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Autore Discussione: PIETRO GARIBALDI  (Letto 11902 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Maggio 23, 2009, 03:46:43 pm »

23/5/2009
 
Riforme impopolari ma giuste
 
PIETRO GARIBALDI
 
Più che all’andamento dei mercati finanziari e della produzione industriale, le preoccupazioni dei cittadini e delle famiglie italiane sono legate ai consumi e al posto di lavoro. È giusto ed è inevitabile che sia così. Nonostante i timidi segnali di ripresa, che devono comunque essere letti come una riduzione della velocità di caduta, quando guardiamo la situazione dal punto di vista di famiglie e lavoratori non possiamo affatto escludere che il picco della crisi debba ancora venire.

L’occupazione della grande impresa continua a diminuire e l’utilizzo della cassa integrazione ha raggiunto i livelli del 1993, l’unico anno del dopoguerra in cui i consumi aggregati dei cittadini sono diminuiti. Nella prima metà del 2009 circa 350 mila lavoratori hanno fatto ricorso alla cassa integrazione e un’ondata di disoccupazione crescente potrebbe colpire il Paese nella prossima estate. L’Unione Europea prevede infatti una crescita della disoccupazione dal 7 per cento al 9 per cento entro il 2010.

La cassa integrazione garantisce fortunatamente un sostegno al reddito, ma richiede comunque alle famiglie una riduzione delle proprie entrate.

Le famiglie tendono spontaneamente e autonomamente a mantenere un profilo di consumo costante anche quando il livello di reddito diminuisce. Un comportamento di questo tipo è possibile grazie all’utilizzo dei propri risparmi. Ma quando i risparmi sono pochi o il reddito diminuisce in modo troppo rapido, diventa obbligatorio ridurre i consumi. Gli ultimi dati sulle vendite al dettaglio riflettono un calo del 5 per cento rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. È il dato peggiore dal 1997 ed è probabile che le famiglie italiane stiano davvero riducendo i propri consumi.

I 350 mila cassaintegrati sono giustamente preoccupati per il loro futuro e devono accettare una drammatica riduzione del reddito. Gli stessi lavoratori cassaintegrati devono però riconoscere di vivere all’interno di uno Stato Sociale che garantisce loro un ammortizzatore sociale che gli permette di convivere e superare un periodo difficilissimo. I più di 4 milioni di lavoratori precari sono messi molto peggio. Non abbiamo ancora statistiche ufficiali e non le avremo fino al prossimo giugno, ma i primi segnali suggeriscono una situazione quasi drammatica. Con la scadenza del contratto a termine o del contratto a progetto, la maggior parte dei lavoratori precari non ha alcuna forma di sostegno al reddito, al di là del simbolico contributo una tantum di 1500 euro introdotto dal governo a fine 2008. Molti di questi lavoratori precari sono giovani e riescono a sopravvivere grazie alla rete sociale loro offerta dalla famiglia. Chi non ha una famiglia di riferimento, rischia invece la povertà.

Lo Stato non può permettersi di abbandonare questi lavoratori. Il governo in carica gode di un vasto consenso. La necessità e l’importanza di aprire il capitolo delle riforme strutturali sembrano fortunatamente essere tornate di attualità, come riconosciuto dal ministro dell’Economia sulle colonne della Stampa. La riforma degli ammortizzatori sociali non può e non deve aspettare l’ondata di disoccupazione in arrivo. Introdurre un sussidio unico di disoccupazione a cui si ha accesso indipendentemente dal posto di lavoro si può e si deve. Rispetto alle risorse oggi stanziate per gli ammortizzatori sociali, servirebbero circa 8 miliardi aggiuntivi. Finita la recessione, il sussidio unico si potrebbe poi finanziare attraverso un contributo fiscale su tutti i posti di lavoro pari al tre per cento, poco più alto del 2,5 per cento oggi esistente. Il governo ha più volte sostenuto di aver già stanziato, con l’aiuto delle Regioni, una cifra non lontana dagli 8 miliardi necessari. Innanzitutto non è affatto chiaro che queste risorse arriveranno alle famiglie, anche perché necessitano di leggi regionali non ancora approvate. E in ogni caso queste risorse non arriveranno ai precari, poiché il governo ha deciso di destinarle in via discrezionale ai settori o alle imprese che di volta in volta ne avranno bisogno.

