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Autore Discussione: PIETRO GARIBALDI  (Letto 12763 volte)
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« inserito:: Aprile 12, 2008, 11:13:54 am »

12/4/2008
 
La crisi tra banche e consumi
 
PIETRO GARIBALDI

 
La riunione del Fondo Monetario Internazionale da oggi a Washington non poteva avvenire in un momento più appropriato. Il Fondo Monetario, creato a Bretton Woods dopo la seconda guerra mondiale per favorire il coordinamento delle politiche economiche internazionali, sembrava in questi anni in grave crisi. Negli ambienti finanziari internazionali si parlava apertamente della morte del Fondo Monetario, un’istituzione troppo piccola per avere un ruolo in un’economia globale in continua espansione. La crisi mondiale del credito può invece permettere al Fondo Monetario di rinascere, perché in questi giorni è evidente che l’economia globale non riesce a fare a meno di grandi istituzioni multilaterali e di un attento coordinamento delle politiche economiche.

La situazione più difficile è quella degli Stati Uniti. Dopo la fase di grandi svalutazioni bancarie e di difficoltà del credito, la crisi americana è ormai passata dai salotti finanziari di Wall Street al consumatore americano di Main Street. Il tasso di disoccupazione è cresciuto oltre il 5 per cento a marzo e il settore privato americano ha visto una contrazione di posti di lavoro per quattro mesi di fila. I prezzi delle case, spinti per quasi dieci anni da una spirale di credito facile e bassi tassi di interesse, sono già scesi di almeno il 10 per cento; nei prossimi mesi si rischia un’ondata di vendite forzate di case occupate da consumatori vicini alla bancarotta e con un mutuo da ripagare ben superiore al valore della stessa casa.

La politica economica americana non è certamente stata immobile di fronte alla crisi. La Federal Reserve ha abbattuto i tassi d’interesse fino al 2 per cento e la crisi delle banche pare in parte superata grazie a un vero e proprio salvataggio pubblico. Con la decisione della Federal Reserve di scambiare mutui subprime e altri prodotti di credito strutturati ormai senza mercato con titoli di Stato americani, stiamo assistendo a un intervento diretto dell’autorità monetaria per ripulire i bilanci delle banche. Il Tesoro americano, a sua volta, sta discutendo di un nuovo stimolo fiscale e di un piano straordinario per le abitazioni, in modo da evitare la liquidazione forzata delle case occupate dai debitori non più in grado di pagare il mutuo. Tutto questo senza dimenticare il crollo del dollaro. Anche se è troppo presto per dire se queste misure permetteranno di superare la crisi, è evidente che le munizioni stanno finendo e al Tesoro e alla Federal Reserve non resta che cercare un attivo coordinamento con il resto dell’economia globale.

Anche se in Europa non godiamo di buona salute, la situazione è meno drammatica. Nell’area dell’euro la crisi del credito non ha fatto vittime. Alla luce della recente crisi del credito, dobbiamo essere fieri di avere un sistema bancario certamente meno sofisticato di quello americano, ma in questo momento indubbiamente più solido. Il rallentamento dell’economia globale ha però colpito l’Europa, e per il 2008 si prevede un tasso di crescita di poco superiore all’1 per cento. Le difficoltà in Europa sono principalmente di natura strutturale e sono legate alla sua scarsa capacità innovativa e alla sua bassa crescita della produttività. Oltre alla bassa crescita, l’Europa deve però affrontare anche una crescente inflazione, trainata dai continui rialzi dei prezzi delle materie prime e dei beni alimentari. La banca centrale europea ha fino ad ora lasciato invariati i tassi d’interesse e non ha ancora usato le proprie munizioni. Il problema del governatore Trichet, che ben ha gestito la crisi di liquidità in questi mesi, appare essere il tradizionale dilemma dei banchieri centrali tra sostegno alla crescita con bassi tassi e lotta all’inflazione con tassi più elevati. In questa situazione, un coordinamento delle politiche economiche per la crescita sarebbe indubbiamente di grande beneficio per l’Europa.

Il resto dell’economia mondiale e la Cina in particolare, nonostante l’impressionante crescita, non possono ignorare le difficoltà altrui. Dopotutto, l’impressionante crescita cinese dipende in larga misura dalle sue esportazioni verso l’Europa e gli Stati Uniti. Una prolungata recessione in Europa e Stati Uniti finirebbe per avere pesanti conseguenze anche in Cina e in India. Non a caso, al G7 di ieri a Washington hanno partecipato anche i rappresentanti dei Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa). La difficile situazione globale e la necessità di coordinamento globale possono paradossalmente finire per dare un nuovo ruolo all’Europa nell’economia finanziaria globale. Perché il sistema finanziario e bancario dell’area euro si è rivelato molto più forte di quanto si potesse immaginare e perché il Fondo Monetario rimane guidato dal direttore francese Strauss-Kahn, un tecnico con una grande esperienza politica alle spalle. Speriamo davvero che l’Europa riesca a essere all’altezza e a cogliere questa importante opportunità. Potrebbe essere l’ultima.

 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Maggio 18, 2009, 05:01:10 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 24, 2008, 01:00:13 am »

23/5/2008
 
  
PIETRO GARIBALDI
 

Nel primo discorso da presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia ha chiaramente sostenuto che il Paese, nonostante le difficoltà economiche, è di fronte a un nuovo e irripetibile scenario. Il neopresidente ha anche elogiato i primi provvedimenti governativi in materia fiscale. A sua volta, il ministro dello Sviluppo economico ha annunciato il ritorno dell’Italia al nucleare, rispondendo quasi immediatamente a una delle richieste degli industriali. Sembra proprio un nuovo fidanzamento tra governo e industriali, lontano anni luce dalle critiche e distanze di questi ultimi tempi.

Anche nei rapporti tra industriali e sindacati potrebbe aprirsi una fase nuova. Nelle scorse settimane le tre confederazioni sindacali hanno presentato un documento comune per la riforma del sistema contrattuale. Il presidente della Confindustria ha messo tra i primi posti nell’agenda del suo mandato la riforma dei contratti. Si tratta di un’importante assunzione di responsabilità. Così come le riforme istituzionali spettano al Parlamento, la riforma del sistema contrattuale spetta alle parti sociali.

Per far ripartire la crescita, obiettivo prioritario di governo e parti sociali, occorre aumentare la produttività. Un passo decisivo in questa direzione sarebbe un nuovo sistema di relazioni industriali, in modo da rafforzare il legame tra salari e produttività a livello di singola azienda. È un modo per attrarre lavoratori nelle imprese che hanno maggiori potenzialità di crescita e per permettere un migliore inserimento nel mondo del lavoro di donne, giovani e immigrati. Legare salario e produttività aiuterebbe anche a ridurre la disoccupazione nel Mezzogiorno, dovuta anche a salari più alti che al Centro-Nord in rapporto alla produttività e al costo della vita.

Le parti sociali, nei mesi passati, hanno spesso chiesto un intervento fiscale che facilitasse il decentramento della contrattazione. Non deve quindi stupire il pubblico riconoscimento dato da Confindustria e da una parte del sindacato al governo per la detassazione sugli straordinari e sulla parte variabile del salario. In realtà, la detassazione introdotta è un intervento di modesta portata, sperimentale e largamente simbolico. Il governo ha infatti inserito diversi vincoli alla sua attuazione. La detassazione non si applicherà agli individui che hanno percepito nel 2007 un reddito superiore ai 30 mila euro e avrà comunque un limite massimo di 3000 euro per ciascun individuo. Certamente non si è approvato un provvedimento che va verso la semplificazione legislativa, uno dei problemi strutturali del Paese.

Con l’approvazione del decreto fiscale, ora è il momento delle parti sociali. Perché nonostante gli importanti segnali, le distanze esistono e sono sostanziali. Innanzitutto perché i sindacati assegnano ancora un peso rilevante alla contrattazione nazionale. In aggiunta, i sindacati ritengono che l’apertura al decentramento debba avvenire attraverso un rilancio della contrattazione territoriale. Viceversa, i rappresentanti dei datori di lavoro considerano la contrattazione territoriale un sistema controproducente, in quanto rischia di introdurre un terzo livello di negoziazione, oltre a quello nazionale e a quello di impresa.

