nella doppia versione di destra e di sinistra, sia finito con la conclusione di una campagna elettorale francamente troppo lunga, confusa e superflua. Fra poche ore Berlusconi e Veltroni, nei ruoli che gli italiani avranno deciso di assegnare loro, dovranno dimostrare di aver voltato pagina.

S'intende, non c'è da farsi troppe illusioni. Il «governo forte» di cui parla il "Pais" non può che essere il frutto di un sistema politico consolidato. Viceversa, qui siamo ai primi passi di una Seconda Repubblica ancora gracile, bisognosa di far dimenticare i danni e le contraddizioni in cui si sono consumati i lunghi anni della transizione post-Tangentopoli. Poche riforme, istituzioni ingessate, competitività del sistema insoddisfacente. Quel che è peggio, crescente diffidenza dei cittadini verso una classe politica avviluppata nei suoi privilegi. Non è un caso che si avverta il vento dell'anti-politica su queste elezioni: sia nel numero degli indecisi, sia nelle voci che vogliono la Lega di Bossi in grado di cogliere un risultato importante nel Nord.

Se la campagna elettorale fosse stata breve e concisa, gli italiani avrebbero apprezzato. In fondo, è vissuta sulla novità politica dell'inizio: la rottura fra il Partito Democratico veltroniano e la sinistra comunista-ambientalista, cui ha fatto riscontro la nascita del Popolo della Libertà. Da settimane continuiamo a misurare questa doppia novità, che in effetti segna un cambiamento di scena rilevante. Ma nessuno può dire se da un'operazione di sofisticato «marketing» politico potrà mai nascere, da un giorno all'altro, il governo efficiente di cui il Paese ha urgente bisogno.

Anche perché si dovranno contare con attenzione i seggi e valutare la situazione. Quelli della Camera dovrebbero dare una maggioranza stabile al Popolo della Libertà. Se così non fosse sarebbe una sorpresa clamorosa. Al contrario, quelli del Senato delineano, come è noto, una sfida aperta fra Pdl e Pd nelle singole regioni, in cui giocano da comprimari i partiti intermedi, Casini e Bertinotti. Ma senza una maggioranza chiara e visibile anche a Palazzo Madama avremo una sconfitta del bipolarismo, più che l'annuncio della nuova stagione.

Ci sarà tempo in quel caso per capire quale strada conviene imboccare. Ma è evidente che oggi il bene del Paese coincide con una maggioranza solida, in grado di esprimere un governo credibile. Abbiamo vissuto troppi anni nel segno di coalizioni paralizzate. Ora la novità del 2008, cioè la nascita di un tendenziale bipartitismo, merita di essere giudicata alla prova dei fatti. Il che non significa sottovalutare la necessità di una concreta convergenza parlamentare sui grandi temi legati alle riforme.

Legislatura costituente, si è detto. Molto bene. Purché si abbia il coraggio di non inseguire un facile consenso giorno dopo giorno e si riesca a lavorare insieme in Parlamento nell'interesse delle istituzioni, anche a costo dell'impopolarità. Quante volte negli anni abbiamo sentito esprimere queste buone intenzioni? Infinite. La differenza è che stavolta siamo giunti al limite estremo. L'Italia non è in grado di sopportare un'altra legislatura fallita. Un altro ritorno precoce alle urne. Un governo «forte» in quanto consapevole dei suoi doveri, fondato su di una chiara legittimità elettorale, è il senso del voto di oggi e domani. La posta in gioco è un Paese più moderno, capace di uscire dalla gabbia che lo imprigiona.
 
da ilsole24ore.com
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 28, 2009, 09:41:50 am »

Il punto di Stefano Folli
 

  Stefano Folli nasce a Roma da famiglia di origini milanesi. Laureato in lettere, muove i primi passi nel giornalismo alla "Voce Repubblicana", l'organo storico del Pri allora guidato da Ugo La Malfa. Nel 1981 viene nominato direttore responsabile della nuova edizione della "Voce". Collaboratore di Giovanni Spadolini, Folli ne è il portavoce a Palazzo Chigi durante l'esperienza del primo governo a guida laica, fra il 1981 e '82. Nel 1989 passa al "Tempo" come caporedattore politico. Dalla fine del '90 è al "Corriere della Sera", come notista politico e, più tardi, editorialista, fino ad assumerne la direzione tra il 2003 e il 2004. Dal 2005 è editorialista de "Il Sole 24 Ore". Folli ha anche fondato e diretto la rivista di affari internazionali "Nuovo Occidente". Ha vinto alcuni premi di giornalismo, tra i quali il St. Vincent, il premio Ischia e il Fregene.

  stefano.folli@ilsole24ore.com
 

 
Nelle urne il difficile futuro del bipolarismo all'italiana

27 maggio 2009

La più brutta campagna elettorale degli anni recenti, è giunta al suo culmine. Tra dieci giorni si voterà per il Parlamento europeo, di cui per la verità sembra non interessare a nessuno, e per le amministrative. Quello che accadrà dopo, non è dato sapere. Ma l'impressione è che i fragili equilibri di quella complicata costruzione che chiamiamo bipolarismo saranno messi a dura prova. Gli indizi non mancano e questo spiega la straordinaria tensione che domina la scena politica, sia nel campo berlusconiano sia in quello dei suoi oppositori.

Questi ultimi sono impegnati nello sterile gioco di rubarsi i consensi l'un l'altro. Fa eccezione Casini, convinto – forse a ragione – di poter trarre profitto dalla sua posizione assolutamente «centrista», nel segno del buon senso moderato. Viceversa, la guerra delle mozioni parlamentari fra Di Pietro e il Partito democratico trasmette un messaggio contraddittorio e confuso.

Certo, non ha torto Dario Franceschini quando afferma che l'iniziativa dell'Italia dei valori, per un atto parlamentare di sfiducia al presidente del Consiglio, avrà il solo effetto di provocare un travolgente voto della maggioranza a sostegno del suo leader. Ma non maggiore fortuna toccherà alla mozione del Pd contro il «lodo Alfano». La verità è che i due partiti si «marcano» a vicenda, si direbbe in linguaggio calcistico. I democratici non sopportano di essere scavalcati dai dipietristi e magari obbligati a seguire il ritmo della musica suonata dall'ex magistrato. E quest'ultimo prosegue nella sua spregiudicata campagna, volta a rastrellare voti nel campo del centro-sinistra (o della sinistra radicale) in nome dell'intransigenza anti-berlusconiana.

Vedremo quale sarà l'esito di queste manovre. Senza dubbio, però, il fatto che il Pd sia obbligato a difendersi di fronte all'offensiva quasi quotidiana di un personaggio che dovrebbe essere suo alleato, e che sul piano dei numeri rappresenta solo una frazione della forza elettorale dei democratici, la dice lunga sulle difficoltà del partito post-veltroniano.

Quanto a Berlusconi, la teoria del complotto ai suoi danni, emersa nell'intervista di ieri a «Libero», è la spia di uno stato d'animo inquieto e irrequieto. Il premier teme una cospirazione, una trama, è convinto che prima delle elezioni i suoi nemici tenteranno altri colpi contro di lui. Per scalzarlo o comunque per indebolirlo. Per «intimidirlo», come dice Capezzone. La via d'uscita che gli sembra a portata di mano è il successo elettorale. Quella frase che gli è stata rimproverata («gli italiani sono con me») tradisce il suo vero pensiero. A parole Berlusconi afferma di non voler fare delle elezioni europee un plebiscito personale. In realtà vorrebbe proprio questo.
Solo che non può dirlo, perché non è ancora sicuro che il caso Noemi o l'affare Mills saranno privi di conseguenze negative nelle urne o addirittura si tradurranno in un aumento del consenso (il «boomerang per la sinistra»). Sul piano ufficiale, questa è la tesi enunciata dai suoi collaboratori. Ma Berlusconi sa distinguere la propaganda dalla realtà. E sa bene che questa situazione alla lunga non lo favorisce. Nessuno pensa che il Pdl vada incontro a un insuccesso, ma la notte del 7 giugno occorrerà contare con attenzione i voti. Un'avanzata travolgente di Bossi, ad esempio, prevista da molti, avrebbe un chiaro significato: un segnale a Berlusconi, una minaccia alla leadership incontrastata da lui esercitata finora.

