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Autore Discussione: Pianeta perduto  (Letto 4560 volte)
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« inserito:: Aprile 14, 2008, 04:51:00 pm »

Pianeta perduto

di Valentina Murelli


Dal gorilla al narciso. Dagli squali del Mediterraneo al legno di rosa. Il 40 per cento delle specie animali e vegetali è a rischio. Colpa dell'inquinamento, del global warming e dell'opera distruttiva dell'uomo  Il casuario australianoUn uccello su otto, un mammifero su quattro, un anfibio su tre: il 40 per cento delle specie animali è a rischio. A tenere il conto è l'ultima lista rossa della World Conservation Union (Iucn), che elenca le specie in pericolo all'interno di un campione selezionato di circa 40 mila animali e 12 mila vegetali. Colpa di perdita di habitat naturali, inquinamento, introduzione di specie aliene che scalzano quelle native. E dei cambiamenti climatici: secondo uno studio pubblicato su 'Nature', basterebbe uno scenario di moderato riscaldamento globale per avviare verso l'estinzione dal 15 al 37 per cento delle specie del pianeta entro il 2050.

Insomma, l'allarme è epocale: "In passato ci sono state cinque grandi estinzioni di massa, come quella dei dinosauri. Ora siamo di fronte alla sesta, che ha un ritmo mille volte superiore a quelle precedenti", afferma Marcello Buiatti, docente di Genetica all'Università di Firenze. Così, negli ultimi anni, per esempio, si sono estinte 30 delle 113 specie di rane arlecchino dell'America centrale. Altre specie sono in difficoltà in Australia, negli Stati Uniti, in Africa e in Europa. Nel 2007 sono entrati per la prima volta nella lista rossa i coralli, con alcune specie delle isole Galapagos. Nuovo ingresso anche per diversi rettili messicani e nordamericani e per vari avvoltoi africani e asiatici colpiti sia dalla carenza di cibo, dovuta a una drastica riduzione delle prede abituali, sia dai veleni con cui gli allevatori cospargono le carcasse di animali lasciate sui pascoli per uccidere predatori di bestiame come iene e sciacalli, ma che sono divorate anche dagli avvoltoi.

E a ferire di più il nostro immaginario è il declino delle grandi scimmie antropomorfe, come i gorilla occidentali di pianura (ridotti del 60 per cento negli ultimi 20 anni dalla caccia e dal virus ebola), gli scimpanzé e gli oranghi del Borneo, confinati in fazzoletti sempre più piccoli di foresta.

In Europa, nonostante i proclami dei paesi membri e le direttive dell'Unione, la situazione non è certo più incoraggiante: un mammifero su sei, per esempio, è seriamente minacciato di estinzione. E spariscono animali come il visone europeo, la volpe artica, la lince iberica e la foca monaca, di cui rimangono rispettivamente solo 150 e 400 esemplari. Non solo: "La situazione è drammatica per la fauna ittica d'acqua dolce", rivela Luigi Boitani, docente di Biologia della conservazione all'Università di Roma La Sapienza. Secondo la Iucn, 200 delle 522 specie di pesci d'acqua dolce in Europa sono in pericolo: l'anguilla come varie trote autoctone distrutte dall'introduzione di varietà commerciali. Colpa della diminuzione delle riserve d'acqua, dell'inquinamento, della costruzione di dighe, e dell'introduzione di specie aliene. Nei nostri mari, poi, si scopre che il 42 per cento degli squali e delle razze del Mediterraneo è a rischio per colpa della pesca.