Il vero nodo riguarda il mondo delle piccole imprese, dove non sono presenti i sindacati e dove la contrattazione aziendale non può avere luogo. Come si può garantire un contratto legato alla produttività anche ai dipendenti delle piccole imprese senza appesantire il sistema di un terzo livello di negoziazione? Non è impossibile. Basterebbe stabilire a livello nazionale, settore per settore, una regola che leghi il salario all’andamento della produttività aziendale. Per quanto una regola di questo tipo possa apparire rigida, rappresenterebbe comunque un compromesso tra due posizioni altrimenti inconciliabili.

La vera sfida per le parti sociali è davvero la riforma delle relazioni industriali. Il negoziato, che deve ancora entrare nel vivo, sarà lungo e faticoso. Un buon rapporto tra governo e parti sociali, come quello di questi giorni, dovrebbe aiutare a raggiungere un vero accordo e a concludere un’importante riforma. In palio vi è il recupero di produttività e il rilancio del Paese.

pietro.garibaldi@carloalberto.org

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« Ultima modifica: Ottobre 09, 2011, 05:09:37 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 03, 2008, 12:20:42 pm »

3/9/2008
 
Sindacati, la doppia partita d'autunno
 
 
PIETRO GARIBALDI
 
Per i sindacati italiani l’autunno che abbiamo davanti si appresta a essere caldo. In gioco non è solo qualche rivendicazione salariale o qualche minaccia di sciopero. In gioco è invece il ruolo stesso dei sindacati nella società italiana dei prossimi anni. In questi giorni i sindacati sono infatti impegnati in due trattative molto diverse e molto delicate. Da un lato il negoziato sugli esuberi della ex Alitalia. Molti commentatori definirono una Caporetto del sindacato il giorno in cui Air France abbandonò la trattativa per l’acquisto di Alitalia. Vedremo come si svilupperà la nuova trattativa. Per la produttività del Paese è però più importante il secondo tavolo su cui sono in questi giorni impegnati i sindacati. È il tavolo della riforma del sistema contrattuale. Il sindacato ha l’occasione per dimostrare al Paese di essere una grande forza riformatrice.

L’aumento estivo dell’inflazione e il rallentamento della crescita economica hanno posto la difesa del potere d’acquisto dei salari al centro delle preoccupazioni di milioni di lavoratori. La ripresa del negoziato tra le parti sociali è quindi certo una buona notizia. I dati sugli aumenti salariali fino a luglio sono fortunatamente confortanti. Anche grazie al rinnovo di alcuni importanti contratti dei servizi, l’aumento medio è risultato pari al 4,3%, poco superiore all’inflazione di agosto, confermata al 4%.

Alla luce di questi dati, la vera emergenza non è la perdita del potere d’acquisto dei salari, quanto piuttosto la bassa crescita reale dei salari e dell’intera economia.

Per contribuire al rilancio della produttività, sindacati e Confindustria si sono formalmente impegnati a concludere la riforma delle relazioni industriali entro il 30 settembre. All’inizio dell’estate alcuni passi avanti nel negoziato sono stati fatti, ma i due nodi del negoziato stanno venendo al pettine. Innanzitutto vi è il problema di quale livello di inflazione si deve prendere come base di riferimento per negoziare i futuri aumenti contrattuali. L’inflazione programmata all’1,7 per cento stabilita dal governo a luglio in sede di programmazione economica è oggettivamente irrealistica alla luce di un’inflazione effettiva stabilmente vicina al 4 per cento. Per superare lo stallo occorre guardare all’Europa e prendere come àncora di riferimento l’obiettivo di inflazione della Banca Centrale Europea, fissato al 2 per cento nei regolamenti ufficiali. Il secondo nodo del negoziato riguarda il peso da dare alla contrattazione aziendale. La Confindustria vorrebbe spostare la determinazione dei salari a livello di impresa in modo da legare salario e produttività in ogni azienda. I sindacati sono in principio d’accordo, ma molto più cauti. Da un lato sono preoccupati di perdere un ruolo di primo piano in tutte le scelte importanti del Paese. Da un altro lato, e in modo molto più condivisibile, sono preoccupati di tutelare i lavoratori delle piccole imprese dove non esiste una rappresentanza formale dei lavoratori. Il negoziato non sarà quindi facile.

Il governo, dal canto suo, dovrebbe lavorare per un mercato del lavoro in cui le regole valgono per tutti i lavoratori, indipendentemente dalla dimensione dell’azienda e dal settore di provenienza. L’esecutivo ha scelto a giugno di detassare in via provvisoria gli straordinari e i recuperi di produttività. Personalmente considero questo provvedimento discutibile, anche perché non semplifica la contabilità e l’amministrazione aziendale e non va incontro alla necessità di aumentare l’offerta di lavoro femminile. La detassazione degli straordinari ha però trovato il consenso di tutte le parti sociali e rappresenta comunque una riduzione di pressione fiscale. Anche per facilitare il negoziato sulla riforma del sistema contrattuale, è opportuno che con la prossima finanziaria il governo chiarisca in via definitiva il destino di questo provvedimento. Per quanto discutibile, la detassazione degli straordinari rimane infatti un provvedimento che riguarda l’intera economia e gli interessi di milioni di lavoratori di piccole e grandi aziende.

Il rilancio del Paese richiede davvero uno scatto d’orgoglio delle parti sociali. L’insuccesso delle due trattative in corso rischierebbe di portare il sindacato, già oggi in uno stato di chiara difficoltà, verso un lento e inesorabile declino. Uno scenario che non vorremmo nemmeno considerare.

pietro.garibaldi@carloalberto.org
 
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 28, 2008, 07:47:56 pm »

28/10/2008
 
Tra cassa e precari

 
PIETRO GARIBALDI
 
Mentre la Borsa continua a crollare, le preoccupazioni di tecnici e politici si spostano sull’economia reale. Dai mercati finanziari la crisi è infatti destinata a colpire le decisioni di imprese, consumatori e lavoratori. I primi segnali di crisi sono già evidenti, come testimoniato dal calo della produzione industriale e della forte riduzione della fiducia dei consumatori. Il repentino aumento del numero di imprese che accedono alla cassa integrazione, denunciato in questi giorni anche dal sindacato, rappresenta un ulteriore e significativo campanello d’allarme. Tra qualche mese inizieranno a vedersi i primi licenziamenti. Una priorità quasi assoluta dovrebbe quindi essere quella di riordinare gli ammortizzatori sociali.

Con l’arrivo dei licenziamenti, i primi a essere colpiti saranno i circa quattro milioni di lavoratori precari. È inevitabile. Quando un contratto è a tempo determinato, per interrompere un rapporto di lavoro non è necessario passare per il licenziamento. È sufficiente che un’impresa non rinnovi il contratto alla scadenza. Lo stesso discorso, addirittura amplificato, si applica ai lavoratori impiegati con un contratto a progetto.

Paradossalmente, i lavoratori che saranno più colpiti dall’arrivo della crisi appartengono a quella crescente fascia di lavoratori che già oggi hanno una retribuzione inferiore alla media e che non hanno accesso a ferie pagate e a maternità. Tutelare questi lavoratori dovrebbe essere una priorità. I lavoratori a tempo indeterminato delle grandi imprese sono in larga parte coperti. In caso di crisi aziendale, da una grande impresa si accede alla cassa integrazione straordinaria e, nel caso di licenziamento, si accede alle liste di mobilità, con protezione al reddito fino a tre anni. I sette anni di sostegno al reddito promessi ai lavoratori in esubero di Alitalia sono ancora sotto gli occhi di tutti.