Le riforme possono a volte essere impopolari. Riformare le pensioni è un processo molto difficile e dovrà necessariamente avvenire nell’interesse generale contro la volontà dei lavoratori vicino alla pensione. Riformare gli ammortizzatori sociali, per estenderli a tutti i lavoratori, non dovrebbe trovare resistenze. La domanda è sempre la stessa: se non si riforma nel mezzo della peggiore recessione del dopoguerra, allora quando?

pietro.garibaldi@unito.it
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« Risposta #16 inserito:: Giugno 20, 2009, 06:54:22 pm »

20/6/2009
 
La riforma più urgente
 
PIETRO GARIBALDI
 
Quando centinaia di migliaia di posti di lavoro vanno distrutti, tutti capiscono che la grande recessione riguarda davvero la vita di tutti i giorni. I crolli della Borsa, simili a quelli dello scorso autunno, sono eventi drammatici e spettacolari, ma in realtà riguardano solo quella piccola parte di famiglie che investe in azioni. La caduta del prodotto interno lordo, un indicatore fondamentale per misurare la capacità produttiva del Paese, è un meccanismo troppo complicato perché una famiglia italiana ne possa direttamente sentire le conseguenze. Le perdite di posti di lavoro e l’aumento della disoccupazione sono invece fenomeni che arrivano al cuore delle famiglie italiane. L’Istat ha ieri comunicato che nel primo trimestre del 2009 l’occupazione del nostro Paese è diminuita di 200 mila posti rispetto allo stesso periodo del 2008. In termini relativi, significa che un posto di lavoro su cento è andato distrutto. È il dato peggiore degli ultimi 15 anni. Se non vi fosse stato un contributo molto positivo dai lavoratori immigrati, il dato sarebbe stato molto più negativo.

La componente «italiana» dell’occupazione è infatti diminuita di 420 mila unità. Un vero e proprio tracollo. Su queste colonne si è spesso indicato il rischio che la recessione avrebbe finito per colpire soprattutto i lavoratori precari, quelli assunti con un contratto a termine, un contratto a progetto o altre figure contrattuali. Per questi lavoratori, quando le cose vanno male non si deve ricorrere al licenziamento, in quanto è sufficiente che l’impresa non rinnovi il contratto alla scadenza. I dati pubblicati ieri confermano pienamente questa previsione. In dodici mesi si sono persi 150 mila posti a termine, 100 mila collaborazioni (i cosiddetti lavoratori parasubordinati) e ben 160 mila posti da lavoratore autonomo, tra i quali vi sono parecchi lavoratori con partita Iva e formalmente autonomi, ma in realtà fornitori di un solo committente. In altre parole, un esercito di circa 400 mila lavoratori precari è andato distrutto. In controtendenza e in modo forse sorprendente, i lavoratori a tempo indeterminato sono addirittura aumentati.

Questi numeri ci portano inevitabilmente a riflettere sul nostro sistema di protezione sociale. Dei circa 400 mila lavoratori precari che hanno perso il lavoro, nella migliore delle ipotesi solo uno su quattro ha accesso ai sussidi di disoccupazione. La cassa integrazione guadagni, uno strumento che ha certamente permesso la tenuta occupazionale dei lavoratori a tempo indeterminato, non riguarda i lavoratori precari. In queste settimane nei tavoli di concertazione sociale si è a lungo discusso sulla necessità di estendere la durata della cassa integrazione. A quei tavoli, dove oltre al governo si trovavano spesso sindacati e Confindustria, i lavoratori precari, quasi tutti giovani, non avevano modo di far sentire il loro estremo bisogno di protezione sociale. Non sorprende quindi che tra i giovani sotto i 25 anni la disoccupazione sia aumentata di ben 5 punti percentuali. Nei giorni scorsi, diffondendo le nuove stime sulla caduta del Pil, la Confindustria ha ricordato al Paese e al governo che per tornare a crescere in modo virtuoso dopo la grande recessione è necessario mettere mano a importanti riforme strutturali.

La Confindustria ha insistito sulle liberalizzazioni, sulla riforma del sistema dell'istruzione e su quello universitario. Sono davvero riforme fondamentali. Ma alla luce dei dati di ieri sull'occupazione, la riforma più urgente è chiaramente quella degli ammortizzatori sociali, in modo da garantire una copertura a tutti i lavoratori indipendentemente dal tipo di contratto. Nonostante la riduzione registrata ieri, i lavoratori precari sono ancora più di 3 milioni e il peggio della crisi, in termini di riduzione di posti di lavoro, potrebbe arrivare dopo l'estate. Bisogna agire subito. Non aspettiamo i prossimi dati trimestrali per renderci conto che altre centinaia di migliaia di lavoratori precari hanno perso il posto di lavoro.

da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Luglio 16, 2009, 11:48:32 am »

16/7/2009
 
Gli stessi problemi di sempre
 
 
PIETRO GARIBALDI
 
Delle previsioni non si può fare a meno. Così come per gestire una grande impresa si deve avere un piano strategico, anche la politica economica di un grande Paese può essere condotta soltanto attraverso un quadro macroeconomico ben definito. In fin dei conti, un governo e un ministro dell’Economia sono obbligati a fare previsioni. Con l’approvazione di ieri del Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (Dpef), le previsioni ufficiali del governo confermano per il 2009 una riduzione del prodotto interno lordo superiore al cinque per cento, una stima molto simile a quelle prodotte dai principali organismi internazionali. Anche per il nostro governo stiamo quindi attraversando il peggior anno della storia repubblicana, nonostante negli ultimi mesi si siano osservati alcuni segnali positivi, che però rimangono legati a una riduzione della velocità di caduta.