L'ogcocephalus delle Cocco IslandE non va meglio per le piante, soprattutto nelle foreste equatoriali e tropicali, distrutte al ritmo di qualche migliaio di campi da calcio al giorno per far posto a colture intensive. Nel 2007 è stata dichiarata estinta la Begonia eiromischa della Malesia, ma in grave difficoltà sono anche il legno di rosa e varie specie di mogano. Anche nella regione europea perdiamo piante molto amate: narcisi, orchidee, gigliacee, peonie. "E questo non per colpa dell'agricoltura, ma dell'abbandono dei campi. In alcuni casi più fortunati, la foresta si riprende il territorio da cui era stata cacciata. In altri, invece, i terreni sono utilizzati per la realizzazione di infrastrutture viarie o commerciali", spiega Francesco Spada, docente di Geobotanica all'Università di Roma La Sapienza: "Per questo, penso che talvolta sia strumentale chiamare in causa il cambiamento climatico per spiegare la perdita di biodiversità: il problema principale è lo sfruttamento selvaggio del territorio".

La fotografia della vita sulla Terra scattata dagli scienziati a 15 anni dall'entrata in vigore della Convenzione internazionale sulla biodiversità, proposta alla Conferenza su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro (1992), insomma, mostra un pianeta in grande sofferenza: si è rotto il ciclo naturale delle estinzioni e delle nuove specie che arrivano sulla scena. Oggi, questo alternarsi è dettato dai pasticci di inquinamento e antropizzazione. E la ricchezza delle forme di vita del pianeta si va drammaticamente impoverendo. Proprio ciò che la Convenzione tentava di arginare. Apparentemente, sembra oggi, senza grande successo. Perché?

"La Convenzione è servita per individuare alcuni obiettivi di conservazione, che però sono stati perseguiti solo in parte", dice Buiatti: "Anche perché si è puntato soprattutto a salvare singole specie, magari di forte impatto mediatico come il panda, trascurando gli ecosistemi nel loro insieme". Le relazioni reciproche tra organismi, invece, sono fondamentali: se abbattiamo un singolo albero nella foresta amazzonica, per esempio, eliminiamo anche centinaia di individui di centinaia di specie diverse che vivono su quell'albero. "E lo stesso vale per le acque interne e per le isole: ambienti delicati e fragili, più soggetti alla distruzione se si altera anche un solo elemento dell'ecosistema", aggiunge Boitani.

Perché la tendenza si inverta davvero, avvertono gli addetti ai lavori occorre un cambiamento culturale, che porti a vedere la biodiversità come una ricchezza non solo estetica o etica, ma anche economica. Insomma, che salvare le diverse forme della vita sulla Terra non è solo materia per gli ambientalisti che si inteneriscono per le sorti delle farfalline. Ma è una faccenda che riguarda tutti, a partire dai bisogni più elementari come il cibo e i rimedi medicinali. Dal salice abbiamo ottenuto la comune aspirina, da un albero della costa californiana del Pacifico (Taxus brevifolia) l'antitumorale taxolo e dalla pervinca del Madagascar altri due antitumorali. Privarci della biodiversità significa privarci della possibilità di scoprire nuovi farmaci. E di nuovi alimenti: esistono circa 30 mila specie di vegetali commestibili e 7 mila sono quelle più usate da quando si è sviluppata l'agricoltura. Oggi, però, ci sfamiamo con pochissime specie. "E con il ricorso alle monocolture intensive abbiamo ridotto anche la varietà all'interno di ciascuna specie, ponendoci in una situazione molto rischiosa", afferma Buiatti: "Se coltiviamo una sola specie di riso e questa si ammala, perdiamo tutto il riso. Ecco perché la biodiversità agraria è importantissima, soprattutto in un momento in cui condizioni come il cambiamento climatico rendono più fragili gli ecosistemi".

Per questo, la giornata mondiale della biodiversità del prossimo 22 maggio, quest'anno sarà dedicata proprio all'agricoltura. E tra gli addetti ai lavori la consapevolezza di quanto sia importante la conservazione di questa biodiversità è tale da aver giustificato la realizzazione di una vera e propria arca di Noè dei semi alimentari, inaugurata poche settimane fa tra i ghiacci della Norvegia. Si tratta del Global Seed Vault, una sorta di grotta-forziere costruita nell'isola di Spitsbergen (Svalbard) in cui sarà custodita una copia di tutte le varietà locali di semi già conservate in banche nazionali. I semi destinati al deposito per ora sono circa 268 mila, ma in futuro si dovrebbe arrivare a più di quattro milioni. Nella speranza che, anche in caso di catastrofi più o meno naturali, sia garantito il nutrimento per le generazioni future.
(14 aprile 2008)