Certamente le risorse a disposizione del governo sono poche. È comprensibile che il ministro Sacconi cerchi di rifinanziare la cassa integrazione straordinaria e i cosiddetti settori in deroga (quei settori industriali che il Ministero ritiene di dover proteggere). È anche comprensibile che il segretario della Cgil Guglielmo Epifani ricordi le poche risorse a disposizione della cassa integrazione (ma al tempo stesso non dovrebbe dimenticarsi dei lavoratori precari). Nel Paese circa 4 milioni di lavoratori rischiano di diventare dei disoccupati senza alcuna forma di sostegno, o con al più un sussidio di disoccupazione ordinario inferiore a sei mesi.

Non possiamo affrontare la recessione in arrivo con disoccupati di serie A e disoccupati di serie B, dove soltanto ai primi è concesso il privilegio di un sostegno al reddito. Il riordino degli ammortizzatori sociali dovrebbe quindi essere al centro dell’azione del governo. Agendo ora si può arrivare preparati in primavera, quando inevitabilmente arriveranno i primi licenziamenti. La legge delega per riformare gli ammortizzatori sociali esiste già e potrebbe diventare esecutiva in tempi brevi. L’Italia ha urgente bisogno di introdurre un sussidio unico di disoccupazione a cui si accede indipendentemente dal tipo di contratto con cui si è stati impiegati. Questo nuovo istituto dovrebbe ovviamente essere finanziato dai contributi versati da tutti i tipi di contratto, inclusi quelli a tempo determinato e a progetto. Si dovrebbe poi introdurre anche un meccanismo di bonus-malus, in modo da aumentare i contributi al fondo di disoccupazione per quelle imprese che lo utilizzano maggiormente. Si potrebbe inoltre anche decidere di aumentare i contributi assicurativi alle imprese che utilizzano i contratti a termine, in modo da disincentivarne l’uso generalizzato.

Battersi per riforme di questo tipo giustificherebbe manifestazioni e cortei. Se ne parla invece pochissimo, forse semplicemente perché i lavoratori precari sono poco organizzati e poco a contatto con Partiti politici e sindacati confederali.

pietro.garibaldi@carloalberto.org
 
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 04, 2008, 06:04:07 pm »

4/11/2008
 
Per evitare una vera depressione
 

PIETRO GARIBALDI

 
Dopo il crollo dei mercati finanziari dello scorso ottobre, non si deve più guardare al 1929, ma al 1933. Il fallimento della Lehman Brothers e la caduta della Borsa del 20% in un solo mese, sono catastrofi finanziarie paragonabili al crollo di Wall Street dell’ottobre del 1929. La vera sfida è ora evitare di passare dalla crisi finanziaria alla grande depressione. Il punto di riferimento è il 1933, l’anno in cui la disoccupazione negli Stati Uniti raggiunse il 25% (era intorno al 5% nel 1929) e il prodotto interno lordo arrivò a perdere il 50% del valore che aveva quattro anni prima.

Abbiamo ottime possibilità di evitare una vera depressione. Le previsioni economiche pubblicate ieri dalla Commissione europea non sono certamente buone, ma non hanno nulla a che fare con uno scenario da depressione. Per l’Italia si prevede una crescita zero sia nell’anno in corso che nel 2009, con una prima ripresa già nel 2010. Rispetto al resto dell’Europa dei 15, rimarremo tra le economie più deboli, insieme con Spagna e Irlanda.

Non può ovviamente bastare la lettura delle previsioni della Commissione europea per scongiurare uno scenario di depressione. La vera differenza tra la situazione di oggi e quella d’inizio degli Anni 30 è nelle scelte di politica economica. In quegli anni le autorità monetarie accumularono una serie imperdonabile di errori.

Dopo il crollo della Borsa del 1929 la politica monetaria negli Stati Uniti si fece più restrittiva, con aumenti dei tassi d’interesse e riduzione della quantità di moneta in circolazione. La corsa agli sportelli e i fallimenti di diverse banche furono la tragica conseguenza di quegli errori. A differenza di allora, la risposta delle autorità di politica economica è stata in queste settimane imponente. Negli Stati Uniti si è approvata una misura di sostegno al sistema finanziario per 700 miliardi di dollari e numerose istituzioni, sull’orlo del fallimento, sono state nazionalizzate. In quasi tutti i Paesi europei le banche sono state ricapitalizzate. Anche in Italia vi è stata una disponibilità immediata dello Stato a entrare nel capitale delle banche e in questi giorni è allo studio un nuovo provvedimento. Anche la politica monetaria si è mossa in senso opposto a quanto accadde negli Anni 30. La Federal Reserve americana ha nuovamente abbassato i tassi di interesse dello 0,5% la scorsa settimana; la Banca Centrale Europea ha già ridotto i tassi d’interesse e gli operatori si aspettano un’ulteriore riduzione per questa settimana.

Sommando tutti questi provvedimenti, lo scenario di lieve recessione previsto dalla Commissione europea appare sia ragionevole che condivisibile. Data l'entità del crollo finanziario, se effettivamente nel 2010 avremo già la ripresa, possiamo interpretare le previsioni della Commissione europea come una buona notizia. Tuttavia, se continuiamo a paragonare la situazione dei giorni nostri con i tragici Anni 30, dobbiamo evidenziare un’importante differenza. Nel 1932, dopo la serie di errori sopra descritti, con l’elezione di Roosevelt alla Casa Bianca gli Stati Uniti diedero luogo a un immenso programma di spesa pubblica e una crescita massiccia dello Stato sociale. Un programma di quella portata, anche se domani dovesse vincere Barack Obama, non è più realizzabile per l’aumento del debito pubblico americano.

Un grosso aumento di spesa pubblica non è certamente realizzabile nel nostro Paese. L’aumento del differenziale tra i tassi sul nostro debito pubblico e quello tedesco, un fenomeno osservato in questi giorni, è un campanello di allarme per ricordarci quanto la situazione dei nostri conti pubblici sia delicata e quanto irrealizzabile sia, nel nostro Paese, un grande aumento di spesa pubblica. Lo scontro di questi giorni tra il ministro dell’Economia, intento a difendere i conti pubblici, e i vari ministri della spesa non è un bello spettacolo. L’Italia ha una serie di problemi strutturali, nella pubblica amministrazione, nel sistema fiscale, nel mercato del lavoro, nel sistema educativo che tutti conoscono. Se in Europa si deciderà di permettere ai Paesi di sforare temporaneamente il 3% di disavanzo, è bene che in Italia lo si faccia solo ed esclusivamente per risolvere i problemi strutturali. Perché al di là della crisi i problemi strutturali dell’Italia ci sono e devono essere risolti. I più urgenti sono il riordino degli ammortizzatori sociali e una completa riforma della scuola.

pietro.garibaldi@carloalberto.org
 
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« Risposta #5 inserito:: Novembre 25, 2008, 12:34:23 pm »

25/11/2008
 
Impossibile accontentare tutti
 
PIETRO GARIBALDI

 
Questa settimana il Consiglio dei ministri si appresta a varare un pacchetto di misure economiche per sostenere il Paese durante la recessione. L'insieme di interventi è stato ieri sera illustrato a Palazzo Chigi dal governo alle parti sociali. In momenti difficili e con poche risorse a disposizione, cercare di accontentare tutti è impossibile.

Sarebbe forse meglio scegliere una o due priorità da portare avanti con determinazione. Dall'incontro di ieri sembra invece che il governo, nonostante l'enfasi sugli aiuti alle famiglie più povere, stia cercando di distribuire poche risorse tra tutte le parti sociali. È una strategia che rischia di rivelarsi inefficace.