  
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da ilsole24ore.com
« Ultima modifica: Marzo 07, 2010, 06:50:43 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Marzo 07, 2010, 06:51:14 pm »

Il sofferto «sì» del Quirinale lascia ferite politiche e istituzionali

di Stefano Folli


Si può dire tutto del decreto del governo, tranne che sia «interpretativo»: cioè che si limiti a offrire una lettura chiarificatrice delle norme elettorali in vigore. In realtà il decreto innova. E non poco: addirittura retrodatando certe innovazioni, sempre che il testo diffuso sia quello definitivo. Risponde senza dubbio all'obiettivo che Silvio Berlusconi si era posto: permettere «l'esercizio del diritto di voto» ai cittadini della Lombardia e del Lazio, al di là dei «formalismi». Ossia, come è noto, dei disastri commessi dal Pdl all'atto della presentazione delle liste.
Qualcuno dice: in fondo è il male minore. Lo fa capire anche il Quirinale, quando suggerisce che il decreto di ieri sera è diverso da quello prospettato a Napolitano ventiquattro ore prima. Quello sì, a quanto pare, molto più invasivo. Se è così, ci si muove sul filo del rasoio in una materia, quella elettorale, davvero incandescente. Il presidente della Repubblica è molto esposto ed è costretto a procedere lungo un sentiero che non è mai stato così stretto. Da un lato c'è il problema di garantire il voto a milioni di cittadini in due regioni di primo piano. Dall'altro, l'esigenza di rispettare una legge astrusa, forse anacronistica, ma pur sempre una legge.
Il Partito democratico, che si oppone ovviamente al decreto, e anzi si prepara ad alzare il livello della polemica politica, evita di accrescere le difficoltà del capo dello stato. D'Alema «copre la corona», rilevando che non spetta al Quirinale valutare l'opportunità politica di un atto del governo, ma solo la sua palese incostituzionalità. Come dire: il decreto interpretativo non è una ferita plateale alla Costituzione e dunque la controfirma di Napolitano è possibile.
Altri, nei ranghi dell'opposizione, non sono così prudenti. Di Pietro ha già lanciato una sorta di «chiamata alle armi» in difesa della Carta costituzionale; i radicali di Emma Bonino sono perentori; nello stesso Pd c'è chi (Rosy Bindi, Arturo Parisi) considera la scelta del governo alla stregua di un oltraggio. Ma è soprattutto la reazione dell'Italia dei valori ad avere un valore politico dirompente. Si capisce che tutta la campagna elettorale sarà giocata intorno al supposto «golpe». E il Pd sarà costretto a confrontarsi con Di Pietro su di un terreno assai scivoloso, perché finisce per tirare in ballo l'operato del capo dello stato.
Come è evidente, il passaggio è molto delicato. Il decreto ha un'utilità immediata, a patto che sia pubblicato oggi dalla Gazzetta ufficiale dopo l'indispensabile firma del presidente. È uno strumento potente per premere sui tribunali amministrativi che devono decidere sui ricorsi tra oggi e lunedì. Si può dire che il decreto copre le spalle ai Tar e li aiuta a prendere una decisione che da giorni si presentava, sì, come giuridica, ma con un clamoroso impatto politico.
In ogni caso gli avvenimenti delle ultime ore sono destinati a lasciare un'impronta sulle istituzioni. È facile capire con quale spirito il presidente della Repubblica si sia accinto alla firma. Se lo ha fatto, è perché ha ritenuto di dover evitare un grave scontro istituzionale. Senza dubbio un ruolo lo ha svolto nelle ore cruciali il presidente della Camera e questo dimostra che Fini, al di là delle polemiche, ha compiti preziosi di raccordo tra i palazzi romani. Certo, dopo questa vicenda è difficile immaginare che destra e sinistra tornino a discutere a breve di riforme. La verità è che Berlusconi ha ottenuto il suo scopo, ma le macerie stanno aumentando.

6 marzo 2010
da ilsole24ore.it
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 11, 2010, 04:12:02 pm »

CAMPAGNA ELETTORALE /

Il buon senso si è smarrito nel labirinto buio delle risse

di Stefano Folli


Siamo piombati nel pieno della campagna elettorale. S'intende, nel modo peggiore possibile. L'idea che nelle prossime settimane il confronto politico si svolga, con tutta l'asprezza possibile, interno al ridicolo "pasticcio" delle liste e alle sue conseguenze è piuttosto scorante. Si dirà che l'opposizione non ha dimostrato "fair play" verso le disavventure del centrodestra, ed è anche vero. Ma non si può negare che susciti qualche perplessità l'immagine di un presidente del Consiglio che scende in campo in prima persona contro i magistrati e l'ufficio elettorale di Roma per rivendicare un diritto compromesso non da oscuri complotti, ma da errori unilaterali (negati) ed evidenti inadempienze.

Si era detto nei giorni scorsi che il "pasticcio" andava risolto facendo ricorso al buon senso. In fondo il Quirinale, nel momento in cui ha firmato, non senza sofferenza, un discutibile decreto interpretativo visto come il male minore, si è appellato proprio al buon senso. Sarebbe stato meglio, a quel punto, che anche il premier restasse fedele allo stesso principio. Tanto più che il caso realmente grave per i suoi effetti (il rigetto delle liste in Lombardia) era stato sanato grazie al decreto. Il caso del Lazio è minore, considerando che Renata Polverini è in grado di competere con la sua lista personale. Aver voluto scegliere proprio questo terreno per eccitare gli animi e avviare la campagna, è un'iniziativa di cui si capirà la logica solo la sera del 29 marzo, quando si conteranno i voti e si vedrà chi ha saputo parlare meglio al paese.

Per il momento bisogna dire che lo spettacolo complessivo non è stato edificante. Dalla classe politica ci si aspetta qualcosa di più e di meglio. Dallo stesso presidente del Consiglio ci si attenderebbe qualcosa di meglio che una conferenza stampa all'insegna del vittimismo e dell'insofferenza, con tanto di battibecco con un "contestatore". E tutto per negare il pasticcio che peraltro è sotto gli occhi di tutti e che lo stesso Berlusconi aveva ammesso a caldo, parlando dei protagonisti della vicenda come di una «massa di deficienti».

Ora invece siamo alle manifestazioni di piazza. È chiaro che il premier ha scelto questo terreno per avviare lo scontro elettorale. Nonostante il decreto, nonostante il gesto di Napolitano diretto, con ogni evidenza, a evitare l'inasprimento della tensione. Se la sinistra ha mancato di "fair play", il meno che si possa dire è che la maggioranza ha fatto di peggio. Una volta risolto il caso della Lombardia, il Lazio meritava ben altra sobrietà. Come sempre dovrebbe essere quando è in gioco il delicato capitolo delle regole. Ossia quel complesso di vincoli e condizionamenti che scandiscono la vita quotidiana del comune cittadino, spesso in misura eccessiva. L'enfasi con cui la classe politica si occupa delle proprie omissioni, per minimizzarle, è davvero uno sforzo degno di miglior causa.

Anche per questo si avverte in giro un certo disorientamento, a seguito della "pochade" delle liste. E non stupisce che i sondaggi, a cominciare da quello Ipsos-Sole 24 Ore sul Lazio, indichino una parziale disaffezione, una scarsa motivazione da parte dell'opinione pubblica. Berlusconi ritiene di poter risollevare gli indici aumentando il tasso di aggressività della campagna. In altre occasioni ha avuto ragione. Ma stavolta, persino più che in passato, dovrà spogliarsi dei panni di capo del governo per indossare quelli di capo fazione. E non è detto che la fortuna sia sempre dalla sua parte.