Di ripresa vera e propria si dovrebbe parlare nel prossimo anno, quando il governo prevede una crescita positiva di mezzo punto percentuale. Per tornare invece al livello di reddito del 2007, quello che avevamo prima della tempesta, dovremmo aspettare la fine del 2012. E’ uno scenario decisamente faticoso, ma comunque non catastrofico. Quella che sarà ricordata come la grande recessione potrebbe durare solo due anni e saremmo ormai vicini alla fine del secondo.

Un aspetto fondamentale di ogni piano strategico riguarda la correzione di rotta impressa dal timoniere. Durante una tempesta, la correzione di rotta è particolarmente importante. La vera sorpresa del Dpef non è tanto nelle previsioni, che come abbiamo detto sono del tutto analoghe a quelle predisposte dai maggiori organismi internazionali, quanto piuttosto nello scoprire che il governo non intende dare vita ad alcuna correzione di rotta. Leggendo attentamente il quadro di finanza pubblica elaborato dal governo, si nota infatti come lo scenario a bocce ferme, tecnicamente definito scenario tendenziale, è del tutto analogo allo scenario programmatico, quello che risente degli interventi di politica economica che il governo intende predisporre. Ciò significa che il disavanzo pubblico del nostro Paese salirà al 5,3 per cento nel 2009 e rimarrà intorno al 5 per cento nel 2010, indipendentemente dalle azioni di politica economica.

La vera scelta del Dpef è quindi quella di non toccare il timone della politica economica. E’ una scelta coraggiosa, ma con importanti conseguenze. La più importante conseguenza è forse dal lato della spesa pubblica. Per rendersene conto basta pensare che il totale delle spese pubbliche nel 2010 arriverà al 52 per cento del Pil, mentre nel 2008 era fermo al 49 per cento. Alla fine della grande recessione ci troveremo quindi con una presenza dello Stato nell’economia italiana ben più importante di quella che avevamo prima della recessione. La differenza non sarà dovuta a nuovi programmi infrastrutturali, ma bensì alla continua crescita della spesa sociale e più che altro alle pensioni, una voce di spesa che continua a galoppare anche durante la grande recessione. Scegliendo di non affrontare il nodo pensioni nei prossimi anni, il Dpef mostra con tutta la forza dei numeri quanto pesanti saranno i problemi strutturali alla fine della tempesta. La mini-stretta delle pensioni annunciata ieri nel decreto anticrisi in discussione alla Camera, che prevede un aumento dell’età pensionabile a partire dal 2015, è una goccia rispetto agli incrementi di incidenza delle pensioni evidenziati dal Dpef. L’aumento graduale dell’età pensionabile delle donne nella Pubblica Amministrazione, un atto dovuto nei confronti dell’Europa, non avrà in realtà quasi effetti sui conti dello Stato.

L’altra imponente eredità della grande recessione sarà un debito pubblico in rapporto al Pil che ritornerà ai livelli di inizio degli Anni Novanta, prima che avesse inizio quell’opera di risanamento di finanza pubblica che ci portò poi nell’euro. Quando la spesa aumenta e il prodotto diminuisce, il debito pubblico diventa davvero ingestibile. Dalle stime del governo si evince comunque che dal 2013 il debito riprenderà a scendere, suggerendo quindi che la situazione del debito pubblico, per quanto drammatica, appare comunque sostenibile. Rimane però impressionante pensare che tra cinque anni ci troveremo con gli stessi livelli di debito in rapporto al Pil che avevamo venti anni prima. E’ un dato che fa riflettere su quanto i problemi strutturali del Paese alla fine siano sempre gli stessi, nonostante venti Dpef e venti piani strategici siano stati approvati da decine di governi. Il ministro Tremonti ha poi anche annunciato che quello approvato ieri sarà l’ultimo Dpef. Sarebbe stato molto più bello sentire che quello approvato ieri è l’ultimo Dpef in cui si trovano, tra le righe, gli stessi problemi di sempre: pensioni, debito pubblico e spesa pubblica in crescita.

pietro.garibaldi@unito.it
 
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« Risposta #18 inserito:: Settembre 01, 2009, 10:53:20 am »