Il governo pare intenzionato a mettere a disposizione circa 4 miliardi di euro tra riduzione d’imposte e aumenti di spesa pubblica. Una cifra indubbiamente modesta, pari a meno di quanto produce il Paese in un giorno qualsiasi. Per le finanze pubbliche significa portare il disavanzo del 2009 leggermente sopra il 3%. Uno stimolo di queste dimensioni non potrà certamente invertire lo scenario macroeconomico italiano, che rimarrà quindi negativo per tutto il 2009

Dal punto di vista qualitativo, il governo sta cercando di aiutare sia i lavoratori che le imprese. Alle famiglie meno abbienti verranno destinati circa 1,2 miliardi di euro; alle imprese circa 2 miliardi di euro e alla riforma degli ammortizzatori fino a 1 miliardo. Più in dettaglio, le famiglie meno abbienti riceveranno immediatamente, e forse già prima di Natale, un assegno tra i 150 e gli 800 euro. Se effettivamente queste risorse saranno assegnate in contanti, si potranno trasformare immediatamente in consumi. Tuttavia sembra anche che gli aiuti saranno una tantum, nel senso che non verranno ripetuti in futuro. In una situazione di grande incertezza e in mezzo a una recessione, gli aumenti straordinari e non rinnovabili di reddito disponibile rischiano di trasformarsi in un aumento del risparmio, senza alcun beneficio sulla capacità di spesa degli italiani. Gli altri aiuti alle famiglie sono tutti di modesta entità.

Guardando al mondo delle imprese, il governo pare invece intenzionato a prorogare il bonus sugli straordinari. In altre parole, intende prorogare per tutto il 2009 l’aliquota sostitutiva al 10% per gli straordinari e il premio di produttività. Questa misura era stata introdotta nella scorsa primavera con il plauso di tutte le parti sociali. La situazione economica è però totalmente cambiata.

Innanzitutto, durante la recessione l’uso dello straordinario diminuisce in modo significativo. Inoltre, il provvedimento era in gran parte legato alla riforma del modello contrattuale da portare a termine dalle parti sociali stesse. Sappiamo bene che quella riforma è attualmente in mezzo al guado e non si vede quindi l’urgenza di confermare un sostegno a una riforma che non arriva. Tra le altre azioni in aiuto alle imprese spicca la riscossione dell’Iva per cassa, molto gradita alle piccole imprese e probabilmente appropriata in un momento di scarsa liquidità. Le aggiuntive risorse destinate alle infrastrutture corrispondono invece a semplici, ma importanti, smobilizzi di risorse già stanziate in passato.

Con le poche risorse a disposizione, la vera priorità del Paese sarebbe stata quella di una vera e propria riforma degli ammortizzatori sociali. La Cgil ha in questi giorni stimato che circa mezzo milione di lavoratori perderanno il lavoro entro Natale. Con più di tre milioni e mezzo di lavoratori precari, si tratta di una stima ragionevole. Inoltre, è molto probabile che molti di questi contratti avranno una scadenza naturale associata alla fine dell’anno. La maggior parte dei lavoratori atipici, e in particolare i lavoratori a termine e quelli a progetto con un solo contratto, rischiano d’iniziare l’anno senza il rinnovo del loro contratto e senza alcuna forma di sostegno al reddito. Una situazione inaccettabile.

I lavoratori più a rischio, con l’arrivo della recessione, sono proprio i precari. Sarebbe quindi necessario introdurre un sussidio unico di disoccupazione applicabile a tutti i tipi di contratto, includendo anche i lavoratori a progetto con un solo contratto e una sola fonte di reddito. Questo sussidio dovrebbe essere finanziato da un contributo fiscale applicabile su tutti i contratti. Sarebbe una riforma strutturale, cosa di cui l’Italia ha sempre bisogno, come ci ha ricordato in modo impietoso la classifica sulla competitività elaborata ieri dall’Economist. Rimarrebbe peraltro il problema di come finanziare il sussidio di disoccupazione da destinare al mezzo milione di potenziali nuovi disoccupati. I quattro miliardi di euro di cui abbiamo parlato basterebbero certamente. Per fare una riforma di questo tipo servirebbero però coraggio e capacità d’individuare priorità, qualità che non abbiamo visto ieri sera nell’incontro tra governo e parti sociali.

pietro.garibaldi@carloalberto.org
 
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« Risposta #6 inserito:: Dicembre 03, 2008, 08:32:27 am »

3/12/2008
 
Manovra, primo passo
 
PIETRO GARIBALDI

 
La politica economica europea è apparsa in questi giorni alquanto confusa. Al tradizionale incontro autunnale tra ministri delle Finanze, i principali Paesi europei si sono presentati in ordine sparso. Da un lato la Francia e l’Inghilterra spingevano per una politica economica europea di tagli fiscali e imponenti aumenti di spesa pubblica. Dall’altra parte la Germania ha invece confermato la sua tradizionale posizione rigorista, mostrandosi totalmente contraria a un massiccio rallentamento dei vincoli di Maastricht e a grandi iniziative fiscali su scala europea. Ciò che è uscito dall’incontro è quindi solo un mezzo tentativo di dar vita a una vera e propria politica economica europea e un’autorizzazione ai singoli Paesi a sforare, seppure temporaneamente, i vincoli di Maastricht.

In questa confusione il governo italiano non ha trovato opposizioni al decreto anticrisi approvato dal nostro Consiglio dei ministri la scorsa settimana.

Il provvedimento del governo porterà il disavanzo dell’Italia nel 2009 leggermente sopra il 3 per cento.

Uno sforamento considerato accettabile in sede europea, nonostante il debito pubblico italiano continui a essere ben superiore al prodotto interno lordo.

Mentre il ministro dell’Economia Tremonti è riuscito a difendere il quadro italiano di finanza pubblica, gli interventi proposti non saranno certamente sufficienti a contrastare una crisi galoppante. Come stimato in questi giorni su lavoce.info, entro il prossimo dicembre scadranno circa 300 mila contratti a termine e la maggior parte di questi lavoratori non avrà alcuna protezione, al di là dei simbolici 60 euro al mese approvati la scorsa settimana. In aggiunta, i quaranta euro mensili promessi dalla Social card sono troppo pochi e quasi certamente non andranno ai lavoratori precari. Il ministero dell’Economia ieri ha poi confermato che il blocco delle tariffe previsto dal decreto non riguarda gas, luce e autostrade, come erroneamente descritto da molti nei giorni passati. Gettando lo sguardo su un orizzonte più ampio, la Cisl sempre ieri ha stimato che nei prossimi 12 mesi quasi un milione di lavoratori rischierà di perdere il proprio lavoro. Con 4 milioni di lavoratori precari e la maggior parte delle grandi aziende in crisi, la stima del sindacato appare ragionevole.

In un quadro che appare davvero difficile, un filo di speranza può venire a questo punto solo dalla politica monetaria. A novembre i prezzi al consumo sono addirittura diminuiti e il petrolio sta continuando la sua corsa al ribasso. Più che di inflazione, molti economisti in Europa iniziano a preoccuparsi di deflazione, una situazione in cui i prezzi al consumo diminuiscono in modo generalizzato. In queste condizioni, la Banca Centrale Europea non avrà più alibi per astenersi dal ridurre ulteriormente e in modo significativo i tassi d’interesse europei. La loro riduzione di un punto, già dall’incontro di giovedì prossimo, potrebbe rappresentare un importante stimolo al sistema economico europeo e italiano, stimolo che purtroppo non potrà venire dal pacchetto fiscale approvato lo scorso venerdì.

Le munizioni a disposizione della politica economica sono purtroppo poche, ma lo spazio di manovra della Banca Centrale Europea ci lascia un filo di speranza. In un contesto economico chiaramente difficile, la speranza potrebbe generare fiducia, con possibili effetti positivi sulla capacità di spesa degli italiani. Se anche queste munizioni dovessero invece sparare a salve, i colpi in canna rimarrebbero davvero pochi.

pietro.garibaldi@carloalberto.org
 
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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 12, 2008, 11:42:25 am »

12/12/2008
 
Non è un paese per giovani
 
 
 
 
 
PIETRO GARIBALDI
 
Lo sciopero generale indetto oggi dalla Cgil riflette un’immagine vecchia del Paese. Sia ben chiaro, lo sciopero è e deve rimanere uno dei diritti fondamentali dei lavoratori, tutelato dalla stessa Carta Costituzionale. Ma le manifestazioni di stamane per rivendicare maggiori risorse ai pensionati, una nuova politica dei redditi e più infrastrutture daranno un’immagine del Paese da Anni Settanta. Serve di più al Paese uno sciopero generale indetto da uno solo dei sindacati o una grande iniziativa congiunta per risolvere davvero il problema del precariato? Io non ho dubbi. Invece di uno sciopero vecchio vorrei vedere una durissima, ma nuova, mobilitazione del Paese per dare davvero un ammortizzatore sociale a tutti i lavoratori precari e al tempo stesso introdurre un nuovo contratto di lavoro a tutela crescente. Le soluzioni tecniche ci sono e i sindacati lo sanno benissimo, ma evidentemente preferiscono utilizzare la logica del «più» e «subito».