11 Marzo 2010
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« Risposta #4 inserito:: Aprile 09, 2010, 11:24:04 am »

Se si rompe il tabù della legge elettorale meno alibi per Pdl e Pd

Stefano Folli

9 aprile 2010

Non sappiamo se l'Italia diventerà presidenziale, semi-presidenziale, con un premier più forte o nulla di tutto questo.
Al momento nel discorso sulle riforme prevale la nebbia più spessa. Bisogna tuttavia dare atto a Gianfranco Fini di aver rotto un tabù sul quale il centrodestra aveva sempre glissato. Il tabù della legge elettorale.

Il presidente della Camera, parlando ieri in un seminario di «Farefuturo», ha detto una semplice verità: va bene discutere di una repubblica semi-presidenziale «alla francese», ma è ovvio che a un tale mutamento istituzionale deve accompagnarsi un modello elettorale adeguato.
In Francia esiste l'uninominale maggioritario a doppio turno, il più idoneo a sostenere quell'assetto. Da noi viceversa è in vigore un sistema (ribattezzato ironicamente il «porcellum») che scontenta tutti tranne le segreterie dei partiti, visto che sono queste ultime a «nominare» i parlamentari grazie al meccanismo delle liste bloccate.

È una contraddizione che va sciolta, sebbene la maggioranza abbia fin qui schivato il problema con l'argomento che la legge elettorale non è materia costituzionale, bensì ordinaria; e come tale sarà discussa solo al termine del lungo iter riformatore.

Al contrario, Fini ha stabilito un nesso diretto fra il rinnovamento costituzionale e la legge elettorale. In questo modo ha ottenuto due risultati. In primo luogo, ha reso evidente che all'interno del centrodestra non è ancora maturato un chiaro indirizzo. Al di là dei risvolti mediatici e delle buone intenzioni, il rapporto di lealtà/rivalità fra Berlusconi e Bossi non ha fin qui sciolto i dubbi sul «che fare». E quindi, nel giorno in cui il presidente della Camera mette sul tavolo la questione del modello elettorale, tutti sono obbligati a definire meglio le posizioni.

Non bisogna dimenticare, ad esempio, che ancora ieri un esponente autorevole del Pdl come il senatore Quagliariello spezzava una lancia a favore del «premierato forte». Ossia la tesi più gradita nel campo del centrosinistra, che ne ha fatto uno dei passaggi chiave della cosiddetta «bozza Violante». Con un po' di malizia si potrebbe dire che sono in molti, a destra, gli aspiranti architetti dell'ipotetico accordo con un Pd peraltro imperscrutabile e scettico. Diffidente verso la «grande riforma» quasi quanto Berlusconi che sembra credere poco agli sforzi in atto e semmai si prepara ad affrontare i temi economici (non a caso il premier parlerà a Parma al convegno della Confindustria).

Del resto, la mossa di Fini - ed è il secondo punto - aiuta l'opposizione a rientrare in gioco. È vero che il partito di Bersani deve ancora decidere se e come partecipare alla partita in corso. Ma l'argomento della legge elettorale è un bel tema per sedersi al tavolo del negoziato. Purché non se ne voglia fare un uso solo strumentale e tattico, cioè di pura interdizione. Collegandola invece al riassetto dello Stato (semi-presidenzialismo, premierato forte), la bandiera della riforma elettorale permetterebbe al Pd di confrontarsi in campo aperto con il fronte Pdl-Lega. Anche per mettere a fuoco quali sono i giochi all'interno della maggioranza, quali i margini di equivoco. E fino a che punto Bossi è disposto a muoversi, se necessario, anche in autonomia da Berlusconi.

Senza dubbio il Pd non può permettersi di restare inerte, ai margini di un processo che sta iniziando. Come ripete il capo dello Stato, la legislatura non può essere sprecata. Ciò che è realizzabile, va realizzato.


   
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« Risposta #5 inserito:: Luglio 30, 2010, 12:18:04 pm »

Una vittoria di Pirro per il premier

di Stefano Folli


La logica politica suggeriva un accordo o almeno un patto di convivenza che stabilisse le regole della reciproca sopportazione tra Berlusconi e Fini. All'opposto c'era l'ipotesi della scissione immediata e concordata dei due tronconi, Forza Italia e An, da cui era nato, fra eccessive contraddizioni, il Popolo della Libertà. Nella sostanza il vertice del partito berlusconiano ha scelto una terza via, come tale non priva di qualche ambiguità e di parecchi rischi.

Nessuna espulsione, ma una sfida frontale al presidente della Camera, una totale delegittimazione dell'uomo che avrebbe creato un «partito nel partito» e avrebbe cessato di rappresentare un punto d'equilibrio istituzionale. Può darsi che questa scelta berlusconiana sia efficace per regolare i conti con un avversario interno ormai intollerabile, lo è molto meno per garantire all'esecutivo e alla legislatura un cammino sereno.

Si potrebbe dire che il lungo, estenuante duello si conclude con la sconfitta di Fini, ma quella di Berlusconi è più che altro una vittoria di Pirro. È tutto da dimostrare infatti che ne verrà qualcosa di positivo per la stabilità e l'azione di governo. Aspettiamo, per capirlo, di vedere cosa accadrà nelle prossime ore. Una ricucitura a questo punto è davvero inverosimile. Ma quanti andranno a costituire il gruppo autonomo (di fatto una scissione obbligata), nel segno del presidente della Camera? È un punto cruciale. Se a Montecitorio saranno all'incirca quindici, essi costituiranno poco più di una spina nel fianco della coalizione, ridotta all'asse Berlusconi-Bossi. Se invece saranno una trentina, o magari trentacinque, allora l'ottimismo ostentato dal premier dovrà fare i conti con una realtà amara.

Trenta o più dissidenti organizzati sono in grado di sottrarre al governo la maggioranza assoluta alla Camera. Con una serie di conseguenze che il presidente del Consiglio farà bene a non sottovalutare.

In primo luogo, il gruppo finiano resterà nell'ambito della maggioranza (anzi, per il momento non si collocherà formalmente nemmeno fuori dai confini del Pdl). Il che significa che Berlusconi dovrà negoziare di continuo con Fini l'appoggio a questo o quel provvedimento governativo. Il federalismo fiscale, le questioni della giustizia e altre misure qualificanti, avranno bisogno di numeri certi. Una situazione da cui trae un evidente vantaggio Casini. Ma il rischio per il premier è di dover trattare ugualmente con Fini, specie se quest'ultimo resterà sulla poltrona di presidente della Camera, come è ben intenzionato a fare nonostante tutto.

Certo, tutto dipenderà da quanti parlamentari si riconosceranno alla fine nella leadership finiana. E queste sono le ore in cui molti stanno mettendo sulla bilancia le proprie convenienze e ambizioni. Ma la raccolta preliminare di firme ha dato un risultato più che discreto per i ribelli e questo è un dato allarmante per il premier.

In ogni caso, la frattura tra i due co-fondatori del Pdl è un evento che cambia lo scenario politico e rende il governo più debole, non più forte. Tanto è vero che lo stesso Berlusconi si era prodigato nelle settimane scorse per allargare l'area del consenso, non certo per restringerla. La ragion d'essere di una coalizione in buona salute tende all'allargamento, così da rappresentare una porzione via via più ampia e rappresentativa del paese. D'altra parte, i progetti di Berlusconi (la riforma istituzionale e quella della giustizia) richiedono una maggioranza compatta, sì, ma anche sicura dei suoi grandi numeri.

Tutto il contrario di quello che sta accadendo. Senza i finiani e con Casini che non ha voglia di varcare il portone d'ingresso, la coalizione dovrà combattere per la sua sopravvivenza. Qual è allora il senso della rottura? Uno, senza dubbio: restituire a Berlusconi il pieno controllo del suo partito. Ma a quale fine, se poi occorrerà mercanteggiare lo stesso ogni punto del programma in Parlamento e con i gruppi autonomi? La vicenda delle intercettazioni è emblematica. Senza i finiani non è che l'epilogo di quella controversa battaglia sarebbe stato diverso, cioè più favorevole a Berlusconi. Sarebbe stato identico.

