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Autore Discussione: Stefano FOLLI. -  (Letto 106470 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Dicembre 14, 2014, 11:12:58 pm »

Il caso Roma e i rischi del governo. A Renzi ora serve una fase due
Il premier si è accorto di dover imprimere un cambio di passo nella lotta alla corruzione

Di STEFANO FOLLI
10 dicembre 2014

AFFACCIATO sul precipizio di Roma, città del malaffare trasversale, Renzi si è reso conto di dover dare un segnale chiaro e forte. Fino a ieri le iniziative erano un po' all'acqua di rose: il commissariamento del Pd cittadino, la promessa che "i ladri saranno cacciati". Giusto ma insufficiente, come qualcuno gli aveva fatto notare. A Roma non è in corso una bega di potere locale e l'intreccio politica-malaffare non riguarda la cronaca minore. In gioco c'è anche la credibilità di un esperimento politico complesso quale è il "renzismo".

Ha poco senso stabilire una graduatoria fra lo scandalo del Mose a Venezia e le imprese della "mafia all'amatriciana" a Roma: già questa definizione, che pure è stata usata, tende a derubricare la vicenda, a farne un episodio su cui si può anche sorridere. Non è così e il premier, dopo qualche esitazione, sembra aver compreso che non è un episodio e soprattutto che non c'è niente da ridere. Nel momento in cui si prepara a una nuova tappa del lungo confronto con Angela Merkel, è evidente che il presidente del Consiglio non può lasciare dietro di sé nemmeno il sospetto di debolezza verso la corruzione all'ombra del Campidoglio. In un certo senso l'iniziativa politica contro la mafia romana (non solo contro "i ladri", genericamente intesi) diventa la priorità assoluta, prima ancora delle riforme istituzionali. O meglio, le riforme sono il segno di uno Stato che vuole rinascere dalle sue ceneri e intende ricostruire se stesso dalle fondamenta. Ma un tale obiettivo, pur essenziale, ha tempi lunghi. Prima che i cittadini tornino ad aver fiducia nelle istituzioni, altri scandali potranno verificarsi in quella sorta di terra di nessuno in cui la malavita si sovrappone alla pessima politica.

Ne deriva che il richiamo alle riforme da solo non basta. Non a caso Renzi ha posto l'accento sul momento repressivo, sulla volontà di sradicare la pianta velenosa. Si dirà che annunciare pene molto severe non è un grande deterrente in un paese dove la giustizia funziona poco e male. Qualcuno potrebbe leggervi, più che l'inizio della riscossa, una mossa quasi disperata. Eppure era quello che in questo momento andava fatto per mandare un messaggio positivo all'opinione pubblica. È chiaro che non può bastare, ma è un primo passo indispensabile. Prima che prenda piede l'idea assai pericolosa, ma non infondata, che nulla è cambiato rispetto ai tempi di Tangentopoli.

Renzi è ancora percepito come una figura non compromessa e non corrotta dal potere. È bene che sfrutti questa condizione che non durerà in eterno, come i sondaggi cominciano a testimoniare. Del resto, non è un mistero che il governo è avviluppato in una serie di nodi irrisolti. La condizione economica è sempre più difficile e i margini di manovra, soprattutto a livello europeo, sono esigui. Le riforme, ancora loro, sono quasi ferme in Parlamento. Prima che la gente avverta il cambiamento, passerà troppo tempo. Su un tale sfondo, il buco nero di Roma rischia di essere il detonatore di un fallimento insostenibile della politica. È probabile che il presidente del Consiglio avverta l'esigenza di un colpo d'ala che, partendo dalla capitale, abbracci un campo più vasto, ossia l'intera attività del governo. Forse non siamo alla "fase due" del renzismo, ma certo lo slancio dei primi mesi è in via di esaurimento. Sotto questo aspetto, lo scandalo romano costituisce un drammatico allarme. Al tempo stesso rappresenta la più classica delle opportunità per un giovane politico dinamico e spregiudicato. Quindi il colpo d'ala è realmente urgente, a patto di non sbagliare le mosse. Ma in fondo è qui, sul piano di una moralità non solo declamata e retorica, che il premier può dimostrare in concreto qualcosa a una pubblica opinione stanca di parole e tentata da soluzioni insondabili.

© Riproduzione riservata 10 dicembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/12/10/news/il_caso_roma_e_i_rischi_del_governo_a_renzi_ora_serve_una_fase_due-102526533/?ref=HRER2-1
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« Risposta #166 inserito:: Gennaio 08, 2015, 05:23:18 pm »

La partita del Colle ora si complica e il leader è più debole
L'intesa Renzi-Berlusconi sembra adesso fragile e lo scenario politico è totalmente cambiato

Di STEFANO FOLLI
06 gennaio 2015
   
Lo scenario politico è cambiato in fretta a cavallo di Capodanno. Tanto in fretta che adesso le incognite superano le certezze. Fino all'altro giorno l'accordo Renzi-Berlusconi appariva abbastanza solido, una cornice in grado di reggere alla duplice, imminente prova: prima la riforma elettorale al Senato e subito dopo, alla fine del mese, l'elezione del capo dello Stato.

Franchi tiratori nei due campi erano messi nel conto, certo, ma gli ottimisti, pallottoliere alla mano, dimostravano che il premier aveva in mano i numeri giusti e che il suo alleato di Palazzo Grazioli gli sarebbe rimasto al fianco con lealtà.

All'improvviso oggi prevale un'idea di fragilità. Peggio: i contorni del patto del Nazareno diventano opachi e certe contiguità politiche sembrano solo lo schermo per scambi inconfessabili, benché maldestri, e giochi di potere poco limpidi. Può sembrare incredibile, ma la vicenda tragicomica del decreto fiscale e del tetto al 3 per cento per salvare Berlusconi, potrebbe essere davvero il frutto di un gran pasticcio all'italiana e non il parto di due cospiratori. Ma ai fini pratici non cambia nulla. Né cambia qualcosa che il presidente del Consiglio si sia assunto la responsabilità di aver inserito la norma contestata nel decreto dopo aver dichiarato di non saperne nulla (ma in precedenza aveva anche detto di aver dedicato tutto il tempo necessario alla lettura puntigliosa, paragrafo per paragrafo, del provvedimento fiscale).

A questo punto diventa meno importante conoscere chi, materialmente, ha scritto il famigerato passaggio. Conta di più capire quali saranno le conseguenze politiche e parlamentari del grave errore. Il fatto che Renzi se lo sia caricato sulle spalle, nel tentativo di alleggerire la pressione mediatica, e abbia ritirato il testo (almeno fino a dopo il voto sul capo dello Stato), non risolve la questione di fondo. Semmai certifica che il colpo ricevuto ha messo il premier in una difficoltà senza precedenti. In un attimo ha ripreso vita la minoranza del Pd, che Renzi non aveva esitato a umiliare nei mesi scorsi; e lo stesso Grillo sembra uscito all'improvviso dal suo letargo.

La partita del Quirinale si fa più incerta e per i candidati vicini al premier la strada è in salita. Non è un buon risultato per l'uomo che si vanta, non a torto, di aver quasi cancellato il movimento dei Cinque Stelle e di aver cambiato la fisionomia della vecchia sinistra.

Ma Renzi impara a sue spese che basta sbagliare una mossa per ritrovarsi ai piedi della montagna. E in questo caso le mosse sbagliate sono due. Quella sul fisco, le cui ricadute vanno molto al di là del caso Berlusconi perché si toglie rilevanza penale a un numero eccessivo di reati tributari, dando l'impressione (magari solo l'impressione) di voler inseguire qualche tornaconto elettorale. E quella che riguarda il volo per Courmayeur. Qui il premier si è esposto alla polemica capziosa dei "grillini". I quali hanno torto nel merito, perché un capo di governo ha diritto di spostarsi con i mezzi dello Stato, salvo che non vi rinunci per ragioni di opportunità (come fece a suo tempo Enrico Letta).

Tuttavia hanno ragione su un punto: l'attacco ai privilegi della "casta" fu un argomento forte del Renzi prima maniera, quando voleva vincere le primarie nel Pd e frenare l'espansione dei Cinque Stelle. C'è quindi una certa contraddizione nei comportamenti, non grave e tuttavia insidiosa se qualcuno, come è accaduto, la fa rilevare. La sfortuna del presidente del Consiglio è che questi episodi negativi, figli di un eccesso di sicurezza o di errori di valutazione, avvengono alla vigilia dei due passaggi cruciali della legislatura. Il patto del Nazareno si è indebolito nel momento sbagliato. A conferma che spesso le scelte politiche sono condizionate da stati emotivi e psicologici. Il "renzismo" fino a oggi ha goduto di circostanze molto favorevoli nella psicologia di massa. Vedremo se saprà reagire a questi non irrilevanti incidenti di percorso.

