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Autore Discussione: Alberto RONCHEY.  (Letto 18229 volte)
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« inserito:: Aprile 12, 2008, 11:08:46 am »

L’EUROPA E LA SERBIA

Balcani prossima sfida


di Alberto Ronchey


Dopo la conferenza di Bucarest, è rinviato se non accantonato il controverso progetto di estendere la Nato all’Ucraina e alla Georgia, che i russi considerano un provocatorio e intollerabile affronto. Ma rimane accesa nei Balcani la vertenza tra la Serbia, che Mosca protegge a oltranza, e l'indomabile Kosovo, che assistito in parte dai governi occidentali difende la sua proclamazione d'indipendenza.

Già il 17 marzo a Mitrovica, nel Kosovo di frontiera, una rivolta della minoranza serba investiva le forze di vigilanza Unmik (Onu) e Kfor (Nato) sulla sovranità kosovara. Ma ora, con le incombenti elezioni dell'11 maggio in Serbia, il governo di Belgrado vorrebbe mobilitare nel suo voto nazionale anche i serbi cittadini minoritari del Kosovo. Sarebbe una sfida contro il potere legale di Pristina, che potrebbe coinvolgere i governi sia favorevoli sia contrari all'indipendenza proclamata il 17 febbraio.

Come prevede qualche allarmato commento, l'11 maggio sarà forse the next flashpoint di quella vicenda conflittuale (l'Economist). Potrebbero seguire turbolenze prolungate o reciproche aggressioni, che l'Onu, la Nato e l'Ue peraltro discorde al suo interno dovrebbero fronteggiare. Come? Lo scenario è inquietante anche perché Belgrado persegue ora una strategia che tende alla spartizione del Kosovo, una secessione dalla secessione. Ai serbi Mitrovica Nord, i siti storici dei monasteri ortodossi e Kosovopolje, teatro della tragica battaglia del re Lazar contro i turchi nel 1380. Ai kosovari di ceppo albanese il resto di quella periferia balcanica.

Alla vigilia della prevista e temuta sfida fra Belgrado e Pristina, il 7 maggio a Mosca verrà celebrato lo scambio formale dei ruoli tra Vladìmir Putin e Dmitrij Medvedev. Saranno diarchi, o un monarca e il suo diadoco? Gli occidentali si domandano fino a quando in Russia potranno prevalere intenti esasperati nella tutela dei «fratelli slavi meridionali ». E' possibile una svolta moderata? La Russia può sorprendere con la tradizionale alternanza della sua diplomazia, ora rigida e ora duttile, al servizio della sua peculiare ideologia di potenza o velikoderzhavnost. Specialmente quando il contesto di ogni scelta è condizionato da fattori variabili, oggi forse a vantaggio dell'influenza russa nei Balcani.

La condizione del Kosovo separato dalla Serbia, ma vulnerabile alle rivolte interne dei serbi nell’area di Mitrovica, potrebbe favorire anche i separatismi fra i serbi della Bosnia e i croati dell'Erzegovina. Senza escludere ulteriori complicazioni, come in Romania un «effetto trascinamento» fra la minoranza ungherese di Transilvania.

Per l'Europa, finora poco influente oltreché discorde, non sembra facile condurre a buon fine il tentativo di placare Belgrado con sufficienti aperture all'ingresso della Serbia nell'Ue. Come segnala da tempo il Times di Londra, «l'Europa è stata sempre poco abile nel trattare con i serbi». Dovrebbe almeno tentare l'impresa oggi, mentre la vertenza fra Belgrado e Pristina può rivelarsi l'epicentro d'una cronicizzata e dirompente sismicità balcanica.

11 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Maggio 08, 2008, 06:57:38 pm »

PRIMARIE FRATRICIDE

La carta di McCain

di Alberto Ronchey


Fra le apprensioni diffuse per l'avversa congiuntura economica e la crisi dei mutui subprime, tempi torbidi nella campagna presidenziale degli Stati Uniti. Si ripetono controversie quanto mai esasperate su ogni questione, ormai, tra Barack Obama e Hillary Clinton. Dopo le sfide nell'Indiana e nel North Carolina, è prevedibile che il conflitto tra «Obamaworld» e «Hillaryland » sarà caratterizzato da crescenti aggressività reciproche fino alle primarie di giugno, se non fino alla Convenzione di Denver in agosto. Ma è anche prevedibile che il duello tra gli antagonisti dello stesso partito potrà favorire da ultimo lo spregiudicato conservatore John McCain, già considerato trionfatore nel suo partito per la Convenzione di Minneapolis a settembre.

Certo McCain, benedetto da Bush, dovrebbe superare l'impopolarità del suo sponsor dopo i cinque anni di guerra in Iraq. Secondo uno studio analitico d’una docente di Harvard, Linda Bilmes, quell'impresa è costata finora 3 mila miliardi di dollari (The three trillion dollar war). Secondo i calcoli dell'economista Joseph Stiglitz, l'onere finanziario della guerra senza fine sarebbe anche maggiore. Più che uno sponsor, Bush per McCain può rivelarsi un gravoso «albatro sul collo». In simili circostanze, il candidato ricorre a giudizi mutevoli e spesso incoerenti. Ora dichiara che rinunciare al presidio iracheno è impossibile, ora invece depreca i danni subiti anche dal prestigio della superpotenza e aggiunge dinanzi al World Affairs Council: «Non possiamo farci guidare solo dal nostro potere... Non possiamo fare tutto quello che vogliamo quando vogliamo.

Dovremo prestare più ascolto ai nostri alleati...». Ma conclude, come numerosi elettori, che la guerra in Iraq non consente per ora una realistica exit strategy. Contro McCain viene sollevato anche l'argomento età, 72 anni. Troppi per la Casa Bianca? Lui potrebbe rispondere che Ronald Reagan, eletto nel 1981 a settant'anni, fu presidente fino all'89. Ma preferisce ironizzare: «Sono più vecchio della Terra, ho più cicatrici di Frankenstein...». Poi presenta in pubblico sua madre, 95 anni e tuttora energica. Ma l'argomento al quale si affidano i suoi estimatori è che nessun altro può vantare una simile biografia, in guerra e in pace. Il veterano sopravvissuto al Vietnam, dopo cinque anni e mezzo di prigionia e torture, può anche ricordare i suoi venticinque anni di attiva esperienza parlamentare malgrado l'invalidità. Ma si discute su vicende personali che propagano simpatie, più che motivi di consenso politico.