E ancora: anche ammettendo che ora il clima nel Pdl sarà più sereno, è chiaro che la tensione si trasferirà alla Camera. Si dirà che Fini non può rimanere presidente dell'assemblea (Berlusconi lo ha già fatto capire) e quindi prenderà il via un ulteriore braccio di ferro. Da un lato serrati negoziati sulle leggi da approvare, dall'altro conflitti e tensioni intorno allo scranno presidenziale: non è il medesimo copione che il premier ha cercato di esorcizzare ieri sera?

In definitiva la sfida alla minoranza interna ha un senso solo se il presidente del Consiglio pensa alle elezioni anticipate in tempi brevi. Non se vuole illudere se stesso che adesso comincia l'età dell'oro del governo, ma se prepara il terreno per il voto. Si dà il caso però che Bossi non abbia voglia di avventure elettorali perché guarda al suo scopo, il federalismo fiscale. E tanto meno avranno voglia di correre alle urne i sostenitori di Fini, bisognosi semmai di una diversa legge elettorale. Da oggi comincia una nuova partita e non è detto che ieri notte Berlusconi abbia giocato al meglio le sue carte.

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http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-07-30/vittoria-pirro-premier-080531.shtml?uuid=AYU2GVCC

Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2010 alle ore 08:20.
L'ultima modifica è del 30 luglio 2010 alle ore 09:30.
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 30, 2010, 12:21:16 pm »

Tante incognite su governo e legislatura se si spacca il Pdl

di Stefano Folli
   
«Non è detto che si vada alle elezioni» spiega un Bossi alquanto dubbioso a chi gli domanda cosa accadrà se il gruppetto di Fini sarà messo fuori dal Pdl. Quell'espressione («non è detto...») rivela le inquietudini leghiste. Il vecchio leader conosce bene le regole della politica: non lo dice, ma l'idea di frantumare il Pdl per regolare i conti tra Berlusconi e Fini gli sembra una pazzia.

Quello che poteva fare per favorire una ricomposizione fra i due, lo ha fatto. Oggi assiste scettico alla rissa incompiuta tra i co-fondatori e si mantiene fedele alla sua linea ufficiale: la maggioranza dispone di un margine di manovra anche senza i finiani e comunque la Lega, prima di sentir parlare di elezioni, vuole mandare in porto il federalismo fiscale.
Niente di nuovo, se non un certo tono di scoramento. Bossi considera fallita di fatto la legislatura. Già oggi il governo è semi-paralizzato per una serie di gravi errori di gestione. Se davvero Berlusconi mettesse in atto il proposito di cacciare Fini e i suoi, la destabilizzazione del Pdl avrebbe buone probabilità di prender forma. A quel punto il federalismo fiscale non sarebbe di certo più vicino; al contrario, rischierebbe di restare intrappolato nelle convulsioni di fine legislatura. Bossi è quindi combattuto tra il desiderio di rafforzare il peso leghista nel governo e il timore di sprofondare nelle sabbie mobili insieme al resto della coalizione.

Il buon senso dovrebbe a questo punto suggerire la ricerca di un patto di convivenza in extremis all'interno del partito di maggioranza. Nessuna pace, nessuna tregua, bensì un freddo accordo fondato sulla reciproca convivenza. Il presidente del Consiglio non può credere sul serio che a settembre, una volta consumata l'eventuale rottura con Fini, si aprano spazi inediti per la «grande riforma costituzionale», a cominciare dalla riforma della giustizia. Questo annuncio, dato con enfasi ieri alla conferenza degli ambasciatori, sembra più un manifesto elettorale che un programma concreto di governo.
In realtà Bossi è più realista: la frattura nel Pdl ucciderebbe la legislatura, al massimo ci sarebbe tempo per approvare il federalismo (sperando che la fretta non complichi ancor più una matassa già ingarbugliata). In altre parole, è difficile credere che dalla crisi del centrodestra possa rinascere un governo vitale e creativo, in grado di riempire di riforme i prossimi tre anni. Così come è altrettanto difficile immaginare che l'espulsione del presidente della Camera e della corrente di minoranza del Pdl possa avvenire senza passaggi politici traumatici.

D'altra parte, se l'obiettivo autentico del premier è arrivare al voto anticipato, si deve sapere che la strada per arrivarci sarebbe tortuosa. A parte i problemi economici e finanziari del paese, tutt'altro che secondari, c'è il tema – posto dall'opposizione – della legge elettorale. Non è pensabile ignorare questa richiesta nel momento in cui la maggioranza va in crisi, soprattutto nel caso in cui si consumasse la rottura del partito che ha vinto le elezioni nel 2008.
Se il progetto di Berlusconi fosse quello di dimostrare che i «dissidenti» gli impediscono di governare, così da ottenere dal capo dello Stato un rapido scioglimento delle Camere e il mandato di gestire in prima persona il governo elettorale (magari lo stesso attuale governo), prepariamoci a una nuova stagione di conflitti istituzionali.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-07-29/tante-incognite-governo-legislatura-080011.shtml?uuid=AYcNCCCC

Questo articolo è stato pubblicato il 29 luglio 2010 alle ore 08:41.
L'ultima modifica è del 29 luglio 2010 alle ore 08:00.
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 01, 2010, 07:14:04 pm »

Se le elezioni diventano più di una ipotesi

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 31 luglio 2010 alle ore 08:20.
L'ultima modifica è del 31 luglio 2010 alle ore 08:38.


Quarantotto ore dopo la spaccatura, le elezioni anticipate sono più di un'ipotesi. A molti sembrano lo sbocco naturale di un pasticcio politico creato da un calcolo precipitoso.
Altro che governo rafforzato. Più che al rilancio di un esecutivo più saldo, pare di assistere alle convulsioni di fine regno. Il problema non è se la legislatura vedrà il 2013, ma il come e il quando si arriverà al voto. Un itinerario impervio in cui a decidere la rotta non è Palazzo Chigi, bensì il capo dello stato.

D'altra parte, i sedici anni di storia del centrodestra, gli anni del bipolarismo, si sono giocati in buona misura sul rapporto tra Berlusconi e Fini. Ora che quel rapporto è andato in polvere comincia un'altra vicenda, non sappiamo se più o meno fortunata. Di certo la risposta del presidente della Camera al suo ex alleato equivale a una dichiarazione di guerra.
Non stupisce, naturalmente, visto che stiamo assistendo a una scissione. Ma accusare il presidente del Consiglio di tendenze "illiberali" cos'è se non l'annuncio di un conflitto senza esclusione di colpi?

L'espressione "illiberale" contiene in sintesi l'intero rosario di accuse e polemiche rivolte al premier nel corso del tempo: populista, poco rispettoso della Costituzione e del Parlamento, autoritario, aziendalista e padronale... Se Fini in questi anni ha cercato - non sempre riuscendovi - di definire l'identità della "sua" destra moderata in antitesi all'altra destra berlusconiana, ora è libero di accentuare i toni. Anzi, ha il dovere di farlo perché deve dimostrare in fretta di poter essere un'efficace alternativa al leader di Arcore.
Non sarà un'impresa facile, ma è l'unico sentiero che il presidente della Camera è in grado di percorrere per rovesciare a suo favore una situazione scabrosa.

Si conferma così quello che era chiaro fin dal primo momento. Per il governo diventa tutto più difficile. O meglio: sarà il presidente del Consiglio in prima persona a trovarsi sottoposto alle forche caudine del nuovo gruppo finiano. Che ne sarà, per esempio, del processo breve e di tutte quelle misure d'impatto giudiziario che per il premier sono essenziali, anche in vista della pronuncia della Corte costituzionale sul legittimo impedimento? Qui si dovrà misurare la forza parlamentare dalla nuova destra di "Futuro e Libertà", ma la sicurezza con cui ieri Fini ha parlato lascia intuire che egli ritiene di controllare agevolmente quei 30-34 deputati di cui si è detto. Destinati a essere decisivi. La lealtà di costoro verso il governo riguarda "l'interesse generale": ossia, interpretiamo, la politica economica e la politica estera o della difesa. Tutto ciò che configura la coesione nazionale cara a Giorgio Napolitano.