© Riproduzione riservata 06 gennaio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/01/06/news/la_partita_del_colle_ora_si_complica_e_il_leader_pi_debole-104355423/?ref=HRER1-1
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« Risposta #167 inserito:: Febbraio 20, 2015, 04:47:27 pm »

Tutti i rischi della strategia del plebiscito
Il referendum confermativo è diventato per Renzi un'arma politica: ma a doppio taglio

Di STEFANO FOLLI
14 febbraio 2015
   
RIFORMARE la Costituzione come se si trattasse di convertire un decreto legge entro 60 giorni. Si può fare, non è illegittimo: ma le conseguenze politiche rischiano di essere pesanti. Si può anche sostenere che alla seduta fiume non c'era alternativa e che l'ostruzionismo non mira a correggere in qualche punto la riforma, ma solo a insabbiarla. C'è del vero anche in questo argomento, ma non si sfugge alla sensazione che a Montecitorio sia mancata una regìa lungimirante. Forse la regìa è mancata del tutto. Qualcuno ha sottovalutato il carico di tensioni che la vicenda del Quirinale aveva accumulato nelle aule parlamentari. Misconoscere il peso della psicologia nei comportamenti politici non è mai una scelta felice. Il partito berlusconiano, come è noto, si è sentito raggirato e ha imboccato la strada della vendetta, contraddicendo se stesso e tutte le sue opzioni precedenti. Forse occorreva da parte del governo renziano una maggiore capacità di smussare gli angoli, prendendo atto della realtà. In fondo il patto del Nazareno, al di là della fantapolitica, ha rappresentato una tregua politica durata circa un anno; una tregua da cui il presidente del Consiglio ha tratto significativi benefici.

Certo, nel momento in cui il castello di carte crolla, il danno peggiore è per Berlusconi, trascinato dalla corrente su posizioni poco condivise in passato, mentre il palcoscenico è occupato dalla strana alleanza fra l'intransigente Brunetta, il leghista Salvini e persino il Sel vendoliano. Tuttavia sulla carta c'è un danno anche per Renzi. L'aver ridotto la riforma della Costituzione a una questione meramente numerica, gli darà la vittoria alla Camera e forse anche al Senato, nonostante i seggi più esigui. Eppure un Parlamento lacerato e in qualche misura mortificato rappresenta un segnale non positivo per un governo che si propone, almeno a parole, un orizzonte di legislatura. La minoranza del Pd, salvo le solite eccezioni, si adegua per mancanza di alternative, ma è destinata a diventare sempre più un corpo estraneo carico di risentimento.

Di questo il premier Renzi è consapevole e tuttavia non sembra curarsene. La sua filosofia è tutta in quella frase: "non mi sono fatto ricattare da Berlusconi sul Quirinale e non mi faccio ricattare da altri sulla riforma". Gli altri sono soprattutto i Cinque Stelle, è ovvio, ma il sottinteso riguarda senza dubbio la minoranza del suo stesso partito. Alla quale non ha motivo di fare concessioni, se proprio non vi è costretto. In fondo il renzismo è come un'auto che possiede soltanto la quarta marcia con freni poco efficienti: può solo correre. E un Parlamento frantumato fa meno paura, se si ritiene di avere dietro un ampio segmento di opinione pubblica.

C'è un'altra frase chiave del premier che spiega bene le sue intenzioni: "alla fine la riforma sarà sottoposta a referendum e lì si vedrà". Ecco il punto: nella strategia renziana il referendum confermativo previsto dalla Costituzione si trasforma in un'arma da usare sul piano politico. Le risse in Parlamento verranno cancellate dal ricorso al popolo. E sarà lui, il presidente del Consiglio in questo caso discepolo di De Gaulle, che ne ricaverà il dividendo. Nessuno crede infatti che la riforma del Senato o del Titolo V possano essere bocciate. Saranno approvate con una soglia per forza di cose superiore al 50 per cento dei votanti.

Dal 40,8 delle regionali al 55-60 prevedibile del referendum... È un'operazione plebiscitaria che può essere interrotta dalle elezioni anticipate. Difficile che Renzi gradisca sul serio -  al di là delle minacce -  un'ipotesi che al momento obbligherebbe a votare con la legge proporzionale scritta dalla Consulta. Ma all'occorrenza saprebbe gestire la campagna con la stessa foga di chi cerca comunque un referendum su se stesso. In altri tempi queste spinte al plebiscito fuori del Parlamento avrebbero incontrato la feroce opposizione della sinistra cattolica e degli ex comunisti all'interno del Pd. Ma i tempi sono cambiati e molti pensano a recuperare un posto in lista per tornare in Parlamento.

© Riproduzione riservata 14 febbraio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/02/14/news/tutti_i_rischi_della_strategia_del_plebiscito-107279971/?ref=HRER2-1
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« Risposta #168 inserito:: Giugno 02, 2015, 12:05:59 pm »

Pd, così le roccaforti diventano forche caudine
In Liguria la più grave battuta d'arresto politica per Matteo Renzi. Ma anche in altre Regioni la magia del rottamatore sembra appannata

Di STEFANO FOLLI
01 giugno 2015

Sotto la Lanterna si consuma la prima sconfitta politica di Matteo Renzi. Perde la sua candidata, perde il Pd diviso, vincono i Cinque Stelle come quasi ovunque nel resto d'Italia. La Liguria era la regione chiave per decidere il verso delle elezioni regionali. La risposta delle urne è impietosa. Il 41 per cento del voto europeo è lontano, la magia del premier rottamatore si è appannata. E il peggio è che questo non accade solo in Liguria. Anche un'altra regione "rossa", l'Umbria, è rimasta in bilico fino all'ultimo voto. Ovviamente insieme alla conferma del leghista Zaia in Veneto, ma questa era prevista.

Il quadro che emerge è dunque molto negativo per il premier-segretario del Pd. L'ondata delle liste anti-sistema, dai grillini a Salvini, è significativa, condiziona e modifica i vecchi equilibri. Il Pd sconta l'attacco del populismo, un po' come è accaduto giorni fa in Spagna con l'avanzata di Podemos. Ma non riesce a reggere il colpo anche perché l'astensione è vicina al 50 per cento: circa un italiano su due è rimasto a casa, segno che il messaggio riformatore non ha fatto breccia, mentre le divisioni nel centrosinistra -  è plausibile -  hanno provocato delusione e scetticismo nell'elettorato.

Da oggi Renzi dovrà rivedere qualcosa nella sua strategia politica. Tre fronti aperti sono troppi anche per lui. E le regionali hanno dimostrato che i fronti sono proprio tre. Il primo è la persistenza delle liste anti-sistema. La scommessa del renzismo consisteva nel recupero del voto populista, da prosciugare dopo l'exploit del 2013. Ma i Cinque Stelle e la Lega sono da collocare fra i veri vincitori di ieri e quindi il quadro cambia profondamente.

Secondo punto. Si attendeva che il partito di Renzi avrebbe visto la luce in tempi brevi, cambiando la fisionomia del vecchio Pd. Oggi questo percorso dovrà essere rivisto e il premio dovrà negoziare qualcosa con i suoi avversari. Il che urta con la sua personalità e il suo carattere. Ma non ci sono altre soluzioni, se Renzi vuole salvare il suo governo e il cammino di medio termine verso le elezioni politiche del 2018. Di sicuro verificheremo la duttilità del premier, se esiste: tutti i grandi statisti sono diventati tali dopo una sconfitta, reagendo a un passo falso. Finora Renzi è passato di vittoria in vittoria, ora deve ridefinire la sua identità e il suo rapporto politico con il resto del centrosinistra.

Terzo punto. L'astensione poteva essere persino un vantaggio per il premier in carica, leader del partito di maggioranza relativa. Cessa di esserlo nel momento in cui i movimenti anti-sistema confermano la loro forza e si pongono come una minaccia per le forze di governo. Quindi anche l'astensione diventa ostile, segno di un elettorato fragile e incerto che marca il proprio distacco dalle istituzioni.

C'è anche un altro motivo di riflessione da sviluppare nelle prossime ore. I candidati vicini a Renzi, la Paita in Liguria, la Moretti in Veneto e forse la Marini in Umbria hanno incontrato forti difficoltà. Chi vince sono due figure non vicine al presidente del Consiglio. Emiliano in Puglia, sicuro vincitore contro un centrodestra spezzettato, ha una sua storia personale che c'entra poco con Renzi. E De Luca in Campania è il controverso protagonista di una campagna vittoriosa, sì, ma macchiata dalla polemica sugli impresentabili. E soprattutto non in grado di governare, in base alla legge Severino. La sensazione è che il pronunciamento della presidente dell'Antimafia non abbia danneggiato più di tanto De Luca in Campania (forse lo ha persino favorito), ma abbia appannato di molto l'immagine di Renzi al Nord. E il Nord è essenziale per il successo del l'esperimento politico renziano. Al punto che non si può escludere un messaggio a Berlusconi, uscito a sua volta sconfitto dal voto, ma forte per i numeri di cui dispone in questo Parlamento.