1/9/2009

L'estate senza Finanziaria
   
PIETRO GARIBALDI


Da almeno vent’anni, la ripresa della vita economica e politica dopo la pausa estiva è stata dominata dalla discussione collegata alla legge Finanziaria. Dal silenzio di fine estate su questi temi, sembra quasi che la Finanziaria del 2010 non si debba proprio fare. Certamente non rimpiangiamo il tradizionale martellamento di fine estate sulla dimensione della manovra, sui presunti tagli alla spesa pubblica, sugli imponenti programmi di sviluppo e sui minacciati inasprimenti fiscali. In effetti la qualità della discussione sulla Finanziaria, il principale strumento di politica economica del Paese, è sempre stato molto scadente. Inoltre, dopo mesi di martellamento estivo, la Finanziaria ha quasi sempre finito col determinare inasprimenti fiscali e aumenti di spesa pubblica. Nel 2009, la spesa pubblica arriverà quasi al 53% del Prodotto interno lordo e la pressione fiscale raggiungerà la cifra record del 43,4%, sempre in rapporto al Pil.

La mancanza di dibattito sulla legge Finanziaria e sulla politica economica non è solo colpa dell’estate dei veleni e dell’attenzione dei media a temi che poco hanno a che fare con la politica economica. Con la presentazione a luglio del Documento di programmazione economica e finanziaria, il governo ha ufficialmente dichiarato che non intende portare alcuna correzione all’andamento tendenziale di finanza pubblica del 2010.

Questo significa che nel 2010 il disavanzo pubblico dovrebbe essere intorno al 5 per cento del Pil, in lieve miglioramento rispetto al 5,3 per cento previsto per il 2009. Il miglioramento non sarà dovuto a nuove iniziative governative collegate alla Finanziaria, ma alla lieve ripresa prevista per il 2010 e al conseguente recupero delle entrate fiscali.

Nel mezzo della peggiore crisi economica del dopoguerra, il governo ha deciso di lasciare operare il bilancio per inerzia, senza contrastare l’aumento della spesa (soprattutto quella pensionistica) e il crollo delle entrate fiscali, in larga parte dovuto al rallentamento della produzione. Per un Paese senza problemi strutturali e con una traiettoria di crescita ben definita, durante una recessione lasciare operare il bilancio pubblico attraverso i suoi stabilizzatori automatici (le variazioni di spesa e di entrate legate al ciclo economico) è una strategia che può essere condivisibile e viene anche suggerita dall’analisi economica.

Il vero problema è però che l’Italia non ha una traiettoria di crescita ben definita ed è piena di problemi strutturali. Mentre l’economia europea cresceva sopra il 2,5 per cento, come avvenuto in media tra il 2006 e il 2007, l’Italia cresceva solo dell’1,8 per cento. Durante la recessione del 2009, l’Europa registrerà un calo del Pil intorno al 2,5 per cento, mentre l’Italia arriverà a perdere più del 5 per cento del Pil. In altre parole, facciamo peggio della media europea sia quando le cose vanno bene sia quando vanno male. Il motivo è appunto legato ai nostri problemi strutturali.

Avendo deciso di lasciare operare il bilancio per inerzia, il governo in autunno avrebbe l’occasione di mettere mano ad alcune delle grandi riforme strutturali. Queste riforme non richiedono necessariamente risorse economiche, ma grande volontà politica. La riforma degli ammortizzatori sociali dovrebbe essere la prima. Il ministro Tremonti sostiene che in mezzo alla crisi l’urgenza non è quella di una riforma sociale, bensì quella di non lasciare indietro nessuno e trovare le risorse per rifinanziare la cassa integrazione. In questo modo non si rischia però di lasciare indietro i milioni di lavoratori precari che non hanno accesso alla cassa integrazione? Se davvero non si vuole lasciare indietro nessuno, non sarebbe necessario riordinare gli ammortizzatori e introdurre un sussidio unico indipendentemente dal tipo di contratto e dalla dimensione di impresa?

Sempre per non lasciare indietro alcun lavoratore, il governo potrebbe poi introdurre un salario minimo nazionale. Sarebbe un modo di sostenere i lavoratori più poveri, e al tempo stesso facilitare il decentramento della contrattazione, un tema molto discusso durante l’estate e che ha anche ricevuto importanti aperture da tutti i sindacati. La compartecipazione dei lavoratori agli utili, un tema rilanciato in questi giorni, è senz’altro un tema affascinante, ma una priorità strutturale sarebbe facilitare la contrattazione aziendale e il legame tra salari e produttività. La crisi ci ha infine ricordato che il tema delle pensioni non può essere accantonato. Nel mese di agosto la commissione tecnica del ministero ha ricordato che soltanto con una crescita del Pil del 2 per cento la spesa pensionistica potrà essere controllata. Altrimenti sarà destinata a crescere in modo incontrollato.