Già sul federalismo fiscale niente è scontato, considerando la vocazione "patriottica" e quindi poco amichevole verso la Lega che il presidente della Camera in passato ha manifestato e che non ha certo motivo di correggere ora. Per il resto si entra in un terreno inesplorato: i continui richiami alla "legalità" suonano come altrettanti tentativi di delegittimare il premier nel suo tormentato rapporto con il potere giudiziario. Nulla di nuovo, ma ora tutto è più chiaro.

A questo punto la permanenza di Fini sulla poltrona di presidente della Camera, cui egli ha diritto sul piano del diritto parlamentare, è destinata a innescare uno scontro politico permanente, ai limiti dell'ostruzionismo da parte del Pdl. Il che oggi costituisce la maggiore incognita della nuova situazione che si è creata. Non a caso il richiamo del capo dello Stato alla necessità di "preservare la continuità istituzionale" è un invito a tenere separate la sfera della politica da quella delle istituzioni. Se si arrivasse a mescolarle più di quanto già non sia, si creerebbe un pericoloso corto circuito. Una Camera bloccata, paralizzata dall'inedito conflitto tra il presidente dell'assemblea e la sua maggioranza di provenienza, sarebbe un rebus di difficile soluzione per chiunque. Anche per il Quirinale.
Senza contare che proprio questa paralisi potrebbe costituire la "pistola fumante", ossia l'occasione cercata da chi vuole le elezioni anticipate per ottenere lo scioglimento del Parlamento.

Non è un mistero che Berlusconi si tiene stretta la carta del voto. È nel suo stile guardare alle urne come via d'uscita all'eterna difficoltà di governare con efficacia.
Il blocco di Montecitorio potrebbe costituire, al momento opportuno, un eccellente pretesto. Ma in quali condizioni politiche il premier e il suo governo arriveranno all'appuntamento?
Quale sarà la posizione di Bossi che vede allontanarsi l'obiettivo strategico del federalismo fiscale? Sono tutte domande senza risposta.

Peraltro il premier non può non sapere che non esiste una "clausola di dissolvenza" automatica delle Camere. Insomma, non è lui a decidere. Il presidente della Repubblica avrebbe il dovere costituzionale di verificare prima l'esistenza di altre maggioranze. E sotto questo aspetto la spaccatura del partito che ha vinto le elezioni del 2008 crea un fatto nuovo tutt'altro che trascurabile. La nota di ieri sera è il primo segnale che il Quirinale sta osservando la scena. Si torna quindi al gruppo finiano, alla sua consistenza, alla capacità o meno di svolgere con abilità un ruolo parlamentare. Magari di attrarre altri deputati desiderosi di rallentare la fine prematura della legislatura, in vista di una riforma della legge elettorale. Il come e il quando del voto anticipato sono ancora da definire.

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« Risposta #8 inserito:: Agosto 05, 2010, 06:45:31 pm »

Caliendo resta sottosegretario ma per il premier comincia l'autunno più difficile

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 05 agosto 2010 alle ore 09:27.
L'ultima modifica è del 05 agosto 2010 alle ore 09:46.

   
Come era previsto, Giacomo Caliendo resta sottosegretario e il parlamento, insieme al governo, va in vacanza. Ma il voto di ieri ha sancito che almeno su un punto specifico - la mozione di sfiducia «ad personam» presentata da una parte dell'opposizione - il governo non raggiunge la soglia dei 316 voti, la maggioranza assoluta. Addirittura è restato sotto quota trecento, avendone raccolti 299.

Esito piuttosto magro che contribuisce a descrivere un bilancio amaro per Silvio Berlusconi, l'uomo che due anni fa era entrato in parlamento a capo della più estesa maggioranza della storia repubblicana. Volendo sommare, con un'operazione un po' arbitraria, i «no» e gli astenuti si arriva alla cifra di 304, cinque voti in più di quelli raccolti dalla coalizione Pdl-Lega. In un certo senso, la maggioranza si è dissolta e rimetterla insieme sarà un'impresa complicata.

Al momento il presidente del Consiglio farà buon viso a cattivo gioco. Dovrà accontentarsi dell'ovazione davvero fuori protocollo, e tollerata dal presidente della Camera, che i suoi sostenitori gli hanno rivolto in aula. E senza dubbio dovrà far sua la tesi anticipata dal capogruppo Fabrizio Cicchitto: il voto «ha sconfitto il giustizialismo». Per il resto, al di là degli attacchi ai «traditori» finiani, non c'è molto da fare, se non lasciare passare l'agosto.

Ma l'atmosfera greve, elettrica in cui si è svolta la votazione a Montecitorio non promette nulla di buono. Si sono sentite urla, sono volati insulti, forse persino un paio di schiaffi, a conferma che le ferite politiche tra finiani e berlusconiani, e soprattutto tra ex An di opposte fazioni, non sono destinate a rimarginarsi. Nelle prossime settimane serviranno solo ad alimentare le polemiche estive. In settembre se ne riparlerà.

È chiaro che in queste condizioni la maggioranza non ha davanti a sé un futuro incoraggiante. Berlusconi ha fatto capire di volersi sottrarre al logoramento. Un'intenzione del tutto logica, eppure nemmeno lui ha le idee chiare su come sfuggire a questo destino. Per cui il messaggio trasmesso fino all'altro ieri («siamo pronti alle elezioni») ha un valore mediatico, ma è troppo generico per indicare un programma d'azione.

Lo stesso premier ora se ne rende conto. Alla vigilia del voto, più d'uno nel Pdl sosteneva che al di sotto della soglia di 316 voti il governo avrebbe dovuto dimettersi. Ma naturalmente non accadrà. In fondo, Caliendo resta al suo posto e il giustizialismo - secondo l'interpretazione ufficiale - ha perso la battaglia.

In realtà una crisi adesso non avrebbe senso né giustificazione. Umberto Bossi, che sa essere saggio, ha subito detto: «Ora dobbiamo resistere, non votare». Il che significa accettare la guerra di posizione. Oppure tentare dopo le vacanze la strada più impervia: trattare un grande accordo politico con i finiani, in termini che per Berlusconi saranno di sicuro molto più onerosi di quanto sarebbero stati qualche tempo fa, prima della frattura.

Si conferma così l'errore di fondo commesso dal premier e dai suoi consiglieri nel momento in cui i dissidenti sono stati messi alla porta. La verità è che le elezioni anticipate sarebbero plausibili, forse probabili in caso di crisi formale di governo. Ma chi scioglie le Camere è Napolitano, non Berlusconi. E non sarà ininfluente il «casus belli», ossia il come e il perché della caduta del governo. Dimostra di saperlo il premier, quando afferma che la rottura della maggioranza può avvenire «solo per ragioni politiche, non per un incidente di percorso».

Vuol dire che se il centrodestra cadesse su un tema di interesse nazionale (politica economica o internazionale), lo scioglimento delle Camere sarebbe inevitabile e il presidente del Consiglio potrebbe rivendicare con buoni motivi la guida del governo elettorale. Ma questo scenario non si verificherà perché Fini non si è affacciato ieri alla politica. Cosa accadrebbe invece se l'esecutivo fosse messo in crisi in autunno sulle questioni giudiziarie, magari su una leggina di quelle che in passato Berlusconi ha considerato irrinunciabili?