da espresso.repubblica.itdi Valentina Murelli


Dal gorilla al narciso. Dagli squali del Mediterraneo al legno di rosa. Il 40 per cento delle specie animali e vegetali è a rischio. Colpa dell'inquinamento, del global warming e dell'opera distruttiva dell'uomo  Il casuario australianoUn uccello su otto, un mammifero su quattro, un anfibio su tre: il 40 per cento delle specie animali è a rischio. A tenere il conto è l'ultima lista rossa della World Conservation Union (Iucn), che elenca le specie in pericolo all'interno di un campione selezionato di circa 40 mila animali e 12 mila vegetali. Colpa di perdita di habitat naturali, inquinamento, introduzione di specie aliene che scalzano quelle native. E dei cambiamenti climatici: secondo uno studio pubblicato su 'Nature', basterebbe uno scenario di moderato riscaldamento globale per avviare verso l'estinzione dal 15 al 37 per cento delle specie del pianeta entro il 2050.

Insomma, l'allarme è epocale: "In passato ci sono state cinque grandi estinzioni di massa, come quella dei dinosauri. Ora siamo di fronte alla sesta, che ha un ritmo mille volte superiore a quelle precedenti", afferma Marcello Buiatti, docente di Genetica all'Università di Firenze. Così, negli ultimi anni, per esempio, si sono estinte 30 delle 113 specie di rane arlecchino dell'America centrale. Altre specie sono in difficoltà in Australia, negli Stati Uniti, in Africa e in Europa. Nel 2007 sono entrati per la prima volta nella lista rossa i coralli, con alcune specie delle isole Galapagos. Nuovo ingresso anche per diversi rettili messicani e nordamericani e per vari avvoltoi africani e asiatici colpiti sia dalla carenza di cibo, dovuta a una drastica riduzione delle prede abituali, sia dai veleni con cui gli allevatori cospargono le carcasse di animali lasciate sui pascoli per uccidere predatori di bestiame come iene e sciacalli, ma che sono divorate anche dagli avvoltoi.

E a ferire di più il nostro immaginario è il declino delle grandi scimmie antropomorfe, come i gorilla occidentali di pianura (ridotti del 60 per cento negli ultimi 20 anni dalla caccia e dal virus ebola), gli scimpanzé e gli oranghi del Borneo, confinati in fazzoletti sempre più piccoli di foresta.

In Europa, nonostante i proclami dei paesi membri e le direttive dell'Unione, la situazione non è certo più incoraggiante: un mammifero su sei, per esempio, è seriamente minacciato di estinzione. E spariscono animali come il visone europeo, la volpe artica, la lince iberica e la foca monaca, di cui rimangono rispettivamente solo 150 e 400 esemplari. Non solo: "La situazione è drammatica per la fauna ittica d'acqua dolce", rivela Luigi Boitani, docente di Biologia della conservazione all'Università di Roma La Sapienza. Secondo la Iucn, 200 delle 522 specie di pesci d'acqua dolce in Europa sono in pericolo: l'anguilla come varie trote autoctone distrutte dall'introduzione di varietà commerciali. Colpa della diminuzione delle riserve d'acqua, dell'inquinamento, della costruzione di dighe, e dell'introduzione di specie aliene. Nei nostri mari, poi, si scopre che il 42 per cento degli squali e delle razze del Mediterraneo è a rischio per colpa della pesca.