La mancanza di una mentalità da giovane la si trova non solo tra i sindacati, ma anche in alcune scelte governative. Imporre limiti più elevati e rigorosi alle emissioni inquinanti avrà certamente dei costi nel breve periodo. Questi costi saranno più alti per Italia e Germania, due Paesi con una quota di industrie inquinanti superiore alla media europea. Ma i benefici nel lungo periodo saranno certi. Si avrà un’aria più pulita e si potrà anche sprigionare la corsa a investire risorse e talenti in nuovi settori emergenti, quali quelli della diffusione delle fonti rinnovabili. La minaccia del governo italiano di porre il veto al vertice europeo sulle emissioni inquinanti riflette la paura e la mancanza di voglia di investire nel futuro.

Anche nella stessa università, il luogo dove si formano i giovani e i cervelli di domani, sembra prevalere troppo spesso la mentalità dei meno giovani. Distribuire le risorse statali tra le università in base alla qualità della ricerca, invece che soltanto in base al numero degli studenti come avviene oggi, richiederebbe per molti atenei dei costi nel breve periodo. Tuttavia i benefici nel lungo periodo per il Paese, in termini di aumento della ricerca prodotta dalle nostre università, dovrebbero essere chiari a tutti. Eppure fino ad ora questa riforma non è stata fatta, anche se a parole sembrano tutti favorevoli.

Il Paese è ormai in una vera e propria recessione. I dati diffusi ieri dall’Istat ci hanno confermato che nel terzo trimestre dell’anno la produzione in Italia si è ridotta dell’uno per cento. La recessione può anche essere il momento delle grandi ristrutturazioni, come ci ha insegnato Schumpeter. L’Italia ha spesso dimostrato che nei momenti peggiori riesce a fare le cose più impensabili.

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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 14, 2008, 12:21:35 pm »

14/12/2008
 
La buona parità
 
PIETRO GARIBALDI

 
Gli interventi legislativi sul mercato del lavoro devono evitare discriminazioni basate sulle differenze di sesso. Nell’attuale sistema pensionistico l'età pensionabile si raggiunge per gli uomini circa cinque anni dopo le donne. L'obiettivo di ridurre queste disuguaglianze è condivisibile e si deve pertanto avere il coraggio di correggere queste differenze. Un intervento di questo tipo non può e non deve invece essere giustificato dalla necessità di fare cassa, ma deve essere inserito in un più ampio progetto di riforma.

I difensori di un’età pensionabile inferiore per le donne ricordano che queste hanno quasi sempre una vita lavorativa discontinua, interrotta da lunghi periodi di maternità. Dunque è necessario compensare le donne. È un ragionamento sbagliato. Le interruzioni legate alla necessità di crescere i figli devono essere compensate con programmi di protezione. Gli interventi legislativi non devono avere nulla a che fare con una diversa età pensionabile. In Italia il sostegno alla maternità, sommando quella volontaria e quella obbligatoria, è quantitativamente adeguato. Il vero problema è un altro: i periodi di maternità sono goduti quasi sempre dalle madri e quasi mai dai padri. Una coppia moderna dovrebbe dividersi i periodi di assenza. Bisognerebbe uguagliare l’età pensionabile e incentivare gli uomini a prendere la paternità, non regalare alle donne 5 anni di pensione in più. La proposta di Brunetta dovrebbe essere accompagnata da un incentivo fiscale alla paternità, come da tempo suggerito da Boeri e Galasso.

A favore dell’adeguamento dell’età vi è poi un fattore demografico. Le donne hanno una speranza di vita superiore: a parità di età pensionabile una donna godrà della pensione per più anni. Se dovessimo prendere seriamente questa differenza, sarebbe paradossalmente necessaria un’età pensionabile superiore per le donne. L’ostilità dei sindacati alla proposta Brunetta è esagerata. Sappiamo che quasi metà degli iscritti al sindacato sono pensionati, e che i sindacati difendono i loro iscritti. Sostengono che ogni cambiamento dell’età deve avvenire sulla base d’incentivi, non imposto per legge. Insomma, si dovrebbero offrire benefici alle donne che rimangono al lavoro oltre l’età pensionabile attuale. Gli incentivi sono già stati sperimentati dal governo di centrodestra a inizio decennio. Abbiamo imparato che rischiano spesso di trasformarsi in un regalo a chi avrebbe comunque continuato a lavorare. La tendenza all’uguaglianza tra uomini e donne è tra l’altro un fenomeno europeo. In Germania è già avvenuta, in Francia Sarkozy l’ha annunciata. È anche vero che quando la transizione verso il sistema a capitalizzazione sarà completata, ciascuno andrà in pensione quando vorrà. Ma la transizione durerà più di 15 anni.

L’innalzamento dell’età pensionabile dovrebbe comunque essere graduale. L’uscita dal lavoro è una decisione molto delicata, e i cambiamenti richiedono un il giusto tempo di reazione. Un aumento di un anno nei prossimi cinque sarebbe già uno scalino ripido. Nello stesso tempo, si dovrebbe però introdurre l’incentivo alla paternità. Sarebbe un segnale credibile di voler davvero ridurre le disuguaglianze.

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« Risposta #9 inserito:: Gennaio 04, 2009, 10:29:17 am »

4/1/2009
 
I conti in rosso
 
PIETRO GARIBALDI
 

Il Fondo Monetario Internazionale, tradizionalmente visto come il paladino della finanza pubblica rigorosa, ha recentemente esortato in modo ufficiale i singoli paesi ad affrontare la recessione con una politica fiscale espansiva. In altre parole, ha chiesto ai singoli ministri delle Finanze di ridurre le tasse o di aumentare la spesa pubblica, in modo da contrastare gli effetti della recessione. Rispetto all’impostazione tradizionale del Fondo Monetario, si tratta indubbiamente di un’importante novità, probabilmente influenzata dalla visione del suo direttore francese. Ad ogni modo, l’esortazione del Fondo aiuta a comprendere quanto la crisi in atto sia seria e pericolosa.

Da una prima lettura dei dati del fabbisogno di cassa del settore statale, si potrebbe pensare che in Italia sia oggi in atto una politica fiscale espansiva. Rispetto al 2007, il fabbisogno di cassa del tesoro ha quasi raggiunto i 53 miliardi di euro, un livello doppio rispetto al fabbisogno registrato nel 2007. Il peggioramento era in parte atteso, anche se per trovare un livello di fabbisogno simile si deve tornare al 2005, l’anno in cui l’Italia iniziava la procedura di infrazione con Bruxelles. Alla luce di questi primi dati di cassa, è molto probabile che già nel 2008 l’Italia finirà per registrare un disavanzo intorno al 3 per cento, anche se per avere il dato definitivo, quello che riguarda l’intera pubblica amministrazione e quindi rilevante ai fini dei parametri del patto di stabilità, occorrerà aspettare fino a marzo.

Più che per scelte precise di politica economica, il peggioramento in atto è però frutto della crisi economica. I conti pubblici italiani e il gettito fiscale in particolare, sono molto sensibili all’andamento del ciclo economico. Tra il 2007 e il 2008 la crescita economica è passata dal 1,5 per cento a una probabile zero per cento, una diminuzione ben superiore alle aspettative. Con una struttura della spesa pubblica che è quasi indipendente dal ciclo economico, il disavanzo italiano peggiora sempre quando l’attività economica rallenta e le entrate diminuiscono.