In questo caso lo scenario sarebbe diverso e i fili della crisi, compreso l'epilogo della legislatura, sarebbero saldamente nelle mani del capo dello Stato. Magari si arriverebbe lo stesso alle elezioni, ma il percorso sarebbe meno lineare. Non potremmo escludere qualche sorpresa. Soprattutto non avremmo alcuna garanzia che in quel caso, a guidare il governo nella stagione elettorale, sarebbe l'attuale premier.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-08-05/adesso-premier-autunno-difficile-080624.shtml?uuid=AYEaZCEC
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« Risposta #9 inserito:: Settembre 22, 2010, 05:06:45 pm »

Verso il 28 fra timori di «guerriglia» e rischi di logoramento

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 22 settembre 2010 alle ore 08:52.
L'ultima modifica è del 22 settembre 2010 alle ore 07:59.

 
Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl, paventa una sorta di guerriglia parlamentare permanente. Usa un'espressione aspra e polemica, ma nella sostanza ha ragione. Il suo bersaglio è il gruppo di «Futuro e Libertà», gli amici di Fini, da cui il partito berlusconiano non può attendersi nulla di buono nelle prossime settimane. Certo, l'espressione «guerriglia» è sgradevole e il drappello vicino al presidente della Camera preferisce parlare di vigilanza parlamentare e di senso delle istituzioni. O di difesa del principio di «legalità».

Tuttavia la sostanza non cambia di molto. Cicchitto, come pure altri al vertice del Pdl, ha compreso che il passaggio del 28-29 settembre è significativo, ma non determinante per il futuro della legislatura e per il destino del governo. Berlusconi potrebbe ottenere i suoi 316 voti di fiducia al netto dei finiani, forse con l'apporto decisivo del Mpa di Raffaele Lombardo. Subito dopo si troverebbe nella difficoltà quotidiana di navigare al timone di una maggioranza malcerta.
La vicenda Cosentino e le questioni legate alla Rai sono una spia interessante di come sarà il clima autunnale. Segnali, nulla più, come tali da non sopravvalutare: anche perché la coesione dei finiani è da verificare. Ma indizi utili a capire che l'autosufficienza assoluta di Berlusconi è una chimera. Fini non potrà rinunciare a costruire, una settimana dopo l'altra, il profilo del suo partito. Di questo si tratta. E l'identità di «Futuro e Libertà» si definisce - è chiaro da tempo - in opposizione al cosidetto «berlusconismo». O se si preferisce a quella che lo stesso Fini, già più di un anno fa, definiva la «deriva cesarista».

Pur ammettendo che ci siano margini d'accordo su alcuni punti, ad esempio il Lodo Alfano costituzionale, è evidente che il gruppo dei 34 non intende rientrare nei ranghi. Al contrario, più si afferma l'impressione di una legislatura in bilico, più gli amici di Fini saranno indotti a caratterizzarsi sul piano politico. Il che non significa condividere ogni giorno il massimalismo di un Fabio Granata. Semmai proprio la spinta radicale di questo deputato permette ad altri dentro «Futuro e Libertà», in sintonia con il leader, di modulare la tattica, alternando momenti di conflitto e periodi di pausa.
 
Di sicuro il presidente del Consiglio dovrà stare sempre sul chi vive, soprattutto dopo la fiducia del 29 settembre. Se l'obiettivo dei dissidenti è il progressivo logoramento di Palazzo Chigi, le occasioni per dar corpo a questa strategia non mancheranno. Del resto, proprio ieri Maroni, il ministro dell'Interno, ha ripetuto il tema leghista: o la maggioranza si dimostra salda e autorevole o è meglio «andare al voto» perché non è plausibile «cercare ogni giorno in Parlamento il voto di Tizio, Caio o Sempronio». Ciò che allo stato delle cose è più di una remota eventualità: è il probabile sbocco della ripresa d'autunno.

Berlusconi farà del suo meglio per rendere credibile quella che i giornali definiscono «la fase 2 del governo». Userà senz'altro la leva del rimpasto per accontentare vecchi e nuovi alleati. Ma nessuno è in grado di garantire il premier (e la Lega) che il cammino parlamentare è spianato. Viceversa, tutto lascia intuire che sia destinato ad avverarsi il timore di Maroni: una maggioranza in affanno che cerca di volta in volta il consenso di Tizio e Caio. Fino al momento in cui, magari all'inizio del 2011, qualcuno alzerà bandiera bianca.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-09-22/verso-timori-guerriglia-rischi-075953.shtml?uuid=AY1A6JSC
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« Risposta #10 inserito:: Settembre 29, 2010, 11:24:38 am »

La fiducia è una scelta chiara e opportuna, ma non una garanzia per il futuro

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 29 settembre 2010 alle ore 09:30.
L'ultima modifica è del 29 settembre 2010 alle ore 09:26.

   
La scelta di Berlusconi di chiedere la fiducia del Parlamento per il suo governo è arrivata all'ultimo minuto e ha il sapore di un colpo di scena. Ma è una scelta chiara e quindi opportuna, l'unica che può dare un senso al dibattito un po' surreale che ha scandito le ultime settimane. Senza la fiducia, come pareva fino a ieri, la verifica si sarebbe chiusa nel segno dell'ambiguità e delle lacerazioni non sanate con gli amici di Fini: la maggioranza sarebbe uscita dalle aule parlamentari più debole di come vi era entrata. Ora almeno ognuno dei soci della coalizione si assumerà le proprie responsabilità. E poi si vedrà.

Sappiamo che questo era il copione originario previsto dal presidente del Consiglio. Intervento in aula a illustrare i cinque punti del rilancio programmatico e poi voto di fiducia per dare legittimità alla cosiddetta "fase due" del governo. Tuttavia la terribile estate politica, scandita da scambi di accuse infamanti, aveva mutato lo scenario di fondo. Il premier è andato per settimane alla ricerca dei famosi 316 voti al netto dei 35 finiani di "Futuro e libertà". Li ha trovati? Si sente sicuro dei numeri? Sappiamo che oggi riceverà il voto di alcuni parlamentari ex Udc ed ex rutelliani. Ma è difficile prevedere se i nuovi apporti basteranno a rendere ininfluenti i voti del gruppo finiano.

Quel che sappiamo è che il presidente del Consiglio si è risolto a porre la questione di fiducia dopo che per giorni e giorni aveva lasciato capire di accontentarsi di un voto di indirizzo. Un'ipotesi debole soprattutto dopo che al caso Fini si era aggiunto il caso Bossi. All'indomani dell'infelice frase del ministro delle Riforme contro i romani, la mozione personale di sfiducia annunciata dalle opposizioni non avrebbe comunque ottenuto i voti necessari. Ma nel clima confuso in cui la maggioranza si stava aggrovigliando avrebbe avuto un significato da non sottovalutare. Sta di fatto che Berlusconi ha rotto gli indugi. Improvvisamente la questione dei numeri ha perso la sua importanza. Forse ci saranno i 316 voti senza i finiani o forse no: dipende da come avranno fatto bene i conti a Palazzo Chigi. E magari da qualche ulteriore colpo di teatro.

Tuttavia è possibile che si resti al di sotto della soglia, rendendo così decisivi i consensi di "Futuro e libertà". Gli amici di Fini sono contenti perché in questo modo ottengono una sorta di riconoscimento parlamentare del loro ruolo. È quello che volevano, come tappa intermedia sulla via che li sta portando a costruire il loro partito. Si dirà che un voto di fiducia, nel clima bizantino in cui stiamo vivendo, non vuol dire poi molto. Niente impedisce al gruppo dissidente di mettersi di traverso lungo un sentiero parlamentare ricco di insidie (scudo giudiziario per il premier, legge sulle intercettazioni, riforma della giustizia).

In ogni caso, se il presidente del Consiglio stasera otterrà la fiducia, come è prevedibile, avrà colto un successo. Sarà riuscito a mettere un grosso cerotto sui problemi della coalizione. E lo avrà fatto dopo un discorso che si prevede piuttosto impegnativo, in cui metterà in gioco la sua credibilità. Un discorso "di legislatura", anche se ci vuole molto ottimismo per immaginare che il governo potrà durare fino al 2013. Ma Berlusconi ha la possibilità di mostrare la sua buona volontà, evitando i temi controversi ed eliminando qualsiasi cenno polemico alla diatriba con il presidente della Camera che in aula lo osserverà dal suo scranno, a un metro di distanza.


http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-09-29/scelta-chiara-opportuna-garanzia-080535.shtml?uuid=AYs3zjUC
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« Risposta #11 inserito:: Ottobre 30, 2010, 12:29:15 am »

Un punto forte e due deboli nell'ipotesi del governo di transizione

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 28 ottobre 2010 alle ore 08:35.
L'ultima modifica è del 28 ottobre 2010 alle ore 11:24.