© Riproduzione riservata
01 giugno 20

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-regionali-edizione2015/2015/06/01/news/pd_cosi_le_roccaforti_diventano_forche_caudine-115776575/?ref=HRER2-1

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« Risposta #169 inserito:: Luglio 19, 2015, 06:20:12 pm »

La bandiera strappata della sinistra europea
C'è un rischio da cui Renzi, ma non solo lui, deve guardarsi. La disfatta di Tsipras - e di tutto l'arcipelago della sinistra che ha creduto in lui - ha aperto una nuova dimensione per la destra più dura

Di STEFANO FOLLI
14 luglio 2015

POCHI giorni fa Tsipras era l'eroe dell’Oxi, il "no" all'austerità tedesca. Oggi è il traditore delle illusioni coltivate all'unisono dalla sinistra europea in cerca di una bandiera e dalla destra nazionalista vogliosa di rivincita. Questo fronte ha perso in modo drammatico la battaglia di Bruxelles. Se l'avesse vinta, l'onda sarebbe dilagata ben oltre la Grecia. In Spagna Podemos non nasconde l'ambizione di vincere le prossime elezioni politiche. In Italia la somma degli euro- scettici e anti-euro, pur eterogenea (Cinque Stelle, Lega, sinistra radicale, FdI, una parte di Forza Italia), sfiora il 50 per cento dell'elettorato, forse più. Anche altrove, dalla Francia ai paesi del Nord, i movimenti anti- establishment sono forti e insidiosi. Se Tsipras avesse tenuto duro sulla linea che oggi viene ribadita da Varoufakis, il ministro incendiario e dimissionario, l'Unione si sarebbe frantumata e gli assetti politici nelle varie capitali sarebbero saltati uno dopo l'altro. Così invece è l'esperimento di Tsipras che si disintegra sugli scogli di un'austerità ancora più arcigna, trascinando nel naufragio le speranze e le velleità nate nella domenica del referendum.

Syriza aveva schiacciato il vecchio Pasok, ma la sua stagione è durata poco e si appanna nell'isolamento. I socialdemocratici tedeschi, alleati di Angela Merkel, hanno addirittura ipotizzato fra i primi la possibilità della "Grexit", la fuoriuscita dalla zona euro. Il socialista Hollande ha cercato di accreditare una vaga mediazione francese, ma i risultati, esaminati con attenzione, non autorizzano il compiacimento di Parigi, salvo su un punto fondamentale: l'Europa non si è spaccata e questo era nell'interesse della Merkel, di Hollande e naturalmente di Matteo Renzi. Il premier che è rimasto ai margini, nell'ombra della Francia, e forse ha fatto la scelta giusta perché non avrebbe avuto spazio per muoversi altrimenti, dato il peso del debito pubblico che si porta sulla schiena.

L'Italia aveva tutto da perdere se la Grecia fosse stata espulsa dall'euro e ha tutto da guadagnare da una ritrovata stabilità ad Atene. Si potrebbe dire di più: la sconfitta della sinistra radicale, ben rappresentata anche nella minoranza del Pd, e quelle bandiere rinfoderate sotto il Partenone costituiscono un considerevole vantaggio per il presidente del Consiglio, che da un trionfo prolungato di Tsipras sarebbe stato messo in difficoltà sul piano interno.
Avrebbe assistito alla crescita di un fronte frastagliato e aggressivo in grado di metterlo alle corde con l'accusa di essere subalterno alla Merkel e alla logica dell'Eurogruppo. Tale pericolo è evitato, benché l'Europa di oggi, quella vittoriosa nel vertice notturno, sia lungi dal garantire l'Italia. Che prospettive ci sono, ad esempio, che siano ascoltate nel prossimo futuro le richieste italiane per una gestione più solidale dell'immigrazione nel Mediterraneo? Nessuna, c'è da temere.

La scogliera di Ventimiglia è lì come un monumento all'incomprensione. Roma e Parigi, due governi di centrosinistra, due partiti membri dell'Internazionale socialista, due leader che vorrebbero essere riconosciuti come "pontieri" nell'affare greco... In realtà sono divisi dall'interesse nazionale. In fondo l'Europa del Nord, cementata dalla diffidenza verso i paesi meridionali, dimostra di essere più solida e determinata di quanto sia l'Europa del Sud, desiderosa di esprimere una diversa visione del futuro dell'Unione, ma nella pratica incapace a sua volta di superare gli egoismi.

C'è infatti un altro rischio da cui Renzi, ma non solo lui, deve guardarsi. La disfatta di Tsipras -  e di tutto l'arcipelago della sinistra che ha creduto in lui -  ha aperto una nuova dimensione per la destra più dura.

Il nazionalismo, una volta evocato, non si sbaraglia facilmente. Né ad Atene né altrove. Potrebbe essere questo lo sbocco della crisi greca. Bastava sentire Marine Le Pen pochi giorni fa al Parlamento europeo per rendersene conto. E in Italia la destra nazionalista ormai è Salvini, più qualcosa di Grillo

© Riproduzione riservata
14 luglio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/07/14/news/la_bandiera_strappata_della_sinistra_europea-119021214/?ref=nrct-5
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« Risposta #170 inserito:: Ottobre 08, 2015, 11:48:34 am »

Rai, il format di Palazzo Chigi

Di STEFANO FOLLI
30 settembre 2015

LE STRATEGIE politiche non si riflettono solo nelle grandi scelte, tipo la riforma del Senato e il conseguente referendum finale, concepito già oggi come momento di consacrazione del leader e del suo partito. Anche gli episodi minori sono significativi e talvolta assai rivelatori. È il caso del duro attacco mosso sul "Corriere della Sera" da un parlamentare del Pd, Anzaldi, alla terza rete della Rai e al Tg3. L'accusa è di non essersi accorti che a Palazzo Chigi tutto è cambiato e che Renzi è diverso dai suoi predecessori figli della tradizione comunista o post-comunista. Un tempo si diceva TeleKabul, oggi il tono non è meno aspro. La differenza è che una volta il maggiore partito della sinistra difendeva TeleKabul, mentre oggi l'offensiva viene da ambienti vicini al presidente del Consiglio che è anche segretario del Pd. Al punto che un altro parlamentare, questa volta anonimo, parla della necessità di usare "il lanciafiamme" per abbattere le resistenze di quei conservatori di Saxa Rubra.

Qualcuno aggiunge che i programmi della terza rete spesso sono brutti e non si può abolire il diritto di critica, nemmeno se viene esercitato dai parlamentari. Il che è un argomento sbagliato alla radice. E non si può ignorare che poche ore prima il governatore della Campania, De Luca, si era lanciato in un'arringa verso le stesse trasmissioni con un linguaggio ben più violento di Anzaldi, senza suscitare particolare indignazione. Giorni fa, come è noto, lo stesso presidente del Consiglio non aveva lesinato giudizi pesanti su certi "talk show" a suo dire troppo spostati a sinistra e come tali in perdita di ascolti. Peccato che non sia compito suo o dei sui collaboratori valutare i programmi televisivi e nemmeno reclamare una linea più o meno ottimista, più o meno comprensiva verso il governo. La verità è che la relazione fra stampa e potere è come sempre lo snodo cruciale per capire un passaggio politico. In questo caso la progressiva trasformazione del Pd nel partito di un leader risoluto e poco propenso alle mezze misure. Sia che si tratti di riforme costituzionali sia che il tema coinvolga l'informazione del servizio pubblico. Sul quale peraltro governo e maggioranza si sono garantiti un sicuro controllo istituzionale, senza che sia indispensabile ricorrere alle invettive peroniste.

Il faro resta l'opinione pubblica, che Renzi è certo di conoscere e interpretare come nessun altro. E l'opinione pubblica, si ritiene a Palazzo Chigi, è favorevole ai metodi sbrigativi quando c'è da smantellare vecchie trincee e consolidate rendite di posizione. Perché è evidente che Renzi giudica la minoranza del Pd e tutto quello che ne deriva, compreso — a torto o a ragione — il mondo del Tg3, un residuo del passato senza veri legami con la società italiana di oggi. Per cui la frase rivolta ai sindacati dopo lo sciopero degli impiegati del Colosseo («la musica è cambiata») resta emblematica di un modo di rivolgersi al Paese. Le mediazioni, semmai, riguardano altri terreni: la politica economica, le pensioni, le tasse.