L'ogcocephalus delle Cocco IslandE non va meglio per le piante, soprattutto nelle foreste equatoriali e tropicali, distrutte al ritmo di qualche migliaio di campi da calcio al giorno per far posto a colture intensive. Nel 2007 è stata dichiarata estinta la Begonia eiromischa della Malesia, ma in grave difficoltà sono anche il legno di rosa e varie specie di mogano. Anche nella regione europea perdiamo piante molto amate: narcisi, orchidee, gigliacee, peonie. "E questo non per colpa dell'agricoltura, ma dell'abbandono dei campi. In alcuni casi più fortunati, la foresta si riprende il territorio da cui era stata cacciata. In altri, invece, i terreni sono utilizzati per la realizzazione di infrastrutture viarie o commerciali", spiega Francesco Spada, docente di Geobotanica all'Università di Roma La Sapienza: "Per questo, penso che talvolta sia strumentale chiamare in causa il cambiamento climatico per spiegare la perdita di biodiversità: il problema principale è lo sfruttamento selvaggio del territorio".

La fotografia della vita sulla Terra scattata dagli scienziati a 15 anni dall'entrata in vigore della Convenzione internazionale sulla biodiversità, proposta alla Conferenza su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro (1992), insomma, mostra un pianeta in grande sofferenza: si è rotto il ciclo naturale delle estinzioni e delle nuove specie che arrivano sulla scena. Oggi, questo alternarsi è dettato dai pasticci di inquinamento e antropizzazione. E la ricchezza delle forme di vita del pianeta si va drammaticamente impoverendo. Proprio ciò che la Convenzione tentava di arginare. Apparentemente, sembra oggi, senza grande successo. Perché?

"La Convenzione è servita per individuare alcuni obiettivi di conservazione, che però sono stati perseguiti solo in parte", dice Buiatti: "Anche perché si è puntato soprattutto a salvare singole specie, magari di forte impatto mediatico come il panda, trascurando gli ecosistemi nel loro insieme". Le relazioni reciproche tra organismi, invece, sono fondamentali: se abbattiamo un singolo albero nella foresta amazzonica, per esempio, eliminiamo anche centinaia di individui di centinaia di specie diverse che vivono su quell'albero. "E lo stesso vale per le acque interne e per le isole: ambienti delicati e fragili, più soggetti alla distruzione se si altera anche un solo elemento dell'ecosistema", aggiunge Boitani.

Perché la tendenza si inverta davvero, avvertono gli addetti ai lavori occorre un cambiamento culturale, che porti a vedere la biodiversità come una ricchezza non solo estetica o etica, ma anche economica. Insomma, che salvare le diverse forme della vita sulla Terra non è solo materia per gli ambientalisti che si inteneriscono per le sorti delle farfalline. Ma è una faccenda che riguarda tutti, a partire dai bisogni più elementari come il cibo e i rimedi medicinali. Dal salice abbiamo ottenuto la comune aspirina, da un albero della costa californiana del Pacifico (Taxus brevifolia) l'antitumorale taxolo e dalla pervinca del Madagascar altri due antitumorali. Privarci della biodiversità significa privarci della possibilità di scoprire nuovi farmaci. E di nuovi alimenti: esistono circa 30 mila specie di vegetali commestibili e 7 mila sono quelle più usate da quando si è sviluppata l'agricoltura. Oggi, però, ci sfamiamo con pochissime specie. "E con il ricorso alle monocolture intensive abbiamo ridotto anche la varietà all'interno di ciascuna specie, ponendoci in una situazione molto rischiosa", afferma Buiatti: "Se coltiviamo una sola specie di riso e questa si ammala, perdiamo tutto il riso. Ecco perché la biodiversità agraria è importantissima, soprattutto in un momento in cui condizioni come il cambiamento climatico rendono più fragili gli ecosistemi".

Per questo, la giornata mondiale della biodiversità del prossimo 22 maggio, quest'anno sarà dedicata proprio all'agricoltura. E tra gli addetti ai lavori la consapevolezza di quanto sia importante la conservazione di questa biodiversità è tale da aver giustificato la realizzazione di una vera e propria arca di Noè dei semi alimentari, inaugurata poche settimane fa tra i ghiacci della Norvegia. Si tratta del Global Seed Vault, una sorta di grotta-forziere costruita nell'isola di Spitsbergen (Svalbard) in cui sarà custodita una copia di tutte le varietà locali di semi già conservate in banche nazionali. I semi destinati al deposito per ora sono circa 268 mila, ma in futuro si dovrebbe arrivare a più di quattro milioni. Nella speranza che, anche in caso di catastrofi più o meno naturali, sia garantito il nutrimento per le generazioni future.
(14 aprile 2008)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Aprile 17, 2008, 12:00:25 pm »