   
I fautori del governo di "transizione" o di passaggio hanno dalla loro un argomento forte, ma devono ammettere due punti deboli. L'argomento forte riguarda il disappunto che percorre ampi settori di opinione pubblica e di mondo produttivo di fronte alla prospettiva di elezioni a breve. Per gran parte degli italiani è irritante l'idea che una larga maggioranza parlamentare sia stata sperperata in due anni e che la classe politica non abbia altra risorsa se non rivolgersi di nuovo al corpo elettorale.

Dunque, nell'eventualità di una crisi del governo Berlusconi un tentativo di frenare la corsa al voto sarebbe considerato opportuno.
Questo non significa che gli italiani amino i "trasformismi" o i cosiddetti "ribaltoni". Vuol dire però che lunghi anni di "bipolarismo" accompagnato da una scarsa qualità di governo hanno fatto appassire le illusioni. Oggi la retorica del "premier eletto dal popolo" e del verdetto elettorale intangibile è meno convincente che in passato proprio per gli errori commessi dai politici. Del resto, Fini è uno dei vincitori del 2008 (anzi, è il cofondatore del Pdl), il che non gli impedisce di essere fautore di un governo diverso. E Berlusconi ha tratto dalla sua, per mantenere la fiducia delle Camere, alcuni deputati siciliani eletti con l'Udc, partito d'opposizione.

A norma di Costituzione e alla luce degli sviluppi politici, un altro governo prima del voto, magari determinato ad arrivare al 2013, è del tutto legittimo. Tuttavia l'operazione presenta almeno due punti deboli.

Il primo riguarda la ragion d'essere di tale esecutivo. In Parlamento le idee sono piuttosto confuse al riguardo. All'inizio i partiti dell'opposizione, specie quella di centrosinistra, pensavano a un governo "di scopo", votato a cambiare la legge elettorale per poi tornare alle urne. Ma l'operazione ha subito mostrato la corda. Nessun governo può limitarsi ad affrontare la riforma elettorale, tanto più che non esiste al momento un'intesa su come cambiarla. Senza dubbio il capo dello Stato non incoraggerebbe un esperimento al buio, ossia un esecutivo con una maggioranza fragile e molto eterogenea (almeno al Senato) che nasce per modificare il modello elettorale, ma non sa come.

Ecco allora che Bersani e D'Alema, in questo sostenuti da Casini, parlano oggi di un governo di respiro più largo, volto ad affrontare l'emergenza economica e sociale. La svolta ha un significato. Ci si rende conto che un governo di breve termine (tre o sei mesi) non avrebbe senso. Soprattutto non sarebbe sufficiente a convincere quel manipolo di senatori del Pdl (forse una trentina) il cui apporto sarebbe indispensabile per varare una nuova maggioranza. Serve un orizzonte più largo, non legato alla sola legge elettorale. Ma qui è il secondo punto di debolezza. Un orizzonte lungo presuppone un accordo politico sul programma tra gruppi che hanno poco in comune tranne il desiderio di evitare le elezioni. E infatti il presidente della Puglia, Vendola, che invece le elezioni le vuole, ha già detto che non intende appoggiare riforme nate da un compromesso con le forze moderate. Il rischio è che l'esecutivo nasca sotto il pesante condizionamento dello stesso Vendola e di Di Pietro. Il che creerebbe non pochi problemi a qualcuno, ad esempio a Casini. Sullo sfondo c'è un altro pericolo: il governo di "transizione" sarebbe ovviamente sottoposto a un intenso bombardamento mediatico da parte dell'asse Pdl-Lega. Se dovesse cadere troppo presto, riaprendo la strada alle elezioni, offrirebbe uno straordinario vantaggio al centrodestra.

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« Risposta #12 inserito:: Novembre 03, 2010, 09:59:40 pm »

La maggioranza è divisa e il paese non ha più guida

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 02 novembre 2010 alle ore 09:00.
L'ultima modifica è del 02 novembre 2010 alle ore 08:56.

   
Un punto è certo. Il governo Berlusconi è paralizzato. Virtualmente morto, si potrebbe dire, per la perdita di credibilità della sua guida. Funziona la garanzia dei conti pubblici affidata a Tremonti, ma per il resto nessuno si fa illusioni. Basti dire che la maggioranza alla Camera vive sul voto dei finiani, un gruppo il cui leader, appunto il presidente di Montecitorio, ha appena chiesto le dimissioni del premier, «se fossero vere le pressioni di Palazzo Chigi sulla Questura di Milano».


Se fossero vere? Nel paese non si discute altro che di quella notte, con la triangolazione fra il presidente del Consiglio, la polizia di Stato e la procura dei minori. Il ministro degli Interni si preoccupa di proteggere il buon nome dei poliziotti e non spende una parola per difendere il capo di quel governo di cui è autorevole membro. Dettaglio significativo, date le circostanze.
La condizione posta da Fini («se fossero vere...») è una foglia di fico. Di fatto, il gruppo che ha le chiavi della maggioranza ha reclamato per la prima volta le dimissioni di Berlusconi. Eppure la richiesta di Fini (presidente della Camera in carica) non è ancora un abbandono unilaterale della coalizione di governo nella quale «Futuro e Libertà» - ricordiamolo - dispone di ministri e sottosegretari. Al contrario, i finiani vogliono evitare questo passo definitivo che attirerebbe su di loro gli applausi dell'opposizione, ma finirebbe per restituire compattezza all'asse Pdl-Lega e renderebbe più difficile la ricerca di un esecutivo di transizione. Ricerca peraltro esoterica, perché questo governo «a tempo» è ancora privo di forza parlamentare e orizzonte programmatico.§

Siamo nel pieno di una partita politica dagli esiti indecifrabili. La mossa di Fini («il premier si dimetta») sarebbe stata deflagrante se anche la Lega avesse abbandonato la nave di Berlusconi. Ma non è ancora così. Bossi stavolta ha esitato all'inizio, incerto sulla via da imboccare. Nella Lega si sono vissute ore difficili e forse traumatiche, anche perché Maroni si è trovato invischiato suo malgrado nel «caso Ruby». Al dunque, ha prevalso un calcolo di convenienza. Alla Lega non serve un governo di larga coalizione figlio dello scandalo. Al punto in cui siamo, i danni sarebbe maggiori dei vantaggi. D'altra parte senza la Lega tale governo non avrebbe ali per volare e per la destra sarebbe facile gioco presentarlo come un mero «ribaltone», un atto di trasformismo parlamentare.

È un vicolo cieco. La crisi personale del premier non si traduce in crisi politica. Non ancora. Si resta sospesi a mezz'aria, in attesa di un altro evento, di un nuovo choc. Forte del rifiuto della Lega ai governi tecnici, Berlusconi può arroccarsi e respingere l'ipotesi delle dimissioni. E infatti i suoi rispondono a Fini: se ci tiene, sia lui a togliere l'appoggio al governo e ad aprire la crisi.

La posta in gioco è evidente. Se Berlusconi si dimettesse sotto il peso di questa vicenda, la strada sarebbe spianata, almeno sulla carta, verso un esecutivo con una diversa maggioranza e guidato da un «signor X» da individuare. Ma, come si è detto, tale ipotesi avrebbe un senso solo se la Lega entrasse in qualche modo a far parte della combinazione. Se ciò non accade e il premier resta asserragliato a Palazzo Chigi, si deve immaginare che l'unica via d'uscita sarà fra qualche mese il voto anticipato. Vale a dire l'obiettivo di Bossi. Non di Berlusconi, almeno fino all'altro ieri, ma le cose cambiano in fretta e l'uomo di Arcore sembra con le spalle al muro. Tuttavia, se avremo le elezioni, è bene che si sappia quale prezzo dovrà pagare il paese. Perché il ricorso alle urne avverrà in un clima drammatico e senza alcuna certezza per il dopo.