Ma nel fondo il messaggio è esplicito: il Pd così com'è non serve più; e non servono nemmeno le sue storiche propaggini nell'informazione di Stato. Ne deriva che la prospettiva può essere solo plebiscitaria: la vittoria personale del leader coincide con il trionfo del "partito della nazione". Che è tale proprio perché rispecchia fino in fondo il leader. I poli sono destinati a «disaggregarsi per poi riaggregarsi in forme nuove», dice il nuovo alleato Verdini, riecheggiando in modo inconsapevole una celebre frase di Moro. Ma Verdini pensa alla disgregazione di Forza Italia da ricomporre nel partito egemone di Renzi. E la sinistra? Nella concezione renziana o si converte o è, appunto, residuale. Tuttavia non è spinta verso la scissione, a meno che per scissione non si intenda la fuoriuscita alla spicciolata, inoffensiva, dei Fassina e dei Civati. Sullo sfondo la Rai è come sempre lo specchio privilegiato di una certa concezione del potere. Oggi la si vuole funzionale a un cambio di stagione politica, quasi come accadde ai tempi di Berlusconi. Quando invece Renzi prometteva di essere alternativo, nel merito e nel metodo, al suo predecessore.

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30 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/30/news/rai_il_format_di_palazzo_chigi_che_assomiglia_a_telekabul-123964541/?ref=fbpr
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« Risposta #171 inserito:: Marzo 07, 2016, 04:52:55 pm »

Primarie centrosinistra, i numeri dell'apparato
Spoglio dei voti per le primarie centrosinistra a Napoli

Di STEFANO FOLLI
07 marzo 2016
   
A questo punto l'errore più grave sarebbe gonfiare le cifre per abbellire la verità. Un po' come il conto dei manifestanti a piazza San Giovanni o al Circo Massimo. Il rispetto verso i romani e anche verso se stessi impone invece ai dirigenti del Pd di accettare i dati reali delle primarie per quello che sono: l'evidenza di un sostanziale fallimento.

Ha vinto Giachetti con una percentuale netta, ma non c'è granché da esultare. Calcoli non definitivi descrivono un'affluenza di circa il 50-60 per cento inferiore a quella di tre anni, quando il vincitore fu Ignazio Marino. Oggi siamo fra i 40 e i 50mila voti contro i 100mila ufficiali di allora (poi scesi a circa 94mila). In mezzo ci sono le spiegazioni del disastro: l'inchiesta sulla criminalità mafiosa, gli arresti, la rete del malaffare, la progressiva delegittimazione della giunta fino alla caduta del sindaco, il ricorso obbligato al commissario. Una città snervata e da troppo tempo priva di un'amministrazione efficiente, sullo sfondo di un centrosinistra che sulla carta rivendica la maggioranza relativa ma è roso dai suoi errori e dalla crisi come un albero aggredito dalle termiti.

Con tali premesse sarebbe davvero paradossale se i cittadini si fossero affrettati alle urne per scegliere un nome e un volto peraltro abbastanza sconosciuti. Qui è un'altra bizzarria del caso romano. Le primarie sono per eccellenza lo strumento che "personalizza" il messaggio politico e stabilisce un rapporto diretto, nel bene e nel male, fra l'elettore e il candidato. Occorrono personaggi solidi, capaci di comunicare in modo moderno e di conquistare l'attenzione dell'opinione pubblica. Viceversa a Roma non abbiamo avuto né i grandi comunicatori né i brillanti candidati e tanto meno l'opinione pubblica.

Quei 40-50mila voti - che potrebbero essere anche meno dopo le verifiche - hanno il sapore dell'apparato, di un mondo comunque legato al partito e pronto a rispondere alle sue esigenze. Il voto di opinione, in grado di testimoniare della vitalità di una proposta politica, a Roma è rimasto in larga misura a casa. Un segnale che è negativo in assoluto, ma lo è in modo particolare perché il test del Campidoglio coinvolge Renzi in prima persona. Vale a dire il premier-segretario che deve tutto alle primarie e che ha costruito le sue fortune sul rapporto diretto con gli elettori, al di là e al di sopra degli apparati. A Roma invece per cavarsi d'impaccio egli e i suoi hanno avuto bisogno proprio di quel poco di struttura partitica che ancora esiste, mentre l'opinione "renziana" è rimasta abbastanza indifferente al rito ormai logoro dei gazebo.

S'intende che non hanno torto Orfini e lo stesso Giachetti quando rivendicano i dati dell'affluenza, per quanto deludenti siano, contrapponendoli alle poche migliaia di "clic" elettronici con cui i Cinque Stelle scelgono i loro candidati. Eppure l'argomento, che pure ha una sua forza polemica da spendere in campagna elettorale, non basta a mascherare l'insuccesso. È meglio riconoscerlo con umiltà, senza pasticciare con le cifre, ammettendo che forse non si poteva fare di più dopo i peggiori tre anni nella storia della sinistra romana. Ciò non toglie che la mediocrità dello spettacolo offerto è stata al di sotto delle attese.

Nel momento in cui si trattava di recuperare la credibilità perduta ed era urgente trasmettere un messaggio chiaro, in grado di suggestionare e coinvolgere il sentimento collettivo intorno a un'idea della Capitale e della sua resurrezione, si è scelto di andare alle primarie nel segno del basso, anzi bassissimo profilo. Candidati che la gente conosceva poco e male, privi di vero fascino. Uomini di qualche esperienza amministrativa, anche positiva, e tuttavia incapaci di trasmettere una visione della città, privi di un programma che non si esaurisse in un elenco abbastanza ovvio di buone intenzioni. Come se non fosse in ballo il destino di una delle metropoli più importanti del pianeta.

La pochezza del dibattito emerso in queste settimane è l'anticipo, si può temere, di una contesa per il Campidoglio che rischia di essere altrettanto monotona, grigia e retorica. Giocata tra forze talmente poco convinte di sé - compresa l'alternativa grillina - da autorizzare i sospetti che in realtà nessuno o quasi voglia veramente vincere la disfida. Ma, se così fosse, la politica avrebbe abdicato ancora una volta e in modo clamoroso, diciamo senza precedenti, alle sue responsabilità. Sotto gli occhi del mondo. Perché quello che accade a Roma sembra interessare a tutti tranne che ai romani.

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07 marzo 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/03/07/news/i_numeri_dell_apparato-134922087/?ref=HRER2-1
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« Risposta #172 inserito:: Giugno 09, 2016, 11:39:05 am »

Un messaggio per Palazzo Chigi
Comunali 2016, l'analisi del voto

Di STEFANO FOLLI
06 giugno 2016

INUTILE attendersi conseguenze immediate e clamorose da questo voto nelle città. Chi pensa che il risultato negativo al di là delle previsioni del Pd renziano possa innescare gravi sussulti nella maggioranza o addirittura avviare la messa in discussione del governo, è fuori strada.

Tuttavia non accadrà nemmeno il contrario. Non si verificherà l'ipotesi minimalista tanto cara a Palazzo Chigi: un'alzata di spalle e avanti come se nulla fosse accaduto. Se la vedano i cittadini di Roma, Milano e altrove con i loro sindaci. Questa forma di rimozione della realtà è poco plausibile: è stata travolta dai dati trasmessi la notte scorsa e si rivela un abbaglio. La verità è che il voto nei Comuni, anche quelli di grandi dimensioni o addirittura nella Capitale, non è assimilabile a un'elezione generale. Il fatto che fossero interessate oltre 13 milioni di persone e che l'affluenza sia stata discreta con eccezioni negative (62 per cento nazionale, male a Milano), non cambia il quadro.

Nella scelta degli italiani hanno pesato fattori diversi, come sempre quando si vota per il governo locale, e sarebbe poco sensato trasformare la giornata di ieri nel solito referendum pro o contro Renzi. La maturità politica di un Paese si misura anche da come riesce a distinguere i piani politici ed evita di farsi catturare da forme di frenesia collettiva: il che riguarda soprattutto chi governa e chi interpreta l'opposizione.

Questo è il primo aspetto del voto per i sindaci. Tuttavia ce n'è un secondo che sarebbe grave sottovalutare. Pur con i limiti e le peculiarità di cui si è detto, gli italiani hanno mandato alla classe politica un messaggio netto e poco rassicurante. Il Pd deve accettare una sconfitta a Napoli, dove la sua candidata resta esclusa dal ballottaggio, e a Roma, dove Giachetti e la Meloni si sono contesi all'ultimo voto il passaggio al secondo turno, peraltro molto lontani dalla candidata dei Cinque Stelle, il cui dato è eccezionalmente alto. Salvo un colpo di scena imprevedibile al ballottaggio, la Capitale avrà un sindaco grillino. Per Renzi ci sarebbe l'esempio austriaco a cui aggrapparsi, ma è poco verosimile che Giachetti o Giorgia Meloni riescano a costruire una sorta di union sacrée contro Virginia Raggi come hanno realizzato gli austriaci ai danni di un personaggio controverso quale il leader dell'estrema destra. In sostanza a Roma si realizza la vendetta di un'opinione pubblica esasperata contro anni di malgoverno. È qui lo scoglio che non si può aggirare e dal quale invece si deve ripartire.

Quanto al resto, Milano resta una partita in bilico: senza un vincitore e con Sala in leggero vantaggio su Parisi. Può succedere di tutto. Invece a Torino Fassino vede materializzarsi il suo fastidioso incubo: è in testa, è forte, ma non ha saputo assestare il colpo del ko; mentre la grillina Appendino è indietro, ma non così indietro da permettere una previsione certa fra due settimane.