Clima, catastrofi prima del previsto


Cattive notizie anche dal cielo. Gli scienziati che stanno lavorando su nuovi modelli informatici e satellitari sia in Gran Bretagna che in California per prevedere i cambiamenti climatici stanno arrivando a conclusioni ancora più pessimistiche. Sia per quanto riguarda l'impatto dello scioglimento della calotta artica sia per quanto riguarda le emissioni di gas serra, le previsioni fin qui fatte vanno riviste in peggio, nel senso di una anticipazione delle conseguenze più negative.

La Cina ha superato gli Stati Uniti come Paese che produce più emissioni inquinanti nel mondo: la notizia arriva dalla California, dove alcuni ricercatori hanno rilevato che il sorpasso degli Usa da parte del colosso cinese, che gli esperti prevedevano per il 2020, è già avvenuto nel 2006. Lo studio, realizzato dai professori di economia Maximilian Aufhammer (Università di Berkeley) e Richard Carson (Università di San Diego), che sarà pubblicato il mese prossimo calcola che, monitorando l'uso dei combustibili fossili nelle diverse province cinesi, ci sarà un aumento dell'11% delle emissioni di Co2 dal 2004 al 2010, contro le precedenti previsioni che stimavano una crescita tra il 2,5 e il 5%.La previsione californiana è che entro il 2010 «ci sarà un aumento di 600 milioni di tonnellate di emissioni di Co2 in Cina, rispetto ai livelli del 2000». Uno scenario che, secondo i ricercatori «vanificherà la riduzione di 116 milioni di tonnellate di emissioni garantita da tutti i Paesi industrializzati che hanno rispettato il Protocollo di Kyoto».

Un'altro studio di un gruppo di scienziati inglesi presentato durante il meeting annuale della società europea di geologia in corso a Vienna stima che i livelli dei mari potrebbero salire di circa un metro e mezzo entro la fine del secolo. Molto di più cioè di quanto previsto finora dall'Intergornamental Panle on Climate Change. Secondo le stime elaborate dall'Ipcc l'innalzamento dei livelli del mare causato dallo scioglimento dei ghiacci antartici e della Groenlandia entro la fine del secolo non dovrebbe superare la soglia dei 43 centimetri. Ma sono sempre di più ormai gli studi che tendono a considerate come sottostimati questi valori. «Il problema - ha spiegato Svetlana Jevrejeva del Proudman Oceanographic Laboratory di Liverpool - è che lo scioglimento dei ghiacci è molto più rapido di quanto si pensasse e le conseguenze per il livello dei mari più consistenti di quanto fino ad oggi pensato».

Ciò che va ricordato è che nell'ultima audizione sulla crisi economica e la recessione in America del Nord, il il presidente della Fed, Ben Bernanke, ha invitato non solo la politica ma anche le istituzioni economiche e finanziarie mondiali a calcolare fin da oggi l'impatto economico dei cambiamenti climatici che si annunciano, per mettere in conto fin da ora stanziamenti per alleviare catastrofi e danni che incideranno sulle popolazioni e le infrastrutture.


Pubblicato il: 16.04.08
Modificato il: 16.04.08 alle ore 16.29   
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 29, 2008, 05:11:28 pm »

AMBIENTE

29/4/2008
 
La bioplastica inquina e alimenta la crisi alimentare
 
Aumenta il rischio di emissioni di metano e sottrae terra al cibo 
 
 
ROMA
La bioplastica danneggia l’ambiente e alimenta l’attuale crisi alimentare. Sono queste le conclusioni a cui è giunto uno studio condotto dal quotidiano britannico Guardian sul sempre più diffuso utilizzo della plastica biodegradabile da parte di supermercati e aziende, ansiosi di diventare più «verdi».