I nodi strutturali da affrontare non mancano, come purtroppo non sembrano mancare periodi in cui cresciamo sotto la media europea. I due problemi - la bassa crescita e i nodi strutturali - sono intrinsecamente legati e affrontando il primo si risolverà anche il secondo. La politica economica autunnale non può dimenticarsi del legame tra i due fenomeni.

pietro.garibaldi@unito.it
da lastampa.it
« Ultima modifica: Novembre 14, 2009, 11:02:27 am da Admin » Registrato
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« Risposta #19 inserito:: Ottobre 16, 2009, 12:26:12 pm »

16/10/2009

Non basta uno sportello
   
PIETRO GARIBALDI


Il governo ha deciso di creare una banca del Sud destinata a finanziare progetti. E’ una sfida non priva di rischi. Il più grande problema del Mezzogiorno è la mancanza di buoni investimenti. E non è affatto chiaro se una volta creata una banca meridionale avremmo davvero migliori investimenti nel Mezzogiorno. In aggiunta, si rischia di creare nuovo debito pubblico.

Anche se il Mezzogiorno è forse la parte più bella del Paese, è una terra in cui il contesto generale poco si addice ad assumere rischi imprenditoriali. Innanzitutto vi è un ben noto problema di criminalità organizzata. Vi è poi una pubblica amministrazione largamente inefficiente e una cronica mancanza di infrastrutture. Questi tre elementi rendono l’attività imprenditoriale e gli investimenti nel Mezzogiorno più rischiosi rispetto al resto del Paese. Non a caso, questo specifico rischio meridionale si manifesta oggi in un costo del credito nel Mezzogiorno superiore a quello del Nord del Paese. Per cercare di risolvere la cronica mancanza di investimenti meridionali, il governo vuol creare una banca del Sud. Secondo le prime indicazioni, lo Stato dovrebbe essere soltanto promotore del progetto, con l’obiettivo di uscire completamente, dopo un primo periodo, dalla struttura proprietaria del nuovo istituto. Sembra poi che si utilizzerà la rete delle Banche locali di credito cooperativo e le quasi quattromila filiali delle Poste nel Mezzogiorno, anche se i dettagli del progetto sono ancora tutti da determinare.

Dal punto di vista dei mercati finanziari, una nuova banca può essere un modo per aumentare la concorrenza nel sistema finanziario. Deve però trattarsi di una banca che effettivamente opera con gli stessi vincoli e gli stessi criteri applicati al resto del sistema bancario. Se la banca dovesse invece vivere grazie a sussidi dallo Stato, diventerebbe un elemento distorsivo alla concorrenza. Fortunatamente, i vincoli europei agli aiuti di Stato dovrebbero limitare questo rischio. Si deve poi evitare che la banca diventi un modo per trovare un posto di lavoro statale. In altre parole, non si vuole un nuovo carrozzone di Stato. Infine, per riuscire a finanziare investimenti nel Mezzogiorno a condizioni migliori di quanto fatto dal resto del sistema, la banca del Sud dovrà essere particolarmente efficiente nel selezionare i progetti che meritano credito. Ci vorrà quindi il meglio dell’imprenditoria italiana.

Lo Stato ha anche deciso di creare obbligazioni di scopo destinate a finanziare progetti meridionali. Queste obbligazioni, che potranno essere sottoscritte da tutti i risparmiatori italiani, dovrebbero servire non solo a finanziare gli impieghi della nuova banca del Mezzogiorno, ma potranno essere emessi anche da altri intermediari finanziari. Se questi titoli saranno effettivamente garantiti dallo Stato, come sembra dalle prime indicazioni, saranno del tutto assimilati a debito pubblico. Anche da questo punto di vista, si tratta quindi di una decisione rischiosa, in quanto sappiamo bene che a causa della crisi il debito pubblico è tornato ai livelli del 1992 ed è una delle cause principali della procedura di infrazione che l’Europa ha iniziato nei confronti dell’Italia.