Rispetto al monito del Fondo monetario internazionale, è però difficile sostenere che l’Italia abbia davvero messo in atto una politica fiscale espansiva. Il ministro dell’Economia ha durante l’autunno più volte respinto le richieste dei ministri della spesa. Gli stessi interventi inseriti nel decreto fiscale sono stati indubbiamente di modesta entità.

Guardando al 2009, il vero rischio è che l’Italia si trovi con una situazione dei conti pubblici delicata senza aver davvero messo in atto una politica fiscale espansiva. Certamente in Italia non è stato approvato un imponente stimolo fiscale, con significativi tagli di imposte e importanti decisioni in materia di infrastrutture, al di là della decisione di accelerare la messa in cantiere di opere pubbliche già approvate. Allo stesso tempo, tuttavia, non possiamo sostenere che in Italia vi sia stata una politica fiscale davvero rigorosa. I meccanismi principali della spesa non sono stati riformati, nonostante il governo abbia già approvato un quadro pluriennale di finanza pubblica.

Il 2009 si presenta quindi come un anno non facile. La recessione è destinata a intensificare e conseguentemente l’andamento delle entrate fiscali peggiorerà ulteriormente. Inoltre, i provvedimenti di sostegno all’economia approvati a novembre del 2008 produrranno i loro effetti nel 2009, peggiorando ulteriormente il disavanzo pubblico. Infine, il differenziale tra gli interessi del nostro debito pubblico e quelli sul debito tedesco continua a essere superiore ai 100 punti base, un livello mai raggiunto negli anni passati. Questo differenziale nei tassi di interesse ci aiuta a ricordare quanto pericoloso e imponente sia davvero il nostro debito pubblico. Siamo così in mezzo al guado, con un peggioramento dei conti pubblici in corso senza aver messo in atto vere e proprie politiche espansive. Ci aspettiamo quindi che nei primi mesi dell’anno la rotta di politica economica italiana diventi più chiara, anche perché i problemi e le debolezze della nostra finanza pubblica sono ancora tutti da risolvere.

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« Risposta #10 inserito:: Febbraio 26, 2009, 03:34:10 pm »

26/2/2009
 
Al lavoro per punire l'azienda
 
 
 
 
 
PIETRO GARIBALDI
 
L’ultimo sciopero dei dipendenti della vecchia Alitalia, nei giorni in cui l’azienda si trovava in amministrazione straordinaria e a un passo dalla bancarotta, aveva suscitato indignazione nell’opinione pubblica. Senza nemmeno i fondi per pagare i carburanti, la vecchia Alitalia perdeva di più quando gli aerei volavano rispetto a quando gli aerei restavano fermi.

In quelle condizioni, è evidente che l’interruzione del servizio non reca alcun danno economico alla controparte aziendale, ma reca invece un ingente danno a tutta la collettività. L’indignazione dell’opinione pubblica era effettivamente giustificata. Questa situazione paradossale, in cui lo sciopero finisce per recare un beneficio economico a un’azienda in perdita, è purtroppo una realtà molto diffusa in tutti gli scioperi dei trasporti pubblici essenziali, siano essi aerei, treni e servizi pubblici locali. Queste aziende operano strutturalmente in perdita e i loro bilanci spesso finiscono per migliorare grazie a un giorno di sciopero. L’elemento paradossale dello sciopero dei trasporti pubblici è proprio legato al fatto che il danno associato alla scelta dei lavoratori finisce per essere subìto interamente dagli utenti e dai consumatori, soggetti che non hanno nulla a che fare con il tavolo delle trattative aziendali.

A causa di queste anomalie, lo sciopero nei trasporti pubblici essenziali in Italia ha finito per essere uno dei più clamorosi esempi in cui il diritto di sciopero, che rimane un diritto fondamentale di ciascun lavoratore, ha perso in larga parte il significato originale, quello di causare un danno al datore di lavoro. Per mantenere il diritto di sciopero dei lavoratori, e al tempo stesso risolvere il paradosso, lo sciopero dovrebbe essere virtuale, nel senso che lo sciopero dovrebbe effettivamente essere proclamato, ma i lavoratori dovrebbero andare regolarmente a lavorare per garantire il servizio ai cittadini. In quest’ottica, è un fatto positivo che la bozza di disegno di legge delega sulla regolamentazione dei trasporti, che sarà presto esaminata dal Consiglio dei ministri, contenga un riferimento ben preciso allo sciopero virtuale. L’idea dello sciopero virtuale, lanciata alcuni anni fa da Pietro Ichino su lavoce.info, può davvero funzionare in modo semplice. I lavoratori in sciopero virtuale rinunciano effettivamente al loro stipendio e l’azienda, allo stesso tempo, paga il doppio o il triplo del costo del lavoro a un fondo per opere pubbliche. In questo modo l’azienda incorrerebbe davvero in un danno e i cittadini vedrebbero davvero garantito il loro servizio. Ci vorranno certamente mesi prima che in Italia si abbia uno sciopero virtuale e l’opposizione dei sindacati sarà probabilmente dura.

Un secondo elemento paradossale dello sciopero dei trasporti pubblici è il fatto che molto spesso tali scioperi vengono proclamati da sindacati con pochissima rappresentatività in azienda. In queste condizioni, pochi lavoratori di un’azienda di trasporto locale possono bloccare un’intera città. Per evitare questi paradossi, la legge delega contiene un elemento importante, in quanto sostiene che per proclamare uno sciopero nei trasporti sarà necessario un referendum consultivo preventivo obbligatorio. L’unica eccezione è quella che si tratti di sindacati che hanno più del 50% di rappresentatività. È molto probabile che su questa norma vi sia il parere positivo della Cgil, il sindacato largamente più importante sul luogo di lavoro. Sia lo sciopero virtuale che il criterio di rappresentatività per la proclamazione dello sciopero rappresentano elementi essenziali per un sistema di relazioni industriali più moderno nel campo dei servizi pubblici. La strada da fare perché tutto ciò diventi legge dello Stato e che venga poi attuata regolarmente è però ancora lunga. Dalla bozza di legge delega alla fine di «aquila selvaggia» manca certamente molto tempo, ma un passo avanti importante è stato fatto.

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« Risposta #11 inserito:: Aprile 05, 2009, 11:16:40 am »

4/4/2009
 
L'occasione di Epifani
 
La manifestazione di oggi della Cgil al circo Massimo non sarà come quella di un radioso sabato primaverile di sette anni fa, quando Sergio Cofferati riunì a Roma più di tre milioni di lavoratori in difesa dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Anche allora Berlusconi era presidente del Consiglio e la situazione economica, sei mesi dopo l’11 settembre, non era certamente favorevole. La situazione economica attuale è molto peggiore di quella del 2002.

La manifestazione di oggi avviene però in un momento in cui il maggior sindacato italiano è in un angolo, isolato dal Governo e dagli altri sindacati confederali e con un ambiguo rapporto con il principale partito dell’opposizione. Guglielmo Epifani, nel suo discorso al Circo Massimo, dovrebbe avere la forza e il coraggio di uscire dall’angolo, di rilanciare un progetto riformista e di dare una vera svolta alla politica sindacale italiana. La situazione economica è oggettivamente difficile. Questa settimana alla riunione del G20 sul lavoro anche il presidente del Consiglio ha ammesso che nei prossimi mesi la situazione del mercato del lavoro potrebbe notevolmente peggiorare.

In realtà, il tasso di disoccupazione ha tutto sommato tenuto, segnando un leggero aumento da 6,7 a 6,9 percento a fine del 2008. Nel primo trimestre del 2009 si è però registrato un grande aumento della cassa integrazione e per qualche mese ancora non conosceremo esattamente i dati relativi al primo trimestre dell’anno in corso, quando centinaia di migliaia di lavoratori precari potrebbero essere diventati disoccupati a causa di un contratto a termine scaduto a fine anno. Nonostante il contesto economico avverso, la situazione dei tre sindacati confederali non potrebbe essere più tesa.