Nell'ipotesi che il duello tra Obama e Hillary si riveli «fratricida» fino alla Convenzione di Denver o quasi, potrebbe insorgere un candidato di riserva, finora oscuro, «l'incappucciato alla festa». Ma chi? Potrebbe rimanere sul campo effettivo della campagna elettorale, malgrado tutto, solo McCain, che però dovrebbe vincere in troppi Stati decisivi come California, New York, Texas, Michigan, Pennsylvania, Ohio, New Jersey, Florida. E' verosimile? I dubbi e le incerte aspettative connotano fermenti e imprevedibili stati d'animo di quella composita società. Lo scenario elettorale non consente pronostici, almeno finora. Persino gli inglesi, che scommettono sempre su tutto, questa volta si astengono.

08 maggio 2008

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 02, 2008, 11:48:39 am »

NAZIONALISTI CONTRO EUROPEISTI

Il paradosso della Serbia


di Alberto Ronchey



Una strenua contesa è in corso all'ombra del castello fortificato di Kalemegdam, sul promontorio alla confluenza tra il Danubio e la Sava, che sovrasta Belgrado. L'urto è motivato sia da interessi di potere contrastanti sia da valutazioni differenti sullo scenario politico internazionale. Slavisti e ultranazionalisti contro moderati e liberali, serbi russofili contro tendenziali europeisti. Nello stesso tempo, si cronicizza in quell'angolo della Balcania il groviglio conflittuale sul Kosovo indipendente.
Gli ultrà di Tomislav Nikolic, assecondati dal governo di Vojislav Kostunica, esasperano la vertenza tra Belgrado e Pristina come capitale sovrana del Kosovo. Invece Boris Tadic, che presiede la repubblica di Serbia, sollecita una mediazione dell'Europa occidentale mentre spera di condurre i suoi connazionali nell'Ue. I risultati elettorali dell'11 maggio in Serbia segnalano che Tadic guida lo schieramento maggiore, ma la somma dei voti raccolti da Nikolic e Kostunica può consentire una coalizione di pari entità, quali che siano i tentativi transitori di formare comunque un governo.


Per assurdo, l'11 maggio pare che abbiano votato utilizzando propri seggi anche i serbi nelle loro comunità minoritarie del Kosovo. Poiché si trattava di elezioni parlamentari e amministrative indette dalla Serbia, quell'episodio ha esacerbato ancora la sfida contro il governo di Pristina e il Kosovo indipendente dal 17 febbraio. Gli osservatori e le truppe dell'Unmik — Onu — hanno preferito non intervenire, dopo la drammatica esperienza degli scontri già subiti qualche tempo fa. In un simile contesto, quale funzione può assolvere l'Ue? Il 29 aprile Tadic e i suoi collaboratori, convenuti a Lussemburgo, stipulavano un accordo con gli europei come primo passo verso l'ammissione della Serbia nell'Ue. Ma quell'intesa veniva contestata subito da Kostunica e da quanti si oppongono a qualsiasi transazione compromissoria sul Kosovo, malgrado l'impegno internazionale a garantire non pochi diritti per le minoranze dei serbi che risiedono in quel territorio.


La strategia di alcuni agitatori serbi tende a una controsecessione, la separazione del Kosovo tra la popolazione minoritaria d'origine slava e quella di ceppo albanese. Soluzione praticabile? Le gerarchie ortodosse, a cominciare dal patriarca, favoriscono con le loro prediche l'esasperazione degli animi. L'Onu e l'Ue tentano invece di placare Belgrado, anche se tuttora è irrisolta la questione dei latitanti Mladic e Karadzic, non catturati né consegnati alla Corte internazionale dell'Aja come protagonisti della spietata «pulizia etnica» negli anni di Milosevic.


Mentre i più esaltati nazionalisti serbi accusano di tradimento e minacciano lo stesso presidente Tadic, l'intricata e agguerrita vertenza sul Kosovo dunque si cronicizza. La lunga dissoluzione della Jugoslavia, troppo composita per conservarsi unita senza un potere dispotico a Belgrado, non raggiunge ancora l'epilogo. Prima Belgrado aveva perduto la Slovenia, la Croazia, la Macedonia e la Bosnia-Erzegovina, poi anche il Montenegro e l'accesso al mare. Oggi non solo i serbi combattono l'indipendenza del Kosovo, ma si dividono in opposte fazioni anche tra loro. È un estremo paradosso nella turbolenta storia dei Balcani. Sarà un caso, magari, se Kalemegdam in lingua turca significa «campo di combattimento»?

31 maggio 2008

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 22, 2008, 12:23:56 pm »

I NODI DELLA CRISI ITALIANA
Il dissesto di un paese


di Alberto Ronchey


Prevedeva Leonardo Sciascia: «Andremo sempre più a fondo senza mai toccare il fondo». Ma forse, ora s'è toccato il fondo. Si può risalire? Per troppo tempo la politica italiana s'è dedicata a schermaglie di schieramento fra partiti e a contese ideologiche, trascurando i termini del generale dissesto. Fra i dati primari, oltre il debito pubblico e l'arretratezza delle infrastrutture, sarebbero da catalogare numerose questioni eluse finora, troppe. E chi se ne lamentava non era l'opposizione, ma la famosa voce nel deserto. Voce che allora ha provato e oggi ancora prova stanchezza.

Anzitutto, l'importazione d'energia, gas, petrolio, elettricità come quella dei reattori nucleari francesi, raggiunge o supera l’80% del consumo. In Italia un chilowattora costa il 32% più della media europea. La ricerca di fonti energetiche alternative ha raggiunto finora scarsi risultati. Nel 1987 qui fu respinto il ricorso al nucleare, fra timori e fobie, ma oggi che il governo annuncia un piano d'avvio in cinque anni di centrali «ultima generazione» è avversato da numerosi contestatori, con varie motivazioni. Fra l'altro l'obiezione che forse, a strutture ultimate, saranno solo di «penultima generazione ».

Sull'incapacità di smaltire i rifiuti urbani a Napoli e dintorni si legge in una biografia di Antonio Bassolino, già sindaco della città e poi presidente della Regione: «Qui la "munnezza" è come una piaga biblica... Si sono combattute vere guerre guerreggiate tra le ditte aspiranti agli appalti per la rimozione con la regia della camorra...» (Rizzoli, 1996). Più che fatalismo, forse impotenza per timore del ricorso a repressioni rischiose contro le turbolenze che tuttora si ripetono intorno alle discariche, nell'attesa di termovalorizzatori come quelli che in Germania smaltiscono a caro prezzo i rifiuti urbani di Napoli, otto in Renania-Westfalia (Corriere, 23 maggio).