Il benessere e il recupero di produttività del Mezzogiorno sono interesse di tutti gli italiani. La vera priorità dovrebbe essere quella di creare le condizioni affinché gli investimenti nel Mezzogiorno diventino più convenienti. Anche se la banca del Sud dovesse alla fine funzionare, e tutti quanti ce lo auguriamo, i problemi di criminalità organizzata e mal funzionamento della pubblica amministrazione rimarranno come i principali problemi del Mezzogiorno. E per risolvere quelli ci vuole ben più di una banca.

pietro.garibaldi@unito.it
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« Risposta #20 inserito:: Novembre 14, 2009, 11:02:53 am »

14/11/2009

La nuova febbre dell'oro
   
PIETRO GARIBALDI


In questi mesi di leggera ripresa dell’economia reale, come testimoniato anche ieri dal dato Istat sulla crescita del pil italiano nel terzo trimestre, il mondo sta in realtà vivendo un’improvvisa e in parte schizofrenica febbre dell’oro. Nelle ultime settimane il prezzo dell’oro, il bene più infruttifero fra tutti i possibili investimenti, è salito di circa un terzo fino a 42 dollari al grammo. A fine agosto un grammo d’oro valeva poco più di 31 dollari mentre a novembre 2008, nel pieno della crisi finanziaria, veniva scambiato a soli 21 dollari. In altre parole, chi avesse comprato oro nel mezzo della tempesta finanziaria, oggi potrebbe tranquillamente rivenderlo avendo, nel frattempo, raddoppiato il proprio capitale.

La crescita del prezzo dell’oro e di quello di diverse altre materie prime non legate al settore energetico suscita da più parti stupore e preoccupazione, anche perché sta avvenendo in modo talmente rapido da essere quasi impossibile da giustificare. E’ antipatico dirlo, ma sembra quasi che il mondo finanziario globale stia mettendo i germi di una nuova bolla speculativa.

Le bolle finanziarie sono fenomeni economici difficilmente spiegabili dalla teoria economica, ma ben chiari all’immaginario collettivo nei loro drammatici effetti, specialmente nel momento in cui le bolle stesse si sgonfiano.

Come ci insegna la grande crisi finanziaria del 2008, la fine di una bolla non avviene attraverso un processo lento e graduale, quanto piuttosto attraverso un crollo dei prezzi repentino e devastante per gli investitori in possesso dei titoli sottostanti.

In realtà, come avviene in quasi tutte le bolle, la crescita del prezzo dell’oro di questi giorni si basa su un fondamento di razionalità economica. La politica economica e le principali banche centrali sono fortunatamente riuscite nei mesi passati, attraverso una straordinaria emissione di moneta, a evitare che la crisi finanziaria si trasformasse in una grande depressione dell’economia reale. L’immensa quantità di moneta e di liquidità oggi disponibile, tuttavia, dovrà a un certo punto essere tolta dal sistema. Il meccanismo attraverso il quale si riuscirà a ritirare dall’economia la massa monetaria immessa è parte essenziale della molto discussa exit strategy. Tuttavia, alle parole non seguono i fatti. Se la quantità di moneta immessa dovesse rimanere nel sistema, l’unica strategia d’uscita dalla crisi finanziaria rimarrebbe l’inflazione. E quando i prezzi dei beni sono destinati a crescere e la moneta di carta perde valore gli investitori corrono a proteggersi comprando oro o altri beni rifugio. Oltre al timore di inflazione negli anni a venire, vi sono altri fattori che spingono in alto il prezzo dell’oro. Vi sono gli acquisti di riserve d’oro da parte delle banche centrali asiatiche che cercano di convertire le immense riserve in dollari in riserve auree. Inoltre il mercato immobiliare e il mattone, un bene rifugio nell’immaginario collettivo, soffre ancora delle ferite della grande crisi del 2008. Infine, se la ripresa dovesse invece essere molto più debole del previsto, l’acquisto di oro rappresenta comunque una garanzia contro eventuali nuovi fallimenti.

Al di là della possibilità di interpretare il rialzo dell’oro, il vero problema rimane il rischio che il mondo finanziario riprenda sulla strada dei vizi degli anni passati. Appare incredibile parlare di una possibile bolla speculativa dodici mesi dopo la grande crisi finanziaria del 2008. Si è parlato a lungo di nuove regole finanziarie, ma in realtà quasi nulla è stato davvero fatto.

Nel 1929 la crisi finanziaria si trasformò in grande depressione, ma dopo quattro anni vennero poi introdotte nuove e importanti regole finanziarie, tra cui il famoso Glass-Seagal Act, che istituì l’assicurazione sui depositi negli Stati Uniti e impose una netta separazione tra banche di investimento e banche commerciali. Paradossalmente, con la crisi del 2009 siamo riusciti a evitare la grande depressione ma non siamo invece riusciti a introdurre nuove regole. E nel frattempo viviamo una nuova febbre dell’oro. Nella nuova corso all’oro forse il mondo dovrebbe cercare di imparare dai propri errori.

pietro.garibaldi@carloalberto.org
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« Risposta #21 inserito:: Dicembre 06, 2009, 11:13:13 am »

2/12/2009

Crescita all'italiana
   
PIETRO GARIBALDI


Un anno dopo la crisi finanziaria, la battaglia tra debito e crescita è al centro dell’economia mondiale, con ovvi riflessi anche nel dibattito di politica economica in Italia. Nei prossimi mesi, le prospettive economiche mondiali dipenderanno in larga parte dalle scelte governative.