La plastica bio può infatti aumentare il rischio di emissione di gas serra nei siti di stoccaggio, spesso ha bisogno di alte temperature per decomporsi e in alcuni casi mancano le apparecchiature per il suo riciclaggio. Molte delle bioplastiche stanno inoltre contribuendo all’attuale crisi globale dei prezzi alimentari, perchè occupano parte dei terreni prima destinati alle colture per il consumo umano. Questo tipo di plastica viene infatti ricavato da prodotti come mais, canna da zucchero, grano e altre piante e il suo mercato registra un incremento annuo del 20-30%.

Le aziende che la producono, presentandola come “sostenibile”, “biodegradabile”, “utilizzabile per il Compostaggio” e “riciclabile”, affermano che la bioplastica garantisce una riduzione di emissioni di anidride carbonica dal 30 all’80 per cento. Tuttavia, le richerche condotte dal quotidiano hanno evidenziato come la nuova generazione di plastica bio finisca nei siti di stoccaggio dove si decompone in assenza di ossigeno, emettendo così metano, un gas serra 23 volte più potente del biossido di carbonio. Questa settimana, le autorità Usa di controllo dell’atmosfera e degli oceani hanno denunciato un netto aumento di emissioni di metano nell’atmosfera durante lo scorso anno.

L’attuale crisi alimentare ha poi messo in evidenza la competizione tra bioplastica, biocarburanti e cibo per il controllo dei terreni. Lo scorso anno sono state prodotte circa 200.000 tonnellate di plastica bio da 250.000-350.000 tonnellate di raccolto e per i prossimi quattro anni si prevede che la produzione richiederà diversi milioni di acri di terreno.
 
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Maggio 01, 2008, 10:34:51 am »

SAREGO

Alla "Cromatura Dal Grande" di via Monte Grappa guasto all’impianto di abbattimento dei fumi con emissioni di aerosol con acido 

Piante bruciate, allarme inquinamento da cromo 

Dall’assessore provinciale Mondardo un appello ai residenti:«È opportuno evitare consumo di frutta e verdura contaminate» 
 


Allarme inquinamento da cromo esavalente a Meledo di Sarego. In quale quantità e per quale estensione lo diranno le analisi già avviate dall'Arpav, l'azienda regionale di prevenzione e protezione ambientale.

Nel frattempo è alta la preoccupazione tra i residenti di Meolo, frazione di Sarego, in particolare quelli che vivono nelle adiacenze della Cromatura Dal Grande di via Monte Grappa.

Il titolare dell'azienda, Giuseppe Dal Grande, ai tecnici dell'Arpav ha riferito che, a seguito di un guasto dell'impianto di abbattimento dei fumi/aerosol a servizio delle vasche di cromatura, si era verificata una fuoriuscita di aerosol contenente una soluzione di acido cromico. L'evento si sarebbe verificato la notte tra il 20 e il 21 aprile scorsi.

La situazione tranquillizza l'assessore provinciale all'Ambiente, Antonio Mondardo (allertato anche l'ufficio Bonifiche della provincia) - è in fase di monitoraggio. I tecnici Arpav e della Provincia hanno verificato che la fuoriuscita di acido cromico è circoscritta ad un raggio ristretto. La limitata quantità di fumo uscito, poi, permette di valutare che non si possano essere verificati danni fisici ai residenti a ridosso della fabbrica. E' comunque opportuno evitare di consumare frutta e verdura che siano stati contaminati dal fumo.

I residenti, che hanno lanciato l'allarme dopo aver notato nei giorni scorsi un anomalo e grave disseccamento di piante e ortaggi nella zona compresa tra via dell'Artigianato e via Montegrappa, sono però preoccupati. E' di lunedì l'ordinanza emessa dal sindaco di Sarego, Vittorino Martelletto, che vieta il consumo di verdura e frutta per un raggio di mezzo chilometro dalla Cromatura Dal Grande, ma sono più d'uno quelli che in questi giorni hanno inconsapevolmente consumato quanto cresciuto nell'orto di casa.L'esame dell'acqua piovana. raccolta da privati sempre nei giorni scorsi, ha messo in luce la presenza di cromo esavalente in quantità superiore rispetto a quella consentita in acque superficiali per gli scarichi industriali.