A gennaio il Governo ha firmato un protocollo sul nuovo modello contrattuale, destinato ad aumentare il peso della contrattazione di secondo livello, senza l’accordo della Cgil. Il rinnovo dei prossimi contratti rischia di avvenire in una situazione caotica, con la Cgil che negozia secondo la vecchia piattaforma mentre gli altri sindacati seguono il protocollo firmato a gennaio. L’isolamento della Cgil ha poi subito un ulteriore colpo la scorsa settimana. I lavoratori della Piaggio, attraverso un vero e proprio referendum sul posto di lavoro, hanno accettato a maggioranza la proposta di accordo integrativo, nonostante il parere contrario dei metalmeccanici della Cgil. Per determinare l’esito del referendum pare sia stato decisivo il voto dei lavoratori precari.

Il risultato della Piaggio è davvero una Caporetto, perché la forza della Cgil si è sempre basata sulla presunzione di rappresentare la maggioranza dei lavoratori. Anche nel rapporto con l’opposizione, e con il partito democratico in particolare, la situazione del maggior sindacato è difficile. Insieme ai lavoratori sfileranno oggi alcuni degli ex democratici di sinistra, mentre non vi è un appoggio esplicito del partito democratico, anche se il segretario Dario Franceschini ha deciso all’ultimo di partecipare alla manifestazione. Molto probabilmente nel discorso di oggi Guglielmo Epifani chiederà più lavoro, più salari e più assistenza sociale. Un discorso e una rivendicazione di quel tipo non serviranno però a smuovere la Cgil dall’isolamento in cui si trova.

Una strategia alternativa ci sarebbe. Questa settimana, il senatore Ichino, insieme a 30 senatori di maggioranza e opposizione, ha presentato un ampio progetto di riforma del mercato del lavoro che riguarda sia il meccanismo di entrata nel mercato che una riforma degli ammortizzatori sociali. L’ampio progetto di riforma incorpora, tra l’altro, l’idea del contratto unico a tutela progressiva per tutti i nuovi assunti, un’idea discussa e proposta su queste colonne e su lavoce.info da diversi anni. La Confindustria ha già appoggiato ufficialmente quella proposta. Il ministro Sacconi ha invece espressamente detto che, qualora ci fosse un’ampia convergenza delle parti sociali, sarebbe più che disposto a confrontarsi sul progetto di riforma.

Se invece di chiedere solo lavoro e salari, Guglielmo Epifani mostrasse grande apertura verso il contratto unico, si potrebbe davvero aprire una nuova fase nel clima sociale del Paese. Sarebbe anche un segnale che, nei momenti di crisi, il Paese sa ancora compiere le riforme più difficili.

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« Risposta #12 inserito:: Aprile 27, 2009, 11:36:59 am »

27/4/2009
 
La grande occasione dell'euro
 
PIETRO GARIBALDI
 

Nonostante vi sia qualche primo e importante segnale di schiarita legato al rialzo delle borse, la riunione autunnale del Fondo monetario internazionale è avvenuta durante la «peggior recessione dell’economia mondiale», come esplicitamente riconosciuto dagli economisti di Washington. Fortunatamente, gli osservatori internazionali sono ormai convinti che quella che stiamo vivendo sarà ricordata come la grande recessione, ma non dovrebbe avere nulla a che fare con la grande depressione degli Anni Trenta.

La ripresa dell’economia è prevista a partire dal 2010 e in Europa già dal quarto trimestre di quest’anno. Con l’arrivo della ripresa, il nuovo panorama finanziario internazionale sarà caratterizzato da una forte riduzione del peso del dollaro. La stabilità dell’euro rappresenta una grande opportunità per l’Europa e vi sono le condizioni affinché l’euro diventi la moneta di riferimento del sistema mondiale. In altre parole, l’Europa potrebbe uscire dalla crisi molto più forte di come vi è entrata.

L’economia americana è afflitta da un eccesso di debito. Gli imponenti interventi del Tesoro degli Stati Uniti a difesa del sistema finanziario hanno certamente permesso alla banche americane di sopravvivere, ma vi è stato un trasferimento di vecchio debito privato in nuovo debito pubblico. Ciò nonostante, l’eccesso di debito Usa non è ancora stato eliminato.

Se effettivamente l’economia mondiale riuscirà a superare lo spettro della grande depressione, molto lo si dovrà all’imponente azione di politica monetaria. Nei mesi passati le banche centrali di tutto il mondo hanno ridotto in modo aggressivo il costo del denaro. La Federal Reserve, la banca centrale americana, è arrivata addirittura a prestare denaro a costo zero, il limite più basso a cui si possa arrivare. Anche i tassi di interesse in Europa sono diminuiti in modo sostanziale, ma la Banca Centrale Europea ha per ora evitato di arrivare a prestare denaro a costo zero. Il tasso di riferimento in Europa è oggi pari a 1,25% e il Governatore Trichet ha escluso che in Europa vi sia la necessità di abbassare i tassi di interesse fino allo zero.

Come ha anche suggerito questa settimana Martin Feldstein sulle colonne del Financial Times, la politica monetaria americana di denaro a costo zero avrà importanti conseguenze con l’arrivo della ripresa. La più ovvia si chiama inflazione. Una volta che la domanda riprenderà fiato, l’eccesso di moneta in circolazione non potrà che trasformarsi in inflazione. In aggiunta, attraverso l’aumento dei prezzi, l’economia americana riuscirà in parte anche a ridurre il problema dell’eccesso di debito. L’inflazione è un modo forse odioso ma comunque efficace per ridurre il valore reale del debito, dal momento che la restituzione del debito avviene con una moneta dal potere d’acquisto molto inferiore a quello che aveva nel momento in cui il debito stesso è stato contratto.

Questa futura grande inflazione americana avrà conseguenze globali. Pensiamo innanzitutto alla Cina. La banca centrale cinese ha oggi circa duemila miliardi di dollari di riserve in valuta estera. Il 70% di queste sono denominate in dollari. Se effettivamente avremo in futuro una grande inflazione americana, le banche centrali asiatiche rischiano di subire ingenti perdite nel valore delle proprie riserve estere. Un’ovvia possibilità per le autorità monetarie cinesi sarebbe quella di sostituire le riserve denominate in dollari con titoli finanziari denominati in euro. È questa la grande occasione per l’Europa. La condizione necessaria affinché ciò avvenga è però la stabilità dell’euro. Bene quindi ha fatto in questi giorni il Governatore Trichet a escludere che l’Europa adotterà nei prossimi mesi una politica di zero tassi di interesse. Mantenendo una politica monetaria rigorosa, non vi sarà una grande inflazione europea.

Ovviamente, anche in Europa la recessione è profonda e ulteriori interventi di politica economica potrebbero essere necessari. Se la crisi nei prossimi mesi dovesse peggiorare, meglio sarebbe che i governi europei si coordinassero per interventi di riduzioni di tasse o investimenti pubblici, piuttosto che ricorrere a una politica di zero tassi di interesse. L’occasione di vedere il vecchio continente al centro del sistema finanziario mondiale dei prossimi anni è troppo grande per lasciarsela scappare. È vero che questo favorevole scenario per l’Europa si apre più che altro per la debolezza americana. Ma la nascita dell’euro nel 1999 fu un miracolo di politica economica e la sua stabilità di oggi è una vera e propria virtù europea.

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« Risposta #13 inserito:: Maggio 17, 2009, 12:12:44 am »

16/5/2009

Il fardello pensioni
   
PIETRO GARIBALDI


Dalle previsioni di recessione siamo passati alle statistiche ufficiali. L’Istat ha ieri certificato che il primo trimestre dell’anno in corso ha registrato una riduzione del prodotto interno lordo su base annua pari a quasi il 6%. A questo punto è molto probabile che il 2009 sarà ricordato come il peggior anno della storia repubblicana. Alcuni settori dell’economia stanno utilizzando la recessione per mettere in atto imponenti ristrutturazioni.

L’industria automobilistica è forse il miglior esempio di come la recessione rappresenti il momento opportuno per mettere in atto grandi riforme. Il governo non sembra pensarla allo stesso modo, con l’eccezione del ministro Brunetta che sta cercando di far approvare un’importante riforma della pubblica amministrazione. Il ministro Sacconi, in particolare, ha dichiarato che la recessione non è il momento adatto per mettere in agenda una riforma delle pensioni e della disciplina dei licenziamenti, nonostante queste aree rappresentino importanti nodi strutturali del Paese.

Come dimostrano le ultime stime di finanza pubblica del ministero dell’Economia, i diversi problemi strutturali del Paese sono però ben presenti anche nel mezzo della recessione. Durante il 2009 il totale della spesa pubblica aumenterà di ben tre punti percentuali, passando dal 49,3 al 52,2% del prodotto interno lordo. In altre parole, il Paese uscirà dalla recessione con più di metà del proprio reddito impiegato dalla pubblica amministrazione. Leggendo con attenzione la Relazione Unificata dell’Economia e delle Finanze, si capisce che la parte più importante di questo incremento di spesa pubblica sarà proprio legato alla spesa pensionistica. Come mostrato su lavoce.info, dei 20 miliardi di aumento di spesa pubblica del 2009, 10 miliardi saranno imputabili alla spesa per pensioni.

Durante il periodo di peggior crescita della storia repubblicana, quando il reddito del Paese diminuirà di più del 4%, la spesa per pensioni aumenterà invece del 4%! La recessione determinerà quindi un ulteriore spostamento di risorse pubbliche verso la spesa pensionistica. Una politica immobilistica in materia previdenziale causa una redistribuzione di spesa perversa, poiché finisce per premiare proprio quelle aree che più di tutte le altre dovrebbero essere tenute sotto controllo. Certamente molti degli incrementi di queste spese non sono controllabili nel breve periodo, anche perché grossa parte dell’aumento di spesa previdenziale è legato alla dinamica della popolazione. Ma questa recessione deve farci riflettere seriamente sulla sostenibilità del regime attuale. Come riconosciuto dalla stessa Ragioneria Generale dello Stato, nei prossimi cinque anni solo una crescita del 2% sarà in grado di contrastare l’inarrestabile aumento della spesa pensionistica in proporzione al reddito a legislazione vigente.

Procrastinare interventi inevitabili non serve. Lo stesso libro bianco, pubblicato da pochi giorni dal ministro del Welfare, parla esplicitamente di un innalzamento progressivo dell’età pensionabile, anche se non rilascia alcun dettaglio sui tempi e sulle modalità di una riforma. Il ministro Sacconi è uno dei padri e sostenitori della riforma Maroni del 2005, quella riforma poi in parte annullata dal governo Prodi con la sostituzione del famoso «scalone» con una serie di «scalini» più morbidi. È vero che lo scalone della riforma Maroni forse comportava un aumento dell’età pensionabile troppo brusco, ma la prudenza di oggi del ministro Sacconi appare poco giustificabile.

Esistono diversi interventi legislativi in grado di controllare la crescita della spesa previdenziale dei prossimi anni senza introdurre grossi scossoni. Si potrebbe, ad esempio, indicizzare la spesa pensionistica all’andamento del monte salari, in modo da legare i redditi dei lavoratori pensionati alla dinamica dei redditi dei lavoratori attivi. Se il monte salario sale a un tasso inferiore a quello dell’inflazione, come probabilmente avverrà durante la recessione, non si vede perché i redditi dei pensionati debbano crescere più velocemente. Si potrebbe poi accelerare la transizione verso il sistema pensionistico a capitalizzazione, quello introdotto nel lontano 1995 dall’allora governo Dini e non ancora completamente a regime. In altre parole, affrontare i nodi strutturali del Paese è possibile, ma durante la recessione è un dovere.

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« Risposta #14 inserito:: Maggio 18, 2009, 05:02:04 pm »

18/5/2009 - ANALISI
 

Le retribuzioni basse sono lo specchio di un sistema in affanno
 

PIETRO GARIBALDI
 
Le classifiche economiche non sono mai divertenti, ma diventano preoccupanti quando riguardano la retribuzioni. Confrontando lo stipendio medio, l’Italia appare ormai vicinissima alla zona retrocessione. La retribuzione di un lavoratore italiano senza carichi familiari non raggiunge i 1400 euro al mese, ed è inferiore non solo a quello di Germania Francia e Gran Bretagna, ma anche a quello di Grecia e Spagna.

Questa volta non possiamo dare la colpa alla recessione, anche perché la crisi stessa colpisce con altrettanta intensità il resto dei paesi Ocse. Il basso livello delle retribuzioni è in realtà l’altra faccia della medaglia dei problemi strutturali del Paese. Come ricordato su queste colonne, i problemi strutturali sono visibili anche in recessione. Il dato sui salari lascia spazio a pochi dubbi e ci ricorda impietosamente che il primo problema strutturale dell’Italia si chiama bassa crescita.

L’Italia dal 1995 è sempre cresciuta sotto la media europea. Questo differenziale si è lentamente trasformato in una più bassa crescita delle retribuzioni - la crescita di queste ultime può essere sostenuta nel medio periodo solo da quella della produttività -. Quest’ultima, a sua volta, dipende da una somma di fattori che messi uno sull’altro finiscono per determinare il declino relativo di un Paese. Un sistema scolastico e universitario poco competitivo, un continuo ritardo nell’adeguamento delle infrastrutture, una pubblica amministrazione in larga parte inefficiente, un mercato del lavoro che divide protetti e non protetti, un sistema finanziario che penalizza piccoli risparmiatori e piccole imprese.

Un discorso a parte va fatto per la tassazione. In Italia la differenza tra il costo del lavoro sostenuto dalle imprese e il reddito netto dei lavoratori è tra le più alte al mondo. Questa differenza, chiamata cuneo fiscale, è infatti pari al 46,5 per cento. Se a un’impresa un lavoratore costa 100 euro, lo stesso lavoratore finisce per ottenere in busta paga soltanto 54,5 euro. Si tratta indubbiamente di una differenza impressionante, ma è bene ricordare che i lavoratori tedeschi hanno un cuneo fiscale decisamente superiore al 50 percento, ma percepiscono una retribuzione netta superiore. Un discorso simile vale per la Francia. Il confronto con Francia e Germania non significa che le tasse sul lavoro italiano non debbano essere ridotte, ma soltanto che il vero problema italiano è la bassa crescita e non solo le alte tasse. E poi c’è l’evasione fiscale. In Italia 2 lavoratori su dieci non pagano alcuna tassa. In un mercato di questo tipo opera quindi una concorrenza sleale che tende a comprimere verso il basso i salari delle imprese in regola. Una vera priorità per il Governo dovrebbe essere quella di ridurre questa concorrenza sleale. I più recenti dati sulle ispezioni suggeriscono invece che negli ultimi mesi vi è stato un’allentamento nei controlli fiscali sul posto di lavoro. Un dato preoccupante, anche perché tutti sappiamo che se si riducesse davvero il lavoro nero si potrebbe facilmente ridurre, nel medio periodo, anche la tassazione sul lavoro.

La riforma del sistema contrattuale, in modo da legare maggiormente salari e produttività, potrebbe a sua volta facilitare un incremento dei salari medi. Legare maggiormente salari e produttività faciliterebbe la riallocazione dei lavoratori verso i posti di lavoro più produttivi e, al tempo stesso, permetterebbe a giovani e donne di entrare nel mondo del lavoro. Sappiamo bene che la situazione è in pieno stallo, poiché una proposta di riforma è stata approvata da Confindustria Cisl e Uil senza la Cgil. Quando le forze sociali chiedono al Governo interventi urgenti, sarà importante ricordare loro che una vera e completa riforma del sistema contrattuale è altrettanto urgente.

Il ritorno alla crescita richiederà il contributo di tutti: imprese, parti sociali, Parlamento e soprattutto Governo. Sappiamo bene cosa è necessario fare. Se decidiamo di non farlo, non lamentiamoci se tra qualche anno le nostre retribuzioni scenderanno dal ventitreesimo al trentesimo posto.


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