Le più recenti previsioni di crescita per il 2010 del 9 per cento circa in Cina, del 6 per cento e più in India e del 3 per cento circa negli Stati Uniti fanno ben sperare.

Suggeriscono come, in diverse parti del mondo, la crescita potrebbe avere la meglio sul debito. Rallegrandoci per queste previsioni, non dobbiamo però dimenticare che negli Stati Uniti, in Cina e in India il ritorno alla crescita è in larga parte alimentato da notevoli stimoli di politica economica messi in atto durante la fase più acuta della crisi. Inoltre, in tutti e tre i Paesi ricordati, gli aumenti di spesa pubblica e i tagli di imposta sono stati finanziati da imponenti aumenti di debito pubblico. Nel 2009, il disavanzo pubblico negli Stati raggiungerà la cifra monstre del 13 per cento del Pil e, come conseguenza, il debito pubblico federale supererà presto il Pil. Ma come ci insegna la storia economica dei grandi «rientri» dal debito pubblico, l’unico modo credibile per ripagare imponenti espansioni fiscali rimane quello della crescita. In quest’ottica, le robuste previsioni di Cina, India e Stati Uniti fanno sperare che, almeno da quelle parti del mondo, la crescita possa spuntarla sul debito.

Negli stessi giorni in cui si elaboravano queste incoraggianti previsioni, una crisi di debito negli Emirati Arabi ci ha ricordato quanto fragile sia in realtà la situazione finanziaria mondiale. La richiesta di moratoria unilaterale dei 59 miliardi di debito emessi da Dubai World, un fondo sovrano degli emiri che pareva famoso per la sua solidità, ha scatenato il panico in tutti i mercati finanziari mondiali. Le banche occidentali, a parte forse quelle inglesi, paiono in realtà poco esposte verso il debitore degli emiri e i motivi di panico non sembrano totalmente giustificati. Tuttavia, le poche e opache informazioni finanziarie disponibili su queste istituzioni continuano a deprimere i listini di Borsa del Medio Oriente. La crisi di Dubai dovrebbe almeno servire per ricordare al mondo e alle autorità di politica economica che la battaglia sul debito potrà essere vinta soltanto se si metterà mano ad alcune regole di funzionamento dei mercati finanziari. Quando correvano i tempi peggiori della crisi, si è parlato per mesi e mesi di introdurre limiti più stringenti alla possibilità di indebitamento di varie istituzioni finanziarie. Nulla è stato ancora fatto. Speriamo che la tempesta degli emiri riporti davvero queste riforme all’ordine del giorno delle politiche economiche dei principali Paesi occidentali.

A ben guardare, la difficile battaglia tra crescita e debito si sta giocando anche in casa nostra. Le previsioni di un modesto ritorno alla crescita per il 2010 sono certamente una buona notizia, ma non possiamo dimenticare che con una crescita dello 0,5 per cento annuo il Paese riuscirà a tornare al livello di reddito pre-crisi - quello che avevamo nel 2007 - soltanto tra più di dieci anni. Rispetto alla maggior parte degli altri Paesi, l’Italia negli ultimi due anni ha scelto di non approvare significativi stimoli di politica economica. La scelta, in parte obbligata, è più che altro legata all’imponenza del nostro debito pubblico che, non dimentichiamolo, con la crisi è tornato ai livelli più elevati di sempre in rapporto al prodotto interno lordo.

La Finanziaria in discussione in questi giorni alla Camera non cambierà la linea di politica economica degli ultimi anni, nonostante vari ministri abbiano cercato di dare una scossa all’economia in chiave di «sviluppo», una parola che nel nostro gergo di politica economica significa quasi sempre maggiore spesa e quasi mai tagli di tasse. Proprio per questo motivo, tendo a diffidare dalle politiche di «sviluppo» all’italiana. Sono politiche che, da almeno vent’anni, finiscono per aumentare ulteriormente la spesa pubblica, che tra l’altro ha ormai ampiamente superato il 50 per cento del Pil, senza alcun effetto sulla nostra crescita potenziale. Tuttavia non credo che l’Italia possa accontentarsi di aspettare che la tempesta passi e che la crescita del resto del mondo ci tiri, in qualche modo, fuori dalla patologia della crescita zero virgola. Alla lunga, nel nostro Paese la battaglia tra crescita e debito si potrà vincere solo attraverso un efficace programma di riforme strutturali che dovranno inevitabilmente diminuire la spesa e cambiarne la composizione, oggi troppo sbilanciata verso le pensioni e altre spese improduttive. Anche in Italia, affinché la crescita possa vincere la battaglia sul debito, si dovrà a un certo punto combattere.

pietro.garibaldi@carloalberto.org

da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Dicembre 18, 2009, 04:35:20 pm »

18/12/2009

Generazione a rischio sconfitta
   
PIETRO GARIBALDI


Mentre i segnali di ripresa per il 2010 fortunatamente si intensificano, dal lato dell’occupazione l’onda lunga della recessione si sta abbattendo a piena forza sul mercato del lavoro.