Ancora una questione gestita con imprevidenza, benché fosse non poco ardua, rimane quella dell' immigrazione clandestina. Si è discusso poi sull' opportunità d'introdurre nella legislazione italiana il reato di clandestinità, fra obiezioni d'una commissaria dell'Onu e voci contrarie dal Vaticano, sebbene sia contemplato già in Gran Bretagna, Francia e Germania con prassi diverse. Ora in Italia pare che si tratterà non più di reato, bensì d'aggravante di reati o complesse variabili. Ma oltre la clandestinità, non s'è prestata sufficiente attenzione a chi segnalava i rischi dei campi nomadi contigui a periferie spesso in precarie condizioni sociali. Achille Serra, già prefetto di Roma e conoscitore di quei campi, aveva previsto reazioni d'insofferenza drammatiche, «forme di razzismo alle quali guardo con terrore » (Repubblica, 19 maggio 2007).

Finora, in genere, ha prevalso l'inibizione dei governi a contrastare con fermezza le riottosità dedite a blocchi di strade, ferrovie, aeroporti, cantieri pubblici a conforto di qualsiasi rivendicazione o protesta, persino contro i termovalorizzatori. Poi s'è vista la crescente violenza di camorristi e teppisti, insurrezionisti e neonazisti o razzisti. Fronteggiare questi fenomeni è tra i primi compiti del governo in carica. Si tratta ora di verificare come, con quale coerenza, l'impresa verrà condotta secondo i propositi annunciati.

13 giugno 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Agosto 19, 2008, 04:40:12 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Luglio 10, 2008, 10:16:15 am »

Più problemi che soluzioni


di Alberto Ronchey


Oltreché sulle questioni giudiziarie, le cronache italiane insistono su diversi problemi che malgrado lunghe controversie non trovano soluzione. In particolare: la crisi energetica, l'onere del sistema pensionistico, le turbolenze contro l'immigrazione clandestina o anche legale. Anzitutto, l'esorbitante costo delle importazioni energetiche da idrocarburi, gas e petrolio.

Per fronteggiare almeno parzialmente la crisi, operano in Europa 141 impianti elettronucleari, 59 solo in Francia. Niente in Italia, sebbene il patto che istituiva l'Euratom risalga alla conferenza di Roma nel 1957. Il ripudio italiano venne influenzato, nell'87, dal disastro di Cernobyl. Altrove quella sciagura, imputabile all'arretratezza tecnologica dell’Urss, suscitò diffusi timori, ma non arrivò a provocare il rifiuto dell'atomo. Tuttora il ripudio persiste, da noi, anche se l'apprensione antiatomica rimane insopprimibile considerando le numerose centrali attive intorno alle nostre frontiere. Lo conferma il recente allarme, benché subito rientrato, nella centrale slovena di Krsko. Peraltro le alternative all'atomo e all’energia da idrocarburi, come le fonti solari o eoliche, offrono finora limitate risorse, mentre i biocarburanti comportano maggiori prezzi agricoli e alimentari. Altra questione controversa da tempo è quella del sistema pensionistico, troppo gravoso per l'amministrazione previdenziale. Nell'era della longevità di massa, vivendo più a lungo sarebbe necessario lavorare più a lungo per chi non pratica mestieri usuranti.

Volendo limitare gli oneri sui conti pubblici, sarebbe urgente dilazionare l'età pensionabile. Di recente il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, ha segnalato che solo il 19 per cento degli italiani lavora tra i 60 e i 64 anni, contro il 33 per cento di tedeschi e spagnoli, il 45 dei britannici e il 60 degli svedesi. Se n'è discusso finora con ritardo e insufficienti risultati. Attenzioni quotidiane vanno dedicate poi alle controversie persistenti sull'immigrazione. Ma si trascura spesso un dato essenziale come la densità della popolazione, in Italia 195 abitanti per chilometro quadrato. Si ricorda, in ogni occasione, che pure gli italiani furono migranti, anzitutto nelle Americhe. Ma gli Stati Uniti, anche dopo gli ultimi flussi, mantengono una densità che non supera i 32 abitanti per chilometro quadrato. E l'immigrazione con documenti falsi o undocumented, fenomeno diffuso anche da noi, là è punibile come reato. La densità europea è a quota 112 in Francia, 88 in Spagna, 84 in Grecia. Se in Germania e nel Regno Unito risulta una densità superiore a quella italiana, il fatto appare spiegabile non solo con le diverse condizioni economiche, ma considerando l'orografia dell'Italia, dove tra vaste catene montuose le pianure vengono investite da crescente congestione urbana e suburbana. La densità di popolazione, come viene osservato da tempo, è spesso direttamente proporzionale all'insorgere di turbolenze. Tutto questo va detto, s'intende, senza sottostimare le generose concezioni orientate verso la maggiore accoglienza possibile. Appunto, possibile.

08 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 04, 2008, 11:28:43 am »

I LIMITI DELL'ACCOGLIENZA

L'immigrazione sostenibile


di Alberto Ronchey


Già da gennaio a giugno di quest' anno, gli sbarchi dei migranti clandestini sulle coste italiane risultavano intensificati rispetto al primo semestre del 2007. Ora il flusso appare crescente, malgrado i naufragi d'alto mare. Ai centri d'identificazione spetta indagare sulla nazionalità d'ogni clandestino per il rimpatrio, in mancanza del passaporto o di qualsiasi documento affidabile. Compito ingrato e d'estrema complessità. Non esistono, fra l'Italia e numerose nazioni originarie dei clandestini, trattati che impongano i riconoscimenti per le operazioni di rimpatrio. E' anche difficile accertare il diritto d'asilo per quanti si dichiarano perseguitati da governi tirannici o profughi da conflitti tribali e guerre non solo in Sudan, Eritrea, Somalia.

Poiché ogni flusso, dopo aver investito l'Italia, tende a cronicizzarsi e propagarsi verso l'intera Europa occidentale, una direttiva dell'Ue vorrebbe rinviare i clandestini alle basi di transito se non vengono riconosciuti e accolti dalle nazioni d'origine. L'efficacia della direttiva è incerta, considerando casi come l'elusiva politica di Gheddafi. Rimane certa, invece, l'attrattiva che ogni sanatoria della clandestinità esercita su vaste moltitudini extracomunitarie, africane o mediorientali. Dalla difficoltà di respingere o limitare l'immigrazione illegale deriva la ricerca dei mezzi dissuasivi o di deterrenza che trattano la clandestinità come reato, più o meno secondo norme adottate altrove nell' Europa occidentale.

In Italia, ora la clandestinità è considerata come aggravante per chi delinque. Ma persiste una strenua controversia, che divide i fautori della deterrenza da quelli d'una maggiore o più favorevole accoglienza. E' comunque opinione diffusa che andrebbe meglio gestita l'immigrazione legale di manodopera extracomunitaria secondo le specifiche disponibilità dell'industria e dell'agricoltura, contro gli abusi dell'economia che predilige l'occulto lavoro nero.