Che cosa si ricava da tutto questo? Gli elettori hanno punito il Pd a Roma, ma si sono anche guardati dal premiarlo altrove. Il "partito di Renzi" dovrà rinviare il suo esordio e del resto non era questa l'occasione. In ogni caso è chiaro che nelle grandi città il Pd fatica e soffre. A Roma, senza dubbio. Ma anche in altre zone di antico insediamento al Nord e al Sud. Quel tanto di ottimismo e di speranza nel futuro che è indispensabile per scegliere il partito di governo, si è rivelato un sentimento troppo esile. È questo che deve preoccupare il presidente del Consiglio in vista delle scadenze dei prossimi mesi. Il voto anti-sistema, o comunque contrario a chi governa, si nutre di incertezze economiche e sociali, di disoccupazione che non cala, di ripresa stentata, di paure collettive quali l'immigrazione o l'insicurezza. Ogni città ci aggiunge del suo, ma sarebbe poco saggio ignorare il disagio diffuso. Che potrebbe riflettersi anche sul referendum costituzionale: quello sì, come ormai tutti sanno, decisivo per le sorti del premier e del suo progetto. Un tema buttato sul tavolo da Renzi troppo presto, quasi a fare un dispetto agli elettori delle comunali.

Da oggi i Cinque Stelle si caricano sulle spalle una responsabilità pesante. La vittoria a Roma avrà un'eco internazionale. Di sicuro, se sarà confermata fra quindici giorni, cambierà il volto e la fisionomia del movimento che diventa il principale avversario di Renzi. Il gioco a tre (centrosinistra, centrodestra, grillini) tende a diventare un duello. Renzi contro Grillo, o meglio contro il nuovo gruppo dirigente, visto che la Raggi sta vincendo, anzi trionfando, a Roma senza l'appoggio asfissiante e quotidiano del leader.

E Berlusconi? Lo smacco di Marchini è soprattutto il segno della decadenza dell'ex monarca di Arcore che non è riuscito a impedire le divisioni del suo campo, pur sapendo che al centrodestra unito non sarebbe sfuggito il secondo turno. Però a Napoli l'uomo di Forza Italia conquista il ballottaggio, sia pure senza prospettive di vittoria. E c'è Milano. Il capoluogo lombardo è per ora un grande alambicco che contiene ingredienti sconosciuti. Bisogna aspettare il ballottaggio di Parisi, quanto meno. Consapevoli che anche a Milano sarà sempre più difficile per Berlusconi farsi ubbidire da Salvini (e dalla stessa Meloni su scala nazionale). Aprire il laboratorio del nuovo centrodestra è indispensabile, ma chi ne sarà il protagonista e quali saranno i comprimari è tutto da verificare.

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06 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/06/06/news/un_messaggio_per_palazzo_chigi-141382678/?ref=HRER2-1
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« Risposta #173 inserito:: Marzo 07, 2017, 10:42:30 am »

Il rischio Weimar e il ruolo del Quirinale
L’inconcludenza politica di oggi potrebbe trasformarsi domani nel collasso del sistema

Di STEFANO FOLLI
06 marzo 2017

ASCOLTARE il presidente della Repubblica che denuncia “l’inconcludenza rissosa dei partiti”, come è avvenuto pochi giorni fa al Quirinale, aiuta a comprendere a quale livello sia arrivata la crisi italiana. Sono parole pronunciate da una figura istituzionale che ha fatto della prudenza la sua cifra comunicativa, nella perenne preoccupazione di non apparire invasivo. Ma il rischio è che non siano parole sufficienti a correggere la rotta e ad evitare prospettive oscure. Il limaccioso intreccio politico-giudiziario che ruota intorno all’ex premier Renzi tra fughe di notizie e colpi bassi, senza che siano chiari i torti, le ragioni e le responsabilità, costituisce un brutale cambio di paradigma del confronto pubblico. Si dimostra che una stagione si sta esaurendo e ancora una volta ciò avviene in forme drammatiche, aprendo ferite che poi sarà molto difficile rimarginare.

Per cui l’inconcludenza politica di oggi potrebbe trasformarsi domani nel collasso del sistema. È probabile che a questo pensasse Sergio Mattarella: a un domani coincidente con l’avvento della nuova legislatura, dopo elezioni che si terranno alla scadenza naturale, ossia all’inizio del 2018.

Nell'attuale legislatura una maggioranza bene o male esiste intorno al governo Gentiloni, ma la prossima potrebbe nascere nel segno della totale ingovernabilità. Le due leggi elettorali di Camera e Senato, ritagliate entrambe dalle sentenze della Consulta, non sembrano infatti in grado di assicurare un minimo di stabilità ai governi a venire. Si presume anzi che nessuna formula al momento prevedibile abbia i voti necessari in Parlamento, nemmeno la grande coalizione centrosinistra/centrodestra sul modello tedesco.

Si capisce perché: in Germania vige un’ottima legge elettorale, come pure in Francia, sia pure di natura del tutto diversa. Né a Berlino né a Parigi c’è pericolo di restare senza un governo: esistono i problemi politici, ma anche gli strumenti per affrontarli. In Italia invece si sono persi due anni a inseguire il cosiddetto “Italicum”, uno schema farraginoso e ingiusto alla fine dichiarato incostituzionale. E adesso le Camere sembrano non avere l’energia e forse nemmeno la volontà per affrontare la questione in tempo utile. È in corso un grande conto alla rovescia al termine del quale potremmo ritrovarci al buio e pochi dimostrano di averne consapevolezza. Lo scenario che prende forma si chiama Weimar, la Repubblica tedesca che si dissolse nell’inconcludenza rissosa — è il caso di dirlo — fra gli anni Venti e i primi Trenta. L’esito è noto. Rispetto ad allora non siamo devastati da una super-inflazione, ma in compenso abbiamo una serie di conti finanziari in sospeso con l’Europa. Weimar è notoriamente il simbolo stesso del suicidio di una democrazia. Non è quindi azzardato il paragone con il declino italiano di oggi, se questo fosse portato alle estreme conseguenze da un Parlamento paralizzato e incapace di offrire un governo efficiente al paese.

Sappiamo peraltro che nei momenti di crisi politica il Quirinale torna al centro della scena, rappresentando il punto di equilibrio istituzionale e anche morale a cui gli italiani guardano. Siamo ormai entrati in uno di quei momenti, certo uno dei più inquietanti della storia repubblicana, senza sapere quanto potrà durare e quali saranno le incognite che si presenteranno. Gli indizi sono tutt’altro che incoraggianti e non è invidiabile la responsabilità che si va caricando sulle spalle del presidente Mattarella. Per fortuna ci sono ancora alcuni mesi prima della fine della legislatura, mesi che sarebbe da irresponsabili spendere in una sorta di campagna elettorale anticipata di tutti contro tutti. Senza dubbio il presidente del Consiglio, Gentiloni, sa quello che deve fare per convincere gli italiani che a Palazzo Chigi non ci si limita all’ordinaria amministrazione nel pieno della tempesta.

Tuttavia la chiave per evitare Weimar rimane la legge elettorale. Ci si deve augurare che il Pd, o quel che ne rimane, ritrovi al più presto un assetto interno. Che sia Renzi a prevalere o il suo competitore Orlando, la nevrosi degli ultimi tempi dovrà lasciare il campo a una politica di riconciliazione con il mondo del centrosinistra allargato. Altrimenti sarà arduo immaginare una legge elettorale che sia altro da un puro meccanismo proporzionale, senza alcun incentivo alle coalizioni o alla lista, con l’elettorato diviso in modo equanime e nessuna maggioranza possibile sul piano politico e forse persino numerico.

È lecito quindi auspicare che il presidente Mattarella consideri l’opportunità di un suo intervento più incisivo, nelle forme che egli deciderà, per spingere le forze politiche a trovare un accordo. Il sistema senza baricentro, traballante per la crisi del renzismo e del Pd post-scissione, ha bisogno del capo dello Stato. Gli offre anzi l’opportunità di far pesare il suo prestigio e la sua influenza sul Parlamento e nell’opinione pubblica come mai dall’inizio del mandato. In fondo gli italiani si aspettano questo dal loro primo cittadino: che rimedi nei modi possibili agli errori delle forze politiche prima del dissesto finale.