I dati sull’occupazione del terzo trimestre sono davvero brutti e mostrano chiaramente che le categorie più colpite dall’onda lunga della recessione sono i giovani e il resto dei lavoratori precari. Il vero rischio è che in Italia si stia per perdere un’intera generazione, come già avvenuto in Giappone durante la grande crisi degli Anni 90. In questi anni i giovani lavoratori italiani sono entrati sul mercato del lavoro con minori tutele, con più bassa probabilità di ricevere formazione professionale e con salari, a parità di istruzione e altre condizioni, più bassi. Ora che è arrivata la grande crisi, a pagarne le conseguenze sono ancora loro.

A livello di intero Paese, un calo di mezzo milione di posti di lavoro in un anno non si vedeva dal 1992. In quel terribile anno l’Italia, nel mezzo di Tangentopoli e di drammatiche stragi, registrò per la prima volta dal dopoguerra un calo dei consumi aggregati. Il peggioramento rispetto a quel terribile anno è spiegabile. All’inizio degli Anni Novanta per ridurre l’occupazione era necessario licenziare, una pratica difficile e odiosa per tutti i datori di lavoro. Oggi, viceversa, è sufficiente non rinnovare alla scadenza un contratto a termine o a progetto. Non stupisce quindi che tra il mezzo milione di posti di lavoro persi, 220 mila siano concentrati tra i lavori a termine e altri 150 mila tra i lavoratori autonomi, dove si ritrovano i contratti a progetto, l’esempio più clamoroso di lavoratori precari. Tra l’altro, nelle inchieste dell’Istat, 40 lavoratori su cento dichiarano che nella sostanza il loro progetto non esiste e che svolgono semplicemente un lavoro subordinato. Non credo che si debba tornare alle rigidità del 1992 e che sia stato un errore introdurre varie forme di lavoro flessibile in Italia. L’incredibile crescita di posti di lavoro che abbiamo registrato tra l’inizio del decennio in corso e l’arrivo della recessione, è avvenuta proprio grazie a quella flessibilità e all’opportunità delle imprese di inserire in azienda giovani lavoratori in via sperimentale.

Durante la grande recessione stiamo però scoprendo l’altra faccia della medaglia della flessibilità introdotta. Il vero problema è che a subire le conseguenze della grande recessione sull’occupazione sono principalmente i giovani. Il tasso di disoccupazione giovanile è passato dal 18 % del 2008 al 27 % degli ultimi mesi. Non è vero, come spesso si sente dire, che la disoccupazione giovanile ha pochi effetti sulla vita lavorativa. È invece vero che chi inizia male sul mercato del lavoro avrà per tutta la vita salari più bassi e minori opportunità occupazionali. Alcuni studi per diversi Paesi lo hanno chiaramente dimostrato. Uno studio inglese ha addirittura dimostrato che una prolungata disoccupazione giovanile può avere effetti sulle condizioni di salute di lungo periodo.

Il Paese non può permettersi di perdere un’intera generazione. La risposta più strutturale al problema del dualismo italiano sarebbe forse quella di introdurre un contratto unico a tutele progressive e crescenti, in modo da dare ai giovani una prospettiva di lungo periodo, mantenendo al tempo stesso alle imprese la possibilità di sperimentare l’adeguatezza dei nuovi assunti. Sarebbe una riforma senza alcun costo per le casse dello Stato. Introdurre un salario minimo nazionale, che tra l’altro esiste nella maggior parte dei paesi avanzati, sarebbe una seconda coraggiosa riforma per ridurre la precarietà. Anche questa senza alcun impatto sulla spesa pubblica. Il sussidio di disoccupazione per i giovani, viceversa, avrebbe un costo per le casse dello Stato, ma sarebbe comunque una riforma doverosa. Di queste e altre idee di riforma si è in realtà parlato in questi giorni in commissione lavoro al Senato. Ma ai centinaia di migliaia di giovani che hanno perso il lavoro, e che fanno fatica a trovarne uno nuovo, una seria discussione politica non è sufficiente. Hanno diritto a risposte concrete.

pietro.garibaldi@carloalberto.org
da lastampa.it
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