Siamo intervenuti ha dichiarato il direttore dell'Arpav di Vicenza, Mario Cecchetto lunedì pomeriggio su segnalazione, ed anche ieri i nostri tecnici sono stati al lavoro. Attendiamo i responsi sui campioni sottoposti ad analisi nella giornata di oggi.

La Cromatura Dal Grande dovrà informare quanto finora fatto allo scopo di limitare la contaminazione nel cortile e sul tetto dello stabilimento, oltre che sulle proprietà dei confinanti, ma anche effettuare tutti gli interventi di messa in sicurezza che si renderanno necessari, anche delimitando l'area potenzialmente contaminata. L'azienda dovrà inoltre dimostrare quali interventi sono stati messi in atto sugli impianti di abbattimento dell'acido cromico per evitare il ripetersi dell'evento incidentale.

La questione è già arrivata sul tavolo del sostituto procuratore Vartan Giacomelli: non è escluso che nelle prossime ore il magistrato possa adottare provvedimenti, come il sequestro dell'abbattitore di fumi incriminato.

Giorgio Zordan
 
da gazzettino.quinordest.it
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 18, 2008, 10:45:24 pm »

LO SCRIVE IL Der Spiegel: grandi quasi 20 centimetri, si spostano in gruppi

L'invasione dei ragni giganti

Allerta in Germania, Austria e Svizzera


BERLINO - Sono neri, sono grandi quasi 20 centimetri e si spostano in orde: un'invasione senza precedenti di ragni è in atto in questi giorni in Austria, in Germania e in Svizzera, riportano gli organi di stampa. Sbalorditi anche gli esperti di aracnidi: a quanto sembra, nessuno sa da dove siano arrivati - e gli animaletti diventano sempre più numerosi. Cattive notizie per chi soffre di aracnofobia, scrive Der Spiegel, che racconta in un lungo articolo la curiosa «occupazione» di ragni opilionidi. «I Paesi Bassi e la Germania sono già stati invasi. In questo momento loro presenza si è moltiplicata anche in Svizzera e in Austria», scrive il settimanale sul suo sito. Si intravedono sui muri di casa e sulle pareti. Questi animali hanno otto lunghe ed esili zampe che raggiungono anche i 18 centimetri. Alla loro vista molti cittadini si spaventano, altri invece provano disgusto. Tuttavia, non sono pericolosi e si dileguano appena ci si avvicina a loro.

INVASIONE - Gli opilionidi, vengono spesso scambiati per ragni, sono invece solo loro parenti: assieme agli scorpioni; gli pseudoscorpioni; gli acari e i ragni appartengono alla famiglia degli aracnidi. Sono privi di strutture capaci di emettere fili di seta e non posseggono ghiandole velenifere, quindi non sono potenzialmente pericolosi, spiega Jochen Martens, professore di zoologia all'Università di Mainz. Si spostano in orde di centinaia, a volte migliaia: «Tutto il gruppo comincia poi a muoversi», descrive Martens il loro comportamento in caso di difesa. Sono degli onnivori, ovvero si nutrono di piccoli insetti, ingerendo anche materiale solido e semisolido. La cosa più incredibile, spiegano però gli esperti, è che questa particolare specie non è ancora stata identificata, pur essendo stati effettuati dei test genetici. Anche la causa della loro espansione in questi paesi rimane per il momento un mistero: per gli esperti questi "aliens" potrebbero essere arrivati in Europa via mare, con ogni probabilità su dei container. Infatti, sussiste un rapporto diretto tra l'intensità degli scambi di merci con un continente e il numero delle specie di ragni importate. La maggior parte è originaria dell'Asia, ma anche dal Sudamerica.


17 maggio 2008



da corriere.it
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