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06 marzo 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/06/news/il_rischio_weimar_e_il_ruolo_del_quirinale-159860283/?ref=nrct-19
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« Risposta #174 inserito:: Marzo 16, 2017, 04:59:39 pm »

Pd, l'incognita alleanze e il sogno maggioritario di Renzi.
Il Lingotto conferma che si andrà alle elezioni solo dopo i provvedimenti economici del governo. Ma resta per i dem il nodo delle partnership, da Alfano a Pisapia: l'ex premier non ne parla. Forse perché prevede un Parlamento bloccato

Di STEFANO FOLLI
13 marzo 2017

È senz'altro una buona notizia che le giornate del Lingotto si siano chiuse con il netto sostegno del Pd al governo Gentiloni. Peraltro non è una notizia inaspettata: avendo finalmente riconosciuto la realtà, ossia che non esisteva lo spazio e nemmeno la convenienza per anticipare le elezioni, il supporto all’esecutivo era l’unica opzione rimasta al gruppo dirigente. S’intende che a questo punto alle parole dovranno seguire i fatti: sostenere Gentiloni e Padoan vuol dire per il partito di maggioranza farsi carico delle scelte che il governo dovrà compiere in politica economica di qui alla fine dell’anno, scelte che si prevedono impopolari, forse molto impopolari. Saranno discusse prima di ogni decisione, è ovvio, e il leader del Pd farà valere il suo peso. Ma difficilmente le misure potranno essere edulcorate o stravolte per ragioni elettorali.

Si andrà alle elezioni dopo il varo di questi provvedimenti e non prima, il che dovrebbe significare una campagna all'insegna del realismo, un'obbligata "operazione verità". Non è detto che gli italiani reagiscano male. Può darsi, al contrario, che reagiscano molto bene, come è accaduto altre volte nella storia recente del Paese. In fondo, meglio la verità che essere trattati come bambini immaturi.

C'è un secondo punto, meno chiaro e convincente del primo. Nessuno, tanto meno il segretario, ha spiegato se il nuovo Pd avrà una politica delle alleanze e in quale direzione. Si è solo capito, ma lo si sapeva già, che Franceschini avrebbe voluto, e forse vorrebbe ancora, collocare il partito al centro di intese comprendenti la sinistra, da un lato, e i moderati di Alfano e Casini, dall'altro. E viceversa che i Martina e gli Orfini privilegiano l'attenzione verso i progressisti di Pisapia. Ma nessuno sembra avere realmente a cuore il problema, salvo il ministro dei Beni Culturali a cui però manca la forza politica per imporre una soluzione - le alleanze aperte a sinistra e a destra - che il resto del Pd non vuole.

Quanto a Renzi, l'unico da cui ci si attendeva un'indicazione netta, ha preferito volare al di sopra delle questioni pratiche. Ma il suo tentativo tattico - che pure c'è stato - di allargare l'orizzonte del partito verso sinistra e di dargli un respiro nuovo, meno ripiegato sull'egocentrismo del leader, non può sottrarsi al tema delle alleanze. Si obietta: Renzi non parla di alleanze perché non ha perduto la sua "vocazione maggioritaria". Vale a dire che ragiona ancora come se avessimo una legge elettorale maggioritaria, l'Italicum. Al massimo lascia ai suoi collaboratori più vicini di lanciare una passerella verso Pisapia, l'ex sindaco di Milano con il quale i renziani sperano di sostituire gli scissionisti dalemian-bersaniani. Ma a questo punto la contraddizione si è già aggrovigliata oltre il punto di non-ritorno.

Non è un caso che i contendenti di Renzi, vale a dire Orlando ed Emiliano, si propongano ognuno a suo modo come coloro che metteranno fine alla guerra fra le varie sinistre, ricomponendo il tessuto lacerato. Hanno un progetto, certo discutibile, orientato in senso socialdemocratico. E accettano che il sistema sia tornato proporzionale, al punto da rendere indispensabili le intese. Prima e dopo le elezioni. A maggior ragione se il Parlamento non riuscirà, come sembra, a rimetter mano alle sentenze della Corte se non per aspetti marginali.

Invece Renzi, come si è detto, vive tuttora dentro l'illusione maggioritaria. Del resto, è consapevole che gli scissionisti ("quelli che volevano distruggere il Pd", secondo le sue parole) non farebbero mai accordi con lui. E forse prevede - come tanti, del resto - che il prossimo Parlamento sarà del tutto paralizzato, senza vinti né vincitori, e allora servirà rifare la legge elettorale prima di tornare di nuovo alle urne. In ogni caso, è pericoloso non vedere la realtà, magari perché si è convinti di raggiungere da soli la maggioranza, ossia la mitica soglia del 40 per cento. Così come è azzardato dare per scontata l'alleanza con Pisapia, il quale ha l'ambizione di federare un mondo disperso, quasi un altro Ulivo, e non gradisce essere descritto come la stampella di Renzi. Finora ha dimostrato di non esserlo affatto.

© Riproduzione riservata 13 marzo 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/03/13/news/pd_l_incognita_alleanze_e_il_sogno_maggioritario_di_renzi-160416095/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1
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« Risposta #175 inserito:: Giugno 13, 2017, 05:34:52 pm »

Il populismo paga i suoi tanti errori
È del tutto prematuro dedurre da questi dati che è cominciato il declino del M5S.
Del resto, per i Cinque Stelle non c’è quasi mai omogeneità fra voto amministrativo e voto politico

Di STEFANO FOLLI
12 giugno 2017

Nel vuoto di quel che resta dei partiti, mai come questa volta svogliati e distratti, la tornata delle elezioni comunali era l’inevitabile specchio di una politica sfilacciata, senza idee. Eppure dal voto negletto sono emerse rilevanti indicazioni. Non tanto il ritorno del bipolarismo centrodestra/centrosinistra, perché servono ben altre conferme prima di poterlo affermare. Quanto la grave sconfitta del Movimento Cinque Stelle, la prima seria battuta d’arresto registrata da un Grillo che forse presagiva la disfatta per come nelle ultime ore appariva scontroso e infastidito nelle strade della sua Genova. Essere esclusi da tutti i ballottaggi che contano è un pessimo presagio, tanto più che le percentuali raccolte da nord a sud sono scarse per una forza che si è proposta in questi anni come alternativa al sistema.

È del tutto prematuro dedurre da questi dati che è cominciato il declino del M5S. Del resto, non c’è quasi mai omogeneità fra voto amministrativo e voto politico. I Cinque Stelle, nella loro storia breve e turbolenta, hanno dimostrato di essere a loro agio sul terreno delle elezioni legislative, mentre le vittorie nei comuni maggiori (Parma, Livorno, Roma e ora persino Torino) non hanno portato loro granché fortuna.

Quel che è certo, un movimento radicale e populista ha bisogno di continui rilanci nel favore popolare. Un partito tradizionale, che vive di gestione del potere, può anche permettersi delle pause e dei passaggi a vuoto. Viceversa, per un movimento carismatico come quello che Grillo ha avuto l’ambizione di costruire, la crescita non può essere che continua. Quasi sempre la prima sconfitta segnala, se non altro, la fine della fase ascendente e la difficoltà di ripartire come se nulla fosse. Accadde così per l’Uomo Qualunque nell’immediato dopoguerra e per Poujade nella Francia degli anni Cinquanta.

Grillo paga per la prima volta i suoi errori. L’ultimo è recentissimo: aver dato la sua copertura al patto Renzi-Berlusconi sul falso modello tedesco. Un piccolo pasticcio parlamentare all’italiana da cui i Cinque Stelle sono usciti frastornati. E si capisce. Se si pretende la purezza, non si entra in certe combinazioni che hanno il sapore della “casta”, secondo l’ambigua terminologia grillina. Ma ci sono stati molti altri sbagli. La gestione Raggi a Roma prima o poi avrebbe presentato il conto. E l’infortunio di Chiara Appendino a Torino, con il disastro di piazza San Carlo, è accaduto troppo a ridosso del voto per non avere conseguenze.

Si potrebbe continuare. I litigi continui sul piano locale hanno lasciato il segno. A Parma Pizzarotti, personaggio emblematico, va al ballottaggio dopo essere stato espulso a suo tempo dal movimento e nessuno ha capito ancora bene perché. A Genova, come è noto, è stata cacciata da Grillo la candidata prescelta dai cittadini con il metodo delle primarie “via web”. Lo spettacolo di un partito che non rispetta le sue stesse regole, enunciate con tutta l’enfasi possibile, non è il miglior viatico per conquistare nuovi consensi. Quel tanto di campagna che il leader si è caricato sulle spalle non ha prodotto grandi risultati, come si è visto ad esempio a Taranto. O a Palermo.

Sul piano nazionale, il tentativo del movimento di trasformarsi in forza affidabile, persino moderata, sembra un po’ goffo. Si veda Di Maio che cerca di costruirsi un profilo europeista ed elogia francesi e tedeschi. Un’evoluzione è sempre possibile, non c’è dubbio, ma ha bisogno di tempo per essere credibile. Altrimenti ha il sapore di un espediente. E le operazioni fatte a metà, con eccesso di astuzia, finiscono per scontentare tutti. In questo caso, gli elettori.