La paralisi è sotto gli occhi di tutti. Il presidente della Camera, dopo aver posto in termini perentori il problema della permanenza di Berlusconi a Palazzo Chigi, dovrà decidere cosa fare. Se il premier gli risponde «picche», come è già accaduto, Fini ha tre scelte. Primo, aspettare qualche ulteriore scandalo che disintegri l'immagine del premier e lo obblighi a lasciare l'incarico. Secondo, ritirare dal governo la delegazione di «Futuro e Libertà» e provocare la crisi (c'è un surrogato di cui si parla in queste ore, il passaggio all'appoggio esterno, ma è poco credibile e il Pdl non lo accetterebbe).

Terzo, dimettersi da presidente della Camera denunciando il degrado istituzionale: sarebbe un gesto a effetto e risolverebbe il paradosso di un presidente della Camera impegnato in una lotta all'ultimo sangue contro il presidente del Consiglio.

Comunque sia, è necessario che tutte le decisioni siano prese in tempi celeri. L'Italia non può assistere ancora a lungo a questo suicidio della politica, sotto gli occhi, increduli, del mondo intero.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-11-02/maggioranza-divisa-paese-guida-074215.shtml?uuid=AYwygPgC&fromSearch
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« Risposta #13 inserito:: Novembre 08, 2010, 12:32:41 pm »

La sfida di Fini: perché il gioco del cerino non è ancora finito

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 07 novembre 2010 alle ore 20:09.

   
La metafora del cerino è abusata, ma rende bene l'idea di quello che sta accadendo nell'area dissestata del centrodestra. Il rischio è che, a forza di passarselo di mano in mano, tutti alla fine si brucino le dita con questo fiammifero. A Perugia abbiamo assistito al penultimo atto di uno psicodramma sempre più incomprensibile per il normale cittadino, ma ben in grado di descrivere il disfacimento della maggioranza e quindi del governo. Le elezioni anticipate sono via via più vicine, ma nessuno, neanche Fini, ha la volontà o il coraggio di pronunciare a viso aperto l'ultima parola. È un susseguirsi di penultime parole.

Di solito un partito che vuole provocare la crisi ritira senz'altro i suoi ministri dal governo. Invece nel nostro caso siamo ancora un passo indietro rispetto a questa soluzione lineare. Fini ha intimato a Berlusconi di rassegnare le dimissioni e di dar vita al negoziato per un altro governo, aperto all'Udc. Un governo che dovrebbe mettere in un angolo la Lega, a vantaggio dell'asse "Futuro e Libertà" più Casini. Scenario suggestivo, ma politicamente poco verosimile. Logica vorrebbe che dopo la risposta negativa di Berlusconi (il quale, non dimentichiamolo, ha ricevuto la fiducia in Parlamento appena poche settimane fa) Fini facesse dimettere i suoi ministri già oggi, aprendo in via ufficiale la porta alla crisi dell'esecutivo.

Tuttavia occorre attendere, perché il gioco del cerino continua. Come la fiducia di fine settembre aveva poco significato, così oggi lo scambio di ultimatum sembra poco convincente. L'unica verità è il logoramento inarrestabile di un centrodestra che due anni fa ha vinto le elezioni e che ha deluso molto in fretta tutte le attese. E' chiaro che così non si potrà andare avanti ancora a lungo. Ma lo spettacolo a cui abbiamo assistito oggi non è ancora l'epilogo. Ci saranno colpi (alcuni bassi) e contraccolpi. E la fine di questa legislatura, coincidente con l'ultimo atto della lunga stagione berlusconiana, non sarà indolore. Forse sarà drammatica.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-11-07/sfida-fini-perche-gioco-195515.shtml?uuid=AYwf7uhC
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« Risposta #14 inserito:: Novembre 17, 2010, 06:23:21 pm »

Un successo istituzionale del Quirinale, ma in un clima inasprito

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 17 novembre 2010 alle ore 08:26.
L'ultima modifica è del 17 novembre 2010 alle ore 08:50.

   
Ormai la crisi procede su due livelli. Il primo è istituzionale e sta assorbendo le energie di Giorgio Napolitano. Con i presidenti dei due rami del Parlamento il capo dello Stato ha colto un primo successo: è riuscito a delineare un percorso che non incrinerà quel minimo di stabilità a cui il paese non può rinunciare. La legge finanziaria manterrà quindi la precedenza sulle mozioni di sfiducia, ma si eviterà che i tempi del Senato si dilatino fino a interferire con le esigenze del chiarimento. Per cui entro il 10 dicembre la manovra sarà approvata e poi prenderà il via una rapida «verifica», con le comunicazioni del presidente del Consiglio.

La novità emersa ieri è che Napolitano, attraverso la sua influenza personale, ha favorito una soluzione equilibrata a quella «guerra delle mozioni» tra Camera e Senato che rischiava d'essere distruttiva. Di fatto i diversi documenti, di sfiducia o di sostegno, saranno votati in parallelo nei due rami del Parlamento il giorno 14. Per coincidenza lo stesso giorno in cui la Consulta renderà nota la sua sentenza sul «legittimo impedimento», lo scudo giudiziario che tutela Berlusconi dai processi. Ovviamente l'eventuale sfiducia della Camera obbligherà il premier alle immediate dimissioni.
Con il buon senso si supera così la disputa su quale delle due Camere dovesse esprimersi per prima: se il Senato più «amico» di Berlusconi o la Camera dove la maggioranza sulla carta non esiste più. Vedremo. Sullo sfondo, l'aggravarsi delle difficoltà economiche nell'area dell'euro potrebbe diventare un argomento politico contro le elezioni a breve termine. Ma anche, se è per questo, contro il voto di sfiducia e l'apertura della crisi.

Allo stato delle cose, il secondo livello della crisi, quello appunto politico, parla a favore dello scioglimento delle Camere. Le posizioni sono rigide. Da un lato, Fini, Casini e il centrosinistra non vogliono niente di meno che un governo guidato da un nuovo leader. Dall'altro, Berlusconi ha saldato il rapporto con la Lega all'insegna dell'alternativa «o la fiducia o il voto». È evidente che Bossi non è entusiasta di precipitarsi alle urne. Forse ritiene il Berlusconi di oggi un candidato fragile, esposto al pericolo di altre rivelazioni sconvenienti. Peraltro il caso Ruby ha fatto il giro del mondo, tanto che il settimanale americano «Newsweek», in passato sostenitore del presidente del Consiglio, ha dedicato alla vicenda delle «ragazze» del premier quattro pagine molto aspre.

Tuttavia la Lega resta salda a fianco del vecchio alleato, o almeno così sembra. E questo permette al premier di segnare qualche punto e di tenere sotto controllo la situazione. Se il quadro rimarrà bloccato anche dopo la sfiducia, non si vede come i sostenitori del «governo diverso» possano prevalere. E infatti le loro speranze sono legate a due ipotesi tutte da verificare.

La prima riguarda uno sfaldamento del gruppo senatoriale del Pdl dopo che Berlusconi sarà salito al Quirinale. Ma dovrà trattarsi di uno sfaldamento molto consistente, una vera e propria scissione, per giustificare il fatto che il nuovo governo lascerebbe fuori le due forze (Pdl e Lega) vincitrici delle elezioni nel 2008 e tuttora titolari, in base ai sondaggi, della maggioranza relativa. L'altra ipotesi è il ritiro volontario da parte di Berlusconi. Per stanchezza o per nuovi colpi giudiziari. Ma questo sarebbe davvero un colpo di scena clamoroso, come tale non prevedibile.

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-11-17/successo-istituzionale-quirinale-clima-063624.shtml?uuid=AYJIyHkC
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