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Autore Discussione: Stefano FOLLI. -  (Letto 106778 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Novembre 13, 2011, 10:57:28 am »

Le insidie dei partiti

di Stefano Folli

11 novembre 2011

Il governo di Mario Monti deve ancora nascere, ma è già in luna di miele con l'opinione pubblica e con le cancellerie estere. Quello del neosenatore a vita è, o meglio sarà, il «governo del presidente» nel senso più puro del termine: voluto, sostenuto e tutelato a ogni passo dal capo dello Stato.

E infatti ieri, mentre gli «spread» finalmente calavano un po', il presidente degli Stati Uniti manifestava a Napolitano la sua soddisfazione. Per la precisione, Obama esprimeva all'interlocutore italiano «fiducia nella sua leadership», confermando un rapporto di stima che è una delle chiavi di lettura per capire le vicende degli ultimi due anni.

Al tempo stesso anche la cancelliera tedesca Angela Merkel si rallegrava: l'Italia sta riguadagnando credibilità. In altre parole, sembra che l'attesa per Monti sia quasi spasmodica. Vi si mescolano sentimenti diversi. C'è il sollievo per l'uscita di scena di un premier da tempo inviso ai nostri partner e la speranza che il nuovo governo, con tre o quattro mosse azzeccate, rientri nei binari dell'Unione, allontanandosi da ogni rischio greco.

Ci si aspetta insomma che Monti recuperi il terreno perduto negli ultimi anni. Egli stesso si dichiara consapevole che «c'è un enorme lavoro da fare», a cominciare dall'attacco alla giungla dei «privilegi». Come dire che il programma dell'esecutivo è ormai in bozza e non è poco ambizioso. Del resto, oltre due ore di colloquio ieri sera al Quirinale dimostrano quanto sia concreto in questo passaggio ancora ufficioso l'impegno dei due uomini. Massima determinazione, massima coesione.

Tutto bene, allora? Non proprio. La luna di miele in corso non riguarda la politica. Sotto l'omaggio dovuto al presidente e alla personalità da lui scelta, si nascondono frizioni e inquietudini da non sottovalutare. Certo, la maggioranza sarà vasta, abbraccerà quasi tutto il Parlamento salvo i dipietristi e la Lega (ma nelle ultime ore Bossi ha mitigato l'ostilità del Carroccio al governo tecnico). Persino Vendola, esterno al Parlamento, è cauto. Eppure proprio l'ampiezza dei numeri suscita qualche sospetto.

Più che di larghe intese, si deve parlare di una convergenza senza veri accordi fra i partiti: un obbligo imposto dalle circostanze.
E questo vale soprattutto per il Pdl, dove Berlusconi ammette a fatica: «non possiamo fare altro che sostenere Monti». Ma il Pdl è percorso da un profondo nervosismo. Chiede tutele e garanzie sui nomi dei ministri, parla come se Monti dovesse negoziare le poltrone. L'insidia è notevole: se il Pdl s'impunta sui nomi, anche il Pd dovrà fare lo stesso; perchè non è credibile che l'esecutivo possa nascere con una rappresentanza politica del centrodestra e solo tecnica del centrosinistra. Infatti Bersani sta dicendo che nessun nome del vecchio governo dovrebbe affiancarsi a Monti. E Casini, prudente, ha scelto di rimettersi al capo dello Stato per la scelta dei ministri, tecnici o politici che siano. In questa fase il rischio dei veti incrociati può essere fatale.

Non a caso una vecchia regola della Prima Repubblica ammoniva che, nella tasca del presidente incaricato, la lista dei possibili ministri scotta: diventa infuocata man mano che passano le ore o i giorni. E dunque si tratta di sbrigarsi a far giurare i neoministri, prima che i partiti e le correnti rafforzino le loro linee di resistenza. Oggi il quadro è diverso, ma è bene non farsi troppe illusioni. Monti non tratterà con i partiti e la posta in gioco è troppo alta per contemplare il rischio di fallire. Però il governo, che avrà un profilo tecnico accentuato, non potrà ignorare un'esigenza di equilibrio politico generale.


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« Risposta #31 inserito:: Novembre 13, 2011, 06:10:19 pm »

Il sì condizionato di Alfano e Pdl non fermerà Monti: ma si propone di vincolarlo in Parlamento

analisi di Stefano Folli all'interno articolo di Celestina Dominelli

13 novembre 2011

IL PUNTO/L'addio di Berlusconi, la rotta di Monti, la garanzia del Quirinale (di Stefano Folli)

Il segretario del Pdl Alfano, intervistato a "In mezz'ora" non ha chiuso la porta al governo Monti, che appare sempre più ineluttabile. Ha solo fatto riferimento alle "condizioni" poste dal partito di Berlusconi. Condizioni che sembrano avere a che fare soprattutto con i temi programmatici (lettera alla Ue, patrimoniale, riforma del mercato del lavoro, pensioni), visto che sulla struttura del governo il Pdl ha subìto il veto del centrosinistra su Gianni Letta e nonostante ciò non ha cambiato idea sul nuovo governo. In fondo, Alfano chiede soprattutto rispetto per la sua parte politica, che fino a ieri esprimeva il premier. Rispetto che il quasi presidente incaricato avrà tutto l'interesse a garantire.

Intanto le rapide consultazioni di Napolitano hanno confermato quello che già si sapeva: a sostegno di Monti c'è un ampio ventaglio di posizioni politiche. Tranne la Lega, che ha confermato il suo "no", pur lasciando uno spiraglio per il futuro, tutti gli altri, compreso Di Pietro, voteranno la fiducia al nuovo esecutivo. Tuttavia variano le sfumature e i toni che definiscono l'appoggio politico al governo tecnico. Si va dall'apprezzamento incondizionato di alcuni (personalità e gruppi di centrosinistra e di centro) fino ai distinguo di chi si sforza di delimitare l'orizzonte di Monti.

Di Pietro non è il solo di usare l'argomento del "governo a tempo", con l'idea di fissare fin d'ora – cosa poco realistica – un termine di scadenza oltre il quale ci sarebbero le elezioni. Altri (Moffa) vogliono piantare paletti programmatici, ancorando l'esecutivo ai punti economici richiamati nella lettera di Berlusconi all'Unione.

Ma ciò che davvero interessa è il sì condizionato di Alfano e del Pdl. Non fermerà Monti, lo abbiamo detto, ma si propone di vincolarlo in Parlamento. Considerando l'esecutivo come un "governo amico" da cui prendere le distanze quando serve. Quel che si può dire è che i tempi per il conferimento dell'incarico saranno quelli previsti: stasera, con probabile presentaszione della lista dei ministri domani, dopo che Monti a sua volta avrà sentito i dirigenti dei partiti. Ma senza esagerare, se non vuole infilarsi in un ginepraio. Del resto non ci sono dubbi sulla riuscita del tentativo, per le ragioni più volte ripetute: i mercati vogliono certezze ed è in gioco la salvezza dell'economia nazionale.

Sullo sfondo si staglia con evidenza il ruolo di grande regista svolto da Giorgio Napolitano. Un ruolo che dovrà continuare, perché è evidente che la garanzia del presidente della Repubblica dovrà prolungarsi fino ad accompagnare, rafforzandoli, i primi passi dell'esecutivo Monti. Un governo che nella sua composizione tecnica vede il suo punto di forza e insieme il suo elemento di debolezza rispetto a un Parlamento percorso da profonde contraddizioni e, per quanto riguarda il Pdl, anche da pericolose convulsioni.

Berlusconi è uscito di scena, in un modo triste e drammatico, ma non rinuncia per ora a giocare un ruolo politico. Lo testimonia la sua lettera di stamane a un convegno della Destra di Francesco Storace, la sua denuncia dei "piccoli ricatti" di cui si sente vittima. La frustrazione della maggioranza uscente può essere un fattore di rischio a breve scadenza. Si va dalla legittima richiesta di "rispetto reciproco" fino alle pulsioni anti-euro e anti-poteri forti che aleggiano negli ambienti e sui giornali più combattivi. Il governo Monti come emanazione di un oscuro potere tecnocratico che vuole "svendere" l'Italia: è un argomento che può lasciare il tempo che trova, rappresentando solo un'amarezza passeggera, oppure può essere il cardine di una linea politica populista o addirittura "poujadista" che potrebbe provocare nuove destabilizzazioni.
Capiremo meglio nel momento in cui Monti avrà presentato la sua squadra. Sarebbe meglio che fosse presente un qualche legame, anche simbolico, con le forze politiche maggiori che dovranno sostenere il governo alle Camere.
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« Risposta #32 inserito:: Novembre 14, 2011, 07:36:35 pm »

L'ampio ventaglio di appoggio a Monti e i distinguo di chi vuole delimitare l'orizzonte del nuovo premier

Analisi di Stefano Folli
13 novembre 2011


L'avvio delle consultazioni al Quirinale sta confermando quello che già si sapeva: a sostegno di Monti c'è un ampio ventaglio di posizioni politiche. Tranne la Lega, che ha confermato il suo "no", tutti gli altri, compreso Di Pietro, voteranno la fiducia al nuovo esecutivo. Tuttavia variano le sfumature e i toni che definiscono l'appoggio politico al governo tecnico. Si va dall'apprezzamento incondizionato di alcuni (personalità e gruppi di centrosinistra e di centro) fino ai distinguo di chi si sforza di delimitare l'orizzonte di Monti.

Di Pietro non è il solo di usare l'argomento del "governo a tempo", con l'idea di fissare fin d'ora – cosa poco realistica – un termine di scadenza oltre il quale ci sarebbero le elezioni. Altri (Moffa) vogliono piantare paletti programmatici, ancorando l'esecutivo ai punti economici richiamati nella lettera di Berlusconi all'Unione.

Vedremo nel corso della giornata. Quel che si può dire per ora è che i tempi per il conferimento dell'incarico saranno quelli previsti: stasera o al più tardi domattina presto. Così come non ci sono dubbi sulla riuscita del tentativo, per le ragioni più volte ripetute: i mercati vogliono certezze ed è in gioco la salvezza dell'economia nazionale.

Quel che appare di ora in ora più certo, è il ruolo di grande regista svolto da Giorgio Napolitano. Un ruolo che dovrà continuare, perché è evidente che la garanzia del presidente della Repubblica dovrà prolungarsi fino ad accompagnare, rafforzandoli, i primi passi dell'esecutivo Monti. Un governo che nella sua composizione tecnica vede il suo punto di forza e insieme il suo elemento di debolezza rispetto a un Parlamento percorso da profonde contraddizioni e, per quanto riguarda il Pdl, anche da pericolose convulsioni.

Berlusconi è uscito di scena, in un modo triste e drammatico, ma non rinuncia per ora a giocare un ruolo politico. Lo testimonia la sua lettera di stamane a un convegno della Destra di Francesco Storace. La frustrazione della maggioranza uscente può essere un fattore di rischio a breve scadenza. Si va dalla legittima richiesta di "rispetto reciproco", avanzata da Cicchitto fino alle pulsioni anti-euro e anti-poteri forti che aleggiano negli ambienti e sui giornali più combattivi. Il governo Monti come emanazione di un oscuro potere tecnocratico che vuole "svendere" l'Italia: è un argomento che può lasciare il tempo che trova, rappresentando solo un'amarezza passeggera, oppure può essere il cardine di una linea politica populista o addirittura "poujadista" che potrebbe provocare nuove destabilizzazioni.

Capiremo meglio nel momento in cui Monti avrà presentato la sua squadra. Sarebbe meglio che fosse presente un qualche legame, anche simbolico, con le forze politiche maggiori che dovranno sostenere il governo alle Camere.

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« Risposta #33 inserito:: Dicembre 20, 2011, 06:36:49 pm »

Monti ha bisogno di un sostegno più esplicito dei tre poli

di Stefano Folli

20 dicembre 2011


Non è un paradosso osservare che la bizzarra idea leghista (obiezione di coscienza di massa contro l'Imu, la vecchia Ici) può rafforzare, piuttosto che indebolire, il governo Monti. In fondo, il presidente del Consiglio e i suoi ministri tecnici hanno da temere molto di più dalle opposizioni occulte e mascherate che si vanno manifestando in Parlamento.

Gli oppositori espliciti, soprattutto quando sfidano il senso del ridicolo come i leghisti (non tutti) dello sciopero anti-tasse, costringono gli altri, tutti gli altri, a essere più coesi e coerenti. In una parola, più seri. Magari controvoglia.
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Ieri lo stesso Berlusconi non ha potuto fare a meno di notare che il comportamento della Lega è singolare, visto che l'Imu è stata concepita e realizzata proprio da Calderoli in chiave federalista. Come dire che il Carroccio sarebbe favorevole a scioperare contro se stesso e la propria idea d'imposizione fiscale. È probabile, naturalmente, che non se ne farà nulla. Siamo alle consuete stravaganze in chiave mediatica volte a restituire alla Lega una verginità politica da tempo perduta.

Non è un caso se persino il sindaco di Verona, Tosi, abile esponente della nuova generazione leghista, si sia mostrato ben poco convinto della pensata, con l'argomento che «l'operazione finirebbe per pesare sui cittadini». I quali dovrebbero commettere delle illegalità e pagarne le conseguenze.

Ora il problema non è se un eventuale sciopero fiscale, promosso da «bossiani» in cerca di visibilità, avrebbe successo. Senza dubbio non lo avrebbe. Il punto tuttavia è capire cosa vogliono fare gli altri, quelli che sostengono Monti in Parlamento. L'arcipelago della non-maggioranza convergente: Pdl, Pd, terzo polo. Man mano che passano le settimane è evidente che questi partiti devono decidersi. La prima ipotesi è un sostegno più esplicito e convinto al governo; la seconda è il piccolo cabotaggio pieno di diffidenza reciproca, fino alla paralisi indotta dalla mancanza di coraggio. Con leghisti e Di Pietro che avrebbero facile gioco a bombardare gli spalti governativi.

La matassa è intricata: le liberalizzazioni frenate, il «no» aspro del sindacato e della sinistra alla riforma dell'articolo 18, la stessa questione irrisolta delle frequenze tv. Passare al «secondo tempo» del governo è difficile e ogni passaggio presenta un'insidia. Tanto più che l'esecutivo tecnico, come è giusto, non vuole limitarsi ai temi economici. Si sforza di guardare più in là: il sovraffollamento delle carceri, i concorsi nella scuola. È un tentativo di andare oltre l'emergenza degli «spread». Ma le contraddizioni emergono senza pietà.

Il premier ha una sola strada davanti a sé: assumersi con decisione tutte le responsabilità e andare avanti con passo spedito. Chiedendo ai partiti che hanno votato la fiducia un appoggio più leale e trasparente. Qui hanno ragione Casini ed Enrico Letta che parlano di un «patto politico» da stipulare fra i tre partiti. Del resto sarebbe logico. L'agitarsi della Lega dimostra che gli oppositori stanno alzando il tiro. La non-maggioranza deve rispondere con un gesto uguale e contrario. Le mezze misure rischiano di essere fatali. Il rischio non è che qualcuno «stacchi la spina», come si dice. Non lo faranno né Berlusconi né Bersani. Il vero pericolo per Monti (e per l'Italia) è la palude: nessuno lo fa cadere, ma nessuno lo sostiene con convinzione.

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« Risposta #34 inserito:: Gennaio 02, 2012, 03:06:11 pm »

Merkel-Napolitano: nessuno vuole aprire un caso

di Stefano Folli

31 dicembre 2011

Ci sono almeno tre buone ragioni per cui le rivelazioni del «Wall Street Journal» sulla telefonata del 20 ottobre fra Angela Merkel e Giorgio Napolitano non hanno provocato, nonostante tutto, sconquassi degni di nota. La prima è che la telefonata era, in effetti, tutt'altro che segreta. Se ne parlò e scrisse a suo tempo in modo diffuso. Ed erano note le preoccupazioni, diciamo così, del governo di Berlino per la fragilità e la scarsa affidabilità del governo italiano e del suo massimo rappresentante. Qui c'è poco da scoprire di nuovo.

Seconda ragione. Un'indiscrezione di questo tipo non regge se i diretti interessati, il presidente della Repubblica e la cancelliera tedesca, la smentiscono in forma netta. Come è subito avvenuto. Si dirà: non potevano che smentire. Può darsi, ma tutto l'articolo del quotidiano americano si regge sull'interpretazione di una telefonata e delle parole forse intercorse fra due personalità che hanno spiegato - e non da oggi - il senso del loro agire. E' un po' poco per destabilizzare un paio di governi.

Terzo e più importante punto. Per rendere insidiosa la ricostruzione del Wsj ci vorrebbe qualcuno interessato a impugnarla in termini politici. L'unico che potrebbe coltivare tale interesse è ovviamente Silvio Berlusconi. Ma l'ex premier non si è mosso di un millimetro dalla sua linea attuale, rispettosa verso il Quirinale e di sostanziale sostegno a Monti. Se nemmeno lui dà credito alla ricostruzione (magari perchè non ritiene conveniente farlo), è chiaro che la vicenda è destinata a chiudersi in fretta.

I problemi sono altri. Riguardano i mesi iniziali di un anno che si presenta carico d'incognite drammatiche. L'impressione è che gli italiani attendano ancora che gli si parli un linguaggio di verità, in grado di coinvolgerli nel percorso della ricostruzione, anzi della rifondazione del paese. Le grandi crisi del Novecento sono state superate in occidente anche in virtù di formule comunicative efficaci, talvolta straordinarie, che hanno scandito le varie epoche, toccando l'anima collettiva della nazione.

Inutile citare i Roosevelt («non dobbiamo avere paura di nulla, se non della paura stessa») o i Churchill o i De Gasperi. In alcuni casi questi leader avevano alle spalle degli ottimi estensori dei loro discorsi; in altri sapevano intuire e dare voce ai sentimenti e alle inquietudini popolari. Ancora nel 1981 Giovanni Spadolini, arrivando a Palazzo Chigi come capo di un piccolo partito, il Pri (dunque un'"anomalia" per quei tempi), riuscì a entrare in sintonia con il paese coniando lo slogan delle «quattro emergenze».

Oggi, con l'Europa in crisi e l'Italia affidata a un governo «tecnico» di salvezza nazionale, è necessario che gli uomini delle istituzioni adeguino alla nuova realtà la cifra della loro comunicazione pubblica. Questo non è ancora avvenuto in modo sufficiente, come è apparso chiaro nella conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio. Ma nulla toglie che avvenga nelle prossime settimane, con l'aiuto dell'esperienza. Di certo un conto sono i contenuti dell'azione di governo e un altro sono gli strumenti per trasmetterli all'opinione pubblica.

L'esigenza non è secondaria, vista la profondità della crisi. Anche per questo il messaggio di San Silvestro del capo dello Stato riveste quest'anno una particolare rilevanza. Napolitano è l'architetto della nuova fase, è impegnato in uno sforzo quotidiano per sostenere gli obiettivi del governo ed è consapevole che il dialogo con gli italiani è essenziale. Tutto questo espone il presidente della Repubblica come raramente è accaduto in passato. L'attacco volgare che ieri gli ha mosso Bossi ne è la prova. Ma come si dice: quando si è in ballo bisogna ballare.

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« Risposta #35 inserito:: Gennaio 10, 2012, 10:24:12 am »

Il Pdl e il rischio di «regalare» Monti al centro sinistra

di Stefano Folli

10 gennaio 2012


Vedremo a cosa approderà il negoziato sul lavoro. In apparenza il clima non è troppo cattivo: la Cgil ha temuto d'essere scavalcata e isolata, ma il governo ha dato rassicurazioni in proposito e ieri Susanna Camusso è arrivata persino a elogiare il premier. Si cerca di evitare gli attriti discutendo, come dice Bonanni, "di ciò che unisce, non di ciò che divide". Poi, certo, arriverà il momento di scendere dal cielo dei principi al terreno delle scelte concrete, anche per dare un senso a quel nuovo "patto" che tutti a parole propugnano anche se ognuno lo interpreta in modo diverso.

E allora sarà facile verificare chi, anche nelle grandi organizzazioni sindacali, intende condividere - con le dovute garanzie - uno sforzo di responsabilità nazionale.

Quel che è sicuro, l'ostacolo immediato non è il lavoro, bensì il programma delle liberalizzazioni. Qui lo scontro con le corporazioni vuol dire, almeno sulla carta, conflitto con i loro referenti politici. Monti e Passera hanno però compreso che esiste solo un'ipotesi: andare avanti e rompere le incrostazioni a tutti i livelli, facendo attenzione ad allargare il ventaglio, così da non sembrare vessatori verso questa o quella categoria specifica. Magari le più deboli. Sotto l'aspetto tecnico, gli uffici sono al lavoro. Ma sotto il profilo politico la frattura che si è consumata ieri fra Lega e Pdl potrebbe, in via generale, aiutare Monti. Perché è chiaro che la decisione del Carroccio di votare a favore dell'arresto di Nicola Cosentino, proconsole berlusconiano in Campania, segna un "punto di non ritorno".

È la prova decisiva che il partito di Bossi intende archiviare la lunga stagione dell'intesa personale e politica con Berlusconi. Il che determina una serie di conseguenze. In primo luogo accentua l'isolazionismo leghista: contro Monti in maniera spesso scomposta, ma anche contro gli ex alleati. E quindi, se c'è una logica, il Pdl dovrebbe essere spinto a sostenere con più decisione l'esecutivo "tecnico". Restare a metà del guado non conviene più a Berlusconi e Alfano. Conviene invece integrarsi con Casini e Bersani per riuscire a contare qualcosa nelle strategie del governo. È un'esigenza comune a cui il segretario del Pd ha dato voce ieri. Ma per il centrodestra è vitale non farsi trascinare in una deriva pericolosa, tanto più che la Lega naviga ormai per conto suo e non è recuperabile a breve termine.

Ha ragione Rocco Buttiglione: «Il centrodestra non deve fare l'errore di regalare Monti alla sinistra». Non sarebbe la prima volta, basta ricordare il governo Dini. Ma questa volta è tutto molto più rischioso: la polemica sugli evasori e l'eventuale difesa a oltranza delle categorie "liberalizzate" rischiano di favorire, alla lunga, proprio questo esito. Già oggi Bersani, con lo slogan (efficace) "prima di tutto l'Italia", si propone come il baluardo numero uno del governo: forse intuendo che Monti non solo è l'ultima spiaggia, ma riesce pure a mantenere vivo un rapporto con l'opinione pubblica che i partiti possono solo invidiare.

Di conseguenza il presidente del Consiglio procede per la sua strada e le forze politiche devono misurare i loro passi. Contrastare le liberalizzazioni, e offrire uno scudo alle corporazioni bellicose, può essere un autentico "boomerang". Così come è controproducente intimare al governo di non occuparsi della Rai, con l'argomento che un esecutivo "tecnico" non è titolato a riformare o magari privatizzare in parte l'azienda. Naturalmente non è così, visto che il Tesoro è il principale azionista di viale Mazzini e che i partiti esprimono di fatto gli equilibri del Consiglio d'amministrazione. In altre parole, Monti ha il pieno diritto di intervenire sulla "governance" della Rai. Se il Pdl gli mette i bastoni nelle ruote, commette un nuovo errore politico e dà un'altra spinta a modificare il delicato assetto su cui si regge l'esecutivo. Quasi un suicidio.
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« Ultima modifica: Gennaio 10, 2012, 10:25:51 am da Admin » Registrato
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« Risposta #36 inserito:: Gennaio 11, 2012, 11:46:54 am »

Il Parlamento torna centrale

di Stefano Folli

11 gennaio 2012


Dall'epilogo del caso Malinconico si possono ricavare due lezioni. La prima è che non c'è bisogno di appartenere al mondo dei partiti per commettere gravi errori di comportamento: nel caso del sottosegretario la scorrettezza etica (non il reato, che nessuno ha contestato) era inaccettabile per il codice che il governo Monti si è dato.

È un incidente di percorso, senza conseguenze per l'esecutivo, anche se lascia un po' di amaro in bocca: qualcosa, con ogni evidenza, non ha funzionato nei criteri con cui sono state fatte certe scelte «tecniche». E infatti non c'entra la politica, bensì l'alta burocrazia.

La seconda lezione riguarda la rapidità con cui il presidente del Consiglio ha risolto la questione. Monti si è mosso con la velocità di riflessi di un politico consumato, rendendosi conto che qualsiasi esitazione avrebbe trasformato una vicenda personale in un disastro collettivo. Se c'è un fronte su cui il governo della lotta all'evasione fiscale non può permettersi alcun cedimento, è quello della moralità pubblica. Sotto questo aspetto, la capacità di leadership del premier ne esce rafforzata. È un buon auspicio per la compagine che ha nel rapporto con l'opinione pubblica il suo punto di forza.

Detto questo, anche questo episodio conferma che il governo «tecnico» non ha altra strada se non quella di procedere con determinazione lungo la sua rotta. In Europa e in Italia. Le forze politiche al momento possono solo accompagnare il percorso dell'eseutivo, avanzando qualche richiesta. Che poi lo facciano in qualche caso di malavoglia o con sofferenza, è cosa che riguarda il loro rapporto con l'elettorato; o l'immagine che vogliono trasmettere al paese.

Sappiamo, del resto, che sul Parlamento sta per abbattersi un macigno destinato a richiamare tutti i partiti al principio di realtà: perché l'imminente decisione della Corte Costituzionale sulla legge elettorale segnerà uno spartiacque. Come ha detto Giuliano Amato, «quella legge va cambiata in ogni caso, quale che sia il verdetto della Consulta». In altre parole, i partiti disoccupati hanno l'occasione di tornare a impegnarsi. Non solo sul modello elettorale, ma - se ne saranno capaci - sull'intera gamma delle riforme istituzionzali.

Di sicuro il passaggio è delicato. Ci sono oltre un milione e duecentomila firme di cittadini che hanno sottoscritto il referendum contro il "Porcellum" di Calderoli perché si ritengono espropriati del diritto di eleggere i loro rappresentanti. La loro voce interpreta un sentimento molto diffuso nel paese. Tuttavia la Corte è dubbiosa sulla possibilità di ammettere il quesito referendario, che avrebbe l'effetto - secondo un punto di vista - di riesumare la legge precedente: il "Mattarellum" (abrogato dal Parlamento).

Qualsiasi decisione è difficile. Non si può dare alla pubblica opinione l'impressione che quella montagna di firme sia stata ignorata o disattesa. Un'ipotesi, solo un'ipotesi al momento, è che la Corte respinga il quesito, ma al tempo stesso rivolga un forte appello alle Camere affinché cancellino il testo Calderoli e regalino all'Italia una legge elettorale degna di questo nome. Il che darebbe ai partiti qualcosa con cui riempire i prossimi mesi, immaginando il futuro. Le voci che si rincorrono sulle risorgenti tentazioni di elezioni anticipate sono per ora nient'altro che voci. Da non prendere sul serio. Prima c'è da ridefinire la geografia politica. I contenuti e le alleanze. E decisivo, con o senza il referendum, sarà il modello elettorale.
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« Risposta #37 inserito:: Gennaio 17, 2012, 05:39:14 pm »

Assomiglia a una grande coalizione ma non si può dirlo

17 gennaio 2012

di Stefano Folli

Dal lungo pranzo di lavoro fra il presidente del Consiglio e i rappresentanti dei partiti che sostengono il Governo (la «grande colazione» ha ironizzato qualcuno) si ricavano tre considerazioni. Primo. Si tratta di un passo avanti, non verso un Governo politico di unità nazionale, bensì verso una maggioranza più strutturata e quindi più solida.

Difficile dar torto a Casini su questo punto. Forze politiche che fino a poco tempo fa si combattevano all'arma bianca, e che due mesi fa s'incontravano di nascosto, ora firmeranno insieme una mozione parlamentare sull'Europa. Una mozione di pieno sostegno alla politica di Monti in un momento di drammatica difficoltà e alla vigilia di un Consiglio europeo che si presenta come cruciale. Non è poco. Si può continuare a sostenere, come hanno fatto Alfano e Bersani fino a ieri, che la convergenza parlamentare intorno all'esecutivo 'tecnico' non equivale a una maggioranza; ma insistere su questa tesi dopo il documento comune sull'Europa sarà poco convincente.

D'altra parte è comprensibile che i partiti, specie il Pdl e il Pd, abbiano dei problemi con il loro elettorato. Proprio per questo il passo avanti compiuto ieri ha un valore tutt'altro che irrilevante.

Secondo. La mozione rafforzerà le posizioni ortodosse sulla politica europea e di conseguenza indebolirà le tentazioni di cavalcare le ondate populiste che puntano a mettere in discussione l'Unione e la moneta unica. Si tratta di sentimenti che lievitano nella «zona euro», o appena al di fuori di essa, vedi l'Ungheria, ma che sono ancora flebili in Italia. Li alimenta la Lega, eppure il Carroccio oggi ha ben altri problemi interni: fin quando non li avrà risolti, decidendo di fatto il «dopo Bossi», la posizione anti-europea in Italia sarà poca cosa. Certo non sarà Berlusconi a sollevare per ora questa bandiera, se è vero che l'ex premier ha dato il suo benestrare al documento comune.

Qualche settimana fa Berlusconi aveva elogiato l'inglese Cameron e il suo «no» ai partner (in primo luogo Germania e Francia) sul trattato fiscale. Aveva garantito, un po' a buon mercato, che si sarebbe comportato allo stesso modo, se fosse stato ancora alla guida del governo. Ma ora il via libera al documento Alfano-Bersani-Casini indica che il Pdl sposa la linea opposta, che poi è quella di Monti. Un conto sono le parole, un altro gli atti concreti. Berlusconi non sembra avere alcuna voglia di inoltrarsi lungo la via tortuosa dell'anti-Europa. Il che offre una sponda preziosa al presidente del Consiglio.

Terzo. Quali possono essere le conseguenze del patto a tre? Casini ne indica una fra le tante: la riforma elettorale (un «dovere morale» del Parlamento, secondo il giudizio di D'Alema). Più in generale l'interesse dei tre partiti dovrebbe essere quello di ripensare il sistema politico, sul piano degli equilibri e delle regole istituzionali. Un modo saggio per non sprecare il tempo guadagnato con la nascita del governo 'tecnico'. Di fatto si può negare l'esistenza di una «grande coalizione», sia pure leggera, se è ancora conveniente farlo. Ma quel che conta è lo spirito politico, insomma la volontà di fare.

In realtà le intese sulla legge elettorale sono ancora in alto mare. I partiti sono spesso divisi al loro interno e poi c'è la netta opposizione di Di Pietro. La strada è lunga.

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« Risposta #38 inserito:: Gennaio 25, 2012, 10:53:44 pm »

Esame di maturità.

Il tempo stringe, per il governo «tecnico» la cruciale sfida della legalità

di Stefano Folli

25 gennaio 2012


Ora il tempo stringe. Per il Governo Monti la prova della legalità e dell'ordine pubblico non è meno importante della tenuta dei conti pubblici. È un esame di maturità, soprattutto dopo il tragico incidente di ieri, e l'opinione pubblica osserva. Dalla sua il presidente del Consiglio ha una carta preziosa: finora le forze politiche hanno isolato gli autotrasportatori. Unica eccezione, la Lega. Poi c'è qualche 'cane sciolto' del Pdl, personaggi non certo di primo piano.

Il resto del Parlamento condanna la 'serrata' e i gravi disagi imposti alla popolazione. Oppure tace, in attesa degli eventi: soprattutto di vedere come se la caveranno i 'tecnici'.

È una situazione sul filo del rasoio. Ma è chiaro che Monti e il suo ministro degli Interni hanno l'occasione di dimostrare fermezza e decisione, quello che in sostanza vuole la grande maggioranza degli italiani. La Sicilia ora si avvia a una normalità accettabile, come ha riferito la responsabile del Viminale in Parlamento, ma ci sono voluti giorni e giorni, oltre a uno strascico di polemiche. Difficile immaginare che nel resto d'Italia si sia disposti ad aspettare tanto. Se oggi il quadro generale non migliorerà in maniera sensibile, ci si attende che il governo prenda misure risolutive. E c'è da credere che una prova di severità, volta a garantire gli approvvigionamenti e la libera circolazione delle merci sul territorio nazionale - in base peraltro a una precisa e ben nota normativa dell'Unione - consoliderà la credibilità e il rispetto di cui gode il premier. Ma, appunto, il tempo stringe.

La finestra di opportunità è tuttora aperta perché, come si è detto, i partiti non appoggiano la protesta, anche se alcuni di loro restano stranamente silenziosi. Ma la debolezza e l'incertezza sono due comportamenti che l'esecutivo 'tecnico' non può permettersi perché avrebbero un vecchio sapore che gli italiani non capirebbero e ancor meno gradirebbero. In ogni caso oggi potrebbe essere il giorno della svolta.

Sarà anche il giorno in cui il presidente del Consiglio andrà alla Camera a parlare d'Europa e delle iniziative italiane nella cornice dell'Unione. Vedremo i partiti che sostengono l'esecutivo presentare una mozione unica, firmata da Pdl, Pd e terzo polo. Di tale documento si era già parlato nei giorni scorsi come di un passo avanti rilevante nell'appoggio offerto dalla non-coalizione tripartita al premier. Oggi potremo verificare in modo formale questo consolidamento della base parlamentare, secondo una linea piuttosto coerente che parte dall'Europa, ma tende ad abbracciare inevitabilmente anche il pacchetto delle liberalizzazioni. Le parole pronunciate dal segretario del Pdl, Alfano, sono state chiare al riguardo e collimano nella sostanza con le posizioni espresse da Bersani e Casini. Esistono alcuni distinguo e un po' di malumore nel partito di Berlusconi, ma la situazione sembra sotto controllo.

In definitiva il terreno di gioco è diviso in due settori. Da un lato Monti continua a costruire il profilo della politica economica del governo, o se si vuole il profilo 'tout court' di un'Italia che vuole sentirsi pienamente europea tra gli europei. Una missione per la quale c'è un consenso politico e parlamentare ogni giorno più chiaro. Dall'altro lato questo stesso governo deve tenere a bada la piazza, usando all'occorrenza il pugno di ferro. Cosa che gli procurerà qualche critica, ma gli farà guadagnare anche molti consensi. Finora Monti e il ministro Cancellieri hanno agito con prudenza e forse hanno fatto bene. Ma fino a quando?
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« Risposta #39 inserito:: Gennaio 27, 2012, 03:49:51 pm »

Dopo la svolta storica, fase cruciale per governo e forze politiche

di Stefano Folli

20 gennaio 2012

La giornata di oggi è una delle più importanti negli ultimi venticinque anni. Un governo 'tecnico' in cui i partiti non sono rappresentati, ma che è sostenuto in Parlamento da un complesso di forze tali da disegnare quasi una grande coalizione «de facto», promuove un piano di liberalizzazioni senza precedenti. Qualcuno dirà che si poteva fare di più. Però si poteva anche fare molto meno. Per cui è legittimo attendersi che oggi l'Italia viva una giornata a suo modo storica.

È un risultato che i 'tecnici' ottengono senza spezzare il fronte Pdl-Pdl-terzo polo che avrà la responsabilità di convertire i decreti legge. Ieri Berlusconi ha dato in sostanza il suo benestare al programma di liberalizzazioni e Alfano, confermando che «non è nostra intenzione creare difficoltà a Monti», si è solo riservato di presentare qualche emendamento. Analogo comportamento terranno, in caso di necessità, i democratici di Bersani e l'Udc di Casini. È il minimo da parte di una maggioranza che per ora dimostra di voler accompagnare l'esecutivo attraverso questa drammatica strettoia. Di più: lo stesso Di Pietro vede del buono nell'operazione in corso e almeno su questo punto si avvicina a Monti.

Si tratta, in altre parole, di un risultato positivo al di là delle attese. Certo, bisogna mettere nel conto le reazioni delle categorie toccate nei loro interessi. La violenta rivolta dei taxisti romani (e non solo) contro i loro rappresentanti reduci dai colloqui di Palazzo Chigi, incoraggia presagi inquietanti. Lo stesso vale per la serrata minacciata dai benzinai. Come dire che per il governo Monti si avvicinano giorni e settimane cruciali. Il premier ha mostrato coraggio, ma ora ha bisogno che il sostegno del Parlamento sia solido e duraturo nel tempo.

Sulla carta non dovrebbero manifestarsi problemi immediati. Le mosse di Alfano, Bersani e Casini sono tutte nel segno di una relativa coesione, benché non dichiarata. L'unico rischio è che la situazione precipiti per la rivolta delle categorie. Se così fosse, occorrerà verificare la tenuta, non tanto del governo, quanto dei singoli partiti, ognuno con le sue pulsioni. Finora nessuno dei nomi di primo piano si è speso a favore della piazza.

È stato chiesto piuttosto, da parte del Pdl ma anche di centristi e democratici, di procedere con liberalizzazioni «a 360 gradi»: energia, reti, trasporti. Così da non accanirsi sui settori secondari (taxisti, eccetera).
Ora che il governo ha recepito queste esigenze, il quadrato politico intorno a Monti dovrebbe resistere. È una condizione necessaria, ma non sufficiente per il cammino dell'esecutivo. Ora è indispensabile guardare anche all'altra faccia della medaglia. Se le forze politiche si limitano a fare il loro gioco sul governo, offrendo un appoggio condizionato, non si mettono al riparo dal rischio di un progressivo logoramento. È indispensabile invece che ritrovino uno spazio di manovra in Parlamento: una nuova legge elettorale e l'avvio di qualche riforma istituzionale sono obiettivi essenziali, come il Quirinale non si stanca di ricordare.

La domanda è: chi vuole davvero cambiare la legge elettorale e chi invece lavora con astuzia per mantenere lo «status quo»? I conservatori sono più numerosi e insospettabili di quanto non si creda, se non altro perché le idee sulla riforma sono confuse. Certe roboanti dichiarazioni contro il 'Porcellum' vanno prese con le molle. Aspettiamoci quindi mesi complicati.

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« Risposta #40 inserito:: Gennaio 28, 2012, 06:30:55 pm »

La maggioranza «innovativa» esiste, ma dov'è la spinta propulsiva?

di Stefano Folli

28 gennaio 2012


Se è vero che «l'Italia dopo vent'anni è tornata sulla scena», come scrive il "Financial Times", il merito è solo di Monti, oltre che del presidente della Repubblica che ha creduto nella soluzione d'emergenza e l'ha sostenuta sfidando ogni polemica. I fatti cominciano a dargli ragione. Certo, le incognite sono sempre dietro l'angolo, a cominciare dall'incertezza del quadro economico e dai consueti dubbi sull'Europa. Ma il fatidico «spread» sembra in fase calante e le aste dei Bot stanno andando molto bene.

Persino Fitch, nel momento in cui declassa il "rating" italiano - evento super-previsto - ha trovato il modo di elogiare il premier. Merito dell'asse Quirinale-Palazzo Chigi, dunque. Purtroppo però occorre un certo grado di ottimismo per estendere questi meriti anche ai partiti.

È vero che la mozione a tre (Pdl, Pd e Terzo polo) sull'Europa è stata raccontata - anche da chi scrive - quasi come una prova generale di «grande coalizione». Una coalizione non ufficiale, ma nei fatti operativa (si veda la sollecitudine pro-Monti di Berlusconi, nonostante i diktat leghisti). Tutto questo, al momento, si esprime con un sostegno parlamentare al governo "tecnico". Ottima cosa, «maggioranza innovativa» la definisce Monti. Ma ancora non si vede la spinta propulsiva delle forze politiche, la loro volontà di riappropriarsi di un ruolo pubblico senza per questo destabilizzare l'esecutivo.

Il voto triangolare dell'altro giorno è una semplice premessa, la fotografia di uno scenario parlamentare che al momento non permette ai partiti che contano di fare «strappi». Ma spetta a questi stessi partiti mettersi in gioco, dare un segno convinto di esistenza in vita, costruire un progetto di qui a un anno.

Possono farlo in due modi, come si è detto più volte. Possono entrare in campo sui temi delle liberalizzazioni e sempificazioni: non per frenare o stravolgere il lavoro di Monti, bensì per estendere i provvedimenti e renderli più incisivi. Sarebbe un modo per agguantare un'iniziativa politica e non lasciare tutta la scena ai "tecnici". Ma naturalmente occorre che ci sia intesa esplicita tra le forze del triangolo, altrimenti non se ne fa nulla. C'è, almeno sulla carta, una tale intesa? Non si direbbe; anzi, nessuno o quasi si è posto il problema.

Seconda ipotesi, anche questa ben nota, la preferita di Napolitano. I partiti cambiano pelle, si rinnovano sul piano istituzionale, disegnano fra di loro il profilo del "sistema Italia". Scelgono una legge elettorale adeguata al nuovo clima politico e ne discutono con equilibrio e volontà costruttiva. Finisce l'epoca del bipolarismo con il coltello fra i denti, ma non si torna al vecchio proporzionale. Si cerca un assetto che riconosca agli elettori il diritto di scegliersi gli eletti.

Ora, se le riforme fossero decise, ad esempio, da Franceschini, Quagliariello e dal costituzionalista Ceccanti, il traguardo sarebbe a portata di mano. Nel clima attuale, la ragionevolezza è la loro cifra. Anche sul modello ispanico-tedesco, in apparenza un po' inquietante, si potrebbe trovare l'accordo, come sempre quando si usa il buon senso. Ma non è così. La legge elettorale è una cruciale partita politica che i leader non sanno o non vogliono giocare. Non ancora, almeno. Così il tempo passa e ci avviciniamo alla fine della legislatura. «Mai più al voto con il Porcellum» è il grido di battaglia del centrosinistra. Ma sarà così?

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« Risposta #41 inserito:: Febbraio 08, 2012, 11:51:47 am »

Tempi lunghi per le riforme, in cerca del post-bipolarismo

Il Punto di Stefano Folli -
8 febbraio 2012

Ora che la trattativa sulla legge elettorale ha preso forma, è bene non soffermarsi troppo sugli arabeschi tecnici (il modello «italo-ispanico-tedesco») e guardare invece ai sottintesi politici della fase che si apre. E qui, sul piano politico, ci sono alcuni aspetti da sottolineare.
Il primo è che tutti, grosso modo, sono convinti della necessità di modificare l'attuale «porcellum».

Tuttavia, un conto è ritoccarlo appena, come desidera la Lega, e un altro è riformarlo nel profondo come vorrebbe il Pd (almeno così dichiara). Fino a qualche tempo fa Berlusconi era sulla posizione di Bossi. Ora, in seguito alla crisi dell'alleanza, l'ex premier ha scoperto l'importanza dell'asse con il Pd, le due grandi forze bipolari. È un gioco in cui tattica e strategia, se vogliamo chiamarle così, si mescolano. Ricorda in parte l'attitudine di Berlusconi verso la Bicamerale presieduta da D'Alema, nel lontano 1997-'98.

Anche allora il capo del centrodestra cercò in un primo tempo l'intesa a due con l'altro maggiore partito, ma questo non gli impedì di buttare all'aria il tavolo quando ne ebbe la convenienza, impedendo alla commissione di raggiungere qualsiasi risultato. Oggi Berlusconi sa bene quanto il percorso delle riforme istituzionali ed elettorali interessi al presidente della Repubblica. La sua apertura agli avversari di ieri ha perciò questo significato: non contraddire Napolitano, mostrarsi operoso e guadagnare tempo evitando che il suo partito, il Pdl, si logori più del necessario; anzi, se possibile, Berlusconi cercherà di logorare gli altri. In seguito, ci sarà sempre tempo per scegliere: un accordo generale con la sinistra e il "terzo polo", ovvero un'intesa parziale, oppure nessuna intesa. Dipenderà dalle circostanze.

Ne deriva che in questo quadro è necessario tener d'occhio le prossime amministrative. Il loro risultato non sarà privo di riflessi sul negoziato in corso. I sondaggi al momento sono molto negativi per il partito berlusconiano. Ma occorrerà verificare se e come sopravviveranno le alleanze locali fra Pdl e Carroccio, poi contare i voti e studiare la mappa del potere quale emergerà dalle urne. A questo punto va messa sulla bilancia la riforma delle istituzioni. Riduzione dei parlamentari, fine del bicameralismo perfetto... Temi di notevole rilievo costituzionale su cui oggi non c'è l'ombra di un accordo. Ma se l'intesa sulla Costituzione è preliminare alla riforma elettorale, come sostiene Calderoli, è chiaro che la trattativa si complica e i tempi si allungano. In altre parole è necessario avere le idee chiare su quale sistema politico si vuole consolidare dopo le elezioni del 2013, quando il ruolo di Monti dovrebbe esaurirsi (e anche su questo non c'è unanimità).

Emanuele Macaluso scrive sul "Riformista": «In ogni caso, il bipolarismo domestico e addomesticato non ha più senso». In effetti è il punto. Ma non significa che qualcuno sappia cosa c'è dietro l'angolo. Casini, ad esempio, parla di «una tipologia di governo di armistizio che deve durare 4 o 5 anni». Qualcosa che assomiglia alla grande coalizione, favorita senza dubbio da una legge proporzionale. Bersani ripropone invece su "Repubblica" il «patto di coalizione» perché «non possiamo andare in campagna elettorale proponendo governissimi». Quindi pensa tuttora ad alleanze con Vendola e Di Pietro. Due prospettive molto diverse. La sintesi è tutta da inventare.
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« Risposta #42 inserito:: Febbraio 10, 2012, 12:07:49 am »

Più realismo che ottimismo sul cammino difficile delle riforme

di Stefano Folli

9 febbraio 2012

A proposito di riforme e di "dialogo" fra i partiti, gli ottimisti si sono già pronunciati e hanno speso ottimi argomenti per salutare il disgelo fra Pdl e Pd. In sostanza, però, l'enfasi è servita a salutare la scelta di un metodo (sempre meglio della non-comunicabilità precedente) e alcune intese di principio.

Ad esempio, è chiaro che non si potrà tornare al voto con la pretesa delle segreterie di compilare la lista dei candidati destinati a sicura elezione: come nel 2006 e nel 2008. Né si potrà ignorare che il paese si attende un tentativo, almeno un serio tentativo, di ridurre il numero dei parlamentari: 630 deputati e 315 senatori oggi sono eccessivi per il sentimento collettivo. Ma che si riesca davvero a rimaneggiarli con legge costituzionale prima della fine della legislatura, è tutt'altra questione. Per crederlo ci vuole una dose supplementare di ottimismo.

In ogni caso, per ora siamo a questo: accordi di principio per trasmettere all'opinione pubblica il senso di una classe politica desiderosa di recuperare credibilità e impegnata ad auto-riformarsi. Non c'è molto di più. Il resto del percorso - in Parlamento e fuori - non sarà più facile, ma assai più difficile. Il che, s'intende, non toglie valore all'obiettivo finale, il rinnovamento del sistema e dei suoi assetti. Ma è bene essere realisti.
La prova l'abbiamo avuta ieri nella conferenza dei capigruppo al Senato. Dopo tanti buoni propositi, è bastato scendere sul terreno delle decisioni concrete per scoprire quanto sono numerose le riserve mentali. Il centrodestra vuole incardinare le riforme istituzionali (bicameralismo, numero dei parlamentari, eccetera) prima e non dopo la legge elettorale. Il centrosinistra e anche i centristi vogliono l'opposto.

È un ostacolo insormontabile? In situazioni normali non lo sarebbe. Si tratta di schermaglie abbastanza normali che vengono superate se esiste una volontà politica forte e determinata. Dunque la vera domanda è: esiste questa volontà nel circuito Alfano-Bersani-Casini? E soprattutto, esiste in Silvio Berlusconi? Il quesito al momento non trova una risposta certa. Abbiamo assistito all'apertura di un dialogo, ma nessuno ha spiegato con chiarezza quale Italia si vuole costruire in vista delle elezioni del 2013. Un impianto politico più o meno bipolare di quello che oggi si è arreso al governo tecnico? Al momento si cerca di ottenere un doppio risultato, venato peraltro di notevoli contraddizioni: un modello che premia i due maggiori partiti, ma al tempo stesso non umilia e anzi concede un ragionevole spazio agli altri soggetti intermedi (Lega, terzo polo, area Vendola-Di Pietro). Un proporzionale corretto, reso più solido dall'indicazione del premier e dall'istituto della sfiducia costruttiva. Aspetto, quest'ultimo, che proietta il dibattito sul terreno scivoloso delle modifiche costituzionali.

Tutto si può e anzi si deve fare, ma ci vuole una grande coesione politica. Che al momento è tutta da verificare. Se Pdl, Pd e terzo polo fossero davvero decisi, avrebbero i numeri e i mezzi per procedere di buona lena. Tuttavia dovrebbero disinteressarsi del destino della Lega, da un lato, e del binomio Vendola-Di Pietro, dall'altro. Prima di dare per scontato un tale esito, aspettiamo almeno la primavera. Il disgelo con la temperatura sotto zero non è garantito.
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« Risposta #43 inserito:: Marzo 02, 2012, 11:42:12 pm »

NoTav, nuova prova di maturità per il governo (e per i partiti)

di Stefano Folli

29 febbraio 2012

La Valsusa è la nuova prova di maturità per il Governo e per l'intero sistema politico. Non è una novità, naturalmente. Sono circa dodici anni che la realizzazione della ferrovia veloce equivale a un rebus irrisolto e irrisolvibile.

Discussioni, confronti, infiniti negoziati e compromessi.
Nel tempo si è tentato di tutto, eppure la logica del movimento No-Tav ha sempre prevalso. In assoluta sintonia fra loro, governi di centrosinistra e di centrodestra, da Prodi a Berlusconi, si sono persi nei boschi piemontesi. E oggi siamo all'incirca al punto di partenza, in uno scenario reso drammatico dall'incidente occorso al giovane manifestante Luca Abbà caduto dal traliccio.

La differenza con il passato è che a Roma esiste un governo «tecnico» che per sua natura è votato a realizzare l'opera. E che non ha alcuna ragione politica per arrendersi all'ennesimo rinvio. In Parlamento questo governo è sostenuto da un arco di forze che non avrebbero, a loro volta, alcun interesse a favorire le tattiche dilatorie. È vero che negli anni ora l'uno ora l'altro di questi partiti, quando si sono trovati al governo, si sono rivelati incapaci di affrontare la questione. Tuttavia, oggi che a Palazzo Chigi siede Mario Monti, dovrebbe essere più facile per tutti, dal Pdl al Pd passando per il terzo polo, mostrarsi responsabili e aiutare l'esecutivo a procedere senza ritardi.

Tutto questo sulla carta. In pratica le cose sono più complicate. La questione No-Tav è ormai diventata una grande questione di ordine pubblico. Una seria questione, con blocchi sulle autostrade e in almeno una stazione ferroviaria (Lecce). Il rischio che la protesta dilaghi in forme ancora più incontrollate è reale. E fino a ieri le forze politiche non si erano mostrate particolarmente sensibili al problema. Nel complesso apparivano distratte, forse preoccupate di assumere posizioni troppo impegnative.

Ora però la disattenzione non è più possibile. Il Pd ha preso l'iniziativa di provocare un dibattito in Parlamento e i tempi dovranno essere stretti. Non solo. È opportuno che la discussione si concluda con una mozione o in ogni caso con un documento in grado di segnare un momento di larga unità e di riunire, se possibile, anche i partiti che sono all'opposizione.
Ieri ad esempio Di Pietro ha rilasciato una dichiarazione molto ambigua («l'alta velocità va fatta, ma studiamo un altro percorso») che con qualche ottimismo potrebbe essere intesa come un tentativo di non perdere i contatti con la maggioranza. Peraltro è Bersani che ha bisogno più di tutti di esprimere un forte sostegno al progetto, per non lasciare spazio a tutti i gruppi alla sua sinistra che civettano con i manifestanti anti-Tav.
Quanto al governo, da un lato si sentirebbe rincuorato da un esplicito appoggio del Parlamento; dall'altro, sa di non poter aspettare. Lo stato dell'ordine pubblico richiede una forte determinazione: capacità di gestire la piazza, ma senza mandare a monte i lavori che stanno cominciando. Finora i ministri hanno parlato con due voci. Passera ha detto: «Andiamo avanti». La responsabile dell'Interno ha invece affermato: «Ci vuole dialogo». Le due frasi possono essere complementari oppure del tutto contraddittorie.

Molti No-Tav hanno inteso l'invito al «dialogo» come una possibilità di sospendere il progetto. Ovviamente non è questa l'intenzione del governo. Ma allora quale sarà l'obiettivo del confronto? Forse guadagnare tempo per svelenire la tensione fino a riassorbirla. Ma anche per questo ci vuole che i manifestanti si sentano isolati. E torniamo alla responsabilità del Parlamento. Sembra arrivato il tempo delle parole chiare.


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« Risposta #44 inserito:: Marzo 17, 2012, 12:10:26 pm »

Da Vasto a Parigi il disagio del Pd

di Stefano Folli

La condizione di Pierluigi Bersani non è invidiabile. Non solo per il sentiero su cui il segretario del Pd è obbligato a camminare, nel sostegno leale a un governo «tecnico» che ha fatto del rigore il suo vessillo europeo mentre l'economia reale langue nella recessione. Non solo per le divisioni che lacerano il Pd un po' ovunque, come si è visto con lo spettacolo tragicomico delle primarie di Palermo. Ma ora c'è un'insidia ulteriore che tocca la collocazione del partito in Europa. Una questione inventata a tavolino, si potrebbe dire, per mettere Bersani di fronte a un "aut aut" al quale dare risposte è quasi impossibile.

Un gruppo di cattolici del Pd – non Rosy Bindi ma i più moderati Fioroni e Follini – contesta l'appoggio offerto al candidato dei socialisti francesi, Hollande, e chiede che la preferenza dei democratici italiani si orienti invece sul centrista Bayrou. Tutto questo mentre Bersani arriva a Parigi dove oggi è prevista una grande kermesse dei socialisti europei a favore dell'uomo che contende a Sarkozy l'Eliseo.

Sotto uno slogan che non pecca per eccesso di sobrietà («Nuovo rinascimento per l'Europa»), Bersani spezzerà la sua lancia per il candidato della sinistra. È strano? Non tanto, se si considera che Hollande, come è noto, è in testa nella maggior parte dei sondaggi e ha discrete probabilità di sconfiggere Sarkozy nel ballottaggio. Come dire che dopo anni di tribolazioni la sinistra europea potrebbe piantare la sua bandiera nel cuore di una delle più importanti capitali del continente.

Ma a Bersani non è consentito nemmeno inseguire questa vittoria per interposta persona. Il gruppo centrista ed ex-democristiano del Pd gli chiede di preferire un candidato come Bayrou, che non ha alcuna possibilità di raggiungere il ballottaggio, ma che forse è un europeista più ortodosso di Hollande. In sostanza Bersani dovrebbe fare sulla Francia la stessa scelta di Casini. Il che francamente è pretendere troppo.

In realtà, quello che vogliono i firmatari del "manifesto" centrista è mettere in luce le profonde e irrisolte fratture interne al Pd. Vogliono segnalare che il nuovo partito non è mai nato e che la fusione delle diverse culture politiche non è mai avvenuta. Gli ex-comunisti, si sottintende, rimangono tali e tendono a mescolarsi ai socialisti europei (a loro volta in crisi di prospettiva); gli ex-dc si sentono fuori posto e lo segnalano a ogni pie' sospinto. Quindi la lettera pro-Bayrou serve a indicare un disagio crescente. Che potrebbe anche, chissà, preludere al futuro distacco della costola cattolico-moderata dal Pd. Oppure a una richiesta di buone posizioni nelle liste di domani. Dipenderà molto dalla legge elettorale, se mai si riuscirà a riscriverla in senso proporzionale. E da altri fattori per ora imprecisati.

Sta di fatto che il destino di Bersani è sempre quello di destreggiarsi tra una serie di foto simboliche. Ieri quella di Vasto con Vendola e Di Pietro. Oggi quella di Parigi con Hollande e gli altri socialisti. L'unica fotografia che i suoi critici accettano è quella di Palazzo Chigi, con Monti, Alfano e Casini. Un'allusione esplicita alla grande coalizione che il segretario del Pd può solo rifiutare in questa fase in cui si prende la rincorsa per le elezioni del 2013. Fino ad allora c'è da credere che Bersani non vorrà farsi scavalcare a sinistra da Vendola. Quindi spetta ai centristi prendere le loro decisioni.

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