Sta di fatto che la sconfitta grillina arriva nello stesso giorno in cui la Francia offre al presidente Macron la più squillante delle vittorie, in virtù di un sistema maggioritario fondato sui collegi che non ha niente, ma proprio niente in comune con l’Italicum, come pretenderebbero i nostalgici del sistema bocciato dalla Corte Costituzionale. In Francia sono sconfitti i nazional-populisti di Marine Le Pen. Ed è curioso come anche la leader del Fronte Nazionale avesse tentato nelle ultime settimane una cauta conversione, abbandonando i temi più aspramente anti-europei e ostili alla moneta unica. Chissà se anche gli elettori francesi sono rimasti sconcertati da questo zig-zagare, al pari degli elettori italiani dei Cinque Stelle.

In ogni caso, è evidente che il populismo ha conosciuto una serie di brucianti sconfitte in giro per l’Europa. Pochi mesi fa, dopo la Brexit e la vittoria di Trump, sembrava in procinto di conquistare l’Occidente. Oggi è del tutto ridimensionato. Vedremo quel che accadrà nel prossimo futuro, in Italia e altrove in Europa.

© Riproduzione riservata 12 giugno 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/12/news/il_populismo_paga_i_suoi_tanti_errori-167876938/?ref=RHPPTP-BL-I0-C12-P1-S3.3-T1
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« Risposta #176 inserito:: Giugno 27, 2017, 11:27:01 am »

Una sinistra sorda mediti sugli errori
A oltre sei mesi dal referendum perso il 4 dicembre, la sconfitta in queste comunali è grave proprio perché capillare.
Difficile pensare di cavarsela affermando che si tratta di “fatti locali”

di STEFANO FOLLI
26 giugno 2017

IN FONDO alle urne di un secondo turno desertificato dall'astensionismo, c’è la vittoria del centrodestra. Vittoria netta e indiscutibile, a cominciare da Genova, città simbolo di queste elezioni comunali. Era una storica roccaforte della sinistra, da oggi avrà un’amministrazione di destra, sull'asse Forza Italia-Lega- Fratelli d’Italia che già governa la regione con Toti.

Ma le liste berlusconiane e leghiste si affermano un po’ ovunque, da Nord a Sud. Berlusconi dimostra di essere politicamente immortale: un moderno “Rieccolo” come ha detto qualcuno ricordando la definizione che Montanelli aveva coniato per Amintore Fanfani. Ma è un Berlusconi che nel settentrione deve molto alla Lega e anche all’afflusso degli elettori Cinque Stelle (quelli che si sono scomodati per andare a votare, s’intende). L’esclusione del partito di Grillo da quasi tutti i ballottaggi — tranne Asti e Carrara — ha avuto l’effetto di rinforzare i candidati del centrodestra a scapito degli avversari strategici del M5S, vale a dire le liste del Pd. Certo, è una magra consolazione per il movimento anti-sistema, le cui ambizioni erano più alte e che si è ritrovato di fatto a spalleggiare uno dei protagonisti del sistema contro l’altro. Annoverando per se stesso solo la vittoria a Carrara.

Per il centrosinistra invece è una sconfitta cocente e molto dolorosa. A parte Genova, anche altrove i dati sono sconfortanti. Si è molto detto circa la pretesa di Renzi di essere autosufficiente, cioè non condizionato dai gruppi alla sua sinistra. Ma queste amministrative dimostrano che anche laddove il Pd si presenta come centrosinistra allargato, comprendendo quindi la sinistra radicale, il risultato è ugualmente negativo. Si veda il capoluogo ligure, appunto, ma non solo. La sconfitta — con l’eccezione di Padova — riguarda un ventaglio di centri troppo ampio per non suggerire urgenti riflessioni al vertice del partito renziano. Ci sono tutte le città che contano. C’è persino L’Aquila, che alla vigilia veniva data per acquisita alla sinistra come emblema di un ritrovato rapporto con l’opinione pubblica dopo gli anni travagliati del dopo-terremoto.

A questo punto il Pd deve considerare i suoi errori. A livello locale ma soprattutto nazionale. Sarebbe miope individuare qualche capro espiatorio o peggio denunciare inesistenti complotti. È evidente che il partito ha perso credibilità e non riesce più ad afferrare il bandolo della matassa. A oltre sei mesi dal referendum perso il 4 dicembre, la sconfitta in queste comunali è grave proprio perché capillare. Difficile pensare di cavarsela affermando che si tratta di “fatti locali”. Quando gli aspetti, diciamo così, locali esprimono lo sfilacciarsi di un tessuto politico e sociale tale da abbracciare una porzione così significativa del territorio, significa che la rotta è sbagliata. E non si tratta solo di alchimie, di alleanze da cercare a tavolino o di un ceto politico da riconnettere. A questo punto c’è una relazione con il proprio elettorato che va ripensata prima che sia troppo tardi.

Ammesso che già non sia tardi. In verità il segnale del 4 dicembre è stato ignorato e oggi il partito di Renzi paga le conseguenze di questa sordità. Senza peraltro che altri abbiano in tasca la soluzione della crisi.
Quanto al centrodestra vincitore, il limite è che si tratta di elezioni locali. Nel senso che Berlusconi e forse anche Salvini sono i primi a sapere che l’alleanza vincente a livello locale non può essere riproposta tale quale a livello nazionale. Soprattutto se il sistema elettorale sarà proporzionale, con ciò incentivando la presentazione di liste separate. E non è solo questo. La linea di Salvini verso l’Europa non è conciliabile con quella dell’ultimo Berlusconi, di nuovo vicino al Partito Popolare e ad Angela Merkel. Prima di immaginare una lista unica del centrodestra alle politiche, qualcuno dovrà cambiare idee e posizioni in modo netto. Forse è più facile prevedere che ognuno vada per conto suo a raccogliere voti per poi discutere nel nuovo Parlamento.

Un Parlamento che a questo punto potrebbe anche avere una maggioranza di centrodestra. Chissà se è lo scenario preferito da Berlusconi. Forse no: l’idea di governare insieme a un Salvini trionfante non è proprio in cima ai desideri del “Rieccolo” di Arcore.


© Riproduzione riservata 26 giugno 2017

da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/26/news/una_sinistra_sorda_mediti_sugli_errori-169132464/?ref=RHPPTP-BH-I0-C12-P1-S3.4-T1
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« Risposta #177 inserito:: Maggio 10, 2018, 09:01:35 pm »

Governo, a chi rimane il cerino

06 MAGGIO 2018

DI STEFANO FOLLI

Se la crisi politica fosse una gara di ciclismo, si direbbe che l’ultimo approccio fra Di Maio e Salvini è arrivato fuori tempo massimo.
Ma naturalmente nel triangolo fra Quirinale, Palazzo Chigi e Montecitorio non hanno valore le regole sportive: quel che conta è il risultato. Se oggi Mattarella ottenesse un segnale di disponibilità dal centrodestra, si può esser certi che andrebbe a verificare il fatto nuovo.

Ma tutto lascia pensare che non accadrà nulla di tutto ciò. Pur guardandosi in cagnesco, i Salvini, i Berlusconi, le Meloni non hanno convenienza a rompere. Invece hanno interesse a stare insieme in questo passaggio cruciale della crisi. Tanto più se gli avvenimenti di questi giorni fossero l’anticamera dello scioglimento delle Camere appena elette: al voto andrebbe la stessa coalizione di centrodestra che si è presentata il 4 marzo, solo con un baricentro ancora più spostato verso la Lega.

In fondo, nelle ultime ore abbiamo assistito al classico gioco del cerino. Consapevoli che la crisi non ha forse alcuno sbocco, tutti — a cominciare da un Di Maio abbastanza disperato — hanno tentato di mettere sul tavolo le ultime carte. Con l’idea di lasciare ad altri la responsabilità di un rifiuto.

E così è: chi fra oggi e domani resterà con il cerino in mano, vale a dire chi pronuncerà l’ultimo, fatidico “no”, sarà anche additato come il responsabile delle probabili elezioni anticipate in autunno. Una stagione in cui potrebbe essere troppo tardi per scansare la trappola dell’esercizio provvisorio e soprattutto per neutralizzare l’aumento delle aliquote Iva.

Ecco allora il “passo indietro” di Di Maio, il balletto intorno all’ultima versione del progetto fumoso di un governo affidato a un nome terzo, ma fondato sulla garanzia parallela del capo leghista e dello stesso pentastellato. Senza Berlusconi messo nell’angolo. Un piano di corto respiro rispetto al punto in cui era giunta la crisi. E infatti la fine prematura della legislatura è nell’aria da giorni e non invoglia a compiere azzardi o acrobazie politiche.

Il fatto è che il fallimento dell’iniziativa di Di Maio è stato in qualche misura provocato o aggravato dal modo scomposto in cui il giovane leader si è avventurato in oscure insinuazioni. Era il momento di avanzare proposte con spirito costruttivo, visto che si trattava di aprire un sentiero fra mille ostacoli.

Al contrario, si è avvertito un clima vagamente minaccioso che inquieta e al tempo stesso fotografa la condizione di straordinario affanno in cui si muove il gruppo dirigente dei Cinque Stelle.