Ma quali saranno i massimi limiti sostenibili d'ogni corrente immigratoria? Gli africani, secondo le ultime stime, superano i 905 milioni. E come segnala Kofi Annan, la loro prolificità è in continua accelerazione. Per affrontare la questione africana, la comunità internazionale dovrebbe concedere più aiuti umanitari e investimenti. Tuttavia i governi locali, a loro volta, dovrebbero eliminare o almeno ridurre gli sperperi oltreché superare conflitti che vanificano i soccorsi economici.

E in materia di migrazioni c'è di più. Anche i visti turistici scaduti amplificano la clandestinità. Nell'Europa occidentale, hanno poi provocato considerevoli difficoltà e tensioni gli eccessivi movimenti transnazionali di massa. Esempio, l'esodo di troppi romeni verso l'Italia, invasivi benché immigranti legali come cittadini comunitari dopo l'ingresso del governo di Bucarest nell'Ue.

Ora l'Istat informa che a causa del fenomeno migratorio in genere gli abitanti dell'Italia risultano 60 milioni, senza comprendere in gran parte gli extracomunitari clandestini, come tali non precisamente censibili.

Dunque, tra le difficili espulsioni e operazioni di rimpatrio, fino a quando può accrescersi ancora la densità demografica dell'Italia, già da tempo approdo avanzato delle migrazioni attraverso il Mediterraneo? Ma sui limiti dell'accoglienza possibile, tuttora, non si discute quasi mai.


04 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 19, 2008, 04:40:41 pm »

Il Putin bifronte


di Alberto Ronchey


La strategia di Putin, secondo un frequente giudizio, è neoimperiale. Tende a recuperare i territori perduti dal potere di Mosca, nella dissoluzione dell’Urss, più o meno come protettorati. Al suo disegno si oppongono in particolare, oltre alle repubbliche baltiche, l’Ucraina e la Georgia. Nel caso dell’Ucraina, Mosca ricorre a sanzioni come superpotenza energetica. Nel caso della Georgia, tende a far leva sugli antagonismi etnici. I governi di quelle nazioni aspirano a tutelarsi e cercano garanzie in Occidente, anche se con azzardi temerari come quello del georgiano Saakashvili, che ha dato inizio alla guerra d’agosto nell’Ossezia meridionale prestandosi alla reazione «sproporzionata» dei russi.

Già da tempo Vladimir Putin denunciava come provocatorie le pressioni per condurre l’Ucraina e la Georgia nella Nato, mentre definiva ostile ogni presenza politica e persino economica degli Stati Uniti ai confini della Russia. Nella versione degli osservatori più comprensivi dinanzi all’inquieto e orgoglioso nazionalismo «granderusso», Putin interpreta e manifesta non già un arrogante «neozarismo», bensì una sindrome d’accerchiamento che può motivare le sue reazioni tanto spesso esasperate. Ma davvero può considerarsi a rischio d’accerchiamento un impero bicontinentale, che anche dopo la dissoluzione dell’Urss rimane tuttora esteso per oltre 17 milioni di chilometri quadrati? Da Mosca, i portavoce replicano che simili apprensioni si fondano sui fatti. A Occidente le basi Nato, i piani per il sospetto «scudo » missilistico-spaziale di Bush, l’espansione dell’Ue.

A Oriente quel potere di Pechino ingigantito dal boom economico e tecnologico, mentre il miliardo e trecento milioni di cinesi può tracimare in Siberia e nella regione dell’Amur, dove rimane scarsa la popolazione russa. Lo scenario di ogni vertenza con Mosca presenta così diversi e discutibili aspetti, oltre a manifeste contraddizioni di tutti. Se in materia di separatismi Putin condanna quello del Kosovo, soccorre poi con bombardieri e carri armati quello dell’Ossezia meridionale, mentre fomenta e tutela quello dell’Abkhazia. I governi occidentali assistono a loro volta il separatismo del Kosovo dalla Serbia, sia pure come conseguenza della «pulizia etnica» di Milosevic, mentre considerano pericolose le secessioni dalla Georgia e ancor più rischiosa la tendenza intimidatoria dell’interventismo russo non solo nel Caucaso. Basta pensare alla vertenza con l’Ucraina sul porto di Sebastopoli. E poi, rimane l’incognita della strategia energetica russa.

E’ probabile, se non già dimostrato, che i bombardieri e i carri armati di Putin avessero anche lo scopo di provare l’insicurezza dell’oleodotto Btc, che dal Caspio passa per la Georgia e la Turchia fino al Mediterraneo, come inducono a supporre le operazioni militari prolungate in territorio georgiano. Quella, per ora, è la sola fornitura di greggio per l’Europa che non venga dalla Russia o dall’Iran. Sullo stesso itinerario è atteso anche il gasdotto Bte, impresa di rilevante interesse. Ci si domanda se il disegno di Putin comprenda non solo un espansionismo geopolitico, ma geoenergetico, passando anche per Tbilisi. L’interrogativo è sospeso, ma non secondario. La risposta verrà, nei prossimi tempi, con gli ulteriori sviluppi della controversia internazionale sul Caucaso.

19 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 28, 2008, 11:54:07 am »

DAI GHETTI ALLA CASA BIANCA

La partita di Obama


di Alberto Ronchey


Q uando nasceva l'afro-americano Barack Obama, 1961, John Kennedy presentava il disegno di legge «7512» sui diritti civili della gente di colore. Due volte aveva mobilitato l'esercito a tutela del coloured people, discriminato nel profondo Sud. Ma più tardi, dopo l'uccisione di Kennedy, le tensioni razziali erano ancora frequenti. Una serie di tumulti sconvolgeva i ghetti neri per anni, dalla rivolta di Harlem nel '64 alle sommosse di Los Angeles. Oggi la candidatura presidenziale di Obama, sia eletto alla Casa Bianca o no, segnala quanto sia diversa la condizione della massima società plurietnica e della sua stessa popolazione di colore. Lo storico Fernand Braudel, benché in tempi torbidi, così pronosticava il corso degli eventi successivi: «Malgrado tutto, si vedrà che l'Africa americana è materialmente e intellettualmente la comunità nera più evoluta del mondo».

Il successo di Obama è dovuto alla sua qualità di talented public speaker, nell'ambito d'una società che tende a superare ogni pregiudizio dopo la storica esperienza del melting pot. Ma davvero il prossimo 4 novembre «l'uomo nuovo» potrà ottenere l'elezione presidenziale? La sua base di consensi è anche misurabile considerando l'entità delle sottoscrizioni raccolte in campagna elettorale, fino alla Convention di Denver 350 milioni di dollari. Per tradizione, inoltre, ogni candidato del partito al potere quando l'economia va male, come ora è il caso di John McCain, viene in genere sconfitto. Grava poi sugli umori pubblici la guerra irachena di Bush: «The three trillion dollar war». Eppure, i sondaggi d'opinione oscillano fra le disparate controversie in materia economica o sociale. Dinanzi alle prospettive internazionali, c'è chi sospetta Obama di perseguire una politica reticente o incerta. E c'è chi teme invece un rischioso interventismo del veterano di guerra McCain, anche se a volte i militari non sono affatto bellicisti, come nel caso di Eisenhower, che riuscì a chiudere il conflitto coreano.

Obama concede: «Potrei anche perdere». Tutto è possibile, malgrado l'attesa d'uno scenario politico nuovo insorta non solo fra le ultime generazioni. Certo, se tanti americani oggi non vogliono mostrarsi affetti da pregiudizi, poi c'è il segreto delle urne. Alcuni ceti popolari hanno accolto con diffidenza il candidato con quel nome strano, figlio d'un keniota, di famiglia musulmana, con quei caratteri fisionomici mai visti nei ritratti presidenziali sul biglietto da un dollaro. Al neopresidente si chiederà molto, fronteggiare l'avversa congiuntura economica oltreché avviare a soluzione i conflitti nell'Iraq e nell'Afghanistan, combattere le cospirazioni jihadiste nel Pakistan dopo Musharraf, rimediare agli azzardi politici di Bush in Georgia, vedersela con le sfide di Putin. A questo punto, non sarebbe augurabile per gli Stati Uniti l'elezione di Obama solo per esibizione di spregiudicata e generosa bonomia verso l'afro-americano, ancorché di talento. Ma non sarebbe augurabile neanche l'elezione del «rugoso» McCain solo a causa d'una residua e latente psicologia discriminatoria, forse pure a causa d'una reazione di rigetto alla troppa «obamamanìa» elitaria o mediatica propagata finora.

28 agosto 2008

DA corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 12, 2008, 12:51:18 am »

DOPO LO SCONTRO RUSSIA-GEORGIA

Europa e Mosca, l'ora del rischio


di Alberto Ronchey


Nella guerra d'agosto, se il governo georgiano di Mikhail Saakashvili ha commesso un errore con l'intervento militare contro il separatismo dell'Ossezia meridionale, un errore più grave ha commesso Vladìmir Putin con l'invasione prolungata della Georgia, nazione pienamente sovrana. Queste le responsabilità, secondo il prevalente giudizio. E le conseguenze?


Per ora, la vertenza internazionale sembra limitarsi a gestualità, come l'esibizione delle flotte nel Mar Nero, oltre la recente decisione russa di stanziare 7.600 soldati nelle regioni separatiste. Putin ha reso evidenti le troppe velleità, e le contraddizioni, delle diplomazie occidentali. Ma ora, secondo le analisi di alcuni osservatori, si prospettano rischiose incognite per Mosca. L'Ossezia russofila, esaltata, può scontrarsi con l'inquieta Inguscezia. La Cecenia pare sottomessa, ma non del tutto e solo dopo la demolizione di Grozny, un'esperienza non ripetibile in altre circostanze. L'incombere dei russi sul Caucaso come pretesi «fratelli maggiori » provoca non solo apprensioni, ma diffidenti reazioni fra gli armeni e gli azeri.
Non è tutto. Una volta sancita per decreto di Mosca l'indipendenza di Ossezia e Abkhazia dalla Georgia, ci si domanda quante ribellioni finora latenti o quante vertenze sui diritti di secessione potranno investire la stessa Federazione russa, con le sue innumerevoli etnie distribuite in tante repubbliche autonome su due continenti.


Dopo la guerra d'agosto è anche da segnalare qualche danno finanziario per Mosca, più o meno collaterale. Lo stesso ministro delle Finanze, Aleksej Kudrin, ha riconosciuto che nei due primi giorni dell'invasione in Georgia la fuga di capitali stranieri dalla Russia raggiungeva 7 miliardi di dollari. Poi s'è appreso che nei giorni successivi le riserve di Mosca in valuta risultavano diminuite in misura pari a 16,4 miliardi di dollari. La superpotenza energetica, beninteso, dispone di risorse ingenti per esercitare pressioni efficaci al servizio della sua influenza su scala internazionale, non senza qualche azzardo. Eppure, malgrado l'ottimismo di Putin, l'economia interna della Russia non pare affatto stabile, con quell'inflazione al 14,7 per cento.
In materia strategica e geopolitica, sul momento la maggiore controversia riguarda l'opportunità di accogliere nella Nato la Georgia oltre all'Ucraina benché divisa tra russofili e occidentalisti. L'ipotesi non trova d'accordo la maggioranza dei governi europei, perché sull'argomento sarebbe necessaria una particolare cautela. Spingere ancora la Nato verso i confini occidentali della Russia comporta il pericolo di provocare un sussulto esasperato dell'orgoglio nazionale «granderusso». Non è in questione solo il neo-nazionalismo di Putin o d'una oligarchia militare, ma un sentimento popolare propagato da secoli.
Qui s'impone, per gli occidentali, un complesso dilemma. Non procedere all'espansione ulteriore della Nato potrebbe placare i patrioti russi, già frustrati dal «voltafaccia della storia » che negli anni '90 ha disfatto il potere tradizionale di Mosca? Oppure la moderazione occidentale potrebbe incoraggiare gli ultranazionalisti, anche nella pretesa d'imporre ai vicini un ritorno alla dottrina della «sovranità limitata »? Di fronte a queste domande, non si può forzare una risposta immediata.


11 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Settembre 24, 2008, 12:04:15 pm »

LA CORSA PER LA CASA BIANCA

Tutte le sfide dei due candidati


di Alberto Ronchey


La campagna presidenziale degli Stati Uniti, più che in altre competizioni del passato, questa volta è un confronto di personalità, o meglio personaggi, anziché di praticabili soluzioni per superare le innumerevoli difficoltà del governo. Barack Obama, elegante public speaker, promette innovazioni con un ottimismo suggestivo, ma risulta elusivo sulle più controverse questioni. Anche John McCain, veterano di guerra già prigioniero in Vietnam, solido ma cauto e anziano conservatore, sembra restìo all'esplicito impegno su troppe decisioni. Gli osservatori esigenti, poco persuasi dai due personaggi, si domandano perché la macrosocietà in rivoluzione tecnologica permanente non sappia selezionare promettenti statisti, su misura delle sue immense risorse. Forse, molti potenziali talenti politici vogliono tenersi lontani dalle responsabilità esorbitanti e scoraggianti che oggi gravano sul governo. Chi risulterà eletto a novembre, il swinger Obama o lo square McCain, dovrà non solo fronteggiare negli Stati Uniti o fuori le tensioni e le imprevedibili conseguenze provocate dai disastrosi fallimenti del sistema finanziario. Dovrà impegnarsi anche nel tumultuoso scenario internazionale, sovraccarico di conflittualità. Ma dimostrano i due antagonisti adeguate conoscenze o esperienze, necessarie oltre tutto sullo scenario internazionale? Malgrado gli entusiasmi dei loro seguaci di partito, i critici del confronto elettorale ne dubitano. Si tratta d'avviare a soluzione le prolungate guerriglie dell'Iraq e dell'Afghanistan, valutando anche l'instabilità e l'ambiguità del Pakistan di fronte alla Jihad islamista.

Si tratta poi, nello stesso continente americano, di rispondere alle crescenti ostilità verso Washington, dal Venezuela di Hugo Chávez alla Bolivia di Evo Morales. Ma la questione più inquietante, dopo la guerra d'agosto e l'invasione russa della Georgia, riguarda i rischiosi rapporti tra Washington e Mosca. Già Putin, più volte, aveva definito insidioso e provocatorio quel piano di Washington che vorrebbe dislocare presso Varsavia e Praga le basi dello «scudo missilistico-spaziale», sospettando che sia un'intimidazione rivolta non solo verso l'Iran. Ora Mosca reagisce con veemenza e minacce di rappresaglie contro i progetti che vorrebbero includere Georgia e Ucraina nella Nato, premendo ancora sui confini occidentali della Russia. Vladìmir Putin e Dmitrij Medvedev reputano che l'espansione ulteriore della Nato sia offensiva, dunque intollerabile. Al momento, la disputa più diffusa e persistente riguarda l'incombere di Mosca sul Caucaso e sul vulnerabile oleodotto Caspio-Mediterraneo. Ma c'è di più. Chi suggerisce cautela insiste sulla vulnerabilità dell'Ucraina, già divisa tra occidentalisti e russofili, a cominciare dalla vertenza sul porto di Sebastopoli oltreché dalla dipendenza energetica. Potrebbe avere inizio là, sul Mar Nero, una pericolosa rappresaglia di Mosca se a Kiev dovesse prevalere la tendenza pro Nato. Non è chiaro come gli occidentali sarebbero in grado di contrastare la pretesa restituzione alla Russia della Crimea e di Sebastopoli, cedute nel 1954 all'Ucraina per decreto dell'Urss. Le popolazioni locali, russe in larga misura, favoriscono la strategia di Putin contro l'estensione della Nato all'Ucraina. Tra i candidati alla Casa Bianca, tuttavia, non se ne discute finora in pubblico, benché la prospettiva sia in particolare allarmante. Viene da chiedersi quanto ne siano informati.

24 settembre 2008

da corriere.it
« Ultima modifica: Ottobre 08, 2008, 08:48:56 am da Admin » Registrato
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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 07, 2008, 12:46:12 pm »

UNA STORIA CON TANTE CADUTE

Le malattie di Wall Street


di Alberto Ronchey


Le cronache sui disastrosi fallimenti del sistema finanziario negli Stati Uniti hanno segnalato che l'Fbi sarebbe all'opera, su vasta scala, per incriminare chiunque abbia frodato azionisti e correntisti. Sarebbero stati aperti 26 filoni d'inchiesta. L'indagine sulle ipotesi di reato avrebbe investito i responsabili dei gruppi maggiori, forse Lehman, Fannie Mae, Freddie Mac, Aig, e insieme quanti malgrado i debiti gravanti sui fondi societari non risparmiavano le stock options e i bonus a proprio vantaggio.

Risulteranno efficaci, questa volta, processi e condanne per la repressione dei reati finanziari? Le più drastiche sentenze giudiziarie del passato, come ora s'è visto, non hanno impedito il ripetersi di scandali clamorosi. Basta ricordare i falsi di bilancio Enron e WorldCom, che nel 2002 sulla base della legge Sarbanes-Oxley motivarono condanne per dolo fino a 25 anni. E da tempo ricorrevano frequenti sussulti finanziari, anche se in circostanze o per cause variabili. Nel 1987 era esplosa, tra l'azzardo e il panico, una pericolosa bubble o bolla speculativa. Nell'89 era seguito il trauma dovuto ai junk bonds, obbligazioni «spazzatura» con rendimenti e rischi fuori misura. Dal '90, il bilancio federale aveva subito a proprio carico e a caro prezzo il collasso delle Savings and Loan, le istituzioni di risparmio dissestate da irresponsabili maneggi del denaro.

Oggi, rispetto agli ultimi vent'anni, la portata degli scandali appare molto più grave oltreché più estesa fino all’Europa e all’Asia. Ogni volta, e ora con maggiore apprensione, viene rievocato il grande crollo, il Great Crash del 1929, quando fra la rovina dell’economia «di carta» e di quella «reale» i brokers di Wall Street saltavano giù dalle finestre dei grattacieli, poi sbarrate. Ma sul momento numerosi economisti presumono che non sia davvero in questione una replica del '29, in condizioni tanto diverse nella struttura economica, sebbene le prospettive siano incerte o imprevedibili anche dopo la legge di Washington che stanzia 700 miliardi di dollari per fronteggiare la crisi. All'origine di questa odierna calamità, in particolare, stanno due dati.

Negli Stati Uniti, troppa gente ha voluto comprare case a credito senza sapere come pagare il debito. Nello stesso tempo, troppe banche hanno prestato denaro senza garanzie né risorse adeguate a reggere i rischiosi mutui subprime allo scopo di gonfiare bilanci e insieme guadagni o benefici manageriali. Con il sistema delle cartolarizzazioni, emettevano i famosi Cdo, obbligazioni garantite da crediti anche inesigibili, così trasformando in attivo l'uscita del denaro prestato. Questo, secondo diffusi giudizi, sarebbe l'aspetto peggiore della vicenda. Si tratta di frenesie individuali e collettive, sulle quali ogni spiegazione investe complesse materie patologiche più che logiche. Non è tutto. Disparati espedienti e intricati artifici tecnici hanno consentito gravi abusi contro i risparmiatori, malgrado la pretesa trasparenza del sistema su depositi e investimenti.

Gli osservatori di simili fenomeni, ancora una volta, dissertano sull'incondizionata o discutibile fiducia verso il sovrano mercato in alternanza con il periodico ricorso al munifico e soccorrevole Stato. Ma qualche voce tende pure all'ipotesi che il celebre homo oeconomicus, in certi casi, non sia del tutto sano di mente.

07 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #11 inserito:: Novembre 08, 2008, 09:05:49 am »

CASA BIANCA E MEDIO ORIENTE


Le scomode verità


di Alberto Ronchey


Al Presidente la Costituzione degli Stati Uniti concede «prerogative quasi regali», come osserva Tocqueville in La démocratie en Amérique. A tanto tempo dalla Convenzione di Filadelfia, 1787, è ancora così malgrado i successivi emendamenti. L’originario disegno costituzionale fu concepito per 4 milioni di cittadini, fra i quali appena 880 mila con diritto di voto. Poi quella consociazione patriarcale di fine ‘700 ha generato l’attuale macrosocietà multirazziale, multireligiosa, competitiva e spesso conflittuale con 300 milioni di cittadini, alla base della massima superpotenza nel mondo attuale.

Ora le sovrane prerogative del potere presidenziale, dopo il voto del 4 novembre, vengono conferite a un afroamericano. L’evento è di portata politica e storica incalcolabile, non solo negli Stati Uniti ma ben oltre. L’ascesa del coloured people era già da tempo manifesta, sia nelle cariche pubbliche, sia nella vita sociale. Basta ricordare gli alti compiti affidati a Colin Powell e Condoleezza Rice, o i riconoscimenti e i successi ottenuti da personaggi come Jesse Jackson, Clarence Thomas, Richard Parsons. Ma ora, con Barack Obama, «il primo nero» è alla Casa Bianca. Obama dovrà governare fra i residui d’ogni pregiudizio razziale, più o meno latente, se non fra movimenti aggressivi eredi del Ku Klux Klan o delle Black Panthers.

Al neopresidente spetterà, nello stesso tempo, la responsabilità di affrontare innumerevoli problemi non risolti e anzi esasperati negli ultimi anni fino alla scadenza del mandato di George W. Bush. Nell’economia, oltre a fronteggiare il collasso di Wall Street che ha contagiato il sistema finanziario su scala internazionale, dovrà intervenire con urgenza sulla crisi dei mutui e dei valori immobiliari che negli Stati Uniti assilla i risparmiatori anche se punisce gli speculatori. Ma dovrà presto affrontare anche fondamentali questioni come il debito pubblico raddoppiato, il passivo del commercio con l’estero, le incognite sulla variabile gestione delle riserve monetarie accumulate dalla banca centrale in Cina e finora investite nei titoli del Tesoro di Washington.

Nello scenario politico e strategico internazionale, gli oneri assunti dalla «superpotenza gendarme» hanno raggiunto lo stadio della massima superestensione. In politica estera, l’agenda del neopresidente comprende i conflitti cronicizzati nell’Iraq e nell’Afghanistan dei talebani favoriti dall’instabilità del Pakistan, il pericolo del nazionalismo atomico iraniano, le difficili relazioni con la Russia di Putin, il proselitismo castrista nel Sudamerica delle sfide anti-yanqui da Chávez a Morales e oltre. Ma non è ancora tutto, anzi c’è molto di più. Rimane il contenzioso ecologico, «una scomoda verità» secondo il film documentario di Al Gore. Sulla questione dell’inquinamento ambientale, infatti, l’emissione massima di esalazioni fino all’effetto «serra» deriva dall’iperconsumo energetico degli Stati Uniti.

È questa la più complessa vertenza internazionale, mentre l’attesa conversione del massimo sistema industriale alle fonti energetiche alternative, con la riduzione dei consumi di petrolio e gas, impone alti costi per un’efficace tutela dell’ambiente. Se non ora, mentre incombe la recessione dell’economia, nei prossimi tempi sarà questo negli Stati Uniti e in ogni società industriale il «problema dei problemi».

08 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #12 inserito:: Novembre 20, 2008, 09:02:32 am »

GLI USA E PUTIN

Il dilemma del Presidente


di Alberto Ronchey


Dopo il 4 novembre, l’informazione ha indugiato a lungo sull’Obama style, paragonato spesso alla personalità di Putin. Questione di caratteri, linguaggi, costumi diversi, o contrastanti. Persino ragguagli sulle loro attitudini sportive, basket, e surf o judo e karate. Ma ora incombono ben altre questioni, anzitutto quelle dei prevedibili rapporti tra Washington e Mosca. Nell’attesa dell’insediamento presidenziale alla Casa Bianca, 20 gennaio, malgrado il doveroso riserbo di Barack Obama nel periodo transitorio, affiora qualche indiscrezione sulle sue tendenze in politica estera. Non vorrebbe assumere subito un impegno sulla dislocazione in Polonia delle basi per lo scudo antimissili, rivolto contro l’Iran secondo Bush ma potenzialmente intimidatorio contro la Russia secondo Putin.

Il cauto indirizzo di Obama non equivale a disimpegno, anche perché non può apparire debole mentre Mosca minaccia come rappresaglia di schierare missili Iskander a Kaliningrad, già Königsberg, l’enclave russa fra Polonia e Lituania. Le indiscrezioni aggiungono che il neopresidente, prima d’ogni decisione, vorrebbe verificare l’effettiva utilità dello scudo antimissili e anche tentare negoziati o chiarimenti con Mosca. Nello stesso tempo, per gestire il passaggio delle consegne al Pentagono avrebbe scelto il senatore Sam Nunn, critico non solo sul progetto dello scudo ma pure sule proposte di estendere la Nato all’Ucraina e alla Georgia, lungo i confini con la Russia. Oltre tutto l’Ucraina, divisa tra occidentalisti e russofili, rischia vertenze più o meno prossime con Mosca sulla Crimea già russa e in particolare sul porto strategico di Sebastopoli. Si tratta di argomenti già discussi, fra differenti pareri, anche nell’Ue.

Tutti concordano, s’intende, nel respingere le pretese di Putin quando non tendono solo a recuperare l’orgoglio russo umiliato negli anni ’90, dopo la sconfitta della velikoderzhavnost, la dottrina della maestosa e imponente potestà di Mosca. Né gli europei dimenticano l’arbitraria e brutale irruzione russa in Georgia, non giustificabile dagli errori del governo di Tbilisi. Ma è diffuso, in Europa, il consiglio di tentare comunque una distensione dei rapporti con Mosca. Sulla mediazione con Washington insiste Nicolas Sarkozy, presidente di turno della Ue. Come preservare, altrimenti, una minima stabilità internazionale? Il contributo di Mosca pare necessario, dinanzi a innumerevoli problemi e drammatiche incognite, da valutare secondo un ordine di priorità variabile. Non solo il terrorismo di Al Qaeda, o il nazionalismo atomico dell’Iran.

La crisi finanziaria globalizzata coinvolge anche la Russia, che subisce ingenti fughe di capitali seguite da gravosi fallimenti nell’imprenditoria industriale. Restano da considerare, poi, le incontrollabili turbolenze dei mercati energetici, dal rialzo al ribasso, e altre circostanze avventurose per tutti. È il contesto, di tempi torbidi, nel quale si ripropone un complesso dilemma. Le aperture occidentali a Mosca potrebbero placare i fermenti e le ansie dei patrioti russi frustrati negli anni ’90, o incoraggiare gli ultranazionalisti e le tentazioni d’una riscossa neoimperiale? La risposta verrà, forse già fra qualche mese, dal confronto tra Obama e Putin. Un’altra guerra fredda o sangue freddo?

20 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #13 inserito:: Dicembre 03, 2008, 08:41:52 am »

NONOSTANTE LA CRISI

L'ambientalismo della speranza


di Alberto Ronchey


Mentre a Poznan è in corso la Conferenza dell'Onu sulle alterazioni del clima, da Washington si conferma che Barack Obama, oltre a soccorrere i dissestati complessi bancari e industriali, tende a promuovere la «tecnologia verde» con ingenti capitali pubblici. Vorrebbe ridurre così l'inquinamento e la disoccupazione che la crisi ha inflitto a vasti settori dell'industria. Si tratta di sostituire in considerevole misura l'iperconsumo dei combustibili fossili con le fonti d'energia idroelettrica, geotermica, solare fotovoltaica, eolica. L'impegno federale, al di là delle opere infrastrutturali, riguarda per i prossimi anni 150 miliardi di dollari tra incentivi e investimenti diretti.

Ma l'impresa è davvero possibile malgrado le condizioni del bilancio federale? Sulla complessa materia, critici e scettici contestano i calcoli dei consulenti di Obama. Eppure, negli Usa la recente conferenza dei sindaci ha espresso parere favorevole. L'Onu, già più volte, aveva sollecitato un Global Green New Deal rivolgendosi anzitutto agli Stati Uniti, che generano le maggiori emissioni d'inquinamento e le controverse alterazioni climatiche da «effetto serra».

Nello stesso tempo, fra gli europei, è in discussione quel piano «energia-clima » che dovrebbe ridurre del 20% l'emissione complessiva di CO2 e nella stessa misura sviluppare le fonti d'energia rinnovabile. Insorgono anche qui obiezioni e controversie in particolare sui costi: «Non è un obiettivo da tempi di crisi». Ma José Manuel Barroso, che presiede la Commissione Ue, insiste: «Io dico il contrario». Concordano sulle sue tesi esponenti dell'ambientalismo industriale che operano fra Shell, Fortis, Vodafone, riuniti sotto il nome di «EU corporate leaders on climate change». Dalla Germania, si apprende poi che le fonti del solare fotovoltaico assolvono già funzioni preminenti nella Sassonia- Anhalt. E la Spagna vanta i maggiori parchi eolici nel mondo.

Anche il Vaticano confida nelle promesse dell'ambientalismo. Privo di spazi sufficienti per i parchi eolici, presto avrà un impianto elettrosolare, 2.400 moduli fotovoltaici per una superficie di 5 mila metri quadrati. È una donazione a papa Ratzinger, molto ben accolta, di un'impresa tedesca. L'episodio sembra offrire un conforto a chi spera nel nuovo corso dell'economia. Fiducia o fede?

Fra gli ambientalisti sicuri del successo più o meno prossimo, il nuovo corso viene definito come «terza rivoluzione industriale ». È prevista una progressiva espansione delle tecnologie ambientali, alla quale dovrebbero seguire notevoli economie di scala. Se il successo non verrà presto, bensì a tempo differito, risulterà se non altro essenziale per le future generazioni dopo l'iperconsumismo energetico distruttivo e le ansie del nostro tempo. Per lo meno, finalmente non si potrà più ripetere: «I padri mangiarono uve acerbe e si allegarono i denti dei figli » secondo il monito biblico.

02 dicembre 2008
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« Risposta #14 inserito:: Maggio 18, 2009, 05:06:55 pm »

I clandestini verso l'europa

La pressione dell'Africa



Fra le conseguenze della crisi finanziaria internazionale, si deve anche prevedere che sarà compromessa la disponibilità delle ingenti risorse necessarie per offrire più aiuti all’Africa. Il continente profondo e tragico, malgrado alcuni progressi degli ultimi anni e le iniziative imprenditoriali cinesi, da tempo gravita verso l’Europa con le sue masse di profughi. Gli africani oggi risultano 930 milioni. All’inizio del ’900, risultavano 170 milioni. Ora, se già da decenni le loro correnti migratorie apparivano irriducibili, nei prossimi anni saranno maggiori. Gli extracomunitari che arrivano con permessi di soggiorno a scadenza possono considerarsi clandestini solo quando non rispettano i termini consentiti. Vengono chiamati overstayers.

Ma il territorio italiano, avamposto meridionale dell’Europa proteso nel Mediterraneo, è investito più che la Grecia, la Spagna e il Portogallo dagli sbarchi dei migranti non legali. Arginare quel flusso, respingere gli extracomunitari senza diritto d’asilo, è un compito d’estrema difficoltà se non sono identificabili poiché spesso non presentano passaporti né altri documenti necessari per il rimpatrio. E senza dati sulle loro nazionalità, è anche difficile accertare il diritto d’asilo per quanti si dichiarano profughi da conflitti o perseguitati da governi tirannici. Scaduto il termine di permanenza nei centri d’identificazione, per espellere i fuori legge risulta del tutto illusorio il ricorso ai semplici «fogli di via».

Non partono, rimangono qui come clandestini. Se gli undocumented non vengono riconosciuti da qualche interprete secondo le lingue che parlano, e neanche accolti nelle presunte nazioni d’origine, si possono forse rimandare alle basi dei transiti? La Libia ha tollerato di recente che i clandestini migranti su alcuni barconi alla deriva nel canale di Sicilia fossero senza indugio ricondotti dalle motovedette italiane sulle coste dalle quali erano partiti. Casi controversi, per varie obiezioni di opportunità e di legalità. Rimane da verificare se davvero, secondo i reiterati accordi fra Tripoli e Roma, una congiunta sorveglianza nelle acque libiche respingerà il traffico gestito dal racket del contrabbando umano.

Gheddafi ha esitato nel procedere secondo l’impegno, anche dopo il «patto d’amicizia» firmato a Bengasi. Forse giudica rischioso accogliere le correnti migratorie transahariane fra i 6 milioni di cittadini libici, autoctoni al 57 per cento e poi egiziani, sudanesi, tunisini, berberi. Eppure, si tratta solo di migranti musulmani e in gran parte arabi. Ora, forse tende a deviare i transahariani verso altre coste d’imbarco. In Italia, è da ricordare, i residenti censiti risultano già oltre 60 milioni dopo il fenomeno immigratorio, dieci volte la popolazione libica. Non è poi da dimenticare che solo all’interno dell’Ue le frontiere sono state abbattute, secondo la Convenzione di Schengen. Le più generose concezioni dell’accoglienza non bastano a sottostimare, o ignorare, l’insostenibilità d’una pressione illimitata dell’Africa gravitante sull’Europa.

Alberto Ronchey
18 maggio 2009

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