Tirare in ballo da Lucia Annunziata la «democrazia rappresentativa» che non funziona se il movimento fondato da Grillo non ottiene, con le buone o con le cattive, quello che vuole, significa fare affermazioni inaccettabili. Reiterare che «dovremo inventarci qualcosa» al posto di questa democrazia parlamentare non è rassicurante. Forse stamane il capo dello Stato chiederà conto al giovane leaderino di queste frasi, arricchite da altre perle: ad esempio il referendum sull’euro che viene annunciato o negato a seconda delle opportunità del momento, senza che lui, Di Maio, abbia nulla da eccepire nel merito. Probabilmente in queste ore
è tramontato l’ultimo tentativo di dare un indirizzo politico alla crisi, a meno che Mattarella non decida — ma è molto improbabile — di prendere in considerazione l’ipotesi di un pre-incarico a Salvini per un governo di centrodestra aperto a vari contributi in Parlamento. Nel frattempo nel grande rogo sembra bruciato anche il governo “del presidente” o di tregua. Perché di tregua non c’è traccia.

Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2018/05/06/news/governo_a_chi_rimane_il_cerino-195697694/
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« Risposta #178 inserito:: Maggio 26, 2020, 05:32:00 pm »

Commento Fase 2 Coronavirus

Governo, a chi parla davvero il premier

21 MAGGIO 2020
L'appello di Giuseppe Conte non va inteso come rivolto a tutta l'opposizione, bensì a quel segmento che potrebbe essere disponibile a condividere il dividendo europeista

DI STEFANO FOLLI
La rissa sfiorata giovedì mattina alla Camera è in un certo senso la prima risposta all'intervista di Conte al quotidiano Il Foglio, in cui il presidente del Consiglio riproponeva la sua apparente mano tesa all'opposizione. Apparente perché l'offerta rimane, come in precedenti occasioni, piuttosto generica: si evoca una terza fase dedicata alla semplificazione burocratica, alla riforma della giustizia, al rilancio del modello economico. Tutti temi condivisibili, anzi prioritari, ma non si capisce in che termini dovrebbe prendere forma la collaborazione - parlamentare, s'intende - con il centrodestra. Sotto questo aspetto, non c'è una proposta concreta, un itinerario possibile per scendere dal cielo dei principi al terreno delle iniziative.

In ogni caso, a Montecitorio qualcuno tra i Cinque Stelle ha voluto creare un piccolo incidente utile a comprendere quali potrebbero essere i margini della cooperazione sinistra/destra: allo stato delle cose, si tratta di margini inesistenti. Se infatti anche i morti per il Covid in Lombardia diventano occasione, o meglio pretesto, per uno scambio di contumelie volgari con la Lega, si capisce che siamo all'anno zero, altro che "fase tre". Tuttavia il premier ha dimostrato fin qui di essere un uomo astuto. Difficile pensare che non sia consapevole di un dato politico: semmai fosse realistica - e oggi non lo è - una qualche forma di intesa parlamentare allargata tra maggioranza e opposizione, non sarebbe lui a gestirla. Vorrebbe dire che lo scenario è cambiato in modo radicale, per cui i firmatari dell'accordo chiederebbero ovviamente un altro premier, diverso da quello che ha governato prima con Lega e 5S e poi con 5S e Pd.

Perché allora Conte ripropone uno schema che già nel recente passato ha avuto poca fortuna? Probabilmente perché non gli costa nulla e forse gli permette di guadagnare tempo. In fondo, l'appello a ridurre le tensioni e a collaborare sul piano parlamentare è tipico delle fasi di crisi. Lo stesso presidente Mattarella lo ha rivolto a più riprese alle forze politiche. Ma Conte non è il presidente della Repubblica: è un personaggio atipico che guida una maggioranza precaria dal futuro incerto. Da un lato, egli ritiene che questa maggioranza non possa dare molto più di quello che ha già dato; dall'altro, si sforza di creare qualche contraddizione nel centrodestra. Di sicuro Conte vede i sintomi di debolezza che solcano lo schieramento Salvini-Meloni-Berlusconi. E qui non si può dargli torto. Se fosse vero che l'Europa riverserà in tempi utili consistenti risorse finanziarie sul nostro Paese, si può immaginare che almeno Forza Italia sosterrà l'operazione.

Per cui l'appello del premier non va inteso come rivolto a tutta l'opposizione, bensì a quel segmento che potrebbe essere disponibile a condividere il dividendo europeista. Sempre che i finanziamenti ci siano e non arrivino fuori tempo massimo. Esiste peraltro un secondo aspetto in grado di confondere il quadro. In settembre o comunque ai primi di ottobre si andrà a votare per le regionali e le comunali rinviate, nonché per il referendum sul taglio dei parlamentari. Questo vuol dire che, nonostante il virus e l'estate, l'Italia sta per entrare in una nuova, peculiare campagna elettorale. Certo, il momento meno propizio per avviare esperimenti politici dai contorni poco definiti.

Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/05/21/news/governo_a_chi_parla_davvero_il_premier_giuseppe_conte-257305408/
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« Risposta #179 inserito:: Maggio 29, 2020, 02:07:33 pm »

Commento Governo
La fantasia al potere

25 MAGGIO 2020

Assistenti civici: l'aspetto singolare della vicenda è che invece di concentrarsi su iniziative innovative volte a promuovere la ripresa economica e a rassicurare un Paese smarrito, l'immaginazione si applica a tutto ciò che prevede forme di controllo vagamente asfissianti

Tra i sussulti della decadenza politica in cui il Paese si agita, la vicenda delle guardie civiche (qualificate con pudore "assistenti") resterà agli atti come un caso limite di idea cervellotica ma emblematica di un certo modo d'intendere il rapporto con l'opinione pubblica.

È chiaro che l'esercito dei sessantamila controllori non prenderà mai servizio: in poche ore ha suscitato la diffidenza o l'ostilità trasversale di un buon numero di forze politiche, di gran parte degli scienziati e infine del ministero dell'Interno che non è stato nemmeno consultato.

Di conseguenza, come di solito accade, la proposta si è scoperta in un attimo senza padri né padrini. Tranne uno: il ministro degli Affari regionali, Boccia, che l'ha concepita e messa sul tavolo in buonafede, ottenendo tuttavia il solo effetto di esasperare il nervosismo che si avverte nell'aria e di far perdere altro tempo a un governo che ne ha perso già parecchio.

L'aspetto singolare è che invece di concentrarsi su iniziative magari innovative volte a promuovere la ripresa economica e a rassicurare un Paese smarrito, la fantasia del potere si applica a tutto ciò che prevede forme di controllo vagamente asfissianti.
Anziché credere al senso di responsabilità dei cittadini, che nel complesso si sono ben comportati nelle strettoie dell'emergenza sanitaria, si preferisce inventare nuovi strumenti sicuramente inefficaci - oltre che costosi per un erario esausto - ma dal sapore poliziesco. Oltretutto all'insaputa di chi - il Viminale - ha il dovere istituzionale di gestire le forze dell'ordine.

Chi non ricorda la storia tragicomica delle "ronde padane" propugnate un tempo dalla Lega, ma respinte dagli spiriti liberali con l'argomento che deve essere lo Stato con i suoi organismi a provvedere alla sicurezza collettiva?

Ne deriva che le nuove ronde anti-assembramento sono proprio quello che non serve a una società piegata da oltre due mesi di isolamento e bisognosa di risentirsi viva. Con ogni cautela, ovvio, ma senza la sensazione di vagare per l'eternità dentro un mediocre film di fantascienza. In ogni caso, come è possibile che tali bizzarrie prendano forma con una certa regolarità? Certo, esiste una crescente debolezza della politica, di cui è sempre più evidente la carenza di visione e l'incapacità di trasmettere messaggi coerenti.

Il Pd, si dice, ha normalizzato il M5S: purtroppo sembra averne assorbito i lati peggiori, a cominciare dalla sub-ideologia illiberale. Per cui si cerca il colpo a effetto, il titolo del giorno dopo, il talk show serale. Ma tutti tendono a vivere alla giornata. E per qualcuno la pandemia è l'occasione per esercitare una vigilanza coercitiva sull'insieme dei comportamenti sociali che diventa il surrogato della politica forte e credibile che manca.

A proposito di credibilità, chiunque può rendersi conto che la faida all'interno della magistratura, o meglio tra le correnti e le fazioni del Consiglio Superiore, ha molto a che fare con la politica debole. I conflitti di potere fuori controllo offrono un'immagine distorta e purtroppo degenerata della funzione giudiziaria.

È un'altra prova del declino in atto a tutti i livelli. Ed è legittimo domandarsi: quanto può valere una riforma del Csm annunciata quando è tardi, per di più affidata a un ministro come Bonafede appena scampato per il rotto della cuffia alla sfiducia parlamentare?

Da - https://rep.repubblica.it/pwa/commento/2020/05/25/news/la_fantasia_al_potere-257617797/?ref=nl-rep-a-